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Altro che svolta

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, durante la riunione del Consiglio dei ministri per l'approvazione della nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, Roma, 30 settembre 2019. ANSA/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI/FILIPPO ATTILI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Rimane Quota 100. Costa 4 miliardi, Quota 100, ed è stata un fallimento: chi avrebbe potuto andare in pensione ha preferito non andarci per non vedersi tagliato il consistente assegno di fine lavoro. Le richieste sono sempre meno, i posti di lavoro che avrebbero dovuto crearsi non si sono creati. Eppure rimane lì. Va bene così.

Rimangono i decreti sicurezza di Salvini, rimangono gli stop alle Ong, rimane invariata la linea sui migranti. In pratica il trucco è fare quello che si faceva prima solo che l’atteggiamento è molto più educato e il look è bell’impomatato. In tutto questo anche il declino del sistema di accoglienza continua. Certo, non ci sono le battute contro Carola. Forse dovrebbe bastarci questo. Va bene così.

Volendo ben vedere c’è anche il debito: quelli che si stracciavano le vesti per il 2,1% di deficit dello scorso governo ora esultano per il 2,2%. Tocca dare ragione a Salvini: ci si indebita come prima, più di prima ma questa volta vale.

Intanto l’Italia è sempre al palo. Non cresce. Certo non oscilla più con lo spread come una volta ma i buoni rapporti, si sa, sono sempre una garanzia. Ma si sa anche che avere buoni rapporti con i carnefici non è sempre una buona notizia. Va bene così.

Non si capisce esattamente cosa sia cambiato, non si capisce esattamente dove sia la mano del Pd, anzi dove sia il Pd. Rimangono i due Mattei a fare propaganda, uno sulla schiena dell’altro. Come gli uccelli sul dorso degli ippopotami. Va bene così.

Doveva essere il governo della svolta e invece sembra la versione omeopatica di quello di prima.

Avanti così.

Buon giovedì.

Dall’Algeria in Sardegna, sfidando il Mediterraneo e i porti chiusi

Li chiamano harraga (coloro che bruciano le frontiere), quei giovani tra i 20 e i 35 anni di nazionalità algerina che salpano dalle coste di Annaba per raggiungere le coste sud-occidentali sarde; viaggiano in piccole imbarcazioni, raramente si vedono donne e minori, e pochi di loro presentano richiesta di protezione internazionale. Scappano dal rigido controllo politico e sociale, dalla disoccupazione, da un sistema immobile che li porta a ribellarsi e a rischiare la vita per raggiungere l’Europa in cerca di nuove opportunità. Nell’ultimo anno, gli algerini, sono scesi anche in piazza per pretendere il cambiamento del governo e del sistema; ogni venerdì manifestano pacificamente nella speranza di una trasformazione radicale, fino a ottenere la prima vittoria nelle dimissioni del presidente Bouteflika, al potere da un ventennio.

Nel frattempo, gli sbarchi diretti alle coste sarde non si sono mai arrestati dagli anni Novanta. L’intensità degli arrivi è stata poi influenzata dalle politiche europee di esternalizzazione dei controlli marittimi e delle zone frontaliere, infatti, gli arrivi in Sardegna superano rispettivamente le 1500 e le 1600 unità nel biennio 2007-2008, nel 2016 si arriva oltre le mille unità. Si contano quasi duemila arrivi l’anno successivo, 1100 nel 2018 e circa 600 tra gennaio e settembre 2019. Il flusso nella rotta Algeria-Sardegna assorbe buona parte degli arrivi via mare degli algerini in tutta Italia, e fino a questo momento non aveva mai destato l’interesse politico e mediatico, poiché già in epoche passate aveva consentito collegamenti tra le due sponde del Mediterraneo, diventando nel tempo una breccia nello spazio-frontiera per i giovani harraga.

L’Algeria, considerata un Paese politicamente stabile e in grado di portare avanti la lotta contro il terrorismo e l’immigrazione irregolare ha attirato l’attenzione delle politiche migratorie dell’Unione Europea con il calo degli arrivi dalla Libia.

Chi viene sorpreso a lasciare il Paese illegalmente rischia sanzioni penali, oppure, viene spedito in uno dei tanti centri di detenzione in mezzo al deserto. Infatti, l’Algeria costituisce un importante asse di comunicazione sud-nord nel continente africano e all’interno della regione magrebina è una delle principali aree di sosta e via di transito per i migranti africani che vogliono arrivare in Europa. Come da protocollo nella lotta contro l’immigrazione irregolare, Italia e Algeria hanno intensificato la cooperazione con accordi bilaterali per la riammissione dei migranti o residenti irregolari (2006), la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione illegale (2008). Nel 2009, invece, si rafforza la cooperazione tra la Guardia di Finanza italiana e la marina algerina sull’intercettazione e il respingimento dei barchini. Tuttavia il fenomeno non sembra arrestarsi e i giovani che rischiano la traversata del Mediterraneo sono in continuo aumento.

La Lega algerina di difesa dei diritti umani (LADDH) tra il 2015 e il 2018 ha registrato 9.753 tentativi falliti di emigrazione irregolare dall’Algeria, mentre sono circa tre mila le persone morte o disperse dal 2009 a oggi. L’immagine di questi giovani bloccati da un sistema ostruzionista che sfidano il mare verso un eldorado europeo, ha sensibilizzato così tanto l’opinione pubblica che è nata anche la rete delle “Famiglie degli harraga scomparsi in mare”, con lo scopo di svolgere un’azione di solidarietà tra i genitori dei ragazzi dispersi e protestare contro la passività delle autorità algerine di fronte a questo dramma.

In Algeria avere un visto per un Paese europeo è molto difficile. Nel 2018 il 45,5% delle richieste presentate di visti per lo spazio Schengen è stato rifiutato dalle ambasciate perché i richiedenti sono stati considerati potenziali migranti “clandestini”. La sola ambasciata francese rifuta il 49% e delle richieste, mentre quella italiana il 39%. Tre harraga su cinque hanno inoltrato richieste di visto valide ai servizi consolari europei e un terzo di essi ha rinnovato la richiesta almeno tre volte senza ottenere nulla.

Per chi riesce ad arrivare nelle coste sarde il percorso migratorio diventa irto di ostacoli. Nel 2008 viene aperto un centro di prima accoglienza a Elmas, nella provincia di Cagliari, con lo scopo di far transitare gli algerini intercettati prima del trasferimento in un CIE in vista dell’espulsione. I dubbi che i giovani algerini siano adeguatamente informati sulla richiesta di asilo sono stati più volte confermati, e la maggior parte di essi riceve il cosiddetto “foglio di via” con l’obbligo di lasciare l’Italia entro sette giorni. Le proteste, le rivolte e gli atti di autolesionismo contro la reclusione all’interno del centro, avevano spinto il Comitato antirazzista locale a organizzare attività di solidarietà nei confronti dei migranti. In seguito alla visita della Campagna LasciateCIEntrare per ben due volte nel 2015, il centro è stato chiuso in vista di nuovi bandi prefettizi. Con l’aumento degli sbarchi diretti e l’incapacità di far fronte al fenomeno, nel 2017 viene inaugurato il Centro di Prima Accoglienza a Monastir (SU), all’interno del quale viene attivato un ufficio dell’Agenzia Frontex, il quarto in Italia! Lo scopo è quello di identificare i migranti irregolari, sottoporli a visita medica e ospitarli in attesa del provvedimento di espulsione e respingimento.

In seguito all’entrata in vigore del decreto Minniti-Orlando nel 2017, l’idea dell’apertura di un centro permanente per il rimpatrio (CPR) in Sardegna si fa sempre più concreta. La struttura individuata, un’ex casa circondariale a Macomer (Nuoro), aveva sollevato le proteste della popolazione locale sul tema della sicurezza. In occasione di un incontro svoltosi nella Prefettura di Nuoro era stato lo stesso ex ministro dell’Interno Minniti a rassicurare la popolazione e le autorità locali sulla natura carceraria del CPR, con la promessa di un sostanziale investimento economico nel settore della videosorveglianza, come premio per gli sforzi fatti. Il 9 luglio 2019 un raggruppamento temporaneo di imprese si aggiudica la gara per l’affidamento dei servizi di gestione e funzionamento del CPR per un importo complessivo di 553.151,66 euro per un totale di 100 posti.

L’apertura del CPR come deterrente agli sbarchi diretti nelle coste sarde, diventati a quanto pare tema importante della politica della sicurezza, ripropone la retorica infondata della stretta relazione tra l’esistenza di centri di detenzione amministrativa per stranieri e la diminuzione degli ingressi irregolari in Europa. In realtà, la prassi dimostra che le strutture di identificazione ed espulsione non hanno alcun effetto deterrente sulle motivazioni alla partenza, sono luoghi in cui facilmente si verificano forme di abuso e di violazioni di diritti e non riescono neanche ad assolvere le funzioni per le quali sono state istituite. Se da un lato il tempo del trattenimento è stato elevato fino a 180 giorni per l’espletamento delle procedure, dall’altra non tutti i migranti reclusi vengono effettivamente rimpatriati; ad esempio nel 2018 è stato espulso circa il 45% delle persone trattenute in un CPR. Per ciò che concerne gli algerini, a fronte degli arrivi massicci sia in Italia, che nelle coste francesi e spagnole, soltanto cinque mila di essi sono effettivamente espulsi ogni anno dall’Europa. In Sardegna sono frequenti i casi di giovani algerini arrestati per aver violato il divieto di reingresso nel nostro Paese in seguito a un precedente (a volte anche più di uno) decreto di espulsione.

La harga, ovvero l’emigrazione irregolare algerina, non si arresta e continua a essere considerata come una forma di protesta e di rivolta estrema in risposta a un malessere sociale. I giovani algerini si trovano bloccati tra una società immobile che non consente la realizzazione dei loro sogni e l’impossibilità di un accesso regolare in Europa.

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Per approfondire

Che notte epica, ragazzi

Italian Lega party's Secretary Matteo Salvini (L) with Leader of Italian party ?Italia Viva?, Matteo Renzi (R), attend the Raiuno Italian program 'Porta a porta' conducted by Italian journalist Bruno Vespa in Rome, Italy, 15 October 2019. ANSA/FABIO FRUSTACI

Abbiamo preso le birre, centocinquantasei birre perché è vero che eravamo solo in due ma avevamo una sete bestia. E poi sigarette, sigarette come se piovessero. C’ era il superbowl dei grandi, anzi crandi, politici italiani quelli che hanno cambiato il mondo perché annusano il futuro mentre noi poveretti annusiamo la verdura in frigo per scoprire se è scaduta.

Un evento epocale. Roba grossa. I più grandi politici di questo secolo, dopo Craxi, Cirino Pomicino, De Mita. Sbardella, Marattin, Calenda, Casaleggio e i sette Casaleggini, Grillo e i sette grillini, Boschi e Boschini, Fico e fichini, Di Battista e Dibattistini, Di Maio e basta, D’Alema che c’è sempre, Andreotti e i suoi fantasmi, mio cugino e tutti i nonni che sono morti e il grande presentatore.

Che serata meravigliosa: iperboli politiche che Andreotti in confronto sembrava un manuale di catechismo per catechisti non catechizzati. Roba da fare venire la pelle d’oca. A sentirli e a vederli così belli bolsi avresti pensato che fossero i padroni del mondo, che meraviglia, che bella la politica quando assomiglia così alta alla vendita in promozione degli aspirapolvere a domicilio.

Abbiamo pensato, stamattina, di avere assistito al momento politico del secolo: i due Mattei che si sfidano sono roba da accapponare la pelle a forma di Italia Viva. Ci hanno detto che stavamo assistendo alla finale della Coppa dei Campioni dei Campioni dell’ego della politica dei Campioni della Coppa.

Brrr. Inutili e incomprensibili come una mostra d’arte contemporanea.

Poi ci hanno detto che era tutta fuffa. Ci hanno detto che era la resa dei conti tra due perdenti che non si sono mai resi conto di avere perso. Ma davvero? Dici sul serio? Evviva. Anzi no, che peccato.

Abbiamo perso una sera per vedere la finale degli sconfitti che si sono impegnati a fingere di essere vincitori.

Bravi loro. Cretini noi.

Ora possiamo concentrarci sul presente? Sì, dai.

Buon mercoledì.

Uno Tsunami democratico contro le pesantissime condanne inflitte agli indipendentisti catalani

An Estelada pro-independence flag is waved among protestors at El Prat airport in Barcelona, Spain, Monday, Oct. 14, 2019. Spain's Supreme Court on Monday convicted 12 former Catalan politicians and activists for their roles in a secession bid in 2017, a ruling that immediately inflamed independence supporters in the wealthy northeastern region. (ANSA/AP Photo/Emilio Morenatti) [CopyrightNotice: Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved]

Una sentenza profondamente ingiusta quella contro le/gli indipendentist@ catalan@, giunta al termine di un processo che due organismi internazionali di verifica, la Fidh (Federazione internazionale diritti umani) e la Euromed Rights (Rete mediterranea diritti umani), hanno giudicato non soddisfare le garanzie necessarie per poterlo considerare giusto.

È stata evitata l’accusa di ribellione, che avrebbe portato anche a 30 anni di reclusione, e, per quanti sforzi si siano fatti per dimostrare che ci fu anche violenza nel disobbedire, troppo evidente è stato il carattere pacifico e non violento di ciò che è avvenuto nel 2017 con il referendum e la dichiarazione di indipendenza. Le condanne dai 13 ai 9 anni per sedizione contro le autorità spagnole e malversazione del denaro pubblico sono decisamente sproporzionate rispetto a ciò che realmente è successo.

A questo esito punitivo puntavano le tre destre spagnole che hanno sempre identificato la dichiarazione unilaterale di indipendenza come un vero e proprio colpo di Stato. Il governo di Barcellona ha bollato la sentenza come «atto di vendetta» e ha chiesto l’amnistia per i leader condannati. Il presidente della Generalitat de Catalunya considera la risoluzione giudiziaria come «un insulto alla democrazia», ha ribadito che la risposta sarà pacifica e ha chiesto una riunione urgente con lo stesso Sánchez e il re Felipe VI.

Ma lo Tsunami Democratico, questo il nome della mobilitazione, è iniziato con il blocco dell’aeroporto, delle strade e delle linee ferroviarie, con il rifiuto assoluto di una sentenza che, delegando ad un tribunale una questione politica, non soddisfa le aspettative di nessuno. Sánchez ripete che la sentenza va rispettata, afferma che la Spagna è una democrazia e che “nessuno viene giudicato per le proprie idee” e si ostina a dire che non prenderà in considerazione un provvedimento di grazia o indulto che sia.

Si può discettare all’infinito sulla credibilità del processo, sulla affidabilità democratica della magistratura spagnola, ma è del tutto evidente che non sarà mai possibile una riconciliazione, né tantomeno una riduzione della spinta popolare verso l’indipendenza catalana dalla Spagna, finché la linea prevalente sarà quella dell’umiliazione e repressione dell’avversario.

Forse ora risulta più chiaro perché i socialisti non abbiano voluto un governo di coalizione con Unidas Podemos. Non c’è stata nessuna guerra di poltrone, ma solo una diversa visione, su come risolvere la crisi catalana e sulle misure con cui affrontare la crisi sociale ed ambientale in cui da anni è sprofondata la Spagna, insieme all’Europa.

Ora la sentenza riporta al centro dello scontro politico la crisi territoriale del Paese, offuscando il resto. Condanne così dure vincolano la crisi catalana nelle dinamiche contrapposte che l’hanno resa ingovernabile: da un lato l’unilateralismo indipendentista, privo di maggioranza sociale e di riconoscimenti internazionali, e dall’altra la totale delega della crisi alla magistratura, con la repressione e l’applicazione dell’articolo 155.

Su questo scenario peseranno moltissimo le elezioni politiche che si terranno il prossimo 10 novembre e la campagna elettorale che le precede. Inoltre c’è il nodo politico che la sentenza solleva ed è la limitazione, di fatto, del diritto a manifestare. Colpendo il gruppo dirigente indipendentista si vuole in realtà criminalizzare un sentimento collettivo che riguarda quasi due milioni di persone in Catalogna che hanno da tempo scelto la linea indipendentista e ad ogni elezione ne ribadiscono le ragioni.

Ma condanne così dure contro un delitto di opinione, il reato di sedizione che ripropone un limite per i diritti di cittadinanza, arrivare a criminalizzare le forme di dissenso, potrebbero valere anche per le/i pensionati che da mesi lottano a Bilbao per i diritti acquisiti, per le femministe che si ribellano al sistema patriarcale che le opprime, per le/gli studenti che reclamano azioni concrete per fermare il cambio climatico che ruba loro il futuro.

Ora serve capacità di proposta per affrontare la questione catalana, ma anche per avviare un dibattito sui limiti della democrazia spagnola che delega la soluzione politica dei conflitti alle derive giustizialiste. I sondaggi pre elettorali confermano i socialisti come primo partito, ma lontani dalla maggioranza assoluta necessaria per un governo monocolore.

Quali alleanze inseguirà Sánchez dopo il voto faranno capire se si andrà verso un possibile condono delle pene oppure, in caso di un sostegno esterno delle destre di Ciudadanos e del PP, a una maggiore intransigenza. Sánchez intende prendere le distanze o rimanere fedele alle scelte che lo riportarono alla guida del suo partito e che determinarono le dimissioni del governo Rajoy?

Certo è che questa sentenza obbliga i socialisti a fare chiarezza. Stare a sinistra, alleandosi con Unidas Podemos, non significa solo battersi per l’indulto, ma riuscire a immaginare e realizzare un modello di convivenza nuovo, una visione dell’unità della Spagna basata sulla plurinazionalità.

Per ora non è questa la scelta dei socialisti. Non basterà a convincerli solo la mobilitazione dello Tsunami Democratico catalano, sarà necessaria anche la forza che esprimerà Unidas Podemos, la sua capacità di mobilitare il Paese dalle strade al voto. Su questo terreno si capirà meglio anche la collocazione di Errejón e del suo Más País.

Per favore non finiteci a giocare a calcio

È vero, è una cosa minima, piccola, infinitamente minima rispetto allo scempio che si sta compiendo sotto gli occhi del mondo ogni giorno ma la proposta di non giocare la finale di Champions League a Istanbul è un atto significativo da parte di chi (la Uefa) concede l’ennesimo palcoscenico di normalizzazione a un Erdogan che merita di essere dimenticato il più in fretta possibile.

«È giusto che il più importante evento sportivo europeo a cadenza annuale si tenga nella metropoli di un Paese aggressore, impegnato in una guerra che noi europei non vogliamo e che minaccia la nostra società di conseguenze sociali ed economiche drammatiche? La prima vera sanzione che possiamo comminare alla Turchia sarebbe tanto banale quanto efficace: la finale della Champions League non si può tenere a Istanbul, se la Turchia fa la guerra», ha detto il vicesegretario di Più Europa, Piercamillo Falasca. L’hashtag #NoFinaleChampionsaIstanbul è diventato virale su Twitter.

«Sembrano banalità – prosegue Falasca – ma quando vuoi toccare la sensibilità di un popolo e far capire davvero qual è la “European way of life“, devi parlare anche di sport. E, in Europa, di calcio. Rivolgiamo un appello alla Uefa: dimostriamo che lo sport europeo sa essere più coraggioso della Fifa, che assegna i mondiali di calcio a Russia e Qatar in barba a qualsiasi considerazione sui diritti umani e civili».

Sarebbe anche una buona risposta a chi, come il sultano Erdogan, pensa di poter zittire tutti coloro che liberamente e giustamente giudicano la sua azione militare come un vero e proprio scempio: in Turchia i giornalisti che si permettono di scriverlo vengono arrestati. E una guerra senza giornalisti è il luogo perfetto perché la violenza esondi dappertutto.

La guerra non si combatte con qualche tweet di solidarietà: i politici hanno il dovere di compiere azioni politiche, i giornalisti hanno il dovere di raccontare le ingiustizie e l’orrore e anche l’Uefa ha il dovere di prendere posizione. Non è questione di boicottaggio ma si tratta di prendere le distanze in tutti i modi possibili, di lottare per la pace in tutti i modi possibili.

E se serve un pallone anche il pallone val bene una messa.

Buon martedì.

Erdogan e il cinghiale surgelato

epa06631038 Turkish President Recep Tayyip Erdogan during the summit meeting between the leaders of the European Union and Turkey on at Evksinograd Residence in the town of Varna, Bulgaria on 26 March 2018. EPA/VASSIL DONEV

Due sardi, di Sorso, sono fermi in mezzo alla strada provinciale 90 che porta a Tempio, in mezzo alla careggiata. La loro utilitaria ha il muso danneggiato e riverso in mezzo alla strada c’è un cinghiale, morto. Un investimento come ne accadono molti da quelle parti (in Gallura ci sono almeno una sessantina di casi segnalati) e che solitamente si risolve con un risarcimento per sinistri provocati da selvaggina vagante.

I carabinieri della stazione di Luogosanto, lì vicino, intervengono sul posto ma hanno qualche sospetto sull’incompatibilità delle ferite sull’animale e i danni dell’auto. Decidono di approfondire e chiamano un veterinario per un consulto: il medico si accorge che le interiora del cinghiale sono ancora surgelate. In sostanza i due automobilisti hanno scongelato il cinghiale e piuttosto che una lauta cena hanno deciso di apparecchiare un finto incidente per accaparrarsi i soldi dell’assicurazione.

Sembrava qualcosa che non era, è bastato approfondire (andare a fondo in questo caso significa controllare gli organi interni) per accorgersi dell’errore di sensazione e di interpretazione.

Il cinghiale congelato di queste ore è Erdogan, sultano illiberale e antidemocratico di una Turchia che per anni ci hanno proposto come nazione degna di stare in Europa e di essere trattata come se fosse un Paese da prendere sul serio. Non contano le interiora che ci parlano di opposizioni interne silenziate con la violenza, di giornalisti censurati e di rifugiati che vengono trattati come bestiame. Da fuori il cinghiale Erdogan all’Europa è sembrato un ottimo modo per bloccare l’immigrazione in Europa ed è piaciuto così tanto che hanno deciso di pagarlo lautamente.

Ma nelle interiora della Turchia c’è una violenza che non è una novità e che non sta solo nella guerra di questi giorni contro il popolo curdo: la democrazia di Erdogan è surgelata da tempo, bastava avere voglia di guardare più in fondo.

Buon lunedì.

Alle origini di Roma, terra di asylum

20020116 - ROMA - CRO - RIAPRONO AL PUBBLICO LE ''DOMUS'' ROMANE AL CELIO - Un particolare degli affreschi di un locale delle ''Domus'' romane del Celio situate sotto la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Roma che , dopo un restauro di tre anni, riaprono al pubblico. MARIO DE RENZIS/ANSA/DEF

«I miti sono racconti tradizionali forniti di una speciale “significatività”». Così ha scritto Walter Burkert, un grande studioso che al mito e alla religione antica ha dedicato tutta la vita. Questa definizione si presenta abbastanza semplice da risultare generale, ma anche sufficientemente specifica per destare fiducia.

“Tradizionalità” da un lato e “significatività” dall’altro, ecco i due poli fra i quali scatta quella tensione che viene chiamata “mito”. Il mito è un racconto “tradizionale” perché fa ormai parte del patrimonio narrativo di una comunità, è un racconto “accolto” da chi ne fa parte, conosciuto, noto.

Quanto alla “significatività” del mito, a cosa deve essere riferita? Nella teoria della comunicazione, la “significatività” di un certo fenomeno, misurabile anche in termini di “rilevanza” o “importanza”, ne definisce l’efficacia e la qualità nella trasmissione dell’informazione. In questo modo, dunque, il mito viene definito in qualche modo come un racconto “efficace”.

Ancora più esattamente, un racconto che ha la capacità di entrare subito in un “contesto” di relazioni, di rendersi fruibile, comprensibile, anche in una pluralità di sfere diverse: lo si scopre infatti in relazione con altri personaggi appartenenti alla stessa sfera narrativa, interpreti di altri racconti che risultano tangenti al mito che si ha sotto gli occhi, o si sta ascoltando, tanto che dall’uno si potrebbe transitare nell’altro; ovvero risulta subito connesso con luoghi noti, che da questo mito a volte hanno tratto addirittura il nome; con costumi e istituzioni proprie di una data comunità, e così di seguito, in un processo di “significatività” culturale che a volte risulta inesauribile.

Basta prendere il caso di Roma, di Enea il fondatore, e dei gemelli divini, suoi discendenti, che hanno dato vita alla città: la quale comprende luoghi (la grotta del Lupercale, il fico Ruminale) che con questo mito hanno rapporto; dei culti, come quelli di Giove Feretrio che Romolo stesso ha fondato: innumerevoli pratiche culturali che al mito di fondazione si riconnettono, come…

L’articolo di Maurizio Bettini prosegue su Left in edicola dall’11 ottobre

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Il testo di Maurizio Bettini, filologo e latinista prende spunto dalla conferenza che il docente di Filologia classica dell’università di Siena terrà il 19 ottobre all’aula magna della Cavallerizza a Torino. Il tema dell’incontro è “Homo sum. Essere umani nel mondo antico”, che è il titolo anche del libro pubblicato di recente da Bettini per Einaudi. L’appuntamento con Bettini è nell’ambito del Festival del classico organizzato dal Circolo dei lettori in programma dal 17 al 20 ottobre e che quest’anno ha come tema “La verità ci renderà liberi”.

Il cibo, le radici, l’identità, la storia

Il tema dell’identità viene spesso chiamato in causa per intendere qualcosa che ci contraddistingue immutato nei secoli. Ne è un esempio la querelle sul tortellino bolognese, che ha alimentato le cronache locali e nazionali di qualche settimana fa: ai primi di ottobre, in occasione della festa patronale, a Bologna è stato presentato un tortellino col ripieno di pollo anziché di maiale, come gesto amicale e strumento di inclusione di chi non vuole o non può mangiare carne suina; subito qualcuno ha gridato al tradimento delle identità culturali, della tradizione, della storia.

Posizioni del genere non stupiscono, giacché il cibo è un oggetto di tale densità emotiva che ogni discorso sul cibo finisce per essere anche un discorso politico, che riflette il modo di immaginare il mondo, la società, il rapporto con gli altri. Un discorso politico nel senso della polis, la comunità civile, e delle regole di convivenza che vi si stabiliscono.

Non è strano, in questo senso, che il tortellino (come già è accaduto al cuscus, alla polenta, a tanti altri cibi-simbolo) diventi anche una bandiera. Il fondamentalismo gastronomico è una delle tante declinazioni – particolarmente “sensibile” e facile da comunicare – di un atteggiamento politico che cerco di combattere, non sul piano teorico e ideologico (questa sarebbe una normale dialettica di pensieri discordanti) bensì sul piano dell’analisi storica: perché il messaggio che viene dalla storia è molto chiaro, e molto diverso da quello che…

L’articolo di Massimo Montanari prosegue su Left in edicola dall’11 ottobre

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Massimo Montanari è docente di Storia medievale e di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna e dirige il Master europeo “Storia e cultura dell’alimentazione”. È uno dei maggiori specialisti in storia dell’alimentazione intesa come storia a tutto campo che comprende gli aspetti della cultura, dell’economia e delle istituzioni. Ha appena pubblicato per Laterza “Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro”. Nel libro, seguendo le tracce del piatto italiano per eccellenza, Massimo Montanari risale a tempi antichi e a terre lontane – dall’Asia all’America, dall’Africa all’Europa, dalle prime civiltà agricole passando per il Medioevo e arrivando fino a qualche secolo fa, o all’altro ieri.

Perché gli invisibili fanno paura alle destre

ROME, ITALY - DECEMBER 10: African migrants stay outside stand outside the building during the evacuation of a former penicillin factory where migrants from Africa but also Italians, lived in poverty and in poor hygienic conditions on December 10, 2018 in Rome, Italy. Police forces, carabinieri, municipal police and firefighters took part in the evacuation of some 40 remaining migrants of various nationalities from the derelict factory, as hundreds of others had already left in the past few days.(Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

Sono tremende le cifre sulle povertà assolute e relative che discuteremo, in questo ottobre, nella Giornata mondiale della lotta alla povertà e nel grande meeting del 17 ottobre indetto dalla Rete dei numeri pari: “Cinque passi per sconfiggere le disuguaglianze”. Queste cifre sono metafora della crescente diseguaglianza sociale, il paradigma del capitale predatorio.

Per i governi la lotta contro la povertà è diventata lotta contro i poveri. Ne voglio tracciare un profilo spesso sottaciuto: lo Stato italiano versa in una situazione di incostituzionalità. La Costituzione, infatti, tutela la dignità di tutte le persone senza distinzione di condizioni personali, sociali, etniche, religiose. È fondamentale l’articolo 3 della Costituzione, il quale non solo garantisce i diritti inviolabili delle persone, ma, unica costituzione europea, obbliga lo Stato a rimuovere gli ostacoli che ne impediscano la pratica attuazione.

Non è solo una norma programmatica, è un indirizzo politico. Parlo, ad esempio, del diritto al lavoro (articoli 4 e 35), all’assistenza (art. 38), alla salute (art.32). I diritti sono esigibili, non astratte proclamazioni. E, quindi, servizi e prestazioni vanno garantiti per obbligo costituzionale. Crescono, altrimenti, processi di esclusione. Non si può delegare al volontariato e al terzo settore: amo la democrazia costituzionale, non il “capitalismo caritatevole”.

Richiamo un tema fondamentale: l’accesso alla cosiddetta residenza anagrafica. Senza di essa, infatti, non vi è godimento dei diritti. I poveri, gli esclusi, i migranti spesso non possiedono residenza anagrafica. In Italia viviamo, a tal proposito…

L’articolo di Giovanni Russo Spena prosegue su Left in edicola dall’11 ottobre 

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Il 17 ottobre, giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, al teatro Ambra Jovinelli di Roma dalle ore 17 si terrà l’assemblea “5 passi per sconfiggere la povertà” promossa dalla Rete dei numeri pari. All’incontro, a cui Left partecipa con la direttrice responsabile Simona Maggiorelli, prendono parte, tra gli altri, il costituzionalista Gaetano Azzariti, Giuseppe De Marzo di Libera, Alessandra Sciurba di Mediterranea, il presidente del Censis Giuseppe De Rita, Fabrizio Barca del Forum Disuguaglianze e diversità, Papi Bronzini di Bin Italia, Marina Boscaino del Coordinamento della democrazia costituzionale, il docente universitario Tomaso Montanari, oltre a rappresentanti di associazioni e comitati che in Italia si battono da anni per l’inclusione sociale, per i diritti delle donne, dei migranti e per il diritto all’abitare.

Vi racconto Filiz, la guerrigliera curda che leggeva Dostoevskij

Lo scrittore e musicista Marco Rovelli ha fatto un lungo viaggio in Kurdistan per ritrovare tracce di Filiz, la guerrigliera dagli occhi verdi che dà il titolo al suo nuovo, intenso, romanzo, pubblicato da Giunti. Un viaggio che gli ha fatto scoprire non solo il coraggio  e i valori di questi partigiani che lottano contro l’Isis e contro la stretta autoritaria imposta da Erdogan, ma anche il loro amore per la danza,  la musica, la letteratura e la filosofia. Tanto da ritrovarsi, nel folto di quelle lontane montagne,  a rispondere a domande su «uno scrittore italiano condannato dalla Chiesa, che si chiama Giordano Bruno», di cui il leader del PKK Ocalan parla in un libro.

Marco, che cosa ti ha colpito della storia di Filiz (“Avesta” era il suo nome di battaglia), tanto da decidere di scrivere un libro proprio su di lei e non su un’altra delle molte guerrigliere che conbattono nelle file del PKK curdo?
Avevo letto un’intervista su Foreign Policy, mi aveva colpito il suo volto, dolce e quasi intimidito dall’obiettivo, e la forza delle sue parole. Dopo qualche giorno è arrivata la notizia della sua morte. Ho sentito che dovevo raccontare la sua storia. Nella scrittura non si deve razionalizzare tutto, bisogna lasciarsi trascinare dall’imponderabile. L’ho fatto, e ho scoperto una persona straordinaria, che davvero incarna la sostanza più profonda e intensa del popolo curdo e della sua lotta.

Andando in Kurdistan a parlare con le persone che l’avevano conosciuta che cosa hai scoperto di lei? Quali ragioni profonde la motivavano?
A un certo punto, nella propria adolescenza, Filiz, che diventerà Avesta, scopre di non essere quel che credeva. Prima ha visto gli orrori dei turchi, e lì ha scoperto di non essere turca; poi ha scoperto di essere curda, di appartenere a una cultura diversa, fatta di elementi che lei stessa non conosceva. La danza e la musica, ad esempio, sono elementi decisivi per lei. Ma anche il poter partecipare in quanto donna a delle riunioni, cosa che prima mica si immaginava. L’identità non è tanto il passato, quanto le possibilità di essere qualcosa di nuovo, le possibilità di creare: e una partigiana come Avesta è questo che sceglie di fare, creare nuove possibilità di vita.

I libri, la cultura, la ricerca sono elementi che alimentano la vita in clandestinità di queste ragazze nonostante la durezza della quotidianità da guerrigliere?
Lo studio, la lettura e la discussione sono le attività che impegnano i guerriglieri per la maggior parte della loro vita quotidiana in montagna. Questo perché si tratta, per loro, di trasformare la propria mentalità, soprattutto. Salire in montagna ha un che di trasformazione radicale della vita. Dopo la salita in montagna si è persone nuove, si abbandona la propria vita precedente. Si studia per comprendere il mondo e se stessi. È così mi sono trovato a parlare, nel deserto iracheno, di Wallerstein, di Giordano Bruno, di Dostoevskij.

Nella loro lotta anche per l’emancipazione delle donne, oltre che per libertà e democrazia, leggi qualche analogia con le partigiane che hanno fatto la Resistenza, pur con tutte le differenze storiche?
Ci sono, certo. La partecipazione delle donne nella lotta di Liberazione è stata un momento decisivo per l’emancipazione di genere. Dopodiché i contesti sono molto diversi. La diversità sta soprattutto nel fatto che per i curdi legati al PKK la lotta non è solo contro i turchi per lo stato nazione (cosa che da quindici anni peraltro è stata abbandonata in nome del con federalismo democratico), ma anche all’interno della stessa società curda contro il potere dei clan. Il feudalesimo che è nel medesimo movimento società patriarcale. Emancipare la donna, o meglio emancipazione della donna, inteso come genitivo soggettivo.

I tuoi libri nascono da una potente e precisa fusione fra realtà e finzione, hai lavorato così anche per La guerriera dagli occhi verdi? L’impressione leggendo è che l’immaginazione e il racconto ti siano servite anche per tratteggiare più in profondità la realtà interiore della protagonista fra infanzia e realtà adulta.
Ho cercato di essere Fedele alla storia così come l’ho ricostruita parlando con i guerriglieri che hanno combattuto con Avesta e con la sua famiglia. Ma poi ci ho lavorato come per un romanzo, sia colmando alcuni buchi (pochi), sia drammatizzando la narrazione, i personaggi, le vicende. La costruzione è stata quindi molto diversa dai “reportage narrativi” del passato, quando raccoglievo le storie e cercavo di restituirle con gli strumenti letterari, ma sempre dall’esterno, con l’inserzione del testimone che sta sulla scena (il sottoscritto, intendo). In questo caso ho immaginato di entrare nella mente e nello sguardo di Avesta, per entrare nella sua anima, per vedere il mondo dal suo punto di vista, per farla vivere – prima ai miei occhi, poi agli occhi del lettore. E, in fondo, credo di aver messo in scena una tragedia contemporanea. Nel senso che nella vicenda di Avesta ho visto quei caratteri eterni proprio delle tragedie greche: il destino, la scelta del destino come vera libertà, la catena di sangue, nel rapporto che legava Avesta e fratello come non vedere quello tra Antigone e Polinice…

Le guerrigliere curde si trovano a combattere una triplice battaglia, contro la società patriarcale, contro l’Isis e il governo autoritario di Erdogan. A che punto è la loro lotta?
È una lotta durissima proprio perché il supporto internazionale non c’è. A parole piace a tutti la donna che combatte il barbaro dell’Isis. Ma nei fatti le considerazioni geopolitiche fanno sì che i curdi vengano lasciati a loro stessi, carne da macello come è da sempre. I curdi possono trovare aiuto solo in loro stessi.