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Erdogan non ci metterà a tacere

Dal 2009 vive in esilio in Francia. Continuando a lottare contro la deriva oscurantista e anti democratica della Turchia. Uguaglianza, libertà, laicità sono parole che tornano in tutti i suoi scritti. Pinar Selek è sociologa e autrice di opere forti e poetiche come La maschera della verità, un memoir in cui rievoca vicende autobiografiche che si intrecciano fortemente con la storia di Istanbul (dove è nata nel 1971) e della Turchia. Fin dalla reclusione di suo padre durata cinque anni: «Colpo di Stato del 12 settembre 1980. Mio padre è stato appena arrestato, insieme a centinaia di migliaia di oppositori. Il giuramento di fedeltà che ci fanno recitare due volte a settimana a scuola mi fa l’effetto di altrettanti colpi di manganello». Una situazione che si sarebbe ripetuta con una drammatica escalation. Accusata di fiancheggiamento del Pkk, Pinar ha visto con i propri occhi l’inferno delle carceri turche dove è stata rinchiusa e torturata. In quegli anni durissimi la scrittrice e giornalista Asli Erdogan l’aveva sostenuta, dandole voce in articoli e interviste. Il “caso” ha voluto che poi le parti si siano rovesciate. Ed è stata Pinar a cercare di mobilitare l’opinione pubblica a sostegno dell’amica e collega che ha rischiato l’ergastolo solo per aver collaborato a un giornale filo curdo.

La libertà di espressione esiste ancora in Turchia?
No, non esiste più. Molti scrittori e artisti sono in prigione, in esilio o sotto minaccia. La Turchia è bloccata in un tunnel di orrore e non sappiamo come uscirne. La solidarietà internazionale è molto importante, è ossigeno che ci fa respirare.

Il suo arresto e quello di suo padre, rievocati ne La maschera della verità, sono accaduti in momenti diversi e drammatici. Oggi sono giorni altrettanto bui?
Fin dalla mia infanzia non ho mai visto il sole splendere sulla politica turca. Perché fin dagli inizi, lo Stato-nazione turco, si è strutturato come sistema politico nazionalista, militarista e repressivo. È nato sulle stragi. Ha consolidato il proprio potere attraverso un linguaggio e una narrazione mitologico-religiosa. Oggi la Turchia è “in guerra”, ogni giorno vengono promulgate nuove misure repressive. L’autoritarismo strisciante di questo regime islamico-conservatore attua politiche di re-islamizzazione della società e di deregulation economica, giuridica e sociale. Ma fin da quando ero bambina sono stata testimone di azioni di resistenza. Ho visto come le persone sono riuscite ad “adattarsi” per scovare sempre nuove strategie e continuare la lotta. In Turchia ci sono molte persone amanti della libertà.

Lei ha sempre cercato di dare voce alle minoranze, attraverso libri e inchieste, pagando prezzi altissimi. La Turchia è un Paese multiculturale, ma rinnega la parte migliore della propria storia?
Il problema principale della Turchia è il nazionalismo. La nazione è nata sul genocidio degli armeni del 1915 e sulla pulizia etnica diffusa che ha colpito soprattutto i curdi, costretti all’assimilazione attraverso strategie educative, religiose e politiche. La costruzione della nazione turca si basa su un disegno etnico e confessionale imposto a un territorio in crisi e svuotato di gran parte della popolazione. Lo Stato-nazione ha un carattere monolitico che non ammette altre forme e colori. Quando scopriranno che questa gigantesca operazione di omogeneizzazione e l’assimilazione non ha funzionato non so come potranno reagire gli apparati statali. Di certo, sarà una visione destabilizzante.

Lo racconterà in un nuovo libro?
In realtà sto scrivendo due libri in una sola volta. Uno, in particolare, sulla resistenza in Turchia. Cerco di mostrare come nell’ambito di mobilitazioni sociali e nuovi movimenti si siano innescati nuovi processi, possibili, nonostante la repressione omicida. Questo libro è come un buon amico. Poi, la mia nuova passione è un romanzo, mi fa volare ogni volta che mi ci posso dedicare. Il mio unico rammarico è non avere abbastanza tempo per vivere questo amore.

Un atlante del paesaggio rupestre per conoscere e rigenerare le aree interne

Un viaggio dello sguardo tra chiese rupestri, eremi e grotte della Murgia materana. È l’itinerario che tre illustratori – Antonio Cammareri, Stefania D’Amato e Luogo comune – stanno portando a termine per la residenza Un Atlante del paesaggio rupestre, cofinanziata da Matera Capitale Europea della Cultura 2019, e realizzata da Arci Basilicata in collaborazione con Arci nazionale.

Il paesaggio della Murgia materana è popolato da innumerevoli luoghi di culto scavati nelle rocce, per secoli abitati da gruppi religiosi, pellegrini ed eremiti. La relazione secolare e la coabitazione tra uomo e natura aspra costituiscono un palinsesto di suggestioni che è al centro dell’osservazione degli artisti.

I Sassi e il parco delle chiese rupestri di Matera, così come tutti gli insediamenti lungo le gravine di Basilicata e Puglia sono una testimonianza eccezionale di adattamento al contesto geomorfologico e all’ecosistema che l’uomo è riuscito a interpretare con continuità per oltre due millenni.

Un ecosistema che è un palinsesto di epoche e usi differenti in cui l’isolamento e la coabitazione con la natura aspra sono state le costanti che l’uomo ha dovuto affrontare per sopravvivere. La nomina a Capitale europea della cultura, a poco più di cinquant’anni dall’epiteto di “vergogna nazionale” attribuitogli da Togliatti, ha contribuito a consolidare l’affrancamento che questo territorio ha condotto rispetto alle condizioni dell’abitare.

Ma tuttora le aree interne italiane vivono una condizione di marginalizzazione e spopolamento complessivo, dovute in gran parte ad una condizione sempre più emergenziale rispetto ai servizi essenziali, all’accesso all’istruzione scolastica o alla sanità,  per non parlare dell’offerta culturale. Raccontare l’Italia interna oggi è quantomai necessario per far emergere un pezzo della nostra nazione che rappresenta in sostanza il 60 per cento dell’intera penisola.

La metà dei comuni italiani, infatti, fa parte di questa categoria e qui vive il 22 per cento della popolazione (dati Snai, Strategia nazionale delle aree interne). La recente pubblicazione Riabitare l’Italia, ha delineato la fisionomia di un Paese – in gran parte annodato dalla fascia appenninica e alpina – allontanatosi progressivamente dal sistema statale. Questo è accaduto negli anni anche perché i servizi di cittadinanza sono sempre stati legati ad una visione economicistica, considerati “variabile dipendenti dello sviluppo”.

È infatti «solo garantendo ai cittadini di queste aree effettiva opportunità di godere di servizi civili di base è possibile invertire il trend di rarefazione demografica, riattivare economie locali e consolidare i focoloai sparsi di ripopolamento e rigenerazione comunità locali».

Un inquadramento sistemico della questione è stato definito dalla Strategia nazionale aree interne, che ha il merito di aver realizzato piani territoriali, coprogettandoli con enti locali e soggetti del territorio, per rispondere ai bisogni delle comunità.

In questo panorama non mancano delle controstorie, degli episodi di attivazione sociale, di reti comunitarie che provano ad autoprodurre lavoro, servizi culturali, percorsi educativi per resistere all’isolamento e al degrado.

Da queste storie di mutualismo, di solidarietà, di nuovi cittadini che contribuiscono a ripopolare i paesi e le scuole, si può tracciare un nuovo immaginario di questi territori, che necessitamente ha bisogno di mettersi in relazione, di crescere e di avere riscontro e attenzione dalla dimensione istituzionale. Per questo è sostanziale il ruolo delle organizzazioni civiche, delle reti di comunità, dell’intermediazione sociale e culturale in grado di far emergere bisogni ed esigenze dei territori, di protagonismo diretto della cittadinanza.

Per questo l’11 ottobre a Matera, presso le Fondazione Le Monacelle si tiene l’incontro nazionale Contro l’isolamento. Percorsi di rigenerazione a base culturale delle aree interne, promosso da Arci nazionale e con l’obiettivo di aprire una riflessione di carattere nazionale sul ruolo del terzo settore nella rigenerazione dei territori, del tessuto sociale e culturale delle aree di margine.

Un atlante del paesaggio rupestre prova a ricomporre questi paesaggi di margine unendo la morfologia del territorio ai nuovi segni, ai nuovi cittadini. Gli artisti in residenza hanno incontrato esperti, camminatori, storici e grafici, hanno realizzato un murales a Montescaglioso con un gruppo di richiedenti asilo dello Sprar di Arci Basiicata e il circolo Arci La Lampa e stanno lavorando ad un atlante di un paesaggio che è una mappa dell’immaginario, insieme arcaico e moderno, di questi territori.

Contro i lager di Stato

Per un rincorrersi di coincidenze la neo ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese è stata a lungo prefetto a Milano. Un’esperienza segnata dal tentativo da un lato di non assecondare l’esasperazione del conflitto in salsa leghista – molti sono i provvedimenti repressivi dei Comuni dell’hinterland che la prefetta ha considerato inapplicabili -, e dall’altro lato di assecondare le richieste securitarie provenienti da ampi strati dell’amministrazione meneghina e della popolazione stessa, attuando retate, soprattutto intorno alla Stazione centrale, per garantire la mitica “sicurezza”.

Oggi che, da Milano, si trova proiettata nello scenario nazionale e forse nel ruolo più delicato che le potesse capitare, ovvero sostituire Matteo Salvini al Viminale, Luciana Lamorgese continua a tentare difficili mediazioni. Da una parte l’impegno al vertice di Malta e poi di Lussemburgo, per garantire una ripartizione dei migranti soccorsi in acque internazionali dalle Ong, con un atteggiamento certamente diverso dal predecessore, dall’altra la scelta di far valere i propri poteri mantenendo alcune promesse. E fra le promesse infauste da mantenere c’è per il capoluogo lombardo la decisione di far tornare il centro di accoglienza di Via Corelli a svolgere il ruolo ottemperato fino a pochi anni fa, ossia quello di Cie (Centro di identificazione ed espulsione), rinominato oggi Cpr (Centro permanente per i rimpatri).

La sostanza è la stessa, si tratta, come raccontiamo nel libro Mai Più (edito da Left e acquistabile in edicola e sul sito del settimanale dall’11 ottobre, ndr), di strutture destinate a privare delle libertà personali donne e uomini migranti non in ragione di reati compiuti ma in base al fatto che non possiedono i requisiti necessari per restare sul territorio nazionale. Nel libro spieghiamo e raccontiamo tanto il passato quanto il presente di queste strutture in cui non solo si sono perse tante vite umane ma che, anche facendo un cinico calcolo – come quelli tanto di moda in questi anni eticamente bui – fra costi e benefici, rivelano il fallimento dello scopo dichiarato della detenzione amministrativa.

La struttura di Via Corelli a Milano riaprirà in tempi molto brevi, secondo i rumors del Viminale, alimentati dalle dichiarazioni della stessa ministra. Ma c’è un pezzo non secondario di Paese che rifiuta l’esistenza di queste strutture, a Milano e in tutta Italia. Associazioni, sindacati, forze politiche e centri sociali, ma anche semplici individui hanno dato vita alla rete Mai più lager – No Cpr, che ha indetto un corteo che sfilerà sabato 12 ottobre a Milano, con partenza da Piazzale Piola alle ore 14.30 e arrivo davanti al centro di Via Corelli. La mobilitazione, di carattere regionale ma verso cui stanno convergendo molte realtà, soprattutto del centro nord, chiede non solo la “non riapertura” di un centro di detenzione che tante sofferenze ha prodotto ma l’abrogazione dei decreti Salvini poi convertiti in legge, il non rinnovo degli accordi con la Libia e la riconversione della città in luogo di accoglienza reale per chi fugge.

Il mondo che si va aggregando attorno alla rete Mai più lager è vasto ed eterogeneo, potrebbe essere questo uno snodo di passaggio utile verso la realizzazione di scadenze a carattere nazionale. Altri Cpr stanno aprendo o potrebbero aprire nelle prossime settimane, a cominciare di quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, dove è già stato dato l’appalto al nuovo ente gestore. Sì, perché queste strutture sono da sempre realizzate in spazi di proprietà pubblica, vigilati da personale sottratto ai vari corpi dello Stato (Ps, Carabinieri, Finanza ecc..) ma i servizi, quelli che più rendono in termini economici sono appaltati a enti gestori privati che beneficiano di un sostegno pubblico spesso superiore anche al livello di servizi erogati.

Il vulnus reale resta nell’istituto della detenzione amministrativa. Prevista come extrema ratio soltanto verso coloro che andrebbero espulsi e per cui si intravvede pericolo di fuga, sin dall’inizio, come raccontiamo nel libro, sono invece divenuti luogo di privazione della libertà per ex detenuti che avevano già scontato la propria pena, per persone che avevano perso il lavoro e con esso il diritto a restare in Italia o persone che vivevano di lavoro nero, una piaga – quest’ultima – contro cui poco e male si è combattuto e in cui la persona da colpire è il datore di lavoro e non il prestatore d’opera. E poi richiedenti asilo, badanti, a volte minori, ragazze costrette alla tratta, una umanità varia per cui la sola alternativa sembra essere quella di una precaria invisibilità sotto la perenne spada di Damocle di una deportazione forzata.

Queste strutture, per come sono pensate, per la funzione che svolgono, per l’assenza di garanzie reali, dal diritto alla difesa alla difficoltà per gli operatori dell’informazione di entrarvi e verificare le condizioni di vita, sono irriformabili e vanno chiuse, pensando ad altre soluzioni che vanno delineate e sperimentate considerando come bene primario la tutela delle persone più vulnerabili e il rispetto dello Stato di diritto, o di ciò che ne resta. Per questo la piazza di Milano del 12 ottobre ha una importanza non solo locale. Ce ne saranno altre di mobilitazioni che potrebbero presto sfociare in un unico grande appuntamento nazionale ma c’è soprattutto, attraverso la capacità di ricostruire un discorso pubblico non fondato sull’odio e sulla ricerca del capro espiatorio, di ristabilire una cultura della convivenza civile in un Paese in cui i diritti o sono tali per tutte e tutti, o diventano privilegi.

Per chi vuole ancora aderire alla manifestazione milanese basta inviare una mail all’indirizzo [email protected], per chi vuole saperne di più c’è il nostro libro, in edicola da venerdì 11 ottobre

Christian Raimo: Alle radici della deriva nazionalista

Christian Raimo in una immagine tratta dal suo profili Twitter. TWITTER CHRISTIAN RAIMO +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

L’identità italiana sarebbe fondata sul tortellino ripieno di carne e sul crocifisso, secondo Matteo Salvini. Intanto in Europa, la presidente di Commissione, l’ultra liberista Ursula von der Leyen, parla di difesa dello «stile di vita europeo», strizzando l’occhio ai sovranisti. Il dibattito intorno all’identità, italiana ed europea, «si è ormai infilato nel vicolo cieco di un nazionalismo muscolare», farcito di retorica e propaganda, scrive Christian Raimo nel libro Contro l’identità italiana (Einaudi), un incisivo pamphlet che mira a smontare quest’inganno.

«Ogni volta che scoppia una polemica come quella sul vero tortellino noto una confusione fra il ragionamento sull’identità e il ragionamento sulla storia», commenta lo scrittore, da qualche tempo impegnato anche come assessore alla cultura nel III Municipio a Roma. «In Italia c’è un deficit di riflessione storica, per cui ogni tradizione, anche la più semplice, come quella del tortellino o della carbonara (analizzata in un bel libro di Alessandro Trocino) diventano occasione di disputa sull’identità e sull’autenticità. Io penso che ogni autenticismo sia una forma di falso storico – sottolinea Raimo -, perché la storia è fatta di interpolazioni, di revisioni, di ripensamenti, di pluralità. I fenomeni storici sono sempre in trasformazione».

Questo vale anche per il crocifisso? Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha detto che andrebbe tolto dalle aule, meglio appendere mappe geografiche o articoli della Costituzione.

Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha detto che andrebbe tolto dalle aule, meglio appendere mappe geografiche o articoli della Costituzione.Nel 2019 siamo un Paese sufficientemente maturo anche nei confronti del rispetto dei culti. Togliere il crocifisso dalle aule tutela la laicità dello Stato, ma tutela anche la possibilità di chi crede di sentirsi rispettato.

L’ostentazione dei simboli religiosi ha caratterizzato il governo giallonero. Quella propaganda nazionalista e religiosa trovò un abbrivio nel 1984 con il concordato di Craxi e poi con Berlusconi che distribuiva milioni di copie di un suo libro sulla patria?

Negli anni Ottanta mi sembra di poter individuare un diaframma, un passaggio di fase, che più o meno coincide con l’indebolimento delle ideologie del Novecento. Con l’avvento del craxismo, la caduta del muro di Berlino e poi con tangentopoli e Berlusconi i grandi partiti, compresa la Dc ebbero un declino molto rapido.

Cosa sostituì quell’ideologia? Un’altra ideologia che fingeva di non essere tale?

In questo libro traccio una specie di panoramica di quello che avvenne nella formazione dei nuovi partiti degli anni Novanta: la Lega, Forza Italia, il Pds, Alleanza nazionale. E rintraccio in tutte queste formazioni un elemento nazionalistico molto forte. Sono tutte costruzioni ex post di un certo discorso di Berlusconi in cui diceva: «Questo è il mio Paese, qui ho i miei orizzonti, le mie radici».Un discorso che non ha bisogno di una ermeneutica. Ho trovato interessante ricostruire come Alleanza nazionale abbia cercato di strutturare un Pantheon di valori e di riferimenti italiani per smarcare la tradizione neofascista dalla matrice fascista. Dietro c’è Croce e c’è, soprattutto, un modello conservatore cattolico.

Dall’altra parte i Ds andarono in direzione analoga con un celebre discorso di Luciano Violante in Senato.Il famigerato discorso di insediamento al Senato in cui Violante legittimava i ragazzi di Salò..

.Quell’operazione mi sembrò il tentativo di una parte della classe politica che si trovava disarmata di fronte alla crisi, perché sprovvista di culture politiche. Fu così che quella classe politica scese in cantina per rispolverare i soldatini e le bandierine. Quel processo un po’ rabberciato si è poi strutturato con il settennato del presidente Carlo Azelio Ciampi. In funzione antileghista non perse occasione per rilanciare la retorica patriottica. Quella difesa della bandiera non incise solo nel discorso pubblico della politica ma anche sulla pedagogia scolastica. Gli alunni si ritrovarono a cantare l’inno di Mameli nel cortile della scuola, cosa che quando ero bambino io sarebbe stato straniante per me e per i miei compagni. Quell’operazione ciampiana nell’arco di un decennio divenne un vero abbaglio di massa perché portava a pensare un patriottismo di sinistra che nel giro di poco tempo è diventato nazionalismo: il presepe, il tortellino, balliamo l’Inno di Mameli al Papete Beach con Salvini e Renzi che specularmente dice giammai l’Inno di Mameli al Pepete. Viene da ridere perché è una storia dell’identità italiana molto grossolana; è la storia di chi non ha mai letto una storia della letteratura italiana e non ha mai seguito un dibattito sulla storiografia del nostro Paese.

C’è un deficit diffuso che riguarda la storia, siamo d’accordo, assistiamo nella mentalità comune a una completa cancellazione del passato colonialista italiano e delle responsabilità italiane nei genocidi. Italiani brava gente, un’illusione persistente. Così Salvini ha avuto buon gioco.

Il peggio del governo Lega-M5s è sintetizzato nell’espressione di Salvini «zingaraccia». In una sola parola, c’è razzismo, classismo e sessismo; in un solo epiteto pronunciato dall’allora ministro dell’Interno c’è tutta la destra peggiore. E ci dice molto su come si sia trasformata la destra. Quando chiedevano a Francesco Storace di dire qualcosa di destra, l’imprecazione che sceglieva era «froci». Perché i temi della destra erano l’omofobia, l’aborto, la droga. Oggi quei temi sono più sfumati, sono meno identificanti. Oggi nella destra c’è razzismo contro i poveri, un’idea violenta di pulizia etnica. L’omofobia è diventata anche sessismo nei confronti delle donne. Penso all’ingiuria «zingaraccia», ma ho anche davanti agli occhi un’azione simbolica luminosa: la vernice rosa rovesciata sulla statua di Montanelli dopo la manifestazione a Milano, un gesto che riscrive finalmente la storia: la statua bruttissima di un difensore di un conservatorismo becero, di uno che non ha mai veramente preso le distanze dal passato coloniale italiano, anzi lo ha amplificato non avendo mai preso le distanze dal suo passato maschilista. Quel gesto è l’immagine di un conflitto che nella società italiana è giustamente vivo.

C’è una responsabilità anche degli storici e degli intellettuali italiani? Da Contro l’identità italiana emerge con chiarezza il ruolo che ha avuto la fiction tv nel far passare un certo nazionalismo. Ma emerge anche la responsabilità di chi ha fatto un uso strumentale del canone italiano, per esempio esaltando Dante in chiave sovranista.

In particolare la responsabilità è degli intellettuali maschi. Un mio obiettivo polemico è Galli Della Loggia che per il Mulino ha curato una collana dedicata all’identità italiana. Lì c’è anche una mancata comprensione di come si siano trasformati i contesti politici. Un punto di svolta fu il 2001 con il Social forum. Lo scenario si stava aprendo a una politica internazionalista. A Genova ci fu una recrudescenza del nazionalismo repressivo.

La cultura del Social forum era new global, internazionalista. Oggi invece c’è chi a sinistra scivola verso il terreno nazionalista come Stefano Fassina che ha lanciato Patria e Costituzione?

Penso che quello di Stefano Fassina sia un tentativo benintenzionato. Altri tentativi sono più strumentali. C’è una parte politica che trova alimento in una letteratura economica che non tiene in considerazione una serie di cose: di fronte all’aggressività di organismi internazionali che non consentono margini di tutela delle politiche sociali pensano che lo Stato sia una forma di protezione. Questo è ciò che sostiene Rodrik ma, a mio avviso, confonde la mappa con il territorio, nel senso che si può essere statalisti senza essere nazionalisti. È un modo laico di pensare alla comunità statale. Si può essere europeisti, localisti e statalisti per difendere il pubblico.

Per esempio?

Penso a Mariana Mazzucato, per fare un nome. È una profonda statalista e non le serve avere un profilo nazionalista per difendere lo Stato. È un’economista famosa da contrapporre a chi si fa sostenitore del nazionalismo. Oggi stiamo assistendo a una grande trasformazione del mercato del lavoro. La composizione di classe è sempre più legata a una classe lavoratrice e migrante. Pensando ad un progetto di sinistra devo allargare lo sguardo a livello internazionale, a un sindacalismo sovranazionale e a un sindacalismo che deve cominciare a parlare in termini femministi. Non è un caso che l’ambientalismo e il femminismo siano due movimenti internazionalisti. Questo è un fatto che non può essere derubricato come vorrebbe Diego Fusaro che sicuramente è il più pagliaccesco della combriccola dei nazionalisti finti di sinistra o gramsciani. Se c’è un movimento che deve poter orientare le politiche del lavoro questo è quello ambientalista e femminista. I sindacati devono diventare ambientalistie femministi.

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L’intervista di Simona Maggiorelli a Christian raimo prosegue su Left in edicola dall’11 ottobre

SOMMARIO ACQUISTA

Rancore: «Il mio rap va a fondo nei sentimenti e parla a tutti»

Italian singer Rancore performs on stage at the Ariston theatre during the 69th Sanremo Italian Song Festival, Sanremo, Italy, 05 February 2019. The festival runs from 05 to 09 February. ANSA/ETTORE FERRARI

Madre egiziana, padre croato, nasce e cresce romano, al Tufello. La scuola, gli amici, lo skate:  è tutto questo che ancora ragazzino inizia a raccontare. Le sue prime esibizioni rap dal vivo al Phat Roma, registra il suo primo pezzo “Tufello talenti” e non smette più. Trasforma uno scenario metropolitano in un fantasy: un’alchimia di allegorie, rimandi letterari, immagini dei fumetti per far vivere altre storie.

Tra gironi danteschi, personaggi alla Calvino, descrizioni alla Tolkien, attingendo ai suoi vissuti d’infanzia prima, a quelli più arrabbiati di adolescente, poi, decise di chiamarsi “Rancore”, all’anagrafe Tarek Iurcich. Più di un anno e mezzo fa esce il suo quarto album di inediti, Musica per bambini e inizia il tour omonimo; a Sanremo in coppia con Silvestri arriva la notorietà, ma lui è già tra i rapper più interessanti dell’ultima generazione. e Tarek/Rancore si appresta a concludere questo nutrito tour proprio a Roma, casa sua. Il 12 ottobre sarà al Maxxi perché è lì che ha deciso di dar vita a uno show sonoro, ma anche spettacolo teatrale, per i dieci inediti che formano il suo ultimo lavoro e per quelli precedenti. Alla vigilia di questa data importante, parliamo del suo rap, che lui stesso definisce ermetico.

Sei ancora arrabbiato, visto che hai mantenuto lo stesso pseudonimo?
Lo porto da quando ero molto pischello, crescendo ha assunto significati completamente diversi. Prima volevo rappresentare la rabbia adolescenziale in una parola che fosse potente, andando avanti mi sono accorto che la vita ti porta ad approfondire tutti i sentimenti, anche quelli negativi. Il rancore certamente non è una cosa che mi piace, ma la musica può essere un buon modo per esorcizzare i sentimenti negativi.

Pensando al titolo dell’album, ai pezzi che ci sono dentro, che sono una sorta di storytelling, quando, e come, dai “Giocattoli”, per citare uno dei brani più suggestivi, sei passato a fare musica?
A 13 anni e nel giro di un paio di anni ho scritto il primo disco. Ho preso i giochi abbastanza seriamente e ho iniziato presto a giocare anche con le parole. Ho voluto tirare fuori dalle parole qualcosa di concreto anche se era prematuro farlo. Avevo questa esigenza di fare un disco, di vedere che cosa accadesse quando quella parola, quel gioco diventava di tutti. Ho sempre amato i giochi più complessi, ho cercato sempre di creare qualcosa. Un’altra passione che mi ha accompagnato fino ad adesso è stato lo skate-board. Vedo molta somiglianza tra l’uso della metrica e quello dello skate.

Sempre a proposito di ragazzini, a loro il rap piace molto, ha un linguaggio che apprezzano; il rap accomuna e fa stare insieme. Che cosa li appassiona in particolare?
Il fatto che si può fare con pochi mezzi, non serve neanche uno studio di registrazione o saper suonare qualcosa. Questo lo rende come il calcio: se prendiamo un foglio di carta e facciamo una palla, possiamo divertirci, come si fa a scuola. L’hip hop nasce da un dj, dall’uso del giradischi in modo diverso dal tradizionale ma usandolo con lo “scratch”.

Ne è uscito fuori un modo, un suono, un approccio alle cose completamente diverso, che si basa sul sapersi arrangiare ed è questo che piace ai ragazzi probabilmente, che gli permette di ritrovarcisi e comunicare quello che provano senza grossa preparazione. È un linguaggio immediato, di cuore. Questa è la comunicazione che piace solitamente all’adolescente, che è sincero.

Nei tuoi brani hai una narrazione serrata, ma dichiari di non usare “rime contro”, ma che i versi che scegli ti servono per parlare della solitudine, dell’alienazione, della incomunicabilità. Quali sono le cause di tutto questo disagio? Viviamo in un momento social, ma anche di alienazione: dove possiamo andare a trovare le cause?
Questo disco parla a tutti, non solo agli adolescenti. Ognuno ha un suo motivo per soffrire: i bambini perché vedono nei genitori delle difficoltà, i genitori perché non riescono a stare appresso ai cambiamenti del virtuale, o a quelli politici, mondiali che non li rendono tranquilli, mettendoli continuamente alla prova.

Gli adolescenti stanno in mezzo: hanno la responsabilità di essere figli di questo cambiamento, ma allo stesso tempo hanno gli stessi problemi di prima, a iniziare dal mondo che per loro è ancora inspiegabile o dal fatto che hanno troppe regole, che sono incomprensibili e che loro vogliono, e devono secondo me, rompere. I genitori, vivendo anche loro una crisi, non hanno i mezzi per far capire a un adolescente le ragioni per cui ci sono certe regole. Da qui nasce questa incomunicabilità. È solo un periodo, passerà nel momento in cui avremo un’educazione, per esempio al virtuale.

In che senso possiamo parlare di un’educazione al virtuale?
Semplicemente, dando una filosofia di base alla cosa, che non c’è. Ci hanno messo una pistola in mano senza dirci niente ed è scoppiato il far west, anzi “ci spariamo” foto, ma le pistole si possono dare insegnando a usarle: solo in caso di difesa oppure spiegando che non vanno usate per giocare.

Tu hai un’idea, invece, di come ne potremmo venire fuori?
No perché anche io vivo la stessa crisi che ho la fortuna di poter esplicitare, questo in parte mi riordina un po’ le idee. La soluzione intanto è mettere più creatività possibile nelle cose e non farsi rubare la creatività perché in parte quello che fa il virtuale è rubare qualcosa.

Il tuo modo di esplicitare, lo hai detto tu, è un rap ermetico, che però non è mera poesia: ce lo spieghi?
Ogni frase che dico porta con sé un ventaglio di significati da cui ogni volta può apparirne uno nuovo. Questo mi piace fare con la musica; sono un appassionato di questo tipo di linguaggio, che è una sorta di grande rompicapo.

In “Arlecchino” questa ricchezza di significati c’è, ma chi è esattamente?

È la canzone stessa che è un arlecchino perché in ogni frase che dico cito una cosa diversa: nella prima strofa i fumetti, nella seconda la letteratura, nella terza i quadri. Ho costruito e cucito un costume che metto raccontando alcune piccole cose di me attraverso citazioni e immagini che ho scelto.

 Rancore si è trasformato, ma ci devi fare i conti, un po’ come tutti; quanto a Tarek, qual è il significato del tuo vero nome?
La strada da fare… o una cosa del genere.

Spara e in più ricatta

epa07909607 Turkish President Recep Tayyip Erdogan addresses provincial chairmans of ruling Justice and Development Party (AKP) in Ankara, Turkey 10 October 2019. Turkey has launched an offensive targeting Kurdish forces in north-eastern Syria, days after the US withdrew troops from the area. EPA/STR

Forte questa Europa e questa Nato e questa comunità internazionale (qualsiasi cosa voglia dire) che apre le porte allo sterminio dei curdi. Forte Trump che dichiara sconfitto l’Isis anche se il Pentagono dice che non è vero. Forte che ora tutti condannino, succede sempre così: questo condanna, quello condanna, quelli scrivono su carta bollata che è tutto inaccettabile e così via. E chissà Erdogan come se la fa sotto, con le condanne formali.

Una cosa è certa: in Turchia definire l’attacco alle aree curde per quello che è costa tantissimo, da quelle parti non essere d’accordo con il potere lo chiamano terrorismo e diventa facile redimere i rivoltosi con il carcere e con la censura. Chissà che qualcuno non rifletta sulla lezione.

Ma l’aspetto politicamente tragico della vicenda (quello umano è e sarà sotto i proiettili e le bombe turche) sta tutto in questa Europa che è riuscita a mettersi praticamente in mano a un despota credendo di poterlo normalizzare e invece continuando a pagare pegno. E infatti è arrivato subito il ricatto: «Se l’Ue ci accuserà di “occupazione” della Siria e ostacolerà la nostra “operazione” militare, apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi» ha detto Erdogan.

Così si capisce esattamente cosa si rischi nell’affidare a Paesi illiberali e antidemocratici la gestione di fenomeni complessi illudendosi di poter nascondere la polvere ai confini dell’impero: vale per la Turchia, vale per la Libia, vale per tutti.

E chissà cosa dicono quelli che Erdogan ce lo propongono come modello politico da importare nel nostro Paese.

Intanto la gente muore. Lui spara e in più, non contento, ricatta.

Buon venerdì.

E ora, almeno lo ius culturae

ROME, ITALY - SEPTEMBER 11: Men and women march barefoot in solidarity with migrants as protesters call for a radical change in migration policies on September 11, 2015 in Rome,Italy. The event started from the center Baobab which houses hundreds of asylum seekers and was held simultaneously in about 60 Italian cities. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

«Non serve una discussione eterna, bastano un centinaio di giorni». Matteo Orfini, deputato ed ex presidente Pd, vede il traguardo vicino. Dopo anni di attesa e numerose giravolte del centrosinistra, torna a concretizzarsi la possibilità di riformare la legge sull’acquisizione della cittadinanza. I pentademocratici potrebbero aver trovato un punto di convergenza attorno all’idea di legare il passaporto alla frequentazione di un ciclo scolastico in Italia, rinunciando allo ius soli (che garantirebbe la cittadinanza alla nascita) a favore del cosiddetto ius culturae. Il dibattito su una possibile modifica alla legge attuale (la 91/1992) si è riaperto il 3 ottobre, quando alla commissione Affari costituzionali a Montecitorio è ripresa la discussione della proposta sottoscritta da Laura Boldrini (quando era esponente di Leu, ora Pd) sullo ius soli. Ma non si tratta dell’unico testo da esaminare sul tema. Depositati in Parlamento ci sono anche quello di Renata Polverini (Forza Italia) sullo ius culturae “puro” (che prevede, tra le altre cose, un esame delle conoscenze linguistiche e delle norme di base dell’ordinamento italiano) e quello a firma dello stesso Orfini. Un’ipotesi di mediazione, quest’ultima, che già ricevette il via libera alla Camera ad ottobre 2015, per poi arenarsi al Senato, a causa della timorosa inerzia del governo Gentiloni.

«Lo ius culturae si può approvare in tempi rapidissimi», spiega Orfini a Left. «Siamo arrivati al punto di decidere se vogliamo davvero cambiare la legge del 1992 o meno». Una norma antiquata, che lascia appeso ad un filo il futuro di circa un milione di bambini e ragazzi. Nati in Italia o arrivati qui da piccoli, nel nostro Paese hanno studiato, stretto legami, maturato affetti, ma per l’anagrafe restano stranieri. Parlano l’italiano meglio di molti leghisti e spesso non saprebbero nemmeno salutare nella lingua natia dei loro genitori. Ma questo, per la burocrazia, è solo un dettaglio. Così, per questi giovani anche fare una gita all’estero è un’odissea, mentre la perdita del lavoro del padre o della madre può voler dire la fine della loro esperienza di vita nella Penisola.

«Parliamo di italiani che hanno diritto ad essere riconosciuti come tali» prosegue Orfini, e a chi sostiene che la pancia del Paese non digerirebbe una riforma del genere, il deputato risponde citando un recente sondaggio Ixè: «Secondo le ultime rilevazioni, il 62% degli italiani è favorevole allo ius culturae. Non è vero che sarebbe una norma impopolare, perché interesserebbe persone che le famiglie conoscono, ossia i bambini che vanno a scuola con i nostri figli, che giocano con loro».

Ciò nonostante, Fratell…

L’articolo di Leonardo Filippi e Alessia Gasparini prosegue su Left in edicola dall’11 ottobre 2019

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Sulla pelle dei curdi

Per i curdi – i loro leader – vale il detto: “la storia serve a perfezionare gli errori”. Sempre traditi dall’alleato di turno. Dalla Repubblica di Ararat (ottobre 1927 – settembre 1930), quando vennero traditi dai turchi che li hanno usati per massacrare gli armeni, all’effimera Repubblica di Mahabad (22/01/1946 – 15/12/1946) quando vennero traditi dai sovietici, al trattato firmato dal leader curdo Mustapha Barazani con il presidente iracheno Saddam Hussein nel 1970, alle promesse di Rifondazione comunista al leader del PKK Abdullah Ocalan di un asilo politico in Italia nel 1998, promesse tradite dal governo D’Alema che convinse lo stesso Ocalan ad andare in Kenya: praticamente lo consegnò ai turchi, al recente tradimento nordamericano…. Sfiga? Ingenuità? Non lo so.

Ora, dopo questo tradimento nordamericano, si torna a parlare di curdi (e accessoriamente di Siria), di imminente invasione turca, di massacro di curdi (come se in Siria ci fossero solo curdi e non anche o soprattutto altri siriani), si pubblicano foto di donne – bionde – curde con i capelli al vento e il kalashnikov in mano, si torna a parlare della bellissima – con 20 “S” – esperienza del confederalismo democratico. Insomma tornano i curdi. Tornano solo per essere traditi un’altra volta.

Ma la Turchia intende davvero invadere il nord della Siria? O Lo ha già invaso tanto tempo fa?

Nel 1998, il presidente siriano Hafez El Assad aveva già concesso una zona di sicurezza larga 30 chilometri all’esercito turco per perseguire i ribelli del PKK (un altro tradimento perché H. El Assad era ufficialmente amico dei curdi). Questo accordo si basava sul Misaq Melli (o patto nazionale) approvato dal parlamento ottomano nel 1920…

Già. Ora invece, a livello militare, 200 gruppi militari a Idlib, Jarabulus e Afrin hanno deciso di unirsi per formare un esercito chiamato “Esercito nazionale” (100 mila combattenti) sotto la guida del generale Salim Idris, ex capo dell’Esercito Libero Siriano. Idris ha rapporti eccellenti con il Pentagono. La riunione dei capi di questi gruppi si è tenuta nella città turca di Sanliurfa (O Urfa). Già la Turchia aveva costituito, armato e finanziato un corpo di polizia locale in quelle città. Inoltre, l’agenzia turca Anadolu ha pubblicato ieri le foto di addestramenti militari, per prepararsi ad affiancare l’esercito turco, dei battaglioni Hamza e Suleiman Shah, dell’Esercito Libero Siriano, a Afrin. Il giornale turco, vicino al partito di Erdogan, Yeni Safak dice che questo esercito unificato sarà il referente della Turchia in zona.

Ma è a livello culturale e sociale che la Turchia sta facendo un grande lavoro. L’università turca di Gaziantep ha aperto recentemente tre facoltà in Siria (nella zona frontaliera): la facoltà di studi amministrativi e economici a El Bab, la facoltà di scienze islamiche a Azaz e la facoltà di pedagogia a Afrin per un totale di 2900 studenti.

Le Poste turche avevano da tempo aperto filiali a Afrin, Jarabulus, Azaz, Ciuban Bek, El Bab e Mari’ ed è già da tempo che la Turchia sta popolando quelle zone con turkmeni e arabi filo turchi.

Nel suo discorso di apertura dell’anno legislativo del parlamento turco, Rejep Tayyip Erdogan ha dichiarato: “E’ tempo per i rifugiati siriani di tornare a casa. Una zona di sicurezza di 30 Km in territorio siriano sarà posta sotto la responsabilità dell’esercito [turco]. Sistemeremo 1 milione di persone in 50 nuove città di 30mila abitanti e in 140 villaggi di 5mila abitanti ciascuno”. Questa sistemazione si farà lungo tutta la frontiera turco-siriana. Così nessun curdo potrà più pensare a uno stato indipendente in quella zona.

Questo progetto trova tutti d’accordo: gli iraniani risolvono il loro problema con i loro curdi, i russi potranno finalmente scrivere la nuova costituzione per la Siria, questa volta per una sorta di “confederazione culturale” e non più su base amministrativa come era nella prima bozza osteggiata in Siria da varie forze politiche, gli americani che delegano così tutto alla Turchia e al nuovo comandante del nuovo “esercito nazionale” sotto la guida del loro alleato Salim Idris, L’Europa che risolve così il problema rifugiati. I grandi perdenti come sempre: i curdi. Fra qualche settimana o qualche mese sentiremo parlare di ricostruzione della Siria. Ovvero le 30 nuove città e 140 villaggi di Erdogan….

(Nella foto cartello a Idlib – Siria – con scritto – più o meno -: Vaffanculo la democrazia. Vostri fratelli jihadisti)

Quel pericoloso gergo dell’autenticità

La Lega lancia una crociata in difesa del tortellino e del crocifisso. Sarebbero simboli preclari dell’identità italiana secondo gli ex adoratori di Odino e castigatori di Roma ladrona ora diventati nazionalisti, predicatori di paranoiche teorie sulla sostituzione etnica e professionisti dell’odio razziale. L’harakiri politico di Matteo Salvini, la tenuta democratica del Parlamento e le proteste diffuse dei movimenti antirazzisti hanno fatto sì che il ministero più delicato, il Viminale, per nostra fortuna, non sia più nelle mani del capo leghista. In attesa che il governo Conte Due smonti i due decreti sicurezza (o almeno, come promesso, recepisca i rilievi del presidente della Repubblica Mattarella) auspichiamo che si apra una nuova stagione di affermazione dei diritti.

Si faccia una legge moderna sul fine vita, dopo la storica sentenza della Corte costituzionale sul caso di Dj Fabo. Si faccia una legge sulla cittadinanza, finalmente riconoscendo il diritto di quasi un milione di cittadini italiani che ne sono privi. Left ha sempre sostenuto la battaglia per una legge sullo ius soli, irresponsabilmente lasciata cadere nel nulla dal centrosinistra a fine 2017, complici i grillini quando era premier Gentiloni. Ora entrambe le formazioni politiche, insieme al governo, hanno l’occasione per fare autocritica e cambiare rotta, sostenendo quanto meno un primo, seppur timido, provvedimento come lo ius culturae, che lega al completamento di un ciclo di studi l’acquisizione della cittadinanza da parte dei bambini nati in Italia da genitori stranieri.

Cosa voglia dire, in concreto, nella vita di tutti i giorni, essere nati qui, vivere qui, senza veder riconosciuto il proprio diritto di cittadinanza, in questo sfoglio, lo racconta bene, in prima persona, Eric Gad, tratteggiando una condizione che assomiglia in modo doloroso all’apolidia. Cosa significhi ritrovarsi apolidi, diventando invisibili, subendo un violento tentativo di annullamento della propria identità e della propria storia lo racconta in modo toccante Luis Sepúlveda in questo numero di Left che dedica uno speciale alle elezioni in Uruguay e a Pepe Mujica di cui lo scrittore cileno è da sempre amico e sodale.

«Essere apolide è una delle peggiori situazioni in cui si può trovare una persona. Sei invisibile, non hai nessun diritto, sei l’ultimo della fila. È una condizione difficile da sopportare emotivamente, provoca dolore, ma quando uno sa perché si trova in quella situazione, allora la condizione di apolide non riesce a schiacciarti», dice lo scrittore che in Cile fu torturato ed esiliato per la sua opposizione al regime di Pinochet (si è visto restituire il passaporto solo in anni recenti). Anche a partire dalle sue parole ci interroghiamo su cosa significhi “cittadinanza”. È davvero una questione di identità? Come è dimostrato dalla scienza, l’identità si acquisisce alla nascita; nascita che è uguale per tutti gli esseri umani sia che nascano in Cina, in America, in Africa o in qualunque altra parte del globo. Per cui fin dalla nascita siamo tutti cittadini del mondo.

Parla di uguaglianza l’articolo 3 della nostra Costituzione, che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Fra questi ci sono i tanti ostacoli che incontrano i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri. Non possiamo restare sordi alla loro richiesta di pieno riconoscimento. In questa storia di copertina tante voci di parlamentari e di politici appartenenti a differenti schieramenti, con accenti diversi, formano un coro di sì allo ius culturae, non come progetto assimilazionista, ma come apertura e riconoscimento delle tante culture diverse che animano la Penisola, dove da sempre si sono incontrate, mescolate e ibridate tradizioni, arti, costumi, visioni, lingue differenti. Lo racconta la storia multietnica e meticcia di un’Italia dai tanti volti regionali e locali.

Lo racconta anche il mito fondativo di Roma come scrive su Left il filologo e studioso del mondo antico Maurizio Bettini, (autore per Il Mulino di Contro le radici) raccontando della Città eterna come città dell’asylum, nata mescolando zolle di terra che Romolo aveva fatto appositamente venire da territori differenti. Una storia, quella delle origini multiculturali del Bel Paese, che neo nazionalisti di destra e rossobruni cercano di negare propalando messaggi xenofobi, pretendendo la chiusura dei porti, alzando barriere, cercando di imporre politiche di esclusione e ideologie fondamentaliste basate sul mito dell’origine pura e su quello che Adorno stigmatizzava come pericoloso gergo dell’autenticità, denunciando la violenza dell’identità basata sul sangue e della stirpe, che fu teorizzata da Heidegger e adottata dal nazismo.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dall’11 ottobre 2019

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Resistenza è vita. La lunga lotta curda alle aggressioni di Erdogan (e alle pugnalate di Trump)

«Non ci hanno aiutato durante la Seconda guerra mondiale. Non ci hanno aiutato in Normandia, per esempio». A tanto sono arrivate le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per tentare di giustificare il ritiro delle truppe Usa dalle posizioni nel Nord-Est della Siria, dove collaboravano con l’Sdf, le Forze democratiche siriane a guida curda che controllano l’area del Rojava. L’ultimo attacco, intriso delle ambiguità solite alla politica di Trump, arriva come sempre via Twitter. The Donald ribadisce: «La Turchia voleva già da tempo attaccare i curdi, la colpa non è degli Usa, anzi l’America sta provando a terminare un conflitto senza fine». E aggiunge la minaccia di sanzionare Ankara se «non gioca secondo le regole».

 

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1182286414353981440

 

Dopo il passo indietro statunitense, la Turchia ha avviato l’operazione «Fonte di pace», come è stata chiamata in modo brutalmente irrisorio dal presidente Erdogan, contro le forze curde in Rojava. Si tratta della terza missione turca di questo tipo in Siria dal 2016, dopo “Scudo dell’Eufrate” e “Ramoscello d’ulivo”.

Ankara ha dichiarato di aver colpito 181 postazioni di “terroristi”, intendendo appartenenti al Pkk, il contingente paramilitare del Partito dei lavoratori del Kurdistan di Abdullah Ocalan, acerrimo nemico di Erdoğan. L’artiglieria e l’aviazione turche hanno colpito obiettivi delle forze di difesa curde a Tal Abyad, Ras al Ayn, Ain Issa, Mishrefa e altri centri abitati. Le Forze democratiche siriane hanno denunciato l’uccisione di 8 civili dall’inizio del conflitto, mentre il ministro della Difesa turco ha tentato di minimizzare con una nota, dove si dichiara che l’esercito di Ankara avrebbe preso di mira solo «rifugi, ripari, postazioni, armi, mezzi ed equipaggiamenti che appartengono a terroristi del Pkk/Pyd-Ypg (le forze legate ai partiti curdi, quello turco e quello siriano) e di Daesh (ossia l’Isis)».

 

È già la seconda pugnalata che Donald Trump lancia ai curdi della Siria: lo scorso 21 dicembre aveva annunciato che le truppe statunitensi avrebbero lasciato l’area, causando non pochi danni. Se è vero infatti che il Rojava è un modello riuscito di governo dei sette cantoni che la compongono – cioè Manbij, Afrin, Raqqa, Jazeera, Tabqa, Deir al-Zour e Eufrate, che include la città di Kobane – la regione non è ancora in grado di fronteggiare da sola le continue minacce provenienti sia dai miliziani dell’Isis, sia dalla Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan e dalla Siria di Bashar al Assad. È proprio in seguito a una telefonata con Erdoğan che è comparso su Twitter l’annuncio di Donald Trump di abbandonare i suoi alleati curdi.

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1181172465772482563

Il presidente turco in realtà non ha fatto altro che dimostrare la sua debolezza, attaccando le forze curde. Come fa notare The Guardian, la guerra contro il Pkk è l’unica cosa che fa mantenere al presidente l’illusione di avere ancora potere, visto che alle ultime elezioni fu proprio il partito curdo a vincere (elezioni dichiarate poi non valide e ripetute, con un esito prevedibilmente opposto). La guerra tra Ankara e il Pkk turco va avanti da otto anni, quando i curdi hanno iniziato ad avanzare richieste di una maggiore autonomia rispetto al governo centrale. Ma gli attacchi turchi alle basi del Pkk nel nord dell’Iraq risalgono addirittura agli anni 90.

La riuscita di un modello curdo di democrazia come quello del Rojava spaventa Erdoğan perché si contrappone a quella che Giovanni Russo Spena, sulle pagine di Left, ha definito «democratura» riferendosi alle derive più che autoritarie di Ankara. A fare paura è anche la forte presenza femminile: nel popolo curdo le donne occupano un ruolo importantissimo non solo nella gestione dei piccoli conflitti interni, di cui sono le uniche “giudici” nella regione del Rojava, ma anche nella guerra contro Daesh: il Ypj è un contingente del Ypg esclusivamente formato da donne.

Che siano questi modelli di parità di genere e di democrazia confederale a spaventare non solo Erdoğan, ma anche l’America machista di Donald Trump? Le forze curde dell’Ypg e dell’Sdf – lo ricordiamo – avevano compiuto una missione che sembrava impossibile: ricacciare indietro l’Isis e arginare così il rischio enorme che una forza potente come Daesh rappresentava (e rappresenta) per il mondo intero, non solo per il Medioriente. Così, a dicembre, il presidente Usa aveva dichiarato che ormai la lotta all’Isis era terminata. Sono di diverso avviso i curdi, che nonostante riconoscano che Daesh è fortemente indebolita, non concordano nel definirla debellata. Nei campi profughi del Rojava sono presenti numerosi ex combattenti jihadisti con le loro famiglie, detenuti in attesa di giudizio (che ancora non è chiaro da chi dovrà provenire). Destabilizzare militarmente la zona significherebbe mettere a rischio la custodia dei miliziani dell’Isis, per non parlare di tutte le cellule dormienti che l’Ypg e l’Sdf tengono costantemente sotto controllo.

A poco o nulla sono servite le minacce di Trump, sempre via Twitter, di applicare severe sanzioni alla Turchia nel caso in cui dovesse «fare qualcosa che io, nella mia impareggiabile saggezza, considerassi oltre i limiti». Ancora meno convincente è la notizia secondo cui due pericolosi miliziani di origine britannica, soprannominati «The Beatles», sono stati prelevati dalla zona dalle forze Usa e trasferiti in un luogo sicuro.

Come hanno ricordato le forze di difesa curde, la decisione di Trump «sicuramente costerà la vita a militari che hanno combattuto al fianco dei soldati statunitensi per debellare l’Isis».

Nel frattempo, Erdoğan ha tentato di giustificare l’operazione militare affermando che «Fonte di pace» servirebbe ad eliminare minacce terroristiche e a riportare a casa propria i profughi siriani attualmente ospitati nella zona del Rojava. Una promessa impossibile da mantenere, visto che per la maggior parte quei territori sono ormai completamente distrutti. «La nostra missione – ha detto in un tweet – è quella di prevenire la creazione di un corridoio del terrore lungo il confine sud (della Turchia), e portare la pace in quell’area».

Mentre al Congresso statunitense si discute della legittimità della decisione di Donald Trump, provando a trovare misure di contenimento verso Ankara, e l’Unione europea rimane inerte sotto la minaccia di Erdoğan di «aprire i cancelli e spedire» in Europa i 3,6 milioni di rifugiati attualmente “ospitati” entro i confini turchi, i curdi denunciano come la guerra contro la Turchia sia un conflitto asimmetrico: militari indipendenti contro l’esercito di uno Stato alleato della Nato. «È evidente come non ci sia alcuna volontà internazionale da parte delle forze internazionali di porre fine alla crisi siriana. Le minacce turche significano che la situazione in quest’area ritornerà al punto zero, al chaos», ha dichiarato al Guardian il portavoce del Consiglio democratico siriano, Amjed Osman.

«La Resistenza è vita», recita un motto curdo siriano, una frase che non è mai stata così attuale come in questi giorni. Il 21 marzo di quest’anno, l’Isis è stata dichiarata sconfitta. Il Rojava è un modello di democrazia nell’intera area. Sarebbe il momento, per l’Occidente, di riconoscere ai curdi la grandezza del gesto che hanno compiuto, invece di continuare ad abbandonarli nella tana del lupo.