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Il potere e il futuro del settimo continente

Paul Butler – Facebook ‘Map Of The World’ Created Using Friendship Connections (2010)

Circa trent’anni anni or sono c’è stato il momento in cui i bit dei computer (all’epoca pochissimi e ingombrantissimi) furono connessi in primordiali gangli informatici. Erano i primi vagiti di una rete che andava a costituirsi e che, in pochi anni, avrebbe sovrapposto la sua presenza a quella del reale composto da atomi. Quella struttura si andava creando con uno sviluppo esponenziale, fornendo territori nuovi, aggiuntivi, disintermediati, aperti a tutte le forme di relazione che le persone erano in grado di individuare come possibili. Sembrò, per un attimo, di poter rompere le catene delle forme che costituivano il potere nel mondo degli atomi, per donare all’umanità la possibilità di descrivere e concretizzare nuove forme di relazione e di potere.

Quello che fu chiamato allora “il settimo continente” sembrava promettere gradi di libertà più alti, sia in termini di produzione e di consumo, sia in termini di modelli di partecipazione, sia in termini di uguaglianza, di autorevolezza, di cooperazione, di connessione. Una diversa forma di relazione tra il sé e l’altro da sé si dischiudeva e gli orizzonti sembrarono esplodere in avanti lasciando aperti territori inesplorati del fare, del conoscere, del relazionarsi. Era una rottura che sotto mille aspetti alludeva all’emersione di un possibile nuovo mondo ancora tutto da plasmare.

Le persone che credettero a tale possibilità furono tacciate di tecno-ottimismo sia da quegli schieramenti di potere che avevano tutto da perdere, assetti sociali ed economici che preesistevano a quel continente inaspettato che emergeva, sia dai gruppi dirigenti delle associazioni sociali e politiche delle classi sociali subalterne che, con mille difficoltà nei decenni precedenti, avevano strappato qualche certezza sociale, qualche diritto e un certo livello di consumo per le masse dei lavoratori dipendenti. Gli stessi establishment culturali, inoltre, negavano la qualità nuova di ciò che stava accadendo sotto i loro piedi, spesso rivendicando la loro ignoranza sul nuovo che avanzava, con un rifiuto esplicitato tanto categorico quanto inconcludente. Il nuovo metteva in discussione non solo le loro teorie sociali, culturali, politiche, e la stessa configurazione dell’umano e della sua società, ma soprattutto le loro leadership individuali raggiunte in quella società.

I rappresentanti dei vecchi poteri non riuscivano a vedere il nuovo che si stava imponendo ma i tecno-ottimisti si illusero che…

L’articolo di Sergio Bellucci prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 2019

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Cesare Lombroso e il cuore di tenebra

Il nesso esistente fra fotografia e ricerca scientifica sul finire del XIX secolo è il tema portante della mostra I mille volti di Lombroso in corso al Museo Nazionale del Cinema di Torino. L’esposizione presenta per la prima volta una selezione di 305 fotografie (ma anche disegni, manoscritti, strumenti scientifici sculture, calchi in cera) tratte dall’Archivio del Museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso”, e abbraccia tutti i temi che furono oggetto dell’indagine lombrosiana dagli studi sui malati psichiatrici e sul genio, sull’atavismo, sul brigantaggio e il delitto politico, sul rapporto fra criminologia e razzismo con particolare attenzione per la donna delinquente.

Lo scienziato piemontese, giovanissimo, aveva individuato ancor prima della diffusione delle teorie darwiniane in Italia un comune substrato dello sviluppo umano, riprendendo concezioni che erano state di Gianbattista Vico e di Vincenzo Cuoco: la civilizzazione si sarebbe sovrapposta, senza estinguerli, ai primitivi caratteri dell’umanità suscettibili di riaffiorare sia nella società che nel singolo individuo.

Questa idea della persistenza dell’antico nella realtà attuale diventerà poi la teoria dell’atavismo utilizzata per spiegare le caratteristiche antropologiche dell’uomo delinquente. La riproduzione nel delinquente di caratteri ancestrali avrebbe consentito di individuare l’esistenza di analogie fra delinquenti, selvaggi, pazzi e razze preistoriche (ominidi e specie umane estinte). I soggetti che presentavano il persistere di forme somatiche ancestrali avrebbero subito un arresto di sviluppo a stadi evolutivi passati: l’idea che la dissoluzione della delicata compagine psichica formatasi nel corso dello sviluppo riconducesse a condizioni psico antropologiche arcaiche sembrava la logica conseguenza dell’evoluzione e dei suoi principi. Questi ultimi sarebbero stati riassumibili nella celeberrima legge…

L’articolo di Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 

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Evgenij Morozov: Il dominio della Silicon Valley non è invincibile

Tra gli esperti più acuti nel decifrare le logiche che si dispiegano dietro ai nuovi media e ad Internet per come lo conosciamo, il politologo e sociologo bielorusso Evgenij Morozov viene spesso additato nel panorama internazionale come principale critico del «tecno-utopismo». Ma le argomentazioni che emergono dalle sue opere non sono certo figlie di un pessimismo apocalittico. Anzi. Nelle sue analisi – come in Silicon Valley: i signori del silicio (Codice edizioni, 2016) – traspare una profonda consapevolezza delle dinamiche attraverso le quali Paesi e corporation del digitale hanno letteralmente plasmato la rete a proprio uso e consumo. Mettendo il profitto sopra ogni cosa, e facendoci allontanare a grandi passi dall’utopia di internet come luogo di crescita culturale e di libero scambio. Basti pensare al tema della monetizzazione dei nostri dati personali, della minaccia alla sovranità monetaria nazionale rappresentata da Libra, la valuta di Facebook, ma anche dei monopoli digitali e del business della sorveglianza. A fronte di queste minacce, Morozov ha le idee chiare su come poterci difendere. E su come farlo da sinistra.

Professor Morozov, nelle sue opere sostiene che le piattaforme digitali rappresentano una minaccia per le nostre democrazie. Ma nel senso comune AirBnb, Uber, Facebook ecc. continuano ad essere visti come strumenti innocui che risolvono problemi complessi e facilitano la nostra vita. Come rendere evidenti i pericoli dello strapotere di Big tech, senza passare per luddisti?
Il discorso sul loro impatto si deve spostare da un livello esclusivamente individuale – come queste piattaforme ci influenzano in quanto consumatori, come intaccano la nostra privacy, e così via – per concentrarsi di più sugli effetti che provocano sulle nostre democrazie, sull’economia e sulle disuguaglianze. Ciò che manca è un’adeguata lettura teorica e politica della Silicon Valley come parte integrante del capitalismo contemporaneo. Si continuano a presentare queste imprese come se avessero a cuore prima di tutto il bene dell’umanità. Tale situazione necessita un cambiamento, che richiederebbe una migliore comprensione dell’attrattiva ideologica delle promesse fatte dalla Silicon Valley e dai suoi difensori.

Di fronte alla sfida dell’Internet of things – che aumenterà in modo esponenziale la quantità di nostri dati in mano alle aziende “della Silicon Valley” – qualcuno dice che la soluzione per tutelare la nostra privacy e la democrazia sia riformare questa forma di capitalismo, rompendo il monopolio in mano a poche aziende tecnologiche. Una soluzione che lei ha criticato, perché non esce da un’ottica neoliberale. Che fare allora?
Dovremmo ricorrere con ogni mezzo alla potenza della…

L’intervista di Leonardo Filippi a Evgenij Morozov prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 

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Deep fake: chi ci difende dalle manipolazioni digitali?

Molti di noi ne hanno scoperto l’esistenza “grazie” a Striscia la notizia che, qualche settimana fa, ha trasmesso un video che mostrava un fuorionda in cui Matteo Renzi – appena dopo la sua decisione di lasciare il Pd per fondare Italia Viva – si lasciava andare a gesti offensivi nei confronti di esponenti del suo ex partito e del governo Conte. O, almeno, nel video trasmesso come fuorionda sembrava che Matteo Renzi lo facesse. In realtà si trattava di un deep fake, cioè un video realizzato utilizzando l’intelligenza artificiale che ha sovrapposto al corpo di un imitatore il volto di Renzi, facendo in modo che sembrasse davvero lui il soggetto ritratto.

Il Tg diretto da Antonio Ricci si è affrettato ad affermare che si trattava unicamente di satira, ma sicuramente il deep fake è un fenomeno di cui sentiremo parlare sempre più spesso. E non sarà affatto divertente. La tecnologia che sta dietro ai video deep fake sta diventando sempre più sofisticata, e distinguere un video vero da uno falso potrà risultare progressivamente complicato, con pesantissime implicazioni per il mondo dell’informazione, per il dibattito democratico e per la vita di tutti noi.

Nel prossimo futuro, chiunque potrà creare deep fake con semplicità, puntando ad ingannare tutti ma soprattutto le persone più anziane con meno dimestichezza con la tecnologia. I primi timori, legati soprattutto alla campagna presidenziale Usa che si terrà il prossimo anno, sono…

L’articolo di Ernesto Belisario prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 

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Ece Temelkuran: La guerra di Erdoğan al libero pensiero

LONDON, ENGLAND - FEBRUARY 13: Turkish novelist, journalist and political commentator Ece Temelkuran talks about and signs copies of her book "How to Lose a Country" at Foyles book store on February 13, 2019 in London, England. (Photo by John Keeble/Getty Images)

Erdoğan, Trump, Putin, Assad. Kaczyński, Orbán, Salvini… Il populismo di destra è un’onda nera «che non riguarda solo redivivi sultani mediorientali ma sta intossicando l’Occidente perché è il frutto mostruoso di politiche neoliberiste» scrive Ece Temelkuran, autrice di un saggio che è diventato rapidamente un caso editoriale, Come sfasciare un paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura (Bollati Boringhieri).

«Il populismo sta dando il colpo di grazia alla democrazia rappresentativa. Ho scritto questo libro perché volevo stimolare una conversazione al livello globale per prendere coscienza di questi meccanismi politici», disse Temelkuran al Salone del libro di Torino 2019 (in una affascinante conversazione con Donald Sassoon di cui si può rivedere il video) e ha sviluppato poi quest’intento chiamando all’appello intellettuali democratici e progressisti in tutto il mondo.

Licenziata in tronco nel 2012 dal giornale per cui lavorava per aver criticato operazioni militari turche contro i curdi, durante questi ultimi anni trascorsi in esilio in Croazia, Temelkuran ha riflettuto a fondo sul progressivo scivolamento del Paese in un regime autoritario, avvenuto passo dopo passo. Per anni l’Occidente ha osannato la crescita economica della Turchia di Erdoğan. Dopo l’11 settembre 2001 fu celebrato come paladino anti terrorismo islamico, mentre si fingeva di non vedere la repressione interna che stava mettendo in atto. Solo la protesta di Gezi park fece sollevare qualche dubbio. Ma ancora in Italia i campioni del liberismo si battevano per far entrare in Europa la Turchia di Erdoğan. Poco importa che le sue prigioni fossero già piene di dissidenti. Poco importa se il suo regime viola i diritti umani. Poco importa il tentato golpe del 2016. E la sistematica censura esercitata sui media e sui social network.

«Di fronte a tutto questo non basta gridare allo scandalo e dire che non è giusto; bisogna studiare i meccanismi attraverso i quali il populisti riescono a imporsi avvelenando la democrazia», dice la giornalista, spina nel fianco del regime, diventata simbolo di resistenza intellettuale a livello internazionale. Non basta denunciare, bisogna trovare gli strumenti diplomatici e di pressione per fermare l’attacco turco ai curdi, aggiungiamo, pensando alla nostra responsabilità di europei che hanno pagato Erdoğan perché fermasse il flusso di migranti. Nell’offensiva detta operazione “Fonte di pace”, come sappiamo, i mezzi impiegati sono i più violenti: azioni di guerra contro i civili, come ha denunciato Amnesty international «con spietati attacchi anche contro aree abitate», utilizzando carri armati e armi che noi occidentali gli vendiamo. Ricorrendo ad ogni mezzo, anche il più feroce. Le ustioni sul corpo di civili (fra loro anche molti bambini) fanno sospettare l’uso di armi chimiche. «La propaganda turca sostiene che la guerra sia necessaria per creare delle aree cuscinetto nel nord della Siria, in cui rimandare i profughi siriani che vivono in Turchia», dice Temelkuran. Erdoğan “giustifica” così operazioni di sostituzione e di pulizia etnica.

Solo apparentemente meno cruento è l’uso che la leadership populista turca fa della comunicazione, alterando la realtà, manipolandola, costruendo narrazioni ad hoc. Abbiamo sotto gli occhi l’uso distorto che ne fa Trump o lo stesso Salvini con la sua ben nota “bestia”. Ancora oltre, però, si colloca la macchina da guerra della comunicazione del governo Erdoğan strutturata per produrre notizie false, per gettare fango su chi dissente, fino ad isolarlo e a distruggere la sua immagine pubblica e sociale. Ha fatto giustamente scalpore il caso del cestista Enes Kanter, che dopo un tweet contro il tentato golpe di Erdoğan fu privato del passaporto. Molti altri casi, purtroppo, non riescono a raggiungere la ribalta internazionale. Della macchina del fango ordita dal regime ha dolorosamente fatto esperienza Ece Temelkuran, fin dal 2012, quando «le molestie online non erano ancora all’ordine del giorno come lo sono oggi». Per difendersi da un massiccio attacco che le piombò addosso attraverso i social media denunciò la guerra che il governo – con i suoi eserciti di troll – aveva ingaggiato contro figure pubbliche dell’opposizione. La risposta più carina che ricevette fu «ma chi ti credi di essere». Poi una ridda di insulti. Fino ad essere additata come paranoica. Un gorgo da cui è difficile sottrarsi. Lo scherno e il sarcasmo bruciano. L’odio ferisce e spesso scatena delle azioni nella vita reale. Non basta non collegarsi online. «Con questo sistema quasi tutte le voci critiche e dell’opposizione sono state espulse dai media, attraverso un bombardamento sistematico compiuto dagli opinion maker populisti», ha scritto Ece Temelkuran che invita a leggere con preoccupazione anche quel che è avvenuto nella comunicazione pubblica in Italia durante il governo giallonero.

In Turchia, come da noi in Italia, per produrre un certo tipo di consenso, è stata utilizzata una narrazione alterata della realtà, che individua un capro espiatorio di comodo su cui indirizzare il malcontento della società. Il mezzo privilegiato è un linguaggio semplificato, “triviale”, per raggiungere l’uomo della strada, per segnare la distanza e il proprio disprezzo verso l’establishment, la cosiddetta élite, quella che nel linguaggio dei grillini della prima ora era la casta. «Così l’ignoranza esaltata e politicizzata si siede con orgoglio accanto ai membri dell’intero arco politico e si dedica all’impresa di dominare la società». Temelkuran descrive questo processo concretamente rievocando un episodio personale, ricordando quella volta che sua nonna le chiese a bruciapelo: «Adesso mi chiamano fascista, Ece?». Insegnante, donna, laica, per lunghi anni si era spesa per l’alfabetizzazione dei bambini nelle campagne. E d’un tratto tutto ciò veniva screditato e denigrato. Era una sera del 2005 e la nonna della scrittrice aveva appena ascoltato un dibattito in tv in cui esperti della comunicazione dell’Akp dicevano di essere stati esclusi di una élite intellettuale oppressiva, «fascista». Andava in scena così un drammatico ribaltamento della realtà, si faceva strada un «vittimismo artefatto» che additava la maggioranza laica. Si faceva strada sui media una «retorica dell’orgoglio nazionale» dell’identità religiosa da affermare con ogni mezzo, a scapito di chi la pensa diversamente. Erano i germi del nazionalismo religioso e imperialista che ora vediamo all’opera nel nord della Siria. 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Ece Temelkuran prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre 

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Morales vince le elezioni in Bolivia, ma le destre non ci stanno

Bolivian President Evo Morales speaks to supporters in Cochabamba, Bolivia, on October 24, 2019, after Sunday's election. - Bolivian President Evo Morales declared victory Thursday in elections whose disputed results have triggered riots, a general strike and opposition charges that he is trying to steal the election to secure a fourth straight term. (Photo by STR / AFP) (Photo by STR/AFP via Getty Images)

La Bolivia è nel caos. Le prime notizie ufficiali provenienti dal Gabinetto elettorale, riguardanti il voto per le presidenziali che si sono tenute domenica 20 ottobre, davano il Movimento al socialismo (Mas) di Evo Morales al 43%, avanti per meno di 10 punti sul partito Comunidad ciudadana (Cc) del centrista Carlos Mesa così decretando la necessità di una seconda tornata elettorale a dicembre. Tuttavia il Tribunal supremo electoral (Tse) nella giornata di lunedì ha operato un riconteggio delle schede fino ad allora scrutinate (circa l’84%), sospendendo per 24 ore le comunicazioni relative ai consueti aggiornamenti sullo stato dello spoglio. Nella nottata l’istituto ha infine inoltrato dati parziali differenti rispetto alle proiezioni del giorno prima, dando Evo Morales a poco più del 47% con un vantaggio di dieci punti sullo sfidante Mesa, scongiurando così l’eventualità di un ballottaggio e lanciando il presidente uscente sulla strada del suo quarto mandato. Carlos Mesa, presidente boliviano nel biennio 2003-2005 e incaricato di governo nelle recenti trattative internazionali per la “restituzione” dell’accesso al mare al Cile, non ha esitato a definire quanto accaduto nelle ultime ore una «vergognosa frode».

Alla notizia, in tutto il Paese le forze di opposizione al partito di maggioranza sono insorte in scontri violenti che hanno portato alla distruzione di diversi palazzi di governo e al ferimento di numerosi manifestanti. A La Paz, capitale amministrativa, il picco degli scontri si è registrato davanti all’hotel Radisson Plaza, luogo adibito a sede per lo scrutinio generale dei voti da parte del Tribunale elettorale. Negli scontri è stato duramente ferito anche il noto rettore della Umsa, una delle più importanti università locali, Aldo Albarracìn, il cui grido di denuncia contro i presunti brogli del presidente uscente Morales, tra rivoli di sangue ed un volto tumefatto, sta facendo il giro della rete.

Nelle ultime ore la stessa Organización de los Estados americanos (Oea), ente preposto al controllo della imparzialità e conformità ai parametri internazionali delle votazioni boliviane, ha espresso, per mezzo di un documento ufficiale inoltrato al gabinetto di governo, forti perplessità in merito alla trasparenza e legalità del procedimento di scrutinio delle schede elettorali eseguito dal Tse. Nel merito l’Oea ha contestato il malfunzionamento del procedimento di conteggio elettronico che per mezzo del sistema di Trasmissione dei risultati elettorali preliminari (Trep) avrebbe dovuto tenere aggiornata la popolazione sull’andamento dello spoglio. Il sistema, la cui regolarità di funzionamento era peraltro certificata da organi di vigilanza dell’Unione Europea, ha smesso di fornire dati per l’intera giornata di lunedì, tornando operante nella nottata con un risultato diverso rispetto alle ultime proiezioni, a favore del presidente uscente Morales.

Il Tse ha giustificato la sospensione degli aggiornamenti per mezzo del Trep con l’intenzione di evitare una sovrapposizione delle proiezioni provvisorie alle informazioni riguardanti i dati ufficiali che in quelle ore andavano delineandosi. La motivazione non è parsa coerente alla maggioranza dell’opposizione, che ha visto in questo vuoto il momento nevralgico in cui si sarebbero consumati brogli e frodi a favore del partito di governo. L’accusa è stata pienamente rigettata dagli esponenti del Mas, i quali hanno motivato l’inaspettata impennata a loro favore con il ritardo nello spoglio delle schede provenienti dall’area rurale, nel frattempo scrutinate, notoriamente schierata a favore del partito di sinistra.

Lo stesso presidente Morales, nella giornata di mercoledì 23 ottobre, ha convocato una conferenza stampa a reti unificate in cui ha accusato le migliaia di persone scese in piazza per protestare contro i presunti brogli di essere protagoniste di un «golpe architettato dalla destra sostenuta da forze straniere». Per queste ragioni il rappresentante del Movimento al Socialismo, autoproclamatosi vincitore nella prima tornata elettorale, ha dichiarato: «Voglio dire al popolo boliviano: stato d’emergenza e mobilitazione pacifica costituzionale per difendere la democrazia», auspicando appunto una risoluzione pacifica dei conflitti in atto.

Evo Morales Ayma, ex sindacalista del movimento cocalero, è alla guida della Bolivia da più di quattordici anni. Nel 2016 ha ignorato l’esito del referendum che ne chiedeva le dimissioni, e successivamente la Corte costituzionale ha emesso una sentenza che nella sostanza ne ammetteva la candidatura al quarto mandato nonostante il divieto costituzionale. Di estrazione socialista, ha condotto il Paese verso una nazionalizzazione della filiera produttiva, aprendo il mercato agli investimenti provenienti in primis da Russia e Cina. La sua riconferma rappresenterebbe una svolta chiave nel quadro politico del continente, già reso instabile dalle recenti proteste nate in Ecuador e Cile, che vanno ad aggiungersi alla tragica crisi umanitaria in atto in Venezuela. Nell’ultimo decennio infatti i colori politici della maggior parte degli Stati sudamericani sono cambiati a favore di una svolta sovranista di marcata ispirazione neoliberale (vedi Bolsonaro in Brasile e Macrì in Argentina). Venezuela e Bolivia rappresentano allo stato attuale gli ultimi baluardi di estrazione neosocialista all’interno del continente.

I livelli di allarme in tutto il Paese sono tra i più alti registrati negli ultimi decenni. In molti vedono in quanto sta accadendo in queste ore lo spettro della rivolta del 2002-2003 che aveva costretto alla fuga l’allora presidente filo-americano Sanchez de Lozada. I dati sull’esito delle elezioni non sono ancora ufficiali e la paura è che, se confermati quelli comunicati in via provvisoria dal Tse, la tensione di queste ore possa sfociare nei prossimi giorni in un vero conflitto civile.

A La Paz sin dalla giornata di lunedì 21 ottobre ci sono stati duri scontri tra i manifestanti e le forze di polizia, che hanno reagito alle proteste con cariche e lacrimogeni. In vista della comunicazione ufficiale sull’esito delle votazioni, è atteso inoltre in città l’arrivo in massa dei sostenitori di Morales dalle aree rurali, i cosiddetti «ponchos rojos». Si prevedono scontri tra i campesinos in poncho ed i sostenitori dello sfidante Mesa nella zona del centro tra Plaza San Francisco e Plaza Avaroa. La maggior parte delle attività nell’area sono chiuse e molti dei lavoratori e volontari stranieri sono costretti al coprifuoco dalle rispettive organizzazioni.

Intanto nelle città di Cochabamba e Santa Cruz de la Sierra è stato indetto dalle associazioni di categoria e organizzazioni di protesta uno sciopero generale senza termine, paralizzando le reti di trasporto e distribuzione di mezza Bolivia. Per arginare l’ondata di paura, l’ente boliviano preposto alla gestione alimentare nel paese (Emapa) ha inoltrato un comunicato ufficiale in cui si avvisano i consumatori che le scorte alimentari del Paese sono regolarmente disponibili. Tuttavia, in molti in queste ore stanno assaltando negozi e supermercati in vista di una eventuale razionalizzazione dei prodotti. Gli occhi di tutto il Paese (e non solo) sono puntati sul Tribunale elettorale. Dall’esito ufficiale potrebbe dipendere la stabilità sociale e politica nell’intero Paese.

Solidale. Colpevole. Morto

La storia è una storia di cui qualcuno ha già parlato ma vale la pena raccontarla ancora perché è perfetta per questo tempo. E allora la raccontiamo ancora.

Egidio aveva ottant’anni quando lo hanno arrestato. Uno pensa che per essere arrestato a ottant’anni e per di più messo in galera, qui da noi, devi avere combinato un bel casino, qualcosa che è esploso da qualche parte, una strage. Alle questioni di soldi non ci pensi, normale, poiché li abbiamo sempre visti i potenti che in galera non ci vanno proprio perché sono anziani. Cosa ha combinato Egidio?

Nel 2012 hanno trovato un uomo dentro un baule legato sul suo furgone. Sbarcava da un traghetto proveniente dalla Grecia. È stato denunciato. Egidio, che di lavoro faceva l’operaio saldatore e in pensione girava il mondo, non ci aveva nemmeno più pensato a quel fatto e aveva cambiato residenza, senza comunicarlo al tribunale. Non è un particolare da poco: qualsiasi furbo sa che per usare i trucchetti giudiziari che evitano il carcere la mancata comunicazione del cambio residenza è un errore grossolano.

Sono arrivati a casa e l’hanno arrestato. Portato in carcere a Parma. Aveva ottant’anni. Era malato di tumore. Il giorno prima della sua morte, il 6 settembre, il magistrato di Sorveglianza ha autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale. Un po’ tardi. L’uomo era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona.

Racconta il suo avvocato che in carcere spesso doveva «attaccarsi alla macchinetta per respirare». E niente. Morto. Morto per immigrazione clandestina. Uno dei tanti. Ma Egidio, a pensarci, è così dissimile da quelli che ormai non ci fanno più nessun effetto.

Solidale. Colpevole. Morto.

Ma il nostro Paese ora è davvero più sicuro.

Buon venerdì.

Libertà vigilata

face recognition technology concept illustration of big data and security in city

Contenuti rimossi, decine di pagine e profili Facebook chiusi in una manciata di ore. La guerra in Rojava, settimana scorsa, ha attraversato anche il social network più famoso del mondo e la polemica è esplosa immediatamente, soprattutto in Italia. L’accusa nei confronti di Zuckerberg è di aver operato una vera e propria censura, che ha travolto associazioni come Milano in movimento, centri sociali come il Cantiere di Milano, testate online come DinamoPress e numerose altre realtà che sulle loro pagine avevano pubblicato articoli sul Rojava o messaggi di sostegno alla causa curda. Ma è davvero così semplice? Tutta la vicenda, in realtà, richiede diverse letture che intrecciano temi come la libertà di espressione e una percezione (distorta) del ruolo dei social network. Nel complesso, una situazione che rischia di essere ben più importante dei singoli casi di censura. Negli Stati Uniti, Mark Zuckerberg e la sua creatura social sono al centro di un vero fuoco incrociato. Con l’approssimarsi delle primarie per la presidenza Usa e con gli arcinoti precedenti legati allo scandalo Cambridge analytica, per la verità, c’era da aspettarselo. La novità, però, è che Facebook sta subendo attacchi pesantissimi da dove non se lo aspettava, cioè dall’area liberal del Partito democratico Usa. E c’è anche chi sostiene che il fondatore del social network si stia addirittura ricollocando a livello politico, avvicinandosi all’area repubblicana. A testimoniarlo sarebbero una serie di cene in cui Zuckerberg avrebbe incontrato esponenti del partito conservatore e alcuni opinionisti di Fox news, organo di stampa tradizionalmente schierato a destra.

A dare fuoco alle polveri è stata Elizabeth Warren, candidata alle primarie Dem che molti danno per favorita. La senatrice, infatti, ha dichiarato pubblicamente di voler intervenire nei confronti delle maggiori aziende tecnologiche (come Google, Amazon e la stessa Facebook) per mettere fine a una situazione di monopolio che secondo la Warren rappresenta un pericolo per la libertà di espressione negli Usa. La soluzione, in pratica, sarebbe quella di “scorporare” i giganti del Web per ridurne il potere. Un’uscita che non è piaciuta per niente a Mark Zuckerberg, ma che si è rapidamente trasformata in una sorta di “guerriglia mediatica” tra i due. L’escalation è stata provocata da un clamoroso “leak” di cui è stato vittima lo stesso amministratore delegato di Facebook e che negli Usa è stato battezzato come FacebookGate. Protagonista un dipendente del social network, che ha registrato l’audio di una sessione interna di domande e risposte tra Zuckerberg e i suoi impiegati, consegnandola alla testata online The Verge. In quella “chiacchierata” Mark Zuckerberg si dice pronto a una battaglia (anche legale) contro la Warren nel caso in cui venisse eletta e confermasse le sue intenzioni di smantellare l’impero di Facebook.

Lo scontro con la candidata del Partito democratico è poi proseguito a colpi di dichiarazioni, post e tweet incendiari che hanno preso di mira soprattutto le politiche di Facebook nella selezione delle notizie ritenute “pubblicabili”. Insomma: il tema del controllo dei contenuti, per Zuckerberg, è un argomento terribilmente caldo. E sì che il Ceo di Facebook, sul tema, ha cercato negli anni scorsi di mettere in piedi un sistema che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto metterlo al riparo da qualsiasi polemica. La logica è quella di avere un approccio tecnocratico nella valutazione dei contenuti, che in teoria dovrebbe ridurre al minimo la discrezionalità nelle scelte, affidandosi a strumenti tecnici come gli algoritmi di intelligenza artificiale e ai famigerati “standard della comunità”, una sorta di raccolta di comandamenti che spiegano in maniera estremamente schematica che cosa è ammesso e cosa non lo è. Per quanto riguarda gli standard, vale la pena prima di tutto sgombrare il campo dal paragone che molti hanno fatto tra la censura della causa curda e la chiusura delle pagine di gruppi neofascisti che ha interessato i vari CasaPound, Forza nuova e Vox Italia. Nel caso dei neonazisti, infatti, la violazione contestata rientra sotto il capitolo 3 del regolamento di Facebook, che si riferisce ai «contenuti deplorevoli» e, in particolare…

L’articolo di Marco Schiaffino prosegue su Left in edicola dal 25 ottobre

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Internet e il diritto alla conoscenza

Abbiamo esultato quando Facebook ha oscurato le pagine dei fascisti del III millennio, come CasaPound e Forza nuova. Ma quando sono state prese di mira testate online di contro informazione di sinistra, da Dinamo press a Radio onda d’urto per poi arrivare a oscurare anche le pagine di gruppi come Rete Kurdistan di solidarietà con il popolo curdo, non ci è piaciuto affatto.

Oltre a fare profitto con i dati e le informazioni che tutti noi, volenti o nolenti, regaliamo ai social media e a siti come Amazon o Google ogni volta che ci connettiamo, le grandi piattaforme (a cominciare da Facebook) decidono al posto nostro quel che dobbiamo leggere o meno. È il mitico algoritmo a dettare legge. Come in un castello kafkiano “decide” quali notizie debbano avere maggiore visibilità, stabilendo di volta in volta i nuovi parametri per definire la rilevanza dei nostri contenuti. Sui quali mister Zuckerberg fa comunque profitto.

Dagli inizi del web (quando – dopo gli esordi in ambito militare – cominciò ad essere utilizzato per scambiarsi informazioni più velocemente in settori universitari e di ricerca) a oggi sembrano essere trascorse ere geologiche.

Perciò abbiamo chiesto a un esperto come Sergio Bellucci di ripercorrere i grandissimi cambiamenti che ci sono stati e di illuminarci sugli scenari che si aprono legati all’intelligenza artificiale. Orizzonti interessantissimi che ci mostrano come l’innovazione e la tecnologia possano potenziare le nostre possibilità di espressione, di movimento, di realizzazione umana. Ma al tempo stesso preoccupanti, se pensiamo agli usi che ne possono fare la criminalità, governi autoritari e piattaforme private che, in nome del profitto a tutti i costi, vorrebbero ridurci a meri consumatori.

Scenari nuovi si aprono anche sul versante forense come ci spiega l’avvocato Ernesto Belisario parlando di frodi, manipolazione delle notizie, violazione della reputazione e, indirettamente, di cyberbullismo.

Pensiamo, per esempio, a quali e quanti danni possa fare la circolazione di falsi video (qui entriamo nell’universo del deep fake) che mostrino una persona mentre dice o fa cose che non ha mai detto e fatto. Pensiamo a cosa potrebbe significare tutto questo nell’ambito di processi.

Beninteso non è la tecnica il problema, ma l’uso che ne viene fatto.

Questo riguarda anche temi di cui si parla molto oggi, ovvero, la profilazione e l’uso dei big data. Se già è abbastanza fastidioso essere “schedati” a tutto vantaggio di inserzioni di pubblicità ad hoc come già avviene online, tanto più preoccupante è pensare che questi dati possano essere utilizzati per controlli di regime. Un uso certo non rassicurante è quello che ne fa già il governo cinese che assegna ai cittadini patenti a punti in base ai loro comportamenti.

La grande questione che si pone oggi è chi e come controlla le piattaforme. A ben vedere perlopiù sono aziende che aspirano ad essere monopoliste. La maggior parte, le più potenti oggi, sono di proprietà nordamericana o cinese.

Il nuovo imperialismo passa da lì, dal capitalismo delle piattaforme. Ce lo racconta bene il sociologo bielorusso Evgenij Morozov, autore di saggi come Silicon Valley, i signori del silicio e L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (pubblicati in Italia da Codice edizioni).

Con sguardo lungo, già un paio di anni fa il leader del Labour party Jeremy Corbyn aveva tematizzato la questione della proprietà delle piattaforme, proponendo l’idea di crearne una pubblica, in grado di diffondere contenuti di qualità, eliminando fake news, hate speech e troll. Qualcuno irrise la proposta dandogli del vecchio socialista utopista.

Noi pensiamo invece che la sinistra non possa esimersi da un’analisi approfondita di questi fenomeni e dall’avanzare proposte progressiste che incoraggino l’innovazione, lottando contro le disuguaglianze, anche in ambito epistemologico. Occorre studiare, avere una visione chiara delle gigantesche trasformazioni in atto, servono nuove strategie per garantire la democrazia, il diritto alla conoscenza e l’accesso alle nuove tecniche da parte di tutti, mettendo a punto – perché no? – strumenti di controllo pubblico sulle piattaforme e sull’uso delle tecnologie più avanzate.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 25 ottobre

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Ocasio-Cortez demolisce Zuckerberg per le policy poco democratiche di Facebook

«Quindi cancellerà o non cancellerà le bugie?». Non si è risparmiata nel suo intervento la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, ormai simbolo della sinistra statunitense, durante l’audizione al Congresso del Ceo di Facebook, Mark Zuckerberg. Il giovane miliardario era stato chiamato dalla commissione per gli Affari finanziari della Camera per esporre il progetto di Libra, la criptovaluta che Facebook dovrebbe lanciare nel 2020. «Prima di decidere su Libra – ha detto Ocasio – sarebbe il caso di scavare a fondo nel comportamento passato suo e di Facebook in merito al rispetto della nostra democrazia».

Il caso Cambridge analytica, lo scandalo dei dati degli utenti venduti a fini elettorali nelle presidenziali del 2016, ha surriscaldato il dibattito. L’attacco più duro della Ocasio Cortez è stato quello contro le politiche di filtraggio dei post pubblicati sul social. Zuckerberg avrebbe infatti dato l’ok a spot elettorali finanziati dai politici in lizza per le prossime elezioni. «Vediamo, potrei ad esempio prendere di mira un target geografico a maggioranza afroamericana e pubblicare un video che comunica loro il giorno sbagliato per recarsi alle urne?» ha domandato provocatoriamente AOC. Alla intimidita risposta negativa di Zuckerberg, la deputata lo ha incalzato dicendo: «Ma lei ha detto che non farete fact-checking sugli annunci politici». Quando il Ceo di Facebook ha replicato che mentire è una brutta cosa, Ocasio-Cortez ha ribattuto con la frase in apertura: «Quindi cancellerà o non cancellerà le bugie?». Zuckerberg, a quel punto, ha rimarcato il fatto che devono essere gli utenti a capire cosa è la verità e cosa non lo è: un’operazione molto difficile in un momento storico in cui – per esempio – i deep fake, cioè i video artefatti che mostrano soprattutto politici dire o fare cose a loro estranee, sono sempre più diffusi e minacciano più di una campagna elettorale.

Quando accaduto al Congresso statunitense, con una rappresentante dichiaratamente socialista che mette all’angolo uno dei giganti della Silicon Valley, potrebbe essere il primo passo verso una risposta di sinistra alla politica sempre più torbida portata avanti dal social network in merito a cosa può essere o non essere pubblicato sulla piattaforma online. Nel caso statunitense, ci sono poi da chiarire i rapporti con le lobby repubblicane di estrema destra e le pressioni che potrebbero esercitare in vista delle presidenziali del 2020. Certo, la passività mostrata da Mark Zuckerberg durante lo scambio con Ocasio-Cortez dimostra o un’incapacità a sostenere un dibattito con una donna di potere, in grado di motivare le sue obiezioni in modo da renderle ineccepibili, oppure una strategia per cercare di salvarsi in corner rispetto a tutte le mancanze di uguaglianza e democrazia proposte negli anni da Facebook, prime tra tutte la censura selettiva e la diffusione di notizie false. Forse Libra si farà, la guerra alle disuguaglianze digitali continuerà, ma per ora permettiamo alla sinistra di festeggiare questa piccola vittoria della deputata del Bronx-Queens.

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