Home Blog Pagina 558

Ma che succede, in Cile?

È che è davvero lontano il Cile. Lontano e diverso. Quindi qualsiasi cosa arrivi da lì puzza di qualcosa di estraneo, che ci interessa giusto il tempo e lo spazio di riempire una colonnina nella pagina degli esteri. Il Cile lo raccontano in molti ma stando sempre attenti a non prendere posizione. Non sia mai.

Le parole che più mi hanno colpito sul Cile sono di Diego del Pozo. Diego del Pozo si è laureato in Lettere e ha un Master in Letteratura all’Universidad Católica de Chile, attualmente svolge un Dottorato di Ricerca in Storia e Patrimonio Culturale presso l’Università di Helsinki, Finlandia. Ha scritto un pezzo che sembra letteratura, oltre che cronaca. Si intitola “In Cile si è esaurito il credito”: già il titolo è una fotografia.

Scrive Del Pozo:

«Come è possibile che in Cile, l’oasi dell’America Latina, oggi si viva una delle peggiori crisi politiche di tutta la regione?

Forse bisogna andare molto indietro nel tempo per poter rispondere a questa domanda, e probabilmente il presidente del Cile si sta chiedendo la stessa cosa. Del resto, è stato lui ad introdurre l’immagine dell’oasi. Il leader del Paese, colui che ci rappresenta. Se lui non ci comprende, allora la nostra democrazia ha fallito ancora una volta?

Il modello economico (capitalismo selvaggio) instaurato con la dittatura di Pinochet – che il presidente, così come l’opposizione che prima era al governo hanno saputo amministrare perfettamente durante quasi 20 anni, nonostante gli indici internazionali indichino il contrario – è un fallimento totale.

Il Cile è stato il primo Paese della regione ad entrare nell’OCSE, ma i numeri, quei numeri così evidenti, dicono la cosa opposta; ciò nonostante il Paese sa di cenere. Di tutto quel fumo indomabile, quello che si dissipa è una percentuale che è impossibile stabilire: al di là della crescita economica, della possibilità di accedere ai prodotti del mercato, al credito bancario, al di là delle auto nuove, dei televisori al plasma, e per finire con i cliché, dei successi sportivi, la percentuale che non è cambiata è stata quella della felicità.

Noi cileni, nonostante tutto, non siamo più felici. Al contrario, ci sentiamo più depressi e abbandonati che mai. Abbiamo iniziato a suicidarci. Oggi in Cile, le persone che per prime si tolgono la vita sono quelle che hanno visto di più: la terza età. Sembra che l’andare in pensione in Cile segni l’inizio del dolore e della sofferenza. Chi potrebbe crescere ottimista in questo scenario? Non bisogna dimenticare che in Cile il secondo gruppo con la percentuale maggiore di suicidi sono gli adolescenti. Spero che il presidente si stia chiedendo la stessa cosa.

Siamo già da una settimana con coprifuoco e militari per le strade del Cile, da quando hanno avuto inizio le manifestazioni a Santiago lo scorso venerdì, a causa dell’aumento del costo del trasporto pubblico nella capitale. Oggi, oltre alla Región Metropolitana, praticamente l’intero Paese si trova in stato d’emergenza, ciò significa che i militari sono responsabili della sicurezza in ogni angolo della nazione, e la paura si diffonde come un flusso d’acqua fantasmagorico che nessuno vede, ma che tutti percepiscono, come l’acqua autentica che ormai non scorre più nella maggior parte dei fiumi del Paese.

Una serie di dichiarazioni, al limite fra la presa in giro e l’indifferenza da parte del consiglio dei ministri, si sono aggiunte, come una sciocca provocazione, alla pressione sociale che si respirava durante il secondo anno di governo del secondo mandato del presidente Sebastián Piñera. Ciò che apparentemente era il riflesso di una democrazia solvibile, con l’alternarsi al potere fra la destra e la sinistra (Michelle Bachelet 2006-2010, Sebastián Piñera 2010-2014, Michelle Bachelet 2014-2018, Sebastián Piñera 2018 – ad oggi), oggi sembra ridicolo, evidenzia soltanto la mancanza di un piano politico e la lontananza dall’instaurazione di un progetto democratico.»

L’ha scritto Diego, il buongiorno migliore sul Cile.

Buon venerdì. Nei piccoli cortili ristretti.

Per approfondire, Left in edicola dall’1 novembre

SOMMARIO ACQUISTA

Perché il decreto sisma non risolve i problemi del Centro Italia

Una ragazza in preghiera davanti la casa crollata dove sono morti i suoi genitori, Amatrice, 24 agosto 2018. ANSA/FRANCESCO PATACCHIOLA

Siamo al quarto governo che si impegna a gestire la ricostruzione post sisma nel Centro Italia. E alla quarta speranza disillusa. Il governo Conte II raccoglie un’eredità difficile, ed è consapevole delle criticità esistenti. Ha ascoltato il popolo terremotato, manifestando una volontà di discontinuità con il passato, specificando che le esigenze di chi oggi vive nel “cratere sismico” del Centro Italia, dopo i terremoti del 2016 e del 2017, troveranno risposte immediate. Eppure, dopo un annuncio a reti unificate – recuperando peraltro il metodo comunicativo delle “slides” caro alla compagine democratica – ha presentato un decreto sisma (in vigore dal 25 ottobre) che nulla cambia, se non prorogare termini, scadenze e soluzione dei problemi.

Lo stato d’emergenza – che concede poteri speciali alla Protezione civile e, quindi, comporta una limitazione delle garanzie costituzionali e democratiche del nostro ordinamento – è prorogato fino al dicembre del 2021. L’ennesima proroga, che rappresenta un’ammissione del fallimento della politica, incapace di riportare la gestione del post-emergenza in una fase ordinaria di rilancio del territorio colpito. Dopo tre anni l’emergenza è finita. Dopo tre anni si dovrebbe poter iniziare a raccogliere i frutti di un progetto politico, che però non è mai stato pianificato. Tutt’oggi, di questa visione progettuale, non vi è neanche l’ombra.

Purtroppo, nulla si è imparato dalle esperienze passate. In molti, riflettendo sulla “cultura italiana dell’emergenza” citano l’esperienza del post-terremoto in Friuli come la migliore che si sia sperimentata. E, a ben vedere, si potrebbe anche essere concordi nel sostenere che la linea seguita in quella occasione, ossia prima le aziende, poi le case e infine le chiese, abbia giocato un ruolo fondamentale per mantenere la popolazione sul territorio. Con un lavoro e con un reddito, d’altronde, è più facile attendere la ricostruzione. (Non bisognerebbe poi dimenticare che il popolo friulano, per ottenere quel modello di gestione, si rese protagonista di azioni anche energiche, portando avanti le proprie istanze con proteste e manifestazioni, e con forme di autogestione delle famose tendopoli).

Invece, il nuovo decreto sisma definisce le priorità di ricostruzione ponendo al primo posto le case – prima quelle di chi ha un tetto grazie al contributo economico dello Stato, evidentemente non più sostenibile per le casse nazionali, poi di chi vive nelle “casette”, costate fino a 6mila euro al metro quadro), mettendo in secondo piano la ricostruzione delle aziende e delle imprese. Inserendo inoltre i terremotati tra i beneficiari del progetto “Resto al Sud”, progetto che prevede aiuti o finanziamenti agevolati a giovani imprenditori che decidono di aprire qualunque attività industriale in determinate regioni meridionali, senza che sia adeguatamente preso in considerazione il tessuto economico-produttivo dei territori. E senza aggiungere neanche un euro a questo piano di investimenti: la coperta, insomma, è sempre la stessa.

Oltre a ciò, il progetto “Resto al Sud” prevede che gli aiuti vengano riconosciuti anche ai nuovi residenti, elemento che se associato al fatto che è stata riconosciuta la possibilità per i terremotati di vendere la propria abitazione prima che sia ricostruita, dovrebbe immediatamente far scattare un allarme. Non solo per il rischio di una radicale conversione della produzione di beni nel territorio dell’appennino centrale, ma anche per quello di una vera e propria sostituzione della popolazione da parte di chi “può permetterselo”.

Due ultimi aspetti sono poi decisamente inquietanti. Il primo riguarda la gestione delle macerie: col decreto viene data totale libertà di assegnare in via diretta le pratiche per il loro smaltimento ad aziende private, senza bando pubblico e conseguenti controlli appropriati. E sappiamo bene quanto sia elevato il rischio di infiltrazioni mafiose in questo settore.

Il secondo riguarda una norma che indica come prioritaria, per la ricostruzione pubblica, la scuola. Sulla correttezza di questa priorità nutro alcuni dubbi – per insegnare è necessario avere un tetto sulla testa e una comunità, per operare o curare servirebbero strutture molto più complesse con maggiore urgenza – senza poi considerare che, qualora una scuola sia crollata e non sia possibile ricostruire lì dov’era, non si potrà cambiare la destinazione urbanistica dell’area. Ma a questo punto viene da chiedersi, cosa ne faremo di questi “buchi” nei Paesi ricostruiti?

Imprecisioni volute, mancate risposte, conferme degli indirizzi assolutamente fallimentari seguiti fino ad oggi. È questa la sintesi del nuovo decreto sisma da poco entrato in vigore: un condensato di norme che cerca di spostare la stessa coperta per coprire alcuni problemi, senza accorgersi di lasciarne scoperti altri. Possiamo solo sperare, dunque, che in sede di conversione il Parlamento intervenga per modificare quanto possibile.

Hate speech, vittoria amara in Senato per la mozione di Liliana Segre

Liliana Segre attends ceremony of conferred honorary citizenship of Palermo at the Palazzo delle Aquile in Palermo, Italy, on 15 June 2019. Survivor of the Holocaust and active witness of the Italian Shoah, Liliana Segre, on 19 January 2018, was appointed senator for life by the President of the Republic Sergio Mattarella. (Photo by Francesco Militello Mirto/NurPhoto via Getty Images)

«Speravo che sull’odio il Senato avrebbe trovato una sintonia generale» ha commentato rammaricata Liliana Segre dopo l’approvazione al Senato della mozione n. 136 per l’istituzione della Commissione straordinaria per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo e dell’istigazione all’odio e alla violenza.

I voti a favore sono stati 151 , nessuno contrario ma, a causa di 98 astenuti (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia), non è stata raggiunta l’unanimità. Per la senatrice a vita al termine della votazione c’è stato un minuto e mezzo di applausi da parte della maggioranza. Tutti i senatori si sono alzati in piedi e non è stato difficile notare che gli astenuti sono rimasti seduti e senza applaudire.

Anche la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni ha definito l’astensione da parte di alcuni partiti come «incomprensibile e irresponsabile. Un modo più o meno esplicito per legittimare, o per restare indifferenti, davanti a un odio che purtroppo avanza e che deve riguardare ciascuno di noi a prescindere da ogni appartenenza partitica».

Sulla questione è intervenuta pure l’Associazione nazionale partigiani d’Italia che esprime soddisfazione e apprezzamento per il voto favorevole del Senato ma dichiara preoccupazione sull’astensione da parte dei senatori delle forze politiche di centrodestra, «un atteggiamento grave e fortemente irresponsabile, in quanto interpretabile come atto di legittimazione dei fenomeni che la Commissione intende contrastare».

Già lo scorso anno la senatrice Segre aveva manifestato la preoccupazione per le analogie tra l’Italia fascista e quella sempre più razzista di oggi e aveva annunciato l’esigenza di creare una commissione che controllasse il crescente fenomeno dell’hate speech, sia dentro che fuori dalla rete.

La Commissione conterà venticinque componenti: Liliana Segre presidente, un vice e due segretari e si occuperà di vigilare e proporre iniziative riguardo al controllo dei fenomeni di intolleranza, razzismo, istigazione all’odio e violenza basati su etnia, religione, provenienza, orientamento sessuale o identità di genere e sui discorsi d’odio, sempre più proliferanti soprattutto nel web, forme di espressioni che diffondono, incitano o giustificano l’odio di cui la stessa Segre è stata vittima.

Secondo un recente report dell’Osservatorio sull’antisemitismo, Liliana Segre riceve una media di duecento insulti a sfondo antisemita al giorno, tanto che la Procura di Milano nel 2018 ha aperto un’indagine per molestie e minacce in relazione agli insulti arrivati sui social network.

Su Left prima e a un recente convegno all’Università Iulm di Milano sul linguaggio dell’odio, Liliana Segre aveva detto: «Io non perdono e non dimentico. Ma non odio. Mai. Per gli odiatori che mi insultano sui social provo la stessa pena che ho provato per i ragazzi della Hitler-Jugend: ad Auschwitz mi sputavano e mi insultavano mentre la mattina insieme ad altre 700 donne scheletrite e senza capelli andavamo a piedi a lavorare in una fabbrica di munizioni».

Il diritto a una casa al tempo di Greta

La gentrificazione, la vivibilità delle città, i trasporti, la connessione centro-periferia sono parole risuonate spesso a Castel dell’Ovo, a Napoli, alla seconda assemblea nazionale dei Friday for future, «un movimento finalmente non più generazionale – spiega Francesca Acquaviva, 24 anni, studentessa di Biotecnologie a Bari -, lucido rispetto alla connessione di quei temi con la crisi ambientale. Per noi giustizia climatica è giustizia sociale». FFF ha lanciato il proprio manifesto politico in cui quella connessione comincia a intravedersi: «Miliardi di persone in tutto il mondo vivono in condizioni precarie, in aree ad alto rischio, su pendii, lungo gli argini di fiumi o sulle coste, nel settore informale, costretti a resistere e a organizzarsi autonomamente o a migrare. Gli sfratti forzosi minacciano tra 50 e i 70 milioni di persone in tutto il mondo» è l’allarme del Tribunale internazionale sugli sfratti (attivato dall’Alleanza internazionale degli abitanti) in vista della sessione sui cambiamenti climatici che si terrà nel quadro del Forum parallelo alla Cop25 (a Santiago del Cile, 2 e 10 dicembre 2019). Due anni fa, questa coalizione di movimenti di inquilini e senzacasa aveva tenuto una sessione specifica sulle crescenti violazioni dei diritti umani dovute all’eccesso di turismo, «una crescente causa di sfratti forzosi perché sta trasformando città e territori in merci e i loro abitanti in comparse».

Ma come si declina il diritto all’abitare al tempo di Greta? Ossia, come rispondere ai bisogni sociali senza intaccare ulteriormente le risorse naturali e territoriali? «L’ambientalismo senza occupazioni abitative è giardinaggio», dice a Left, parafrasando Chico Mendes, Cristiano Armati, militante e storico romano del movimento per la casa: «Abbiamo sempre partecipato alle battaglie ecologiste. Anche la marcia, in primavera, contro le grandi opere e l’inquinamento vedeva il movimento come spina dorsale di quel corteo. Nei fatti un’occupazione abitativa impedisce il consumo di suolo. E anche il concetto di autorecupero è un’invenzione del movimento a Roma e indica un modello diverso di città. Per inquinare di meno comunque bisogna organizzarsi, senza comunità non c’è organizzazione ed è impossibile un progetto diverso. E le occupazioni sono tra le pochissime comunità organizzate». Da tempo, le lotte per la casa hanno deciso di chiamarsi “movimento per il diritto all’abitare”, «un’evoluzione semantica – precisa Armati – che parte dalla fine degli anni 90 e che corrisponde a una consapevolezza esplicita, una trasformazione sollecitata da tanti fattori: dalle battaglie per la libertà di movimento a quelli contro le grandi opere inutili, contro le centrali nucleari e le basi militari. Uno degli slogan storici era quello contro l’energia dei padroni». «Nelle case occupate la coscienza politica e la scarsità fanno aguzzare l’ingegno, allora ci si inventa…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dall’1 novembre

SOMMARIO ACQUISTA

Il re è nudo, riprendiamoci le città

Scorrono davanti agli occhi le immagini delle proteste in Cile, represse con estrema violenza e spargimento di sangue dalla polizia di Sebastián Piñera, come denunciano su queste pagine attivisti, scrittori e Marcos Barraza, ex ministro del governo Bachelet. La goccia che ha fatto traboccare il vaso del malcontento popolare è stato l’esoso aumento del biglietto della metro, che materialmente colpisce gli studenti e le fasce sociali più deboli e che su un piano simbolico assume un senso ben più ampio di negazione del diritto a poter vivere liberamente la città e la sua dimensione sociale. La rabbia di chi si vede negato il diritto all’abitare e alla cittadinanza esplode in questi giorni nelle piazze di mezzo mondo. Sono immagini che ci parlano di proteste contro le crescenti disuguaglianze, che puntano il dito contro un capitalismo predatorio che distrugge l’ambiente, la qualità della vita, che genera disagio sociale e malessere nelle persone.

La maschera del Joker, che fa capolino dietro agli incendi di negozi e hotel a Santiago evocando il caos e la pazzia distruttiva di Gotham City però non dice la verità di quel che sta succedendo. Vorrebbe indurci a pensare, con rassegnazione, che non ci può essere rivolta riuscita, ma solo distruzione e autodistruzione. Come la Bibbia “insegna” e il film del regista Todd Phillips ora ci ripete abilmente sul grande schermo. Ma non è così. Stanno crescendo nuove, forti, prese di posizione contro politiche di austerity, contro la mercificazione dei luoghi pubblici; da ogni parte spuntano movimenti che ci parlano di piena politicizzazione dello spazio urbano. Incursioni di Joker incendiari guadagnano la ribalta sui media ma i movimenti di protesta che si stanno riversando nelle strade di molte città del mondo contro l’ingiustizia sociale sono movimenti non violenti che lottano per una società più giusta, solidale e inclusiva.

Prendendo le distanze dalla narrazione mainstream, scansando con cura la trappola di Joker che finisce per agire la violenza che ha subito, preferiamo soffermarci su scatti come quello che, a Santiago, ci mostra una ragazza che, con vitalità e destrezza, salta i tornelli. Seguita da molti altri. E su immagini come la splendida ragazza che campeggia in copertina. Truccata da Joker, gioca con la maschera del fool shakesperiano che osa dire che il re è nudo, sfoderando un irresistibile sorriso. Da più parti del mondo, a ben vedere, arrivano belle immagini di resistenza, di netto rifiuto dell’ideologia turbo capitalista che misura il diritto di cittadinanza in base al censo. Arrivano da Quito in Ecuador (dove 25mila indios hanno invaso la città assediando il governo), da Santiago, da Beirut, da città, purtroppo, sempre di più strette nella morsa di politiche neoliberiste che tendono ad espellere i più poveri dai centri storici, a spezzare i legami sociali, generando isolamento, nuovi ghetti e nuovi apartheid nelle periferie urbane. Non solo a Brasilia o a Pretoria vediamo crescere barriere e aree circondate da fili spinati per proteggere i quartieri residenziali. Panchine con divisori e pensiline a sdrucciolo anti bivacco sono sempre più diffuse nei centri storici del Belpaese guidati da amministrazioni con una crescente ossessione per il “decoro urbano” che in Italia si traduce in un vero e proprio boom di architettura ostile non solo nelle città governate da leghisti.

A questa inquietante mutazione che sta uccidendo alcune delle più belle città storiche italiane dedichiamo un ampio sfoglio di copertina, denunciando la speculazione, la deregulation urbanistica, la corruzione che asfissia la Capitale, ma anche il super marketing turistico, a tutto vantaggio di Airbnb che sta radicalmente cambiando il volto di Napoli e di Firenze, ridotte a quinte, a sfondo per selfie di un turismo mordi e fuggi. Facendo tesoro della grande passione civile e dell’importante lavoro di riflessione critica dell’urbanista Edoardo Salzano, qui ricordato da Mauro Baioni, non ci limitiamo alla pars destruens ma proviamo ad avanzare delle proposte, parlando di rigenerazione urbana, di radicale trasformazione del modello di sviluppo della città auspicata dai Fridays for future, raccontando di pratiche concrete come il baratto amministrativo e dando voce ai movimenti impegnati nella difesa dei beni comuni. La città riflette la forma della società, è un organismo vivo diceva Plinio, è memoria viva del passato, ma anche creazione collettiva in continua trasformazione. Da qui bisogna ripartire per costruire un futuro diverso.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dall’1 novembre

SOMMARIO ACQUISTA

Nazisti, fascisti e bombe. In Italia

Demonstrators during an anti-racism rally in Macerata, 10 February 2018. Few days ago an Italian Luca Trani shot with a gun on several coloured people down the streets of Macerata. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Collebeato. Brescia. Sabato sera un rifugiato ospite dello Sprar dà in escandescenze dopo avere saputo della morte della sua unica figlia nel Paese di origine.. Solo spavento, si pensa. Per fortuna. Poi domenica succede altro, eccome. Lo spiega benissimo il comunicato stampa dell’amministrazione comunale:

«Dopo il grave episodio che sabato 26 ottobre ha visto coinvolta una persona accolta nel progetto Sprar di Collebeato, si sono verificati nel nostro paese alcuni fatti che, dopo aver riflettuto, riteniamo giusto comunicare alla cittadinanza. Domenica sera, verso le 22:30, alcune persone si sono recate presso la casa dove alloggiano alcuni ospiti Sprar e, dopo aver insultato una signora che non voleva indicare loro l’appartamento dei rifugiati, hanno urlato frasi ingiuriose all’indirizzo dell’abitazione e lanciato un oggetto che ha provocato una forte esplosione.

Poi, raggiunta l’abitazione del sindaco, hanno depositato nella cassetta della posta materiale esplosivo che, deflagrando, l’ha sbalzata a vari metri di distanza (parte sul terrazzo dei vicini) e danneggiato il portone.
Il raid si è concluso con scritte razziste sul municipio, con annessa svastica sotto la lapide in memoria dei partigiani, e su altri spazi dell’immobile. Siamo fermi nel condannare questi atti e nella volontà di continuare il percorso di accoglienza, intrapreso e condiviso ormai da anni con la nostra comunità. Crediamo che oggi più che mai sia necessario prendere le distanze da chi vuole alimentare il clima di odio, di divisione e paura: non il conflitto, ma il confronto democratico sarà sempre la nostra unica scelta».

C’è tutto: razzismo, nazismo, esplosivo, svastiche sui monumenti partigiani. Eccola l’aria che tira e che qualcuno continua a volere sminuire. Ecco le notizie che rimangono nascoste.

Ad Acquasanta Terme, in provincia di Ascoli Piceno, Fratelli d’Italia ha organizzato una cena di nostalgici per celebrare la Marcia su Roma. All’iniziativa ha preso parte anche il sindaco di Ascoli Marco Fioravanti. A pochi chilometri di distanza nel marzo del 1944 nazisti e fascisti trucidarono 42 persone, compresa una bambina di 11 mesi che venne bruciata viva davanti alla madre.

Ma davvero poi ci stupiamo dei social? Avete messo la testa qua fuori?

Buon giovedì.

 

Perché dire “Io sono femminista” fa ancora paura

ROME, ITALY JUNE 9: The 240 shapes of the murals created in 2012, to neighborhood of San Lorenzo, on the occasion of the International Day against violence against women - representing the 240 women victims of femicide,with tags indicating the names and the date of the violent death of the victims, creator of the murals Elisa Caracciolo on June 9, 2016 in Rome, Italy. Since 2012 the tragedy of femicide did not stop, however, and the number of killed women has continued to increase and new shapes will be painted on the wall to remember - but most importantly - to defend the dignity of these women, even in a mural. Since the beginning of the year of at least 58 women were killed by their partners in Italy or, more often, by a former. Over 155 from January 2015 on June 9, 2016 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

Quanto timore, ancora oggi, a pronunciare la parola: “femminista”. Quanta paura ad ascoltarla. Questo termine, così diretto e, al tempo stesso così armonioso, suona come un qualcosa di cui sarebbe meglio vergognarsi. Qualcosa che, dopo tutto, stona con l’immagine della donna vera, quella che per secoli ci è stata presentata come la madre accogliente e prona. Non sono solo gli uomini a disprezzarlo, anche le donne stesse. Non tutte, fortunatamente.

Teresa Rossano, coadiuvata dal Centro di documentazione dei Movimenti Lorusso-Giuliani, ha voluto omaggiare la lotta femminista condotta da alcune donne della Bologna degli anni Settanta. È nato così il documentario: Io sono femminista!, in cui le voci delle ragazze di allora offrono numerosi spunti di riflessione alle ragazze di oggi, perché dietro a questo termine è necessario che resti sempre viva la fiamma di un’unica e intensa lotta contro una società maschilista e patriarcale.

Com’è nata l’idea di questo documentario?
Il documentario, interamente autoprodotto, nasce all’interno di un percorso di riflessione del Centro di documentazione dei Movimenti Lorusso-Giuliani sugli anni Settanta. I materiali che conserviamo e cataloghiamo vengono messi a disposizione di chi li vuole consultare come, ad esempio, le/gli studenti universitari per le loro tesi di laurea. L’attività del centrodoc però non si limita a questo: rendiamo disponibile ciò che raccogliamo e lo utilizziamo anche sotto forma di iniziative militanti, di serate, pubblicazioni, occasioni di discussione pubblica.

Questo aspetto della nostra attività è fondamentale. Il nostro non è un lavoro puramente archivistico ma soprattutto una scelta militante: si tratta di promuovere una riflessione collettiva, una memoria attiva, di creare uno spazio di condivisione di saperi, in relazione alle lotte di oggi. Non a caso, il centrodoc è parte integrante di Vag61, un centro sociale attivo sul territorio a Bologna. Sono luoghi di pratica antagonista, attraversati da modalità di lotta e di relazione anche femminista.

È stato volgendo uno sguardo di genere ai materiali raccolti finora che è emersa l’esigenza di dare voce al femminismo, realizzando le interviste che sono state poi montate nel video. L’idea del documentario era presente fin dall’inizio, ma è chiaro che l’obiettivo del lavoro era proprio la raccolta delle interviste integrali e di tutto il materiale, come foto, volantini, documenti che erano rimasti chiusi nei cassetti per decenni e che si è messa in moto durante la realizzazione del documentario.

Già dal titolo, netto e deciso, si capisce che il tema trattato sarà un tema forte. Cosa significava allora la parola femminista e cosa significa oggi?
È una domanda che non può essere esaurita con una risposta univoca, intanto perchè ci si riferisce ad una pluralità di femminismi, poi perchè essere femminista comporta scelte diverse a seconda del contesto in cui le lotte si esercitano. Le stesse compagne intervistate danno risposte diverse. Comuni denominatori, in ogni caso, sono l’affermazione di autodeterminazione, l’autonomia delle condizioni materiali e di pensiero, la capacità di costituirsi in un soggetto politico collettivo capace di incidere sull’esistente. Questi aspetti sono comuni anche ai femminismi di oggi che si sono coordinati in un grande movimento politico globale che ha messo in campo una capacità di mobilitazione davvero unica. Il titolo esprime un legame fra le storie di ieri e quelle di oggi, perché dal femminismo non si torna indietro. Eravamo e siamo sempre femministe e lo affermiamo ancora con orgoglio, nelle piazze, nelle strade e nella nostra vita di ogni giorno.

Perché parlare nel 2019 delle lotte degli anni Settanta?
Come dicevo, conoscere la storia dei movimenti, le nostre storie, è fondamentale per costruire le lotte di oggi. Ridiscutere le pratiche per inventarne di nuove, rendersi conto della capacità di analisi e di elaborazione che avevamo per articolare nuove strategie di lotta. Emerge dalle narrazioni grande capacità di metterci in gioco, di creare antagonismo, una stagione creativa che costituisce una fonte di ricchezza per tutte. Esiste una continuità evidente fra le lotte di ieri e di oggi. Anche in senso deteriore, visto che ci troviamo in piazza ad affrontare le sconfitte, a lottare ancora per le stesse cose. La legge 194 che è stata di fatto esautorata dall’obiezione di coscienza utilizzata come un grimaldello, i femminicidi e la violenza contro le donne, il diritto ad autodeterminarsi che crolla sulla diffusa precarizzazione alla quale si aggiunge il terribile sfruttamento delle e dei migranti. Per far fronte a tutto questo c’è bisogno di fare tesoro di tutte le nostre risorse e capacità elaborate in anni di lotte durissime.

Quali sono le lotte di oggi?
Oggi assistiamo ai colpi di coda di un patriarcato che è stato dichiarato più volte morto ma che, invece, è più aggressivo che mai. La ristrutturazione neoliberista ha portato ad un peggioramento delle condizioni di vita che hanno visto una diffusa “femminilizzazione” del lavoro, nel senso di una progressiva precarizzazione e ricattabilità, soprattutto per le donne e per i soggetti non conformi. Il patriarcato ha chiamato a serrare le fila tutte le componenti di integralismo religioso di diversa provenienza che hanno creato una solida alleanza con i populismi di destra che si stanno affermando in molti paesi fra i quali anche il nostro. L’ordine patriarcale è indispensabile alla ristrutturazione neoliberista: le donne hanno sempre svolto una funzione economica indispensabile, separando gli ambiti del lavoro di produzione e di riproduzione e relegando quest’ultimo nel privato, si pongono le basi del sistema di sfruttamento capitalistico che oggi si sta facendo ancora più intenso e pervasivo.

È chiaro che un’operazione del genere non lascia alcuno spazio a rivendicazioni di autonomia da parte delle donne o di altri soggetti non conformi. Questo è il quadro nel quale si muovono le lotte di oggi, che articolano nei contesti specifici un movimento che ha caratteristiche transnazionali. I movimenti femministi attuali hanno chiara la loro natura anticapitalista, antifascista, intersezionale, internazionalista. La riflessione in questo senso è partita dagli anni Settanta ma sta giustamente anche percorrendo strade di autonomia.

Qual è il contributo che le lotte di allora hanno dato alle lotte di oggi?
Il femminismo ha rappresentato una forza dirompente nella politica e nella società. Ha posto all’attenzione pubblica temi fondamentali come quello dei diritti, del lavoro, delle discriminazioni. Non solo. È stato dirompente anche nel senso che ha determinato un modo diverso di fare politica. L’orizzontalità dei movimenti antagonisti di oggi, non solo femministi, il rifiuto di organizzazioni gerarchiche e verticistiche, la consapevolezza che si parla a partire da sé, sono tutte profonde eredità delle pratiche femministe. Come dicevamo allora, e diciamo ancora oggi, il personale è politico.

Ciò ha contribuito a fare chiarezza, a sgombrare il campo da falsi problemi, a creare delle discriminanti. Probabilmente non sempre questi percorsi sono consapevoli in chi li pratica, i movimenti trovano poi le loro modalità espressive e di lotta in modo autonomo a partire dalle condizioni materiali, ma è evidente che alcuni semi gettati allora stanno dando frutti ancora oggi. Il movimento transfemminista Non una di meno (Nudm), ha intrapreso anche strade diverse rispetto ad allora. Una per tutte, la questione del separatismo che è stato un punto irrinunciabile per il femminismo degli anni Settanta (e per molte lo è ancora) ma che oggi viene considerato, invece, superato. C’è sicuramente una profonda riflessione su questo e un confronto anche serrato. Ma nella diversità di posizioni e di pratiche, non c’è dubbio che il discorso affondi le sue radici su un terreno comune e che parta da lontano, dal bisogno di ri-conoscersi e autodeterminarsi come soggetti politici.

Il documentario è strutturato sulla base di interviste a donne che all’epoca si battevano in prima persona per i propri diritti. Tra tutte qual è la storia che l’ha colpita di più?
Con alcune di queste compagne ho condiviso pratiche e lotte, la loro storia è anche la mia. Il documentario è dedicato a Sandra Schiassi, compagna di molte lotte, con la quale non ho fatto in tempo a realizzare l’intervista per il documentario perché è morta all’improvviso. Ho utilizzato quindi materiale girato in precedenza come risulta evidente dalle immagini. La presenza di Sandra, la sua intelligenza, la sua ironia, sono irrinunciabili. Detto questo però, considero ogni intervento prezioso per tessere una trama che vuole dare conto delle diversità e della specificità dei percorsi che il femminismo ha intrapreso.

Le protagoniste di questo lavoro sono tutte donne che frequentavano ambienti e gruppi che basavano il loro essere su principi di libertà. Come mai questa parola anche al loro interno sembrava non dover essere un qualcosa che riguardasse la parte femminile?
La lotta per liberazione delle donne veniva sussunta nella lotta di classe, senza fare i conti però con le specifiche condizioni di oppressione. Ciò avveniva sia a partire dagli strumenti di analisi, sia nella pratica politica. Non riconoscendo la necessità di attribuire una specificità alla lotta di liberazione delle donne, si è finito per nascondere le contraddizioni che sono poi emerse in modo dirompente. È stato fondamentale l’apporto del femminismo all’analisi del capitalismo, il rilievo dato alla funzione del lavoro di riproduzione, ma è stato fondamentale anche porre la questione delle pratiche e dei comportamenti che riproducevano i modelli patriarcali introiettati e che non trovavano spazio per essere messi in discussione.

Poi, però, alcune di loro hanno rifiutato di essere gli “angeli del ciclostile”…
Infatti, si fa spazio il disagio e ci si organizza, si conquista la presa di parola, ma questa consapevolezza e questa capacità conflittuale hanno avuto bisogno di maturare in un percorso collettivo. Per questo, anche all’interno delle organizzazioni, è cresciuta l’insofferenza per certi meccanismi e comportamenti che ha portato a a fare emergere le contraddizioni anche in modo violento. Ciò ha significato, in molti casi, intraprendere percorsi separatisti o rivendicare spazi autonomi di elaborazione e di lotta. L’angelo del ciclostile si ribella, spesso di fronte a compagni inconsapevoli che non riescono a capire le motivazioni del malessere sempre più diffuso e reagiscono negando il problema o addirittura dando sfogo al disagio in modo aggressivo.

Ed è nata la rivista Siamo isteriche
Si tratta di un numero unico che è uscito nel ’76 ad opera di alcune compagne che volevano porre delle questioni alla discussione con le altre. È diviso in tre colonne, sulla sinistra c’è il “serpentone” una serie di osservazioni libere, che rimanda alla spontaneità e alla necessità della discussione, da dove la scrittura prende origine. Ci sono temi che vengono posti con urgenza, la necessità di autonomia, le modalità di non-organizzazione, la violenza. Molto interessante ciò che si dice sul self-help dal quale prende origine la pratica autogestita dell’aborto. Se ne parla anche nel documentario, le compagne imparano da altre compagne francesi il metodo Karman (che allora non era conosciuto e usato dai medici) e iniziano a praticarlo perché poco invasivo per le donne.

Le modalità non sono però quelle di un servizio reso necessario dal proibizionismo dello Stato. La pratica dell’aborto rientra anch’essa in una pratica di relazione, self-help ha significato costruire conoscenza sulla condivisione e riappropriazione di saperi. E nel self help deve necessariamente rientrare l’aborto che viene inteso però come un momento di crescita e di consapevolezza e che viene sottratto ad una analisi di tipo moralistico. Una presa di coscienza che significa legare la pratica politica ai bisogni del corpo. Una analisi molto lucida, così come molto chiara appare la conclusione del documento: la forza delle donne dipende non solo dalla solidarietà ma dalla capacità di organizzarsi per incidere sull’esterno. Per questo, dicevano le compagne, c’è bisogno di una casa comune, grande e bella. La casa che l’8 marzo dell’anno successivo sarebbe costata tutta la violenza che si è scatenata contro le femministe che cercavano di conquistare uno spazio delle donne.

Qual è il senso di portare in giro questo documentario? Qual è lo scopo che voleva raggiungere? Ha mai incontrato difficoltà nel proporre il suo lavoro?
Portare in giro il documentario significa ogni volta suscitare domande, emozioni e un dibattito molto acceso. Ogni volta è diverso. I temi toccati sono tanti, le domande, le riflessioni vertono su diversi aspetti. Da parte delle generazioni più giovani è forte la necessità di confronto sulle pratiche, sui percorsi che ci hanno portato a fare delle scelte, ad esempio quella del separatismo, di cui si parla molto. A volte emerge quasi una forma di stupore ma sempre, ai titoli di coda, ci ringraziano. Qualcuna ci ha detto che sono proprio le storie che avrebbe voluto sentirsi raccontare. Le persone che hanno vissuto quegli anni spesso si riconoscono e colgono l’occasione per riparlarne. Capita però che alcune non siano a conoscenza di tutto ciò di cui si parla, anche fra le donne intervistate questo è accaduto, per le protagoniste delle lotte di quegli anni vedere il documentario è stata una occasione di conoscere ciò che l’una dell’altra magari non sapevano.

Molto interessanti sono comunque le reazioni del “genere maschile”. I ragazzi sono sempre desiderosi di chiedere, capire, discutono e portano le loro idee sia pure con un certo timore all’inizio. Vedo che c’è una capacità di mettersi in discussione che mi sorprende in modo assolutamente positivo, se si riuscisse a tradurre in pratiche di lotta e di vita quotidiana sarebbe una conquista molto importante! Da parte dei maschi che hanno vissuto quegli anni, invece, generalmente c’è un interesse silenzioso. Non c’è ancora la capacità di prendere parola pubblica su certe questioni, io credo perché non c’è stata e non c’è la costruzione di un percorso collettivo di elaborazione del quale invece ci sarebbe proprio bisogno.

Finora non ho incontrato alcuna difficoltà, ma sempre occasioni molto stimolanti, in luoghi e con persone diverse. Sono situazioni in cui si rinforza il senso del lavoro fatto, si costruiscono le condizioni di una presa di parola. Raccontare ha senso perché non si dimentichi ad esempio cosa significava vivere quando l’aborto era un reato e quale grande capacità di auto organizzazione e di autonomia abbiamo avuto, a livello politico e decisionale. Bisogna fare in modo che questi racconti diventino patrimonio comune e diano forza alle lotte di oggi, nelle quali siamo sempre in prima fila.

Esisterà mai un mondo dove veramente uomini e donne saranno considerati esseri viventi aventi gli stessi diritti e gli stessi doveri?
È già esistito, anche se è stato spinto nell’oblio dalla cultura dominante, sappiamo che un altro mondo è stato possibile. E noi lottiamo perché sia possibile ancora.

Ignoranti su internet

Fermi tutti: la nuova moda dei deputati che non sopportano internet (quelli che sono abituati a trovare spumante e pasticcini ogni volta che devono proporre un soliloquio e che non reggono un confronto qualsiasi su un social qualsiasi) è la moda di “regolamentare” i social con, udite udite, una carta d’identità per iscriversi. Non sanno (o fingono di non sapere) che esistono già le leggi e tutti gli strumenti per dare un nome e un cognome a un account ma l’argomento, trattato in superficie sfruttando l’ignoranza, funziona benissimo.

Eppure è un cagata pazzesca.

Dice Matteo Grandi, che con internet ci lavora e lo studia da sempre: «La carta d’identità per andare sui social è una delle proposte più ridicole e senza senso che non si sentivano da anni e capisco che la politica ha una gran voglia di mettere le mani sul web e di disciplinarlo ma probabilmente la politica non ha presente di cosa sia la rete. Mi sorprende che una proposta del genere arrivi da un deputato giovane e sedicente social come Marattin ma la cosa veramente grave è la seguente: la prima è che oggi di fatto un anonimato vero e proprio in internet non esiste perché con l’indirizzo ip siamo tutti rintracciabili e la seconda è che l’anonimato, per chi riesce invece a nascondersi dall’indirizzo ip, è un diritto umano sancito e riconosciuto perché è proprio grazie all’anonimato che si possono fare denunce anonime (e ne sono state fatte tante, che hanno anche cambiato il corso della storia) senza incorrere in ritorsioni. Allora iniziamo a capire che non è mettendo mano in maniera goffa e arbitraria a delle leggi che si può migliorare l’aria che si respira in rete ma è solo attraverso percorsi seri di cultura digitale».

E io non avrei potuto dirlo meglio. Ignoranti su internet che vogliono regolamentare internet. Poveri loro. Poveri noi. Chissà quando tornerà di moda studiare prima di parlare.

Buon mercoledì.

Credersi grande di una grandezza latente

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte (S), parla mentre (da S) il ministro della Salute, Roberto Speranza, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ascoltano, Narni, 25 ottobre 2019. ANSA/FEDERICA LIBEROTTI

Ho passato tutto il giorno a leggere tutte le analisi della sconfitta. Roba guerriera, lo so. Ero curioso di sapere come uscire dalla china del pessimo risultato in Umbria, cosa ne pensassero i protagonisti, cosa ci dicono che hanno intenzione di modificare, cosa avrebbero fatto da oggi per invertire la rotta, quali fossero i comportamenti sbagliati e come sostituirli.

Un crogiuolo di errori, un estenuante elenco di errori quasi sempre degli altri: per Di Maio la colpa è del Pd che fa male al Movimento 5 Stelle come faceva male la Lega (e ha ragione Makkox quando dice che gli ricorda la storiella di quello che si toccava e aveva male dappertutto e invece era solo male al dito); nel Pd è colpa di Renzi, per Renzi è colpa del Pd. E così via in una sequela di responsabilità che sono sempre scaricabili su altri.

Ma questa non è una novità, per carità. Non ce ne stupiamo. In mezzo ai nomi dei presunti colpevoli ci sono anche le dichiarazioni di cambiamento: “così non va bene”, “dobbiamo cambiare passo”, “il governo deve dare una sferzata” sono le frasi, testuali, di chi sul governo ha grandi responsabilità.

Mi sono impegnato di più e mi sono detto: se cerco bene sicuramente vedrò qualcosa che da domani sicuramente cambierà. Mi spiego: se qualcuno dice che la litigiosità del governo sulla manovra ha influito negativamente sul governo allora proporrà una soluzione, magari incontrarsi tutti per discutere e uscire con una linea comune e uscire con la promessa di non attaccarsi sui giornali. Roba semplice. Roba così. Oppure se qualcuno dice che questo governo non ha avuto il coraggio di prendere le distanze dalle politiche di Salvini allora ti aspetti che qualcuno ci dica che da domani verrano smontati i Decreti Sicurezza, Quota 100, insomma qualcosa di concreto.

E invece niente. Ed è qui che sta il nocciolo della questione: mesi passati a contestare (anche giustamente, eh) le azioni di Salvini e non c’è nemmeno un’idea di come sostituire quei modi. Niente. Non solo non c’è niente ora: non c’è niente all’orizzonte. E ancora qualcuno si illude che le persone cambino idea per le colpe e non per le soluzioni.

Lo scrisse benissimo Italo Svevo: «Che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.»

Buon martedì.

Io e Internet. Breve storia della rete, da Arpanet ai nostri giorni

1 – Arpanet questo progenitore

Nel 1983 ero uno studente di Master alla Carnegie-Mellon University in Pittsburgh in Pennsylvania, grazie ad una borsa Fulbright. Eravamo “obbligati” in alcuni corsi di economia e di pianificazione ad usare il computer. Scaricavamo enormi quantità di informazioni di cui dovevamo ipotizzare un qualche significativo risvolto. Il tutto avveniva in dei computer condivisi in laboratorio. Erano dei terminali(molto brutti tra l’altro, con quegli schermi grigio scuro e quei caratteri verdognoli. Facevo il lavoro senza troppo domandarmi, né troppo capire dove eravamo o dove saremmo andati.

I più avanzati tra noi usavano la email. E sentivo parlare di qualcosa di miracoloso e cioè di dei “Bulletin Boards”. Luoghi informatici in cui pubblicare inserzioni.

Non lo sapevo, ma stavo usando la rete Arpanet. Si trattava di un ambiente nato negli anni Sessanta in ambito militare, ma poi ampliato alle università come la mia (che era una punta di diamante nell’Informatica negli Stati Uniti). L’idea era connettere i computer di una specifica organizzazione non attraverso un sistema verticale e piramidale, ma con un sistema orizzontale: a net, cioè a rete. Questo era possibile in particolare attraverso una serie di invenzioni tra cui la principale era il cosiddetto TCP/IP e cioè un protocollo dal qual ogni nodo che trasmetteva informazioni era sempre e ogni volta univocamente individuato.

In questo modo si sapeva da dove proveniva l’informazione, ma allo stesso tempo il non funzionamento di quello specifico nodo non portava al collasso del sistema. Tornai ad utilizzare Arpanet solo nel 1995 quando ero in grado di corrispondere dal Mozambico con una sola persona della mia rete di conoscenze. Una zia urbanista alla World Bank di Washington.

Tornato dal Mozambico qualcuno mi disse “Ehi è arrivato Internet”. Non sapevo che cosa fosse né che cosa fosse successo nel frattempo.

2 – Il grande inventore Tim Berners-Lee

A volte nelle vicende dell’umanità capitano cose belle e fortunate che ne cambiano il corso (che so, Jenner che inventa il vaccino, Fleming la penicillina ecctera). Ebbene uno di questi eventi fortunati è l’invenzione di Tim Berners-Lee al Cern. In una parola invece di collegare alcuni contenuti via rete, Tim inventa come condividere il contenuto del proprio computer. E‘ come se a casa mia rendessi una stanza aperta a tutti! Per ottenere questo fine Berners-Lee ha inventato un linguaggio ipertestuale (si chiama Html e il suo cuore è il Link). Html sviluppa HperTalk e il mondo di Bill Atkinson, eroe e geniale programmatore del Macintosh, che aveva creato nel 1987 Hypercard. Poi Tim deve creare un ambiente multimediale (nella stanza ci sono cassette di musica o video, libri, disegni, database che devono essere tutti accessibili) e infine non importa se io sono un cinese, un californiano o un italiano (cioè se il il mio computer parla Unix, Window o MacOs). La stanza deve essere completamente praticabile da tutti. Era il 1991 e Berners Lee pubblicò il primo sito e creò la denominazione Www: World Wide Web, una ragnatela che si espande in tutto il mondo. Negli anni successivi, Marc Andreessen mise a punto quello che per molti fu il primo browser (lo sfogliatore…) cioè il programma che permetteva di frugare dentro la stanza aperta e da quella a tutte le stanze aperte del mondo. Era chiamato Net-scape. Paesaggio della rete diremmo noi. Oltre al Landscape, al Cheapscape, all’Urbanscape adesso esisteva il Netscape: era un paesaggio mentale, un poco un modo di essere, un modo di condividere non solo idee e file.3 – Costruire la propria casa

Il 23 ottobre del 1999 ci fu un fatto per me decisivo. Ci fu la release numero 9 del sistema operativo Macintosh (definito dalla Apple «The Best Internet Operating System Ever»). In questa versione era previsto un modo facile ed efficace per creare e aprire la propria stanza. E cioè per organizzare una parte del proprio computer affinché fosse visitabile e entrasse a pieno titolo nel World Wide Web. Ci misi poco tempo a capire come fare, e nel dicembre del 1999 avevo creato il mio sito. Fu per due o tre anni effettivamente residente nel mio computer all’università (che rimaneva sempre accesso e collegato alla rete) e fu successivamente trasferito nel server della Università “Sapienza” dove ancora oggi – vent’anni dopo – sta . Misi subito dei picchetti concettuali. Questa stanza aperta era veramente la mia Home, cioè doveva rappresentare qualcosa di più della mia immagine pubblica di saggista e docente. Vi era certo l’accesso a bibliografie e rimandi ad articoli e saggi, ma esistevano delle news, dei commenti, delle foto del mio ufficio e dei libri o articoli che leggevo, vi erano dei commenti sull’attualità, dei dieci a lode che attribuivo a quanto di meritevole esisteva. E vi era una sezione didattica in cui pubblicavo integralmente le tesi di laurea. Tutte cose inconcepibili al tempo e rivoluzionarie. Questo sito per una fase, agli albori di internet, ottenne un tale successo che era il quarto della graduatoria alla Sapienza. Preceduto solo da siti istituzionali, di facoltà e biblioteche. Una idea fondamentale fu quando decisi di ripubblicare una selezione dei miei articoli del decennio precedente, non solo nella mia Home page, ma nella più importante rivista on line italiana. La rubrica era Coffee break la rivista Arch.it e si era alla fine del 2000.

Naturalmente il sito era compagno di strada per lo sviluppo di molte delle mie altre attività di ricerca ed editoriali di cui non voglio tediare il lettore, ma qualcosa va detto sulla didattica. Nel 1999 facevo le lezioni ancora con le diapositive, ma il corso stesso e i suoi esiti furono alla fine riassunti in una versione web (ancora esiste). L’anno dopo il corso passò integralmente al computer. Ma non era affatto un power point. Era un corso svolto integralmente attraverso le pagine Html. Gli studenti potevano tornarci, usare i link, mandare degli approfondimenti. Dal 2001 il grandissimo salto: non solo io come docente, ma tutti gli studenti avevano un proprio sito che accompagnava lo sviluppo del corso e ne conteneva tutto il materiale. Ognuno doveva capire come partecipare al World Wide Web. Si trattava di essere parte attiva di quel ribaltamento da Oggetto a Soggetto che era una delle promesse di Internet. Si trattava di diventare coscientemente “Trasmettitori di informazioni” e non passivi utenti.

Mi fermo qui per ora perché di cose ne sono successe. Ma rimane il concetto base. Internet è una sfida per la comprensione delle sue potenzialità, una sfida che dobbiamo accogliere con creatività. E lottare per la sua sostanza di progresso e libertà. [Prima puntata – SEGUE]

*-*
Antonino Saggio, insegna dal 1985 Informatica e Architettura prima alla Carnegie-Mellon di Pittsburgh, poi all’ETH di Zurigo e dal 1999 alla “Sapienza” di Roma. Ha fondato la collana internazionale “La rivoluzione informatica in Architettura” (Birkhauser, Edilstampa) che dal 1998 ha prodotto 38 volumi ognuno incentrato su una personalità o su un tema rivelante per comprendere il grande cambiamento di orizzonte teorico e culturale di cui l’Informatica è portatrice anche per l’architettura.