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Settimo: non rublare

Italian Premier Giuseppe Conte, third right, and Russian President Vladimir Putin, third left, toast during the dinner at Villa Madama after their talks in Rome, Thursday, July 4, 2019. Francis.Gianluca Savoini (cerchiato in fondo ) (Alexei Druzhinin, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP) [CopyrightNotice: Sputnik]

Forti le reazioni sul caso Lega-Russia: il ministro dell’interno aveva tentato di chiudere tutto come semplice blablabla e invece, ovviamente, la cosa ieri è montata e, ovviamente, l’opposizione ha fatto l’opposizione. Così accade che nel Parlamento (che sembra diventato il paese di Bengodi) qualcuno pretenda di avere risposte e spiegazioni un po’ più convincenti dei versetti da bulletto che ha grugnito Salvini e la presidente del Senato Casellati decide che no, che in Parlamento non si deve parlare (nonostante il nome Parlamento) di pettegolezzi giornalistici.

Poiché la realtà supera la fantasia, non passano molti minuti che i pettegolezzi giornalistici diventano un’indagine. E chissà come ci sarà rimasta male, la Casellati, di questi giudici che si mettono in testa di indagare sui pettegolezzi, eh?

Ma c’è un’altra cosa curiosa nell’affare Lega-Russi che andrebbe sottolineato: Gianluca Savoini (l’uomo registrato mentre tentava di convincere i russi a finanziare la Lega) aveva smentito quell’incontro che invece oggi è costretto a confermare. Non ci credete? È tutto qui. Quindi si potrebbe serenamente dire che siano bugiardi, almeno questo.

Poi c’è la reazione di Di Maio, potentissima e decisa come al solito: “meglio Putin che i petrolieri” ha detto il ministro. Perché lui funziona così, con un ragionamento singolo: se spunta merda basta trovarne una nel passato che puzzi di più, così sarà sempre colpa di quelli prima. E fa niente se intanto ci affoghiamo dentro. E così accade che i rivoluzionari da tastiera siano passati da “e allora il Pd?” a “e allora il Pci?”. Secondo me se qualcuno osserva questo Paese da fuori si scompiscia dal ridere.

Ultimo ma non ultimo il buon Giorgetti che ci vuole convincere che quel Savoini sia solo un millantatore. E sarà per questo che il ministro dell’interno se lo porta nelle riunioni di Stato. Eh già.

Buon venerdì.

Palmaria, l’isola del tesoro

Stitched Panorama

Dimenticate il vociare degli sciami di vacanzieri che si accalcano ogni estate nelle pur splendide Cinque Terre. Dimenticate il rombo dei rimorchiatori e le gru che sferragliano senza sosta al porto di La Spezia. Nella baia del capoluogo ligure, meglio conosciuta come Golfo dei poeti per i tanti letterati che se ne innamorarono, ancora resiste un’oasi in gran parte silenziosa e incontaminata. Una delle poche, in questo lembo di Liguria dove l’impatto dell’uomo è ben visibile, in ogni centimetro su cui si posa lo sguardo. Stiamo parlando della Palmaria, l’isola maggiore dell’arcipelago ligure, che si sporge a 100 metri di distanza dal promontorio di Portovenere. Abitata da almeno 5mila anni, ha superato periodi di sfruttamento intensivo (sull’isola si estraeva marmo portoro, nero con striature dorate) ed ha schivato l’urbanizzazione feroce, tutelata dalla presenza di zone militari e di aree protette. L’isola, infatti, fa parte di un Parco regionale, ed è sito di interesse comunitario e Patrimonio Unesco. Un piccolo gioiello, insomma, che secondo il parere di oltre 15.700 persone rischia di essere stravolto.

Questo infatti è il totale delle firme raccolte con una petizione online – oltre il quadruplo dei residenti di del Comune di Portovenere – per preservare «uno degli ultimi angoli di natura praticamente integri della costa ligure» e bloccare il Masterplan. Fortemente voluto dal governatore della Regione Giovanni Toti – trepidante in questi giorni nel tentativo di scippare la leadership di Forza Italia al Cavaliere – il piano in questione punterebbe sulla carta a «riqualificare in termini paesaggistici, architettonici e funzionali» l’isola, «in primis per renderla nuovamente produttiva».

Tradotto in parole povere: darla in pasto a capitali privati per far fruttare i suoi tesori. Diventerà «la Capri della Liguria» disse nel 2016 il governatore, solleticando gli appetiti di investitori dei Paesi arabi, che surriscaldarono all’epoca la linea telefonica del sindaco di Portovenere.

Il Masterplan – approvato a maggio da una cabina di regia composta da Regione Liguria, Comune di Portovenere, ministero per i Beni culturali e Marina militare – è frutto di un progetto “partecipato” durato tre anni. Il piano prevede il potenziamento dell’o erta turistica, tramite il recupero di una cinquantina di immobili che la Marina trasferirà al Comune per un totale di 15mila metri quadrati, e poi la rivitalizzazione della viticoltura, un an teatro per manifestazioni da realizzare nella cava abbandonata, un impianto di risalita per raggiungere le fortificazioni militari sulla vetta dell’isola.

«Nessuno mi convincerà che sia meglio un luogo di rovi e sterpi, invece che di ulivi e vigne, di ruderi invece che case ben tenute» ha dichiarato Toti durante la presentazione del progetto, alla presenza del suo autore, l’architetto Andreas Kipar. «Vogliamo preservare un’isola già antropizzata. Tenerla così è portarla alla distruzione. Ci saranno opportunità di lavoro. E nemmeno un centimetro in più di cemento».

Ma un buon numero di cittadini, in particolare tra coloro che raggiungono abitualmente l’isola in battello per godere del profilo ancora selvaggio delle sue spiagge e grotte, non si fida. «Il “peccato originale” è il Protocollo di intesa stipulato tra Marina, Comune, Regione e Agenzia del demanio nel 2016», dice a Left Paolo Varrella, di Legambiente La Spezia. «La Marina militare chiede a Portovenere come contropartita per i beni ceduti, in gran parte ruderi fatiscenti, la ristrutturazione dei due stabilimenti balneari che restano nella sua proprietà e la realizzazione di infrastrutture nell’isola. Secondo la nostra stima, siamo sui 3-4 milioni di euro di lavori». Una somma che il Comune potrebbe trovare grazie alla vendita o alla cessione di una parte degli immobili. «Quindi i cittadini di Portovenere questi beni li pagherebbero due volte, prima con le loro tasse come contribuenti, poi per rimborsare la Marina», spiega incredulo Varrella.

Inoltre, secondo i detrattori del progetto cosiddetto “partecipato”, il coinvolgimento della popolazione locale sarebbe stato ben poco. «Si è trattato casomai di un percorso di ascolto», lamenta Fabio Giacomazzi, amministratore del gruppo Facebook “Palmaria Sì Masterplan No”. «Un percorso a bassissima intensità di inclusione che garantiva poco i partecipanti – spiega -. Chi lo ha seguito non ha potuto votare su alcun tema».

«I cittadini considerano la Palmaria un bene comune, un polmone della città. La vocazione dell’isola è quella del turismo e della fruizione sostenibile – riferisce Claudia Rancati, attivista No Masterplan e militante del Prc – mentre ora Toti e il Comune vorrebbero snaturare il luogo per renderlo una meta del turismo di alta fascia». E poi fa un esempio: «L’ex fortificazione in cima all’isola, la batteria Semaforo, è ora utilizzata come Centro di educazione ambientale ed è frequentata dalle scolaresche. Nel progetto verrebbe trasformata in un albergo di lusso».

Ed è proprio l’ambiente che potrebbe pagare il prezzo più caro di questa operazione. «Nel tratto di mare tra Palmaria e Portovenere c’è l’ultimo appezzamento di Posidonia oceanica, pianta protetta, di tutto il Golfo della Spezia», rammenta Varrella di Legambiente. «C’è poi il tarantolino, un geco che vive solo qui, c’è la Centaurea veneris, un ore tipico dell’isola, ci sono colonie di uccelli marini, cormorani». Specie che per sopravvivere hanno bisogno di tutele che mal si conciliano con il cemento.

Ma il sindaco Cozzani, imprenditore sostenuto dal centrodestra, respinge al mittente ogni accusa dei No Masterplan. «Intanto sfatiamo un mito, i 3-4 milioni che il Comune dovrebbe dare alla Marina sono l’invenzione di fantomatici ambientalisti», spiega il primo cittadino, raggiunto al telefono. «La nostra stima è di circa 2,6 milioni, e questo è il tetto massimo che dovremmo eventualmente riconoscere. Ma non saranno a carico dei cittadini, bensì dei soggetti attuatori che parteciperanno alle aste per i lotti che andremo ad alienare» «Inoltre, se anche le vendite garantissero introiti minori, il comune darà alla Marina solo una percentuale del ricavato, intorno al 25-30%. Stiamo discutendo proprio ora questa clausola di salvaguardia da inserire nell’accordo attuativo del progetto», aggiunge il sindaco. Ma per il momento ancora nulla è stato messo nero su bianco.

«Che il Masterplan non sia stato votato, poi, non è vero» ribatte Cozzani, «il progetto iniziato tre anni fa ha visto diversi incontri con stakeholder e persone che hanno voluto parteciparvi», dopodiché «in consiglio comunale si è votato quando abbiamo dato inizio al percorso e poi ci saranno i voti necessari per approvare le modi che ai piani regolatori, al piano del Parco, a quello paesaggistico».

In ne, secondo il sindaco, il Masterplan è indispensabile per portare i servizi primari nell’isola, che da tempo aspettavano i 35 cittadini che la abitano. «Nell’isola non c’è la fognatura – racconta il sindaco – non ci sono bagni pubblici, non c’è la condotta del gas» servizi che sarebbero previsti dal piano. Ma davvero era necessario un Masterplan da 25 milioni di euro (tra investimenti pubblici e privati previsti) per dare un minimo conforto agli isolani? «Chi parla in questo modo non conosce il bilancio del Comune», risponde il sindaco, che stila l’elenco dei debiti commerciali e finanziari.

«Ma i servizi di base vanno fatti a prescindere, sono un diritto di tutti. Non è che per fare una fogna vendo mezza isola ai privati», commenta Alessandra Ricci, architetto e attivista del comitato Palmaria Sì Masterplan No. «È assurdo, si vuole fare dell’isola la Sesta Terra», ironizza l’architetto, alludendo alla frequentazione massiva delle vicine Cinque Terre. «La valorizzazione di Palmaria prevista dal progetto, in realtà, è una forma di svilimento, di omologazione del territorio», aggiunge.

Inoltre, «se nel Masterplan è presente una stima dell’investimento pubblico per le ristrutturazioni degli immobili della Marina (i 2,6 milioni citati dal sindaco, nel piano si parla di una cifra compresa tra 1,8 e 3,4 mln), è invece assente un impegno di spesa per la realizzazione dei servizi primari che le istituzioni sbandierano come vero obiettivo di tutto il progetto», specifica Maria Francesca Lanznaster, avvocato e referente del gruppo legale del comitato che si oppone all’intervento nell’isola.

Altre forti perplessità emergono anche dalla lettura dei documenti ufficiali. A pagina 79 del piano di Kipar, ad esempio, si legge che «uno degli obiettivi del Masterplan è la promozione di un turismo sostenibile e culturale necessario al fine di preservare l’eccellenza ambientale del sito della Palmaria». Poche righe dopo, però, si ammette che al piano manca un tassello, ossia «l’analisi della capacità di carico» del sito, una valutazione «complessa e di difficile definizione», «uno dei progetti richiamati nel Piano di gestione Unesco» – si legge addirittura nel documento – utile a valutare il numero massimo di turisti che può tollerare un territorio senza essere danneggiato, che però al momento non c’è, e dunque «si rimanda pertanto ad una data successiva» per la preparazione di uno studio del genere, «monitorando nel tempo le azioni intraprese nel Masterplan».

Insomma, prima si interviene a gamba tesa negli equilibri dell’isola, poi si valuteranno i rischi e le ricadute, strada facendo. Un modo curioso di procedere. «La mistificazione che hanno creato è quella di redigere un masterplan “a priori” sostenibile, grazie anche alla fama positiva dell’architetto Kipar, mentre in realtà la sostenibilità è tutta da dimostrare», torna a dire Giacomazzi.

Anche sul limite alla cementificazione, la norma è ambigua. «Il Masterplan prevede che i metri cubi restino quelli, è vero, ma le volumetrie possono essere accorpate diversamente e le strutture demolite e ricostruite, con cambio di destinazione d’uso – spiega Giacomazzi – per un turismo di medio-alto livello, come si legge. C’è un tentativo di rendere l’isola un paradiso per ricchi».

«D’altronde – ricorda anche Lanznaster – l’ambiguità del progetto risiede a monte negli strumenti usati per realizzarlo: i masterplan, molto in voga negli ultimi anni, non sono dotati di una normativa dedicata, dunque non offrono garanzie concrete circa il rispetto delle complesse procedure previste in caso di varianti ai piani urbanistici ed edilizi, prima tra tutte la Valutazione ambientale strategica».

Va detto inoltre che Palmaria rientra tra gli “ambiti territoriali strategici” della Regione Liguria indicati dalla legge regionale 29/2017. Su queste aree specifiche «la Regione promuove la formazione degli atti di intesa con i Comuni interessati, le Autorità portuali e con la Soprintendenza Belle arti e paesaggio in presenza di beni paesaggistici vincolati». Questo atto di intesa produce la nomina di un «Commissario straordinario regionale cui è demandato il compito di agevolare l’attuazione dell’intesa e la realizzazione degli interventi previsti», ma produce anche «gli e etti di variante dei vigenti piani urbanistici e territoriali, generali e di settore, di livello comunale e regionale». E il futuro commissario sarà proprio il sindaco Cozzani, mentre l’obiettivo è quello di chiudere l’Atto di intesa «entro la fine del 2019», stando alle parole dell’assessore regionale all’Urbanistica Marco Scajola. Tutto è pronto, dunque, affinché il progetto possa prendere una corsia preferenziale, snellendo le pratiche.

E gli oltre 15mila cittadini che si oppongono? «Ma secondo lei saranno tutti edotti di quanto stiamo facendo, oppure saranno strumentalizzati da chi dice “distruggeranno la Palmaria e daranno 4 milioni di euro alla Marina senza avere niente in cambio”?», risponde il sindaco. Comune e Regione, dunque, tirano dritto. Ma la battaglia, giurano gli attivisti No Masterplan, è appena iniziata.

 

L’inchiesta di Leonardo Filippi è tratta da Left in edicola dal 12 luglio 2019


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I nemici dell’interesse collettivo

Italian Prime Minister Giuseppe Conte (2R), Italian Deputy Minister Matteo Salvini (L), Italian Deputy Minister Luigi Di Maio (R) and Russian President, Vladimir Putin, during a dinner at the end of their meetings at Villa Madama in Rome, Italy, 04 July 2019. ANSA/CHIGI PALACE PRESS OFFICE/FILIPPO ATTILI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Dopo aver subito lo scacco della liberazione della capitana della Sea-Watch3, Carola Rackete (per i giudici ha agito con l’obiettivo di adempiere al dovere di «salvare vite umane»), il ministro dell’Interno Salvini è passato direttamente al sequestro del piccolo veliero Alex non appena giunto nel porto di Lampedusa. Non appagato, ha riunito il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica pur di fermare le navi umanitarie che portano soccorso in mare. Sulla strada aperta dalla ministra grillina Elisabetta Trenta, ora Salvini vuole schierare le navi militari contro i rari nantes, contro i migranti che coraggiosamente sfidano i flutti in cerca di un futuro possibile e contro i naufraghi che rischiano di affogare. Presto il ministro comincerà a pensare di affondare direttamente le navi delle Ong come ha suggerito Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia per “risolvere” il caso della Sea-Watch3?

Usare il pugno duro con i deboli gli viene facile e torna comodo: fingendo di ingaggiare un braccio di ferro con l’Europa, Salvini fa il gioco della Ue che punta al controllo dei flussi e ad esternalizzare le frontiere. Ma la sua cinica guerra ai migranti ha anche l’obiettivo di distrarre l’opinione pubblica. Così, furtivamente, il governo giallonero taglia risorse alle scuola e alla sanità, comprime ulteriormente il diritti e si appresta ad allargare la forbice delle disuguaglianze con l’autonomia differenziata (tema a cui dedichiamo un ampio sfoglio). Ma non solo. Con lo sblocca cantieri e la deroga al codice degli appalti incoraggia la speculazione e la cementificazione di un Paese già ferito da un vertiginoso consumo di suolo, guardandosi bene dall’investire sulla sua necessaria e urgente messa in sicurezza (che sarebbe utile anche per creare posti di lavoro).

Dopo svariati condoni, compreso quello previsto per la fragilissima Ischia, questo governo con il ministro Bonisoli non ha trovato di meglio da fare che varare una nuova riforma dei beni culturali, togliendo autonomia a musei come gli Uffizi e il museo etrusco di Valle Giulia, gettando ulteriormente nel caos la rete museale e delle soprintendenze già disarticolata da Franceschini che l’ha staccata dal rapporto vivo con il territorio. Nel silenzio generale, intanto, va avanti una massiccia campagna di svendita di beni pubblici e di sfruttamento intensivo (a tutto vantaggio del profitto di privati) di isole, colline, spicchi di paesaggio, città storiche: emblematico il caso di Venezia dove si è di nuovo sfiorata la tragedia con una grande nave che, a causa del maltempo, ha rischiato la collisione con un vaporetto e la banchina nei pressi di piazza San Marco. Se il ministro Toninelli tace, su questo tace anche l’Unesco che invece potrebbe far pressione perché il delicato organismo della laguna venga tutelato e rispettato.

Quanto a questo auto nominato governo del cambiamento, procede perfettamente in linea con lo scellerato progetto di sfruttamento dei beni comuni e del patrimonio storico artistico cominciato negli anni Novanta, con le privatizzazioni selvagge dell’era Berlusconi, con le cartolarizzazioni avviate dalla “finanza creativa” di Tremonti che da ministro dell’Economia varò la Patrimonio dello Stato Spa, che rendeva vendibile ogni proprietà pubblica e che fu un fallimento totale anche sul fronte degli incassi statali. Su quel disastroso progetto neoliberista, come è noto, si sono appiattiti anche i recenti governi di centrosinistra, folgorati sulla via di Damasco del blairismo, che si sono disinteressati della tutela del paesaggio e dei beni culturali prevista dalla Costituzione occupandosi solo di valorizzazione, intesa come monetizzazione.

Quel che è accaduto per il patrimonio storico artistico – raccontato magistralmente da Fulvio Cervini in questo sfoglio – è successo anche per beni essenziali come l’acqua. La vittoria del referendum sull’acqua nel 2011 è stata nei fatti cancellata, il risultato del voto disatteso, quando non letteralmente boicottato (con provvedimenti come il decreto Madia che si sono addirittura posti in contrasto) come denunciano Riccardo Petrella e Alberto Lucarelli in questa cover story, accendendo i riflettori sulla nuova stagione di mobilitazione in difesa dei beni comuni che si è aperta con iniziative di partecipazione dal basso che rilanciano la democrazia partecipativa rimettendo al centro l’interesse collettivo.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 12 luglio 2019


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Majorino (Pd): «Il governo attuale si fonda sulla paura, quello precedente era pieno di scelte sbagliate»

Dopo due legislature come assessore alle Politiche sociali al Comune di Milano, prima con Giuliano Pisapia e poi con Giuseppe Sala, Pierfrancesco Majorino è volato al Parlamento europeo con il Pd, dove intende portare l’esperienza accumulata nel capoluogo lombardo. Raggiunto nel pieno del confronto fra il governo italiano e la piccola Ong Mediterranea, “rea” di aver salvato 59 vite umane, viene continuamente interrotto dalle chiamate da Lampedusa: «Che spettacolo vergognoso e disumano. C’è una coazione a ripetere nel cattivismo dello schema del governo -dice sdegnato – Sembra che nessuna situazione si debba poter risolvere, nel Mediterraneo come nell’accoglienza. Non abbiamo un ministro che sottovaluta o compie errori ma che alimenta insicurezza per rincorrere il consenso. Un gioco funzionale in cui uomini e donne non contano nulla».

Ma è inevitabile proporre all’europarlamentare un paragone con le precedenti gestioni della questione e la risposta è netta: «Si tratta di due progetti incomparabili. Quello attuale è fondato sulla paura, quello del governo precedente era pieno di scelte sbagliate. Io nel Pd ero fra i pochi allora a parlarne apertamente. Minniti ha sbagliato ma anche la precedente inadeguatezza del ministro Alfano ha prodotto danni ancora maggiori. Sulle Ong le collusioni con gli scafisti sono state smentite dai fatti. Ma oggi è un’altra storia, si producono solo paura e rancore per alimentare il proprio capitale politico. Certamente bisognerebbe fare altro: svuotare i centri di detenzione in Libia, realizzare missioni internazionali che garantiscano in quel Paese regole stabili ma oggi inimmaginabili. Bisogna mettere in fila tre punti: riformare il Regolamento Dublino intanto e attuare una redistribuzione in Europa delle persone. A Milano sono giunti tanti siriani ed eritrei che non volevano restare da noi. Molti se ne sono andati sfidando le frontiere in assenza di un percorso di legalità. E poi bisogna cancellare in Italia la Bossi Fini, ancora in vigore e che rappresenta un combinato disposto in assenza di flussi e di accordi bilaterali. Non ci sono canali di ingresso legali e quindi costringe all’irregolarità. Da ultimo serve un grande piano sull’immigrazione che coinvolga, in Europa, governi e grandi imprese. Noi nelle città tentiamo di realizzare piccole buone pratiche ma siamo una goccia nel mare».

Milano è stata in poco tempo teatro di grandi manifestazioni in favore dell’accoglienza, una eccezione rispetto a quanto accade nel resto del Paese e l’ormai ex assessore ha un personale punto di vista: «Gli enti locali hanno il dovere di intervenire e agire, non solo per i profughi ma per chiunque abbia bisogno – afferma -.  Le manifestazioni di Milano sono il frutto di un lavoro fatto negli anni. Ci siamo mobilitati senza girare la testa dall’altra parte e dal 2014 al 2018 il nostro Comune ha garantito accoglienza a 128 mila persone, in gran parte transitanti, di cui 25 mila bambini, senza che la città ne venisse sconvolta. Anzi contemporaneamente si è aperta una fase di sviluppo e di investimenti».

Investimenti che aprono ad altri scenari. La Milano in crescita ha anche paura di una crescita esponenziale del prezzo delle case, di speculazioni legate alle Olimpiadi invernali, di gentrification insomma ai danni dei più poveri: «I numeri in questo periodo non ci dicono che il costo delle case sia in crescita – continua – malgrado quanto si dica in giro. Certo che il problema esiste e non è facile tenere insieme sviluppo ed inclusione sociale. Ma io sono all’antica, penso che non ci sarà mai inclusione senza crescita. Naturalmente bisogna redistribuire ed evitare che ad esempio cresca il consumo di suolo, garantendo risparmio energetico. Chi deve svolgere una funzione di governo deve occuparsi del diritto alla casa e all’abitare come tema di coesione sociale. Deve garantire una qualità e una accessibilità soprattutto ha chi è in difficoltà. Noi ci abbiamo provato attraverso una politica di edilizia residenziale pubblica attraverso il recupero degli alloggi di proprietà del Comune, assommano ad un terzo di quello complessivo e il resto è della Regione. Abbiamo potuto assegnare circa 3000 alloggi, stiamo realizzando piani di soluzioni abitative sapendo che il problema è costante da almeno 15 anni. In un Paese in cui l’edilizia pubblica è rimasta al “Piano Fanfani” (dal 1949 al 1963), con grandi responsabilità anche della sinistra, noi abbiamo investito centinaia di milioni di euro per affrontare le criticità. Certamente abbiamo zone di periferia molto problematiche, anche se non come a Roma, ma c’è anche un terzo settore e un mondo dell’associazionismo che ci mettono la faccia e si relazionano con la nostra amministrazione. Non voglio nascondere la polvere delle marginalità sotto il tappeto ma non lasciamo nulla di intentato per affrontarle».

Continua ancora Majorino: «La città è contenta dell’opportunità rappresentata dalle Olimpiadi. Anche questa è una opportunità se Milano mantiene l’ossessione per la qualità sociale della vita. Si combattono i nazionalismi e il tentativo di alimentare i conflitti fra chi sta male costruendo una città migliore per tutte e per tutti. La nostra è stata la prima città per il contrasto alle povertà e il sostegno al reddito. Dal 2011 abbiamo garantito una crescita del 42% nei servizi per la disabilità. Non siamo un’isola felice ma abbiamo attuato politiche di riscatto sociale istituendo un mini Rei comunale prima ancora che avvenisse a livello nazionale. Comprendo che ci siano paure rispetto alle Olimpiadi ma vanno affrontate. Intanto non utilizzando mai misure straordinarie. La cultura dell’emergenza aumenta i rischi. Io non sono esperto di grandi eventi e so bene che in altri Paesi questo ha portato danni e guadagni agli speculatori. Ma siamo in grado di garantire trasparenza e servizi utili per tutti. La stazione di Porta Romana diventerà un grande scalo ferroviario, avremo strutture sportive recuperate a Rogoredo, ci muoveremo badando soprattutto alla sostenibilità».

E Milano sembra aver fatto della lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale un altro proprio cavallo di battaglia. Ma le critiche non sono mancate: da una parte le prese di posizione ecologiste e poi l’aumento, a partire dal 15 luglio del biglietto del bus, che rischia di allontanare dal servizio pubblico. «Intanto sono convinto che la “svolta green” sia reale e importantissima. Per l’amministrazione è da tempo una priorità concreta – risponde – penso alle politiche messe in atto in area A e C, alla raccolta differenziata, ai progetti educativi. Per i trasporti abbiamo attuato una riorganizzazione tariffaria che premia chi fidelizza. L’abbonamento annuale ai trasporti a prezzo completo avrà un costo di 330 euro con tariffe agevolate per cui fino a 14 anni sarà garantita la gratuità e fino ai 27 un forte sconto. E poi riduzioni enormi per chi è anziano, chi ha redditi bassi, per chi utilizza i servizi pubblici in regime di semilibertà per recarsi al lavoro dal carcere. A breve avremo in totale 5 linee metro e il servizio in abbonamento sarà esteso ad altre aree dell’hinterland. Siamo non solo al fianco dei tanti ragazzi e ragazze che manifestano per un ambiente migliore ma cerchiamo di anticipare le loro richieste garantendo una città più vivibile. Non vogliamo dare solo pacche sulle spalle a chi manifesta. Io sono stato al Pride dal 2011 intervenendo, interveniamo per garantire servizi antidiscriminazione e ci prendiamo responsabilità per la cura dell’ambiente come per quella della convivenza. Il nostro vuole essere un messaggio di cultura politica e a proposito, vorrei anche precisare che anche un servizio essenziale come quello dei trasporti, fino a quando governeremo noi resterà pubblico».

Majorino non intende dimenticare Milano ma continuare ad affrontare le difficoltà insite nell’amministrare un territorio: «A Strasburgo voglio occuparmi di affari sociali, sviluppo, cooperazione, esteri, immigrazione ma anche di rigenerazione urbana. C’è da discutere anche di questo in Europa».

Campagna di Russia

Il vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, con il presidente russo Vladimir Putin in una immagine pubblicata sul suo profilo Twitter, 04 luglio 2019. TWITTER MATTEO SALVINI +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Non so se avete avuto modo di ascoltare l’audio in cui Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, presidente dell’associazione indipendente Lombardia-Russia e cane da guardia del ministro dell’Interno ripete in inglese piuttosto stentato: «Vogliamo cambiare l’Europa. La nuova Europa deve essere molto più vicina alla Russia» per convincere gli uomini di Putin a finanziare la Lega e il capitano.

Al di là dell’incazzatura di Salvini che annuncia querela (lui, quello che irride gli altri quando lo querelano, con il suo solito doppiopesismo per cui è di buonsenso solo ciò che pensa lui) in quel dialogo esce tutta la truffa (e la fuffa) di un sovranismo che è di fatto la cessione dell’Italia al miglior offerente. Questi in cambio di qualche voto sono capaci di dire qualsiasi cosa e in cambio di soldi sono capaci di promesse indicibili.

È mostruosa anche l’architettura con cui questi soldi sarebbero dovuti arrivare: un accordo petrolifero, con l’obiettivo di spingere l’Europa su una linea nazionalista, più in linea con la Federazione Russa. BuzzFeed News non è riuscito a identificare i tre russi ma per due volte si sente che avrebbero dovuto fornire i dettagli al vice primo ministro Dmitry Kozak, spiegando di sperare di ottenere la «luce verde» da «Mr. Pligin» la settimana seguente. Vladimir Pligin è definito come “membro potente” di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. In quelle ore anche Salvini era a Mosca.

In un Paese normale un audio del genere provocherebbe un terremoto (immaginate i grillini se fossero all’opposizione) mentre vedrete che qui da noi passerà liscio come l’olio. Il problema non è solo Salvini, no. Il problema è che questo Paese (in tanti pezzi della sua classe dirigente e dell’informazione) è educato a prostituirsi al potente di turno. E così mentre si parla di invasione di africani sotto la brace si può continuamente coltivare le proprie relazioni, tagliare i fondi e così via.

In un Paese normale nessuno si accontenterebbe di ascoltare come risposta a un’audio del genere «sono solo blablabla» come ha detto ieri Salvini. Chissà come finisce, la campagna di Russia.

Buon giovedì.

La cultura che unisce le due sponde del Mediterraneo

Hundreds of people assemble around a map of the Mediterranean Sea on April 23, 2015 in Marseille, protesting against European immigration politics. AFP PHOTO/ BORIS HORVAT / RMA (Photo credit should read BORIS HORVAT/AFP/Getty Images)

Di fronte allo scenario di un Mediterraneo diviso e frammentato, divenuto teatro tragico di migrazioni disperate e di morte, è necessario ripensare le categorie culturali e filosofiche che costituiscono – tanto storicamente quanto ontologicamente – la base comune delle tradizioni e della vita spirituale dei popoli mediterranei. Il vasto fenomeno migratorio, in atto in questi anni, si sta rivelando un elemento critico in grado di minare sia l’identità delle società da cui gli uomini fuggono disperatamente, sia la cultura espressa dalla civiltà europea, che è messa alla prova rispetto alle promesse di universalismo che i diritti umani dovrebbero garantire.

L’arrivo dei migranti ha messo in luce la differenza fra l’ideale di garantire prospettive di una vita dignitosa ad ogni uomo, e la spietata realtà di una società che è libera solo per merci e transazioni bancarie, generando un collasso della visione cosmopolitica della modernità. Oggi ci corre l’obbligo di essere seri e affermare che la società capitalista ha sostituito al mito illuminista del progresso lo schema aziendale dello sviluppo, rinnegando così l’ideale democratico-giacobino di una società funzionale alla felicità di ogni uomo, con l’idea della produttività e della redditività misurate attraverso il Pil nazionale. Siccome ognuno di noi è coinvolto in questo collasso, e visto che siamo tutti operai di questa assurda società-catena di montaggio, è necessario cambiare l’impostazione del metodo di osservazione.

Partendo da questa premessa, e convinti che senza un cambio di prospettiva ogni pensiero sull’attualità si risolva in congetture personalistiche, che non sono in grado di cogliere la complessità del reale, abbiamo creato un vasto laboratorio di studio al fine di cogliere in profondità le cause della crisi della nostra epoca. Per comprendere la frattura in atto tra le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo, abbiamo superato l’approccio intellettualistico e autoreferenziale tipico di una certa filosofia occidentale, decidendo di mettere in comune un processo di confronto e di dialogo con studiosi di tutte e due le sponde del Mediterraneo.

Per questo motivo, il nostro collettivo di studiosi di Filosofia in Movimento ha incontrato intellettuali magrebini cercando reciprocamente di regolare i registri della comprensione linguistica, ponendo l’attenzione intorno alla traducibilità dei linguaggi e sulla comprensibilità dei concetti, al fine di superare l’impasse riguardo importanti questioni irrisolte come la definizione di termini quali «diritti umani» o «laicità».

Gli scritti contenuti in Lumi sul Mediterraneo (Jouvence 2019), mentre si ispirano alle questioni generali sulla realtà mediterranea, che qui richiamiamo, contribuiscono da parte loro, attraverso saggi anche innovativi, a discutere e precisare meglio, su alcuni punti, lo stesso quadro complessivo dei problemi in campo; ricevono spunti e impulsi, in breve, da una tradizione ormai assestata di temi aperti, e danno un loro originale contributo sia alla migliore definizione di essi sia, quel che più conta, all’avanzamento dei tentativi tesi a risolverli.
Per la realizzazione di questo libro, abbiamo scelto di partire dalla riflessione sul Mediterraneo pensandolo quale spazio originario della convivenza, secondo la declinazione aristotelica della teoria del vivere-insieme nella dignità.

Uno spazio originario della convivenza umana non è una suggestione utopica, ma è un’idea che si fonda sull’evidenza di tratti comuni a tutti gli uomini di questo Bacino. Il Mediterraneo diviso, quale lo vediamo noi oggi, è uno spazio fortemente politicizzato, in cui le istanze identitarie e i diversi monoteismi hanno preso il sopravvento sulle vite delle popolazioni, condizionandone fortemente le relazioni umane. La frattura tra individuo e comunità, il risveglio dei nazionalismi, il fondamentalismo religioso che segnano profondamente il nostro tempo, sono il risultato dell’esacerbamento secolare di queste divisioni politiche e religiose.

Riaffermare oggi il Mediterraneo come paradigma genealogico di possibilità del vivere-insieme rappresenta una sfida audace, certamente inattuale, ma che è necessaria per inaugurare un nuovo umanesimo che si ispiri a quello dell’epoca rinascimentale, in cui l’intesa tra la latinità e l’islam consentì un progresso dell’intera umanità, soprattutto nel campo filosofico-letterario ed artistico. Tanto storicamente quanto geograficamente, il Mediterraneo, come insegnava Braudel, si caratterizza come uno spazio movimento, un crocevia antichissimo di uomini e linguaggi, in cui da millenni tutto confluisce, complicandone e arricchendone la storia. In questo senso, il Mediterraneo è un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale, in cui il non autoctono viene assorbito e poi riconosciuto, con tempi più o meno lunghi, come proprio. Lo spazio originario, di cui parliamo, è proprio questo spazio-movimento, favorito dalla particolare geografia di un mare-bacino, in cui il corso degli eventi e i paesaggi stessi si sono modificati continuamente, grazie ad un’intensificazione costante dei contatti e alla condivisione di contenuti e tecnologie che hanno favorito la costituzione di un’interculturalità ante litteram.

L’unità del Mediterraneo è una condizione in cui gli uomini sviluppano una serie di strumenti utili al miglioramento delle proprie condizioni di vita. Tra le tecnologie che gli uomini mediterranei hanno condiviso e che hanno generato un percorso evolutivo delle civiltà c’è certamente la scrittura. L’invenzione della scrittura, presso i Sumeri, fu provocata dalla necessità di razionalizzare la conservazione delle merci nei magazzini pubblici. L’invenzione delle tasse, la necessità di generare una contabilità delle risorse comuni, crearono le condizioni per lo sviluppo di una tecnologia capace di tradurre il pensiero calcolante in un documento per condividere una conoscenza utile alla comunità. La scrittura è l’invenzione che ha segnato lo sviluppo della razionalità come matrice dell’uomo mediterraneo. Ogni pensiero che è scritto diventa codice di una relazione che è passaggio di conoscenza da uomo a uomo, che è atto immediatamente e immanentemente sociale. La scrittura è passaggio, movimento, attraversamento del pensiero umano tra un essere umano e l’altro nello spazio comune, e tra civiltà e civiltà nel tempo che si fa storia.

Dalla contabilità dei magazzini dei Sumeri, la razionalità mediterranea si lega indissolubilmente allo sviluppo della tecnica dello scrivere, e si evolve nel tempo diventando testimonianza e regola della vita della comunità. Si scrivono le preghiere per i morti nell’Egitto del Medio Regno, per fornire un rituale valido per tutti e insegnare ad ogni singolo a prepararsi all’aldilà. Con la scrittura si codificano le regole del vivere comune nella Babilonia di Hammurabi, si comunica il Verbo divino nella comunità dell’esodo ebraico. Grazie alla scrittura, il pensiero razionale aristotelico viaggia dalla Grecia e, attraverso il mondo arabo, tradotto e commentato da Averroè in latino, riemerge nel Medioevo occidentale e giunge a noi come patrimonio comune di tutta la mediterraneità. Ma il movimento del pensiero non è riducibile alla sola evidenza della ricezione dell’aristotelismo. Tutto il sapere scientifico si muove dall’Egitto verso la Grecia, e poi circolando dal mondo arabo fino all’Europa, contaminando tutte le culture che nascono da questo incontro.

Non esiste, nel Mediterraneo prima che fosse diviso, una razionalità tipica di una sponda che si oppone alla spiritualità dell’altra parte dei popoli mediterranei. L’ingegno umano, che è patrimonio di specie, ha generato tecnologie funzionali allo sviluppo e al progresso dell’intera umanità. Il progresso scientifico è connaturato all’essere umano, e, per questa ragione, lo sviluppo del pensiero critico non può essere considerato una caratteristica del solo Occidente. Il movimento del pensiero è, dunque, la base della fondazione del pensiero critico, che trae origine dalla scrittura quale tecnologia di trasmissione del sapere, in grado di consentire il passaggio del pensiero da una cultura all’altra, e generare un dibattito e una riflessione tra gli intellettuali in un dato spazio e tra le civiltà attraverso il tempo.

La ricerca di una Ragione comune, ed originaria, è necessaria alla rinascita di una società fondata sulla dignità dell’essere umano. Perché ogni strumento, a cominciare dalla società politica, ha significato solo se è funzionale alla felicità e alla buona vita di ogni essere umano.

“Piano di pace” israelo-palestinese, riflessioni sugli esiti della Conferenza di Manama

Come molte voci avevano annunciato, il genero di Trump, Jared Kouchner, e il suo team hanno deciso di continuare a tenere la conferenza di Manama, nonostante il successo poco brillante e il conseguente fallimento della due giorni durante la quale gli Usa hanno illustrato il “piano di pace” israelo-palestinese. Questo esito è dovuto non solo al rifiuto palestinese di partecipare al workshop reclamando che la Palestina non è in vendita e che non c’è un matrimonio senza presenza dello sposo, ma anche perché quello che l’amministrazione Usa sta cercando di fare sotto il nome di “accordo del secolo di Trump” e il suo aspetto economico, è stato definito in maniera molto estrema a sostegno di estremisti israeliani e non a sostegno della “Prosperità” per la pace, dato che il tentativo di raggiungere la “prosperità” sotto occupazione è impossibile.

La parte politica dell’accordo o progetto di Trump è abbastanza chiara dopo tutte le politiche e le misure adottate dal governo degli Stati Uniti in favore del governo israeliano.

La continuazione dell’occupazione cerca di liquidare la causa palestinese in cambio del presunto miglioramento della vita dei palestinesi stessi, e cerca d’integrare Israele nella regione araba per raggiungere il progetto di un nuovo Medio Oriente.

Cosi il progetto viene rimandato di volta in volta data l’impossibilità di commercializzarlo, potrebbe essere posticipato dopo le elezioni presidenziali americane del prossimo anno e forse potrebbe non essere mai più proposto.

Se proponiamo l’accordo del secolo, questo prenderà vita secondo la nuova data cioè dopo la formazione del nuovo governo israeliano, entro novembre di questo anno, facendo dell’inevitabile rifiuto palestinese una scusa per giustificare la decisione di Israele di una nuova espansione e di un nuovo esproprio con misure aggressive, come l’annessione di gran parte della Cisgiordania, perché “Questo è il diritto di Israele”, secondo quanto ha affermato David Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, concordando spiritualmente con le dichiarazioni di Jason Greenblatt, un altro membro della squadra statunitense.

Uno degli indicatori di fallimento è che la maggior parte dei paesi arabi che hanno partecipato e che parteciperanno alla conferenza, lo hanno fatto perché costretti. La prova di ciò è il fatto che Kouchner ha impropriamente annunciato la loro partecipazione, non prendendo in considerazione le loro volontà. Di conseguenza diversi Paesi hanno deciso di non partecipare o addirittura qualcuno ha rifiutato o di partecipare con una bassa rappresentanza o chiedendo la non partecipazione formale di Israele.

Questo fa perdere al governo israeliano e al suo futuro presidente Benjamin Netanyahu un’occasione d’oro che gli sarebbe potuta essere utile per le prossime elezioni israeliane e per una collaborazione con gli arabi in una capitale araba che discuta la questione, nonostante l’opposizione, la rabbia e il boicottaggio del popolo palestinese, le e sue forze e la sua leadership.

Inoltre, un funzionario americano ha dichiarato che alcuni arabi, che mirano a finanziare l’accordo, hanno condizionato la necessità prima di conoscere la parte politica del progetto per assicurarsi che sia in grado di lanciare un processo politico che ha una buona possibilità di successo, così come affermano le parole di un uomo d’affari israeliano invitato a partecipare alla conferenza: anche l’amministrazione degli Stati Uniti si è resa conto che non ci sono muri che non possano essere

superati nei rapporti tra arabi e Israele,perché aveva sperato la partecipazione di un gran numero di ministri delle finanze arabi ed altri, per finire con le presenza di uno staff giovane poco rappresentativo,che ha comportato una mancanza di rispetto al governo degli Stati Uniti. Non possiamo nascondere caparbietà e determinazione per tenere la conferenza a tutti costi da parte di Kouchner il suo staff .

Lo scandalo e l’umiliazione è che l’amministrazione statunitense ha pubblicato il piano economico di 100 pagine sul suo sito web da cui emerge che Kouchner e il suo team sono carenti non solo in quanto a esperienza politica, ma anche di competenze in economia. Il piano prevede un’applicazione nell’arco di dieci anni, ed è finalizzato alla raccolta di 50,670 miliardi, ma non è garantita la loro raccolta e saranno distribuiti nel seguente modo: la Cisgiordania e la Striscia di Gaza di 27,813 miliardi; Egitto 9,167 miliardi; Jordan 7.365 miliardi; il Libano 6,325 miliardi. Per quanto riguarda il finanziamento del piano sarebbero 13,80 miliardi accordati; 25,685 miliardi di prestiti con interesse, ma ha trovato che sarebbe pesante per i palestinesi rispettare il debito per molti anni a venire; 11,6 miliardi nel settore privato, anche se non può supportarli, ma può investire se trova un ambiente adatto e la possibilità di fare profitto. Il piano afferma inoltre che raddoppierà il prodotto interno lordo palestinese, fornirà 1 milione di posti di lavoro, ridurrà la disoccupazione a meno del 10% e ridurrà la povertà del 50%.

Il piano non ha mai fatto riferimento all’occupazione o colonizzazione coloniale e ai progetti israeliani che minacciano il successo di qualsiasi piano di “prosperità”. Esso sarà finanziato in una zona soggetta alle aggressioni, come è avvenuto in Cisgiordania dopo il 2000, e nella Striscia di Gaza negli anni 2008, 2012 e 2014 fino ad ora, che le forze di occupazione hanno distrutto. Ma il progetto, nei paesi arabi, si propone o mira a gettare la striscia di Gaza nel grembo d’Egitto, spingendo l’Egitto e la Giordania ad approvare il reinsediamento dei profughi palestinesi e a farli restare nei paesi arabi dove vivono da più di 74 anni e la creazione di strade e ferrovie, progetti incorporati a Israele e mondo arabo, che rispondono alle loro esigenze.

Il piano non parla dell’Autorità nazionale palestinese, che conferma l’intenzione di superarlo e sostituirlo, se non soggetta. Non é detto chi fornirà sovvenzioni o prestiti, ma non è chiaro chi degli stati arabi produttori di petrolio, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti lo farà. Il Kuwait ha dichiarato la sua opposizione al piano economico, e la Cina e la Russia si oppongono all’”affare Trump”, mentre l’Europa e il Giappone mantengo la loro opposizione, pertanto non c’è stimolo a nessuna parte per finanziare questo progetto vista la perpetuazione dell’occupazione, in aggiunta ai fondi che saranno spesi e ai progetti che si svolgeranno, che saranno soggetti alla distruzione in virtù del piano di cospirazione, il quale non porterà a sicurezza, stabilità, pace e prosperità, ma aggiungerà nuove ragioni più forti per lo scoppio di ondate di resistenza e rivolta.

Il popolo palestinese che resiste da più di un centinaio di anni non può vendere Gerusalemme, luoghi sacri, il diritto dei rifugiati, il diritto all’autodeterminazione e il raggiungimento dell’indipendenza nazionale. Come può un’offerta del genere essere accettata visto che i palestinesi non accettano uno scambio di tipo economico, dato che anche in passato nessuna promessa è stata mantenuta?

“L’accordo di Trump ha generato una fregatura.” Il risultato di Manama, anche se è stato ottenuto qualcosa, non è affatto attraente, ma è un tentativo di implementare Oslo 2 come un nuovo pretesto che dà legittimità all’occupazione senza un processo politico. I Paesi donatori hanno finanziato l’Autorità palestinese sin dal suo inizio con oltre 35 miliardi do dollari. La storia si è conclusa con il finanziamento dell’occupazione, rendendola un’occupazione a costo zero e la morte del processo politico.

Se il piano economico ha bisogno dell’approvazione e applicazione dei palestinesi che si oppongono ad esso, mette il governo degli Stati Uniti davanti a due scelte: o di riconoscere il fallimento e il ritiro del “progetto” di scambio politico ed economico, e scaricare i palestinesi responsabili del fallimento o tornare alla tradizionale politica americana di sostenere Israele, e spostarli, cercando di superare gli ostacoli incontrati, il che significa il continuo e l’escalation della guerra di tutti i tipi sui palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, per domare le autorità, o rovesciare, e cercare di sostituire le autorità, nel rispetto delle esigenze del “progetto”.

Se la pace economica potesse avere successo, le soluzioni economiche che nel corso dei decenni hanno già cercato di applicare Moshe Dayan e Yitzhak Rabin negli anni Settanta, Shimon Peres negli anni Ottanta e Novanta, John Kerry nel 2014 e Netanyahu che sta provando di attuare da più di dieci anni, avrebbero già funzionato. Nel conflitto politico e nazionale, dei diritti delle aspirazioni nazionali palestinesi nella loro ricerca di libertà, di ritorno, d’indipendenza, di giustizia ed uguaglianza, non si può accettare nessuna somma di denaro.

La lunga esperienza ha dimostrato che a nulla sono servite le promesse di migliorare la qualità della vita e della prosperità che hanno accompagnato il cosiddetto “processo di pace”, nonostante la visita dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme (Camp David), la firma del trattato tra Egitto e Israele, quindi la firma degli accordi di Oslo e il Trattato di Wadi Araba, i paesi arabi che hanno partecipato sono in una posizione peggiore di quanto non fossero prima, e questo è comprensibile perché la raccomandazione presentata da un certo numero di centri di ricerca israeliani a decision-maker in Israele, ha sottolineato la necessità di mantenere gli arabi, anche i “moderati” e quelli che hanno firmato trattati di pace con Israele, deboli e frammentati. Quindi poiché deboli e divisi sono rimasti sottomessi agli accordi, se fossero diventati forti avrebbero tolto il riconoscimento di Israele.

È possibile che questo non significhi che lo staff di Trump non abbia ottenuto nulla, cerca appunto di migliorare i rapporti arabo-israeliani, senza giungere ad una soluzione della questione palestinese. Ha riconosciuto i fatti accertati dall’occupazione terrestre, e sta cercando di dedicare nuova dimensione alla potenza occupante, soprattutto per quanto riguarda la liquidazione della questione dei profughi, la legittimazione dell’insediamento, l’adozione della narrazione sionista e tagliare la strada all’indipendenza nazionale palestinese. Questi fatti non cambieranno la realtà del diritto palestinese, né il disegno del popolo palestinese per mantenere vivo la sua causa e la lotta per la vittoria. Non si può trasformare la realtà politica riconosciuta e sostenibile senza concedere la legittimità ai palestinesi e l’accettazione pubblica dei paesi arabi.

L’accordo fallirà nella liquidazione della loro causa, ma è riuscito a perpetuare i fatti di occupazione, e rende la lotta palestinese più difficile, questo implica una risposta palestinese in aggiunta al “No” che altrimenti resta un no insostanziale. Un’alternativa completa politica, popolare, propagandistica, di diritto internazionale, nei media, a livello economico e di resistenza è necessaria per essere in grado di contrastare i disegni ostili, e progredire sul metodo per raggiungere obiettivi e diritti palestinesi. L’accordo non passerà senza una copertura palestinese e prima o poi crollerà. Sì, lo staff di Trump è più vicino al fallimento però dal loro punto di vista la causa respira ancora attraverso conferenze palestinesi che altri Paesi arabi hanno boicottato, rappresentando, in più, un piccolo passo verso la normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani, cose che saranno giudicate dalla misura del fallimento dopo che sarà diventato chiaro quale sia il risultato. Ma il contenuto della lettera si intuisce dall’indirizzo.

Socializzare i debiti pubblici per un’Europa casa comune

Europe / broken symbol on a wall

Proposta un po’ folle. Al prossimo Consiglio europeo si decida un atto rivoluzionario: la europeizzazione del debito dei Paesi Ue. E che questo sia il punto di avvio di un processo in tempi rapidi e certi di costruzione di una comunità democratica europea attraverso misure guidate politicamente di armonizzazione sociale.
Immagino i pensieri di chi legge. Europeizzare il debito significa che “gli scialacquamenti” di qualcuno dovranno essere pagati anche dai “virtuosi”? Ebbene sì. Naturalmente le cose non stanno così, e scialacquatori e virtuosi nella realtà sono assai meno bianco e nero di come si voglia far vedere le cose.
Ma partiamo precisamente dal “folle” atto: la socializzazione del debito. E vediamola in questo modo: si può mettere su una casa in comune continuando a pensare che però questo è mio e questo è tuo e al massimo mi devi pagare (caro) ciò che ti presto? Ora, la storia insegna che sicuramente in quasi tutti i processi di realizzazione di case comuni qualcuno ci ha guadagnato e qualcuno ci ha perso. Ma perlomeno una dichiarazione che la casa e i mobili fossero comuni c’è sempre stata. E le regole si sono rese solenni con le Costituzioni.
Qui invece ci troviamo di fronte – ad essere buoni – ad una sorta di regolamento di condominio (per altro trattasi di un condominio particolarmente litigioso). Difficile ritrovare nella storia un processo di costruzione di una casa comune che non partisse appunto dal socializzare ciò che si ha, condividendo dunque anche i problemi.
Un atto come l’assunzione comune del debito è precisamente un atto fondativo. Se ragioniamo su come stiamo messi ci rendiamo conto che quella che sembra una follia è invece un atto mancato e che ha determinato, insieme a molto altro, la vera follia in cui siamo. Perché che si sia in una situazione folle lo si dovrà pure ben vedere. Nel prossimo Consiglio europeo naturalmente non si discuterà della follia di cui scrivo ma si continuerà con la follia in cui siamo.
Da una parte, un braccio di ferro tra le “raccomandazioni” europee fissate col debito e col deficit e le istanze sovraniste del governo di uno dei principali Stati dell’Unione, quello giallonero. Dall’altra, la polemica tra Draghi e Trump, con quest’ultimo che accusa il primo di fare concorrenza sleale agli Usa se immetterà denaro più facile nell’economia europea. Accusa che dovrebbe apparire assurda, e infatti lo è, ma che si motiva per Trump nella strana natura della Ue, della Bce e del loro modo di fare economia.
Infatti la Ue non è uno Stato federale democratico e “normale”, bensì una fantasiosa costruzione anomala a supporto di una economia fortemente ideologica sul doppio versante del liberismo e del monetarismo, che al contempo mantiene un accumulo “storico” di modello sociale. La Bce è una sorta di banca-Stato che sostanzia la costruzione fantasiosa. E il modo di fare economia è l’ibrido che richiamavo che produce continui paradossi. Come quello di considerare “vincolo esterno” un debito che viene definito come tale da Trattati che dovrebbero invece definire un perimetro interno. Quello di considerare “aiuti di Stato” normali meccanismi di sostegno all’economia. Cosa che alimenta la polemica di Trump e che discende dal modo curioso di definire l’Unione e cioè per regole – quelle liberiste e monetariste – e non per Atto fondativo costituzionale realizzato per mezzo di istituzioni e politiche scelte ed attuate. Da questo punto di vista gli Usa sono un Paese capitalista ma “normale” e cioè costituzionale e politico. Il loro atto fondativo è la “doppia follia” della dichiarazione d’indipendenza e della messa in comune del Paese. Alla Ue manca sia l’atto fondativo costituzionale, sia la messa in comune, sia la politica come attuazione dell’atto fondativo.
Per questo siamo all’assurdo di ciò che accade nei Consigli europei come nelle relazioni mondiali.
Se restiamo così assisteremo ad un nuovo balletto destinato ad esiti più o meno squallidi o tragici. Tra un vero mercato delle vacche intergovernativo in cui scambiare un po’ di flessibilità con un po’ di appoggio su qualche carica istituzionale e i rischi di nuovi massacri sociali.
Saggezza vorrebbe che si prendesse atto che l’assunto fondativo (l’ideologia liberista di Maastricht che ha sostituito l’atto fondativo costituzionale) è stato falsificato dai fatti. Cioè che non è vero che la messa in comune dell’ideologia del libero mercato e delle regole monetaristiche (controllo di deficit e debito) abbia favorito l’armonizzazione. È successo l’esatto contrario. Le distanze tra Paesi e tra ceti sociali sono cresciute. Le diseconomie si sono aggravate. Invece che armonizzare in una economia europea si sono assorbite aree di influenza. Gli stessi deficit e debiti non solo permangono, ma dipendono sempre più da asimmetrie crescenti, rispetto che da “cattivi comportamenti”.
A conferma della cattiva coscienza sta il fatto che la stessa governance ha legiferato (con il Six pack) sull’insieme degli squilibri macroeconomici mettendo al primo posto non deficit e debito ma i surplus esportativi. Ora tutti sanno che dopo aver realizzato in deficit e debito la sua unificazione la Germania li ha europeizzati, realizzando una serie continuativa di venti anni di eccessi di surplus commerciali, in violazione della regola e traendo un cospicuo vantaggio nell’uso stesso dell’Euro mentre per molti altri Paesi ciò determinava l’esatto contrario. Ma, mentre deficit e debito entravano nel Fiscal compact, lo sbilanciamento macroeconomico del surplus esportativo non è mai stato sanzionato. E che esso comporti più debito strutturale nei Paesi che subiscono questi surplus lo dice la stessa regola di sanzionamento prevista e mai applicata, che prevederebbe multe significative da utilizzare per alimentare il fondo per gli Stati in difficoltà, riconoscendo quindi il nesso tra eccesso di surplus ed eccesso di debito.
Peraltro ormai l’integrazione passiva delle economie – che è l’esatto contrario della armonizzazione – ha prodotto perdite (in Italia il 25% dell’apparato manifatturiero) che rischiano l’irrecuperabilità.
Sempre a proposito di cattiva coscienza in realtà negli ambienti della governance si cominciò a discutere di europeizzazione del debito. Cioè della copertura da parte della Bce della quota eccedente il famoso 60%. Ma la cattiva coscienza portò a formulare una proposta in linea con il peggio dell’esistente e che non a caso aveva un nome appropriato alla teoria del debito come colpa.
Si è proposto un Fondo di redenzione dalla quota eccedente il 60% coperto con la alienazione di quote corrispondenti del patrimonio nazionale. Altro che messa in comune: siamo al condominio fondato sullo strozzinaggio e la “vendita” dei debitori.
La europeizzazione del debito al contrario diventa atto fondativo se mette veramente in comune e per altro ripara le distorsioni che ho ricordato prodotte dal trentennio di follia liberista. Naturalmente all’atto fondativo devono seguire politiche corrispondenti. Politiche attive di armonizzazione per perseguire il benessere dei cittadini che vivono in Europa e che deve essere sancito da una Costituzione.
Dopodiché servirà non una banca-Stato ma una banca di Stato, che dia denaro non alle banche private ma allo Stato federale e agli Stati della federazione. Denaro che deve provenire da un sistema di tassazione europeo progressivo ed armonizzato. Che va orientato a produrre occupazione e benessere sociale e ambientale. Che non può convivere con le perversioni della finanziarizzazione. La quale produce un’altra delle follie in cui ci troviamo, per cui sistemi fiscali pensati (e motivati) per alimentare il welfare sono stati distorti verso il sostegno alle rendite finanziarie, distruggendo in un colpo solo sia gli stessi sistemi fiscali che il welfare.
E l’armonizzazione deve entrare nel vissuto di cittadine e cittadini, riequilibrando redditi e welfare, invece che sconvolgerlo con debito e diseguaglianze crescenti. Difficile pensare che qualcuno porti tutto questo nella discussione europea. Ragione in più per farlo noi.

L’articolo di Roberto Musacchio è stato pubblicato nel numero di Left del 28 giugno 


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Grecia, la rabbia e l’orgoglio

Come è andata in Grecia lo sappiamo. Se parlo di rabbia ed orgoglio è perché una Storia (si con la S maiuscola) come quella realizzata dai Greci, da Syriza e da Tsipras in questi anni suscita innanzitutto grandi sentimenti.

Dunque la rabbia per ciò che è stato fatto contro di loro. Da chi? L’elenco è lungo e ci stanno dentro in tanti tra carnefici ed ignavi, dalla UE, ai suoi singoli governi, all’Fmi e alla Bce, dai popolari, ai socialisti e ai liberali.

Tutti loro hanno dimostrato quanto questa “Europa reale”, quela che usa l’austerity per imporre il liberismo, sia la negazione dell’Europa sciale e democratica nata dalle speranze del dopoguerra, e che abbia avuto il cinismo di accanirsi contro la sua antica madre, la Grecia.

Abbiamo detto, mentre provavamo a difendere Syriza, che in Grecia, contro la Grecia si consumava una sorta di esperimento sadico su a che punto ci si poteva spingere.

La rabbia poi è per ciò a cui tutto questo ha portato e che suona come il trionfo del cinismo e cioè il ritorno di quelli di prima, addirittura “uno di famiglia”, un erede. Nella tragedia greca infatti non emerge una destra xenofoba e populista, che anche questo è riuscito a fare Tsipras e cioè impedirlo. No, tornano loro, i padroni. Coloro che avevano disastrato il Paese e che una “governance europea” che fosse minimamente cosa seria avrebbe dovuto mettere al bando.

Invece si reincontrano a conferma che, appunto, austerità e liberismo sono due facce della stessa moneta con cui i padroni pagano se stessi.

E a conferma che un governo con una vera sinistra in questa Europa reale è “da evitare” come ci dice anche l’ostracismo di Sanchez a Unidas Podemos in Spagna adesso.

Ma c’è l’orgoglio. Per un risultato che dice che un piccolo partito del 4% si è trasformato in una grande forza del 32%. E non lo ha fatto a forza di slogan o seminando paura ma cercando di difendere i più deboli nel momento della tempesta più terribile.

Qualcuno continua a dire che la nave greca non doveva entrare in quella tempesta. Purtroppo nel capitalismo finanziario globalizzato non ci sono mari o porti “sicuri” e tutto è Oceano periglioso.

Che il popolo abbia avvertito lo sforzo di Syriza di proteggerlo lo dice il voto che è come dovrebbe essere e cioè con i più deboli che votano Syriza e Nuova Democrazia che prende i voti dei ricchi.

Naturalmente in Nuova Democrazia si ritrovano anche tutte le pulsioni di destra che infatti le altre destre sono quasi prosciugate. Ma solo una legge elettorale col trucco di maggioranza, ora cambiata dalla prossima volta (come è serio che sia e cioè non si faccia come in Italia dove un governo cambia le regole elettorali per sé), consente alla destra di prendere il comando.

A sinistra infatti c’è metà Grecia da Syriza, a chi l’ha lasciata come Varoufakis che entra in Parlamento, mentre non ce la fa la ex Presidente Zoe. E ci sta il Kke. Ed anche i socialisti che furono responsabili del disastro greco e la cui famiglia certo non si è distinta in Europa dai popolari.

Rabbia ed orgoglio chiamano la politica. Ci sono in Grecia una grande forza, Syriza, ed un leader, Tsipras, sconfitti ma non vinti. La loro lotta continua.

Cosa dobbiamo fare tutti noi?

Si è detto che Syriza è stata lasciata sola. Per chi, come noi del Partito della Sinistra Europea, l’abbiamo sostenuta, la questione è prendere atto veramente che la lotta per la liberazione dell’Europa richiede per forza che il fronte sia quello europeo.

A 27 anni da Maastricht è ormai evidente che per loro, per il capitalismo globale finanziarizzato, l’Europa è questa, quella reale. Quella in cui non si è cittadini di una Costituzione ma sudditi di un Trattato. Un esperimento verso un Mondo di Trattati e sudditi.

Dal capitalismo globale finanziarizzato non si esce per fuga ma ci si può solo liberare con la lotta.

Di questa lotta di liberazione europea e di una Sinistra Europea che trovi in essa la sua ragione d’esistenza abbiamo bisogno. Adesso.

*

Articolo del nostro collaboratore Roberto Musacchio pubblicato su Transform! Italia

Grandi navi, piccola Venezia

Un fermo immagine tratto da un video di Roberto Ferrucci su Youtube mostra la nave da crociera 'Costa Deliziosa', sulla riva Sette Martiri a Venezia, 7 luglio 2019. ANSA/per gentile concessione di Roberto Ferrucci /Youtube EDITORIAL USE ONLY NO SALES

Le immagini della “Deliziosa” che punta pericolosamente verso la riva dei Sette Martiri l’abbiamo vista tutti, praticamente in diretta, ripresa dai cellulari dei presenti. Abbiamo sentito le urla, abbiamo visto la tempesta, abbiamo assistito allo sgomento di un mostro nel cuore della città.

Un mese fa è successo con la “Opera” messa fuori uso da un black out. 251 metri di nave fuori controllo.

Poi c’è stata quella nave lunga quanto il Titanic che sulla banchina di San Basilio ha trascinato con se una lancia 110 metri volata via in un soffio, con la gente che scappava.

Eppure la storia delle Grandi Navi che ogni giorno calpestano la piccola Venezia se dovesse avere un inizio sarebbe il 12 maggio del 2004 quando la Mona Lisa si incagliò davanti a San Marco, nel cuore della città. E dal 2004 a oggi sono 15 anni che si parla di Grandi Navi e non si fa nulla. Qualcuno dice che finché non ci saranno vittime probabilmente continuerà così, qui da noi serve il sangue per prendere provvedimenti.

Sopra Venezia sono passati otto governi (due di Berlusconi), quattro sindaci, quattro giunte regionali (due con Galan, due con Zaia) e tutta una pletora di esperti da una parte e dall’altra ma Venezia continua a rimanere lì, solcata dalle Grandi Navi che in molti vedono “sicure” perché poi in fondo non è successo nulla di male, non si è fatto male nessuno.

E così la città invidiata da tutto il mondo continua a subire i litigi, le rassicurazioni, gli studi, i contro studi, le tesi (spesso in antitesi) e tutto il gorgo della politica che decide di non decidere da sempre. Ed è una storia tipicamente italiana di decisioni non prese e di pericolo che sta lì davanti agli occhi ma che tutti fingono di non vedere. Al massimo ci sarà da organizzare un lutto. E noi siamo fortissimi con i lutti.