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Hanno salvato Barabba

È arrivato in Senato con il piglio tronfio di chi ha imparato bene a indossare la stessa faccia sia che dica il vero o sia che dica il falso. Eroico, quasi, come si presentano eroici quelli che sono convinti di avere subìto una condanna ingiusta e pronti a lottare per dimostrare il contrario dell’accusa e invece lui, Salvini, il ministro dell’Interno, non si difende da nessuno perché ha trovato abbastanza gentili servitori che gli consentiranno di difendersi dal processo, mica nel processo, come il suo illustre ex compagno di ventura Silvio Berlusconi. Stessa pasta, stessa autorevolezza simulata, stesso bisogno di infuocare gli animi degli altri per garantire la pace (meglio: l’impunità) a se stesso e ai suoi compagni.

Quello che ripete come uno stereo rotto che chi sbaglia paga ieri si è deciso che non si saprà mai se ha sbagliato e comunque non pagherà. Quello che dice agli altri che devono marcire in galera non ha avuto nemmeno il fegato di sottoporsi al giudizio dei magistrati, rinchiudendosi tra le pareti dorate dell’ex Roma ladrona pur di non doversi prendere la briga di attenersi alle leggi nazionali e internazionali.

Gli è anche andata bene che i suoi amichetti invisibili del Movimento 5 Stelle erano tutti impegnati a lustrare il marchio dell’onestà mentre arrestavano il loro capogruppo in Comune a Roma. Anzi, De Vito l’hanno espulso, ci dicono, perché sono diversi dagli altri e poi hanno salvato chi ha giocato con le vite di uomini e donne e bambini. Si vede che è accettabile, questo, per il misterioso codice etico che coincide con il gusto del capo politico Luigi Di Maio.

Hanno salvato Barabba e gli hanno fatto dire in Senato che l’ha fatto per noi, per il bene dell’Italia, e continua a ripetercelo così stentoreo che viene da chiedergli, se ne è così convinto, cosa gli costi ripeterlo una volta di più davanti a un giudice. Ma no, invece no. Lui vuole che i suoi giudici siano i cittadini, perché ora gli fa comodo, e per quel giochetto del sono uno di voi.

Stamattina vorrei incontrare un elettore leghista, uno di quelli convinti, che con il suo avvocato sta andando in tribunale per un’udienza che gli costerà tempo e soldi in vista di una sentenza che appare lontana e dispendiosa. Mi piacerebbe chiedergli quanto si senta rappresentato. Dal suo ministro.

Buon giovedì.

Il Senato salva Salvini sul caso Diciotti. E il M5s avalla le politiche contro Ong e migranti

Il vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, durante la discussione sulla proposta della giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari di non concedere l'autorizzazione a procedere per reati ministeriali nei confronti del ministro Salvini nell'aula del Senato, Roma, 20 marzo 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

Il Senato ha salvato Salvini. Anzi l’ha salvato il voto decisivo del Movimento 5 stelle in una giornata particolarmente infausta (visto anche l’arresto del capogruppo romano Marcello De Vito, accusato di tangenti per facilitare il megastadio della Roma) per chi col mantra “Onestà/Onestà!” ha costruito una credibilità tale da diventare il partito di maggioranza relativo. Erano da poco passate le 13 quando Gasparri ha annunciato che i No all’autorizzazione a procedere per Salvini (accusato di sequestro di persona aggravato) erano già 232 con sei ore di anticipo rispetto al regolamento del voto assembleare che prevede che i seggi rimangano aperti fino alle 19 (era necessaria la maggioranza assoluta, pari a 161 per acconsentire alla non autorizzazione a procedere proposta dalla Giunta). In dichiarazione di voto Fi e Fdi hanno annunciato la loro contrarietà a procedere nei confronti del ministro dell’Interno. Il calcolo delle posizioni espresse in base a quanto dichiarato dai gruppi indica pertanto in 242 la somma dei voti contrari all’autorizzazione. Dai banchi della maggioranza le senatrici M5S Paola Nugnes ed Elena Fattori si sono tuttavia espresse in dissenso con il proprio gruppo e si sono quindi dichiarate favorevoli al processo nei confronti di Salvini. Ma a loro potrebbe aggiungersi anche quello di Virginia La Mura che, negli ultimi mesi, ha spesso condiviso, in tema di migranti, le posizioni delle due colleghe dissidenti. Prima di votare, un suo post su fb mostrava un’immagine, priva di didascalie, di due mani, una di colore e l’altra bianca, che si intrecciano. «Sarò deferita ai probiviri, come giustamente vuole il codice di comportamento Cinque stelle. Ma io questo processo lo affronterò con la testa alta e la schiena dritta», ha dichiarato Elena Fattori intervenendo in dissenso dal suo gruppo e sottolineando «a differenza del ministro Salvini affronterò un processo per questa mia scelta consapevole e coerente». Poi aggiunge «Avrei ben preferito affrontare un processo vero piuttosto che correre il pericolo di vedermi allontanata dalla magnifica comunità Cinque stelle. Mi consola che le persone come me le cinque stelle le hanno tatuate sul cuore». «Il voto al Senato sul caso-Diciotti ha confermato due cose: il Movimento 5 stelle è sempre più piegato ai voleri del loro vero capo, Matteo Salvini, e il ministro dell’Interno agisce con disprezzo verso i più basilari principi umani, oltre che normativi. Le politiche di questo governo, al contrario di quanto sostiene Salvini, sono disumane: rischiano di aumentare i morti in mare, perché le Ong vengono criminalizzate, e fanno aumentare le torture nei campi libici», hanno detto Giuseppe Civati e Andrea Maestri di Possibile, commentando il voto a Palazzo Madama per cui è stato già raggiunto il quorum necessario a respingere l’autorizzazione a procedere chiesta verso Salvini. «I 5Stelle oggi voteranno l’immunità a Salvini e questo fa capire definitivamente come la pensano sulla casta, sulla politica e sul salvare solo la poltrona – ha spiegato anche il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris – se votassero per il sì a procedere significherebbe probabilmente la crisi del contratto di governo che invece è cementato proprio sulla voglia di casta e di potere». Intanto è stata «congelata» per ragioni di opportunità, in considerazione del voto di oggi, la pratica del Csm sui giudici del tribunale dei ministri di Catania. Non se ne discuterà nemmeno domani, ma tra una decina di giorni, perchè la prossima settimana è «bianca», cioè non ci sono nè riunioni del plenum nè delle Commissioni. Il caso potrebbe finire all’ordine del giorno della riunione del primo aprile della Prima Commissione, che dovrà anche valutare se discuterlo assieme ad altre vicende analoghe, come le esternazioni di Matteo Renzi sui giudici di Firenze che indagano sui suoi genitori. Secondo la maggioranza dei consiglieri togati (dall’iniziativa si dissociò solo il gruppo di Magistratura Indipendente), i giudici di Salvini sono stati oggetto di una «violenta campagna di delegittimazione» partita dopo che il ministro dell’Interno, durante una diretta Facebook, aprì e commentò il provvedimento che gli era stato appena notificato, «facendo ripetutamente i nomi dei componenti del collegio»: sul profilo del vicepremier vennero postati una serie di commenti dal contenuto non solo «offensivo e denigratorio» nei confronti dei componenti del collegio ma anche «espressamente minaccioso». «Ancora più grave», secondo i consiglieri, la successiva «violenta campagna denigratoria» sui giornali con ricostruzioni tali da indurre i lettori a credere che la decisione assunta dal tribunale dei ministri fosse stata adottata «non per ragioni giuridiche ma squisitamente politiche legate all’asserita connotazione ideologica» dei giudici, senza fare «alcun cenno alle argomentazioni giuridiche poste alla base del provvedimento».

Di cosa parliamo quando parliamo della Diciotti
Il caso Diciotti è scoppiato alla vigilia di Ferragosto quando la capitaneria di porto italiana fu informata che un barcone con decine di persone a bordo era sfuggito alla Guardia costiera libica ed era arrivato nella zona maltese Sar, l’area di mare in cui gli Stati costieri si impegnano a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio.
Il giorno dopo, i migranti a bordo contattarono la capitaneria italiana chiedendo aiuto. L’Italia rimpallò ai colleghi maltesi che si rifiutarono di intervenire. Secondo la ricostruzione del tribunale dei ministri, alle 3.07 del 16 agosto, dopo una ulteriore richiesta di aiuto dei migranti a bordo, la capitaneria di porto italiana decise di intervenire, per rispetto delle numerose leggi nazionali e internazionali che impongono di soccorrere chiunque si trovi in difficoltà in mare (anche al di fuori della propria zona Sar, secondo la cosiddetta convenzione di Amburgo del 1979).
Le operazioni di soccorso avvennero a poche miglia da Lampedusa alle 4 del mattino con due motovedette della Guardia costiera che li trasferirono sulla nave militare italiana Diciotti. L’Italia accusò Malta di non aver voluto intervenire per non assumersi le responsabilità successive, cioè lo sbarco di migranti sul proprio territorio, mentre Malta sostenne che l’Italia avesse soccorso il barcone in acque Sar maltesi per costringere Malta a occuparsene.
Il 20 agosto la capitaneria italiana ordinò alla Diciotti – che nel frattempo aveva sbarcato 13 migranti in condizioni gravi a Lampedusa – di dirigersi verso la Sicilia, per lo sbarco definitivo delle 177 persone a bordo. E iniziò lo stallo al centro del caso. La Diciotti arrivò nel porto di Catania alle 23.49 del 20 agosto, ma la capitaneria di porto ordinò al comandante della nave di «non calare la passerella e lo scalandrone». L’ordine era arrivato direttamente dal Viminale sebbene le condizioni delle persone sulla nave fossero molto precarie. Chi salì a bordo raccontò di persone ridotte a “scheletrini”, di situazioni molto gravi dal punto di vista psicologico nel quadro di una sostanziale inadeguatezza della nave Diciotti. Il Tribunale dei minori di Catania ordinò di sbarcare i minorenni, il resto delle persone rimase a bordo fino alle prime ore del 26 agosto.
Allo Stato che interviene spetta anche individuare un place of safety, cioè un porto sicuro dove siano rispettati sia i bisogni fondamentali sia i diritti umani. Secondo la legge italiana, individuare il porto sicuro spetta al ministero dell’Interno. Per questo a Salvini sarebbe stato contestato il sequestro di persona secondo i giudici del tribunale dei ministri di Catania perché avrebbe posto «arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del place of safety (…) così determinando la forzosa permanenza dei migranti a bordo dell’unità navale U. Diciotti, con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale». Con due aggravanti: il fatto che sia stato compiuto da un pubblico ufficiale, e che abbia danneggiato anche dei minorenni. Se ci fosse stato un processo Salvini avrebbe rischiato fino a 12 anni di carcere.
A fine agosto, Salvini disse: «Niente immunità. Se il tribunale dirà che devo essere processato, andrò davanti ai magistrati a spiegare che non sono un sequestratore. Voglio proprio vedere come va a finire». Poi ha cambiato idea, e ha chiesto apertamente al Senato di respingere l’autorizzazione a procedere chiesta dal tribunale dei ministri di Catania invocando l’articolo 7 del codice del processo amministrativo: «Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico». Salvini scrisse sul Corsera che «il contrasto all’immigrazione clandestina corrisponde a un preminente interesse pubblico» ma lo sbarco immediato non avrebbe comportato alcun pericolo per la sicurezza nazionale e Salvini non avrebbe potuto spuntarla in tribunale. «In secondo luogo, ma non per questo meno importante, ci sono precise considerazioni politiche. Il governo italiano, quindi non Matteo Salvini personalmente, ha agito al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti», scrisse sempre Salvini ammettendo, di fatto, di aver preso 177 ostaggi per negoziare con l’Unione Europea spalleggiato su questo da Conte, Di Maio e gli altri ministri. Tutti a rivendicare l’«atto politico».
Carmelo Zuccaro, il procuratore capo di Catania, quello che ha cercato spesso e inutilmente di dimostrare un legame tra ong e trafficanti e che disse che l’esistenza di questi legami gli risultava «da internet» per due volte ha chiesto l’archiviazione del caso ma il tribunale dei ministri di Catania non gli è andato appresso sull’ipotesi che che la decisione di Salvini sulla Diciotti «costituisce esercizio di un potere politico o quantomeno di alta amministrazione a lui attribuito dall’ordinamento». Salvini avrebbe deciso di «rinviare l’assegnazione del place of safety all’esito della riunione della Commissione Europea del 24 agosto», cosa che a Zuccaro «appare esercizio di una scelta politica». Secondo chi ne chiedeva il rinvio a giudizio gli atti politici non ledono un gruppo di persone specifiche come pure la Suprema corte «in diverse circostanze ha avuto modo di evidenziare che la discrezionalità nella gestione dei fenomeni migratori incontra chiari limiti (…) nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti, e soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale». Tradotto vuol dire che gli atti politici in materia di immigrazione non possono esimere dal rispetto dei diritti individuali.
Il 21 febbraio, intanto, un ricorso d’urgenza – per chiedere il risarcimento dei danni per privazione della libertà personale – è stato presentato al tribunale civile di Roma, per difendere le ragioni di 41 immigrati (compreso il figlio minore di una coppia) che si trovavano a bordo della Diciotti. Di questi, 16 risultano nati il primo gennaio. Gli stranieri si erano poi rifugiati da Baobab Experience. I ricorrenti chiedono al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro dell’Interno Matteo Salvini, una cifra a titolo di risarcimento che oscilla tra i 42 mila e i 71 mila euro.

Lampedusa e le altre frontiere d’Europa: una rete di luoghi e diritti umani

Un momento della marcia verso la Porta dell'Europa a Lampedusa per ricordare il terzo anniversario del naufragio del 3 ottobre 2013 che costò la vita a 368 migranti. ANSA / ELIO DESIDERIO

«Quando ho ricevuto l’invito al 5th Mayoral Forum of human mobility, migration and development, l’incontro fra sindaci e amministratori di tutto il mondo sul tema dei migranti e dei rifugiati che si è tenuto sabato 8 dicembre 2018 a Marrakech, mi sono chiesto quanti di loro potessero conoscere Lampedusa, la sua storia, la sua “vocazione” all’accoglienza. Pensando anche a questo ho preparato il mio intervento, cercando quanto più possibile di “raccontare” la mia isola e l’incondizionata attenzione dei lampedusani nel fornire sempre un aiuto a chi ne ha avuto bisogno». Così Totò Martello, sindaco di Lampedusa, racconta la sua decisione di partecipare a uno degli incontri che preparava l’evento principale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, nella città del Marocco.

Cosa è il Global Compact for Migration? Molto si è detto e scritto in merito, ma di base quello che porta questo nome è un patto tra i Paesi appartenenti all’Onu finalizzato a governare in modo sicuro, regolare e ordinato le migrazioni dai Paesi origine, attraverso quelli di transito, fino a quelli di destino. Stabilisce, in questo senso, principi comuni: la dimensione umana delle migrazioni, la cooperazione in materia migratoria per governare un fenomeno transnazionale, il diritto degli Stati a esercitare la propria sovranità territoriale, il rispetto di uno Stato di diritto coerente con gli standard internazionali, il rispetto dei diritti umani al di là del tipo di status dei migranti, il riconoscimento delle pari opportunità per le donne, il primario interesse per la protezione dell’infanzia. Tutto ciò in un approccio integrato e coerente tra le politiche governative, da quella sull’immigrazione, a quella del lavoro dell’inclusione sociale, a quella di cooperazione con i paesi di origine e transito. Sembra il manifesto ideale di un periodo di grandi polemiche, il contenuto che guarda alle necessità di tutti. Eppure l’Italia si è astenuta. In sede di dibattimento parlamentare poi, dove si doveva decidere cosa fare, a fine febbraio, con l’astensione decisiva di M5s e Lega, la Camera ha approvato una mozione di Fratelli d’Italia contro il Global Compact.

Nel nono capoverso della mozione «in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina e della mafia nigeriana», approvata con 112 voti a favore, 102 contrari (quelli del Partito democratico e di Liberi e Uguali) e l’astensione di 262 deputati, si impegna il governo «a non sottoscrivere il Global Compact for save, orderly and regular migration e a non contribuire in alcun modo al relativo trust fund».

Bisogna fare una distinzione. Un conto è il Global Compact, un altro il Refugee Compact, che invece l’Italia ha approvato. Entrambi i documenti non sono vincolanti, ma per il secondo testo sono solo due i Paesi che hanno respinto l’accordo internazionale: Stati Uniti e Ungheria. L’Italia – in questo caso – con la sua ambasciatrice alle Nazioni Unite Mariangela Zappia, ha invece votato a favore di questo documento internazionale che serve a offrire una cornice giuridica e politica comune a tutti gli Stati del mondo per la gestione dell’accoglienza dei rifugiati.

«In quei giorni c’era grande attenzione mediatica rispetto agli incontri di Marrakech, anche per via della decisione del nostro governo di non firmare il Global Compact. Ed io mi sono ritrovato ad essere l’unico sindaco italiano presente all’incontro», spiega il sindaco Martello. «Devo ammetterlo, sono rimasto sorpreso dall’accoglienza che ho ricevuto: ho incontrato funzionari, amministratori, rappresentanti di diverse organizzazioni e tutti appena sentivano il nome Lampedusa mi stringevano la mano e mi ringraziavano. Non ho mai considerato tutto quel “calore” come qualcosa che fosse rivolto a me, ma ai miei concittadini. Io rappresentavo la mia isola, ero lì per questo. E per lo stesso motivo alla fine del mio intervento gli applausi, sinceri e convinti degli altri partecipanti, so che sono stati rivolti non a me, ma ai lampedusani: a quanti hanno aperto le loro case, hanno preparato un pasto caldo da offrire a chi era giunto sull’isola dopo giorni di navigazione, e dopo mesi di interminabile calvario umano. Quegli applausi erano rivolti ai pescatori ed ai volontari che da anni soccorrono e aiutano, spesso nel silenzio mediatico, chi ha bisogno di loro. E quegli applausi erano anche per i tanti che, purtroppo, non ce l’hanno fatta come gli oltre 360 morti annegati a poche miglia dalla nostra costa il 3 ottobre del 2013. Anche per questo ho chiesto, al Forum di Marrakech, che il 3 ottobre possa diventare la Giornata europea della memoria e dell’accoglienza. Perché se non ricordiamo da dove veniamo, se non onoriamo la memoria di chi non è riuscito a compiere fino in fondo il proprio cammino per una vita migliore, non possiamo costruire un futuro capace di mettere al centro le persone, prima dei confini».

Quali sarebbero i cambiamenti effettivi portati da questo approccio globale?

Per riassumere in un approccio schematico, nel Patto sono indicati 23 obiettivi con relativi impegni per raggiungerli, oltre a 230 le misure che gli Stati dovrebbero applicare per garantire migrazioni regolari, ordinate e sicure, misure che prevedono di elaborare politiche, accordi internazionali, procedure ed eventualmente legislazioni atte a raggiungere i 23 obiettivi. Premesso che non è vincolante, è difficile non vederci un tentativo globale di darsi delle regole nella tutela delle persone e nel rispetto dei Paesi di partenza, transito e arrivo. Come Lampedusa.

Un approccio, quello del sindaco Martello, di chi conosce la frontiera, perché la abita e ne ha la responsabilità civile e istituzionale. Un approccio pragmatico, come quello di realtà della società civile che ben conoscono i fattori dei quali si parla.

Per Guglielmo Micucci – direttore di Amref Health Africa Italia, «può avere dei limiti, ma il Global Compact è il primo tentativo di governance globale rispetto alle migrazioni e questo è un elemento estremamente innovativo. Un approccio che resta una dichiarazione d’intenti, certo, ma inizia un percorso».

Percorso che, intanto, Amref e 34 altri partner della società civile e tra le istituzioni che la frontiera la vivono, hanno avviato in un piano triennale con il progetto Snapshots from the Borders.

«Il progetto vuole rendere visibile quello che accade sui confini. Un prima e un dopo il frame dello sbarco. Che diventa il centro delle narrazioni e lascia indietro tutto il resto. Non c’è solo il barcone, ci sono comunità e istituzioni, attori della società civile e persone, che sono in un contesto molto più ampio del momento dello sbarco. Un progetto che mira a ragionare sulle dinamiche di partenza e sui fattori d’attrazione, tenendo sempre al centro l’idea dell’accoglienza, ma coinvolgendo enti locali su proposte e pratiche di governance. Lavoriamo a un consesso di comunità di frontiera, un Border Town Network, che possa portare avanti l’idea di mettere in rete sia le problematiche, che le possibili soluzioni. Senza dimenticare il grande valore che, nella storia dell’umanità, l’essere comunità di confine e di confronto ha sempre avuto a livello culturale e umano».

Il comune di Lampedusa, non a caso, è parte fondamentale di questo progetto. Che è urgente, come tutte le alternative reali e concrete quando il dibattito si focalizza su un approccio troppo ideologico. Ne ha bisogno Lampedusa, come il resto dei comuni del progetto, che coinvolge 14 Paesi europei. Ne ha bisogno l’Italia, come tutti gli altri. Perché la frontiera sia un luogo della legalità e dei diritti, della cooperazione e dello scambio. E per non lasciarla al business.

Nei giorni scorsi, grazie a una procedura di accesso civico agli atti pubblici, un gruppo di realtà della società civile italiana (Cild – Coalizione italiana libertà e diritti civili, Rete disarmo e Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) hanno ottenuto l’accesso al contenuto dell’accordo Italia-Niger sottoscritto dai rispettivi Governi il 26 settembre 2017, ma non ratificato dal Parlamento italiano e mai reso pubblico finora. Ancora segrete le due lettere inviate dal governo del Niger all’Italia, ma secondo uno degli animatori dell’iniziativa, il ricercatore e giornalista Francesco Vignarca, portavoce di Rete disarmo: «È poco specifico, una sorta di copia e incolla degli altri e non tiene conto della situazione del Paese in questione tanto che si fa riferimento a possibili visite di navi anche se il Niger non ha sbocchi marittimi. L’Accordo si inserisce in quella pratica poco ortodossa del ricorso ad accordi in forma semplificata che vengono sottratti al procedimento di previa autorizzazione legislativa alla ratifica e, dunque, al controllo delle Camere prima che essi impegnino lo Stato italiano. Elemento a nostro parere particolarmente grave, è quello che l’accordo con il Niger semplifica la vendita di armi a un Paese che, non producendo a sua volta armi, non è un reale partner commerciale». 

Le migrazioni, senza una volontà globale di confronto e soluzione delle complessità, rischiano di essere un terreno dove si incontrano speculazioni differenti. E l’Italia ha tutto l’interesse a fare chiarezza e a regolamentare un fenomeno globale come spesso si chiede a gran voce.
Oltre all’accordo con il Niger, in questi giorni, ha fatto molto discutere anche il dossier che la rivista Valori ha pubblicato sul tema del business dei confini. Claudia Vago, project manager di fondazione Banca Etica che ha seguito il progetto, ha lanciato l’allarme: «Nel Nord Europa è ormai prassi consolidata: la gestione dei centri per migranti viene affidata a grandi società dietro le quali stanno reti di holding, fondi di private equity, banche d’affari e investitori poco trasparenti con forti intrecci con la politica. Ora questo sistema, che funziona sui grandi numeri e con la riduzione drastica di personale e servizi di integrazione, si prepara ad arrivare in Italia, grazie al decreto sicurezza che, smantellando l’attuale sistema di accoglienza diffuso e concentrandolo in grandi centri, apre le porte a queste grandi società». Negare l’accesso alla società civile, privatizzando l’accoglienza, oltre che riportandola a un criterio concentrazionario a livello di strutture, per Fondazione Banca Etica e per le organizzazioni non governative è un passo indietro sul piano dei diritti individuali e un passo verso la finanziarizzazione dei servizi alla persona.

Una governance globale è necessaria, una regolamentazione condivisa che tenga al centro il rispetto delle persone è urgente. Snapshots from the Borders parte dalle comunità di confine per una condivisione di pratiche, problematiche e soluzioni che possano servire da garanzia contro la speculazione di frontiera.

Vite appese a un filo, il Medio Oriente prima che vi esportassero la “democrazia”

Mostra di Farian Sabahi

Il viaggio è anche incoscienza. A poco più di vent’anni quando il mio amico iraniano Mohammed nel 1980 mi portò in Iran in piena rivoluzione khomeinista passando dalla Turchia avevo una nozione assai vaga dei posti che stavo attraversando e di quello che stavo cercando. Ma una cosa è certa: ovunque andassi ero ben accolto, forse perché ero giovane, piuttosto povero e probabilmente avevo un’aria più da pellegrino che da giornalista.

Ha ragione Farian Sabahi quando rimpiange l’epoca in cui attraversare il Medio Oriente era un viaggio, anche un’avventura, ma non una sfida contro la morte. Ci si poteva perdere ore e giorni in un bazar, davanti a rovine immaginifiche di civiltà scomparse, persino la dimensione del tempo veniva scandita diversamente da mezzi di trasporto come i cavalli, i cammelli o vecchie corriere così lente ad arrampicarsi sulle montagne del Kurdistan che non perdevi neppure un fotogramma del paesaggio.

Uno scatto della mostra “Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo”

Certo anche allora c’erano posti pericolosi. A Beirut con la guerra civile gli scontri erano feroci, continui ed era pure alto il rischio per un occidentale di essere sequestrato da qualche gruppo della guerriglia. Ma in generale c’era ancora il piacere di viaggiare in un tempo dilatato: per inviare un pezzo al giornale c’era soltanto come mezzo il telefono o al massimo una telescrivente che funzionava con l’alfabeto Morse. E i telefoni, fuori dalle grandi città, erano rari, le telescriventi ancora di più. Molto spesso il giornale non sapeva neppure dov’eri. E quando mandavi un pezzo spesso raccontavi cose che avevi visto e sentito giorni prima: la sera ti abbattevi su un letto o un giaciglio qualunque pensando di avere informato il mondo.

Guardando alcune di queste foto scattate in Iraq, in Yemen o in Siria non posso non pensare a quel tempo perduto. Prima della tempesta. Ricordo che proprio con Farian andammo a Mosul a visitare uno dei capi della comunità yezida. Allora degli yezidi non parlava nessuno, soltanto dopo, quando l’Isis fece nel 2014 la sua comparsa in Iraq, salirono tragicamente alla ribalta delle cronache come una delle comunità più perseguitate insieme agli sciiti e ai cristiani. A quell’epoca, quando ancora gli americani non avevano invaso l’Iraq, nel 2003, si passeggiava sulle rive del Tigri e si potevano incontrare i Mandei con la loro storia millenaria: il loro capo, appoggiato a un bastone e avvolto in una tunica bianca, li accompagnava a immergersi nelle acque con un rituale che aveva tremila anni.

Uno scatto della mostra “Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo”

Vedo le foto di Sanaa e si stringe il cuore: quelle torri, quei pinnacoli, oggi sono in molti casi ridotti in macerie. Gli Houthi, i ribelli zayditi, allora erano soltanto dei manipoli di adolescenti che conducevano la guerriglia contro il potere centrale e i sauditi con vecchi fucili. Oggi lo Yemen è forse la peggiore emergenza umanitaria mondiale ma se ne parla assai poco perché tra i responsabili del disastro ci sono americani, sauditi, Emirati, ma anche noi italiani, che vendiamo bombe alla monarchia di Riad.

Nulla di tutto quello che vediamo in questi scatti ci è estraneo. È un mondo diverso ma non così esotico. Abbiamo contribuito pesantemente alla sua distruzione. È difficile raccontare cosa volesse dire vivere in Iraq o Siria in questi anni, sotto i bombardamenti, asserragliati senza mai potere uscire. La morte arrivava dall’alto con i raid aerei o i missili, oppure in maniera silenziosa sulla lama di un coltello. E molti dei monumenti, dei muri, delle case, dei volti delle persone che qui sono ritratti non ci sono più. Perduti per sempre. Ecco perché l’immagine, anche la più innocente, come il sorriso di un bambino, non è semplicemente un ricordo ma un atto d’accusa.

Uno scatto della mostra “Safar: viaggio in medio oriente, vite appese a un filo”

Questo testo di Alberto Negri, giornalista e membro del consiglio dell’Ispi, introduce la mostra SAFAR: VIAGGIO IN MEDIO ORIENTE, VITE APPESE A UN FILO, una sessantina di scatti realizzati da Farian Sabahi in Libano, Siria, Iraq, Iran, Emirati Arabi, Azerbaigian, Uzbekistan e Yemen tra il febbraio 1998 e la primavera 2005 ed esposti per la prima volta. La mostra viene inaugurata il 20 marzo 2019 al Museo d’arte orientale (Mao) di Torino. 

In occasione della rassegna, Farian Sabahi tiene al Mao un ciclo di tre lezioni sulla letteratura mediorientale, ogni incontro è dedicato ad una autrice – Vénus Khoury-Ghata, Inaam Kachachi, Nasim Marashi – e per ognuna si farà riferimento a uno o due testi in particolare. Left è media partner dell’evento

 

 

Non bastandogli i vivi, lucra anche sui morti

Piccola notazione iniziale: non dare a Salvini la soddisfazione di regalargli un buongiorno che ancora una volta punti la luce sui poveri disperati recuperati da Mediterranea. No. Non balliamo al suo macabro balletto che chiede migranti al posto della pioggia pur di mietere voto, bile, schiuma di ferocia e tutto il resto. No.

Allora parliamo delle sue bugie, forse la più macabra in questa sua passerella degli ultimi mesi. Perché il ministro ha avuto il coraggio di scriverlo davvero. L’ha fatto, come al solito, in un tweet di autoelogio, uno dei tanti che il ministro spara ogni giorno quando non c’è qualche alto intellettuale (uno dei suoi, Rita Pavone, Lorella Cuccarini, tutti i neosovranisti pur di avere un posto al sole) che gli recapita i complimenti.

Ha scritto il ministro:

#Salvini: abbiamo ridotto del 95% gli sbarchi. Nel 2019 è stato recuperato un solo morto nel mediterraneo. Ogni barcone che arriva è un barcone che torna indietro.

E in realtà una frase pressoché identica l’ha pronunciata in televisione, ospite di Barbara D’Urso (eh, sì) per dire che sta salvando la gente, capite? L’orrore che si dipinge come bene è l’evoluzione massima del trasformismo. Il pubblico medio (del tweet e della trasmissione) può pensare che davvero sia tutto risolto (e probabilmente crederanno anche che i luoghi di detenzione libici siano dotati di tutti i confort) e mettersi il cuore in pace.

E invece no. Le cose non stanno proprio così. Tutt’altro. I dati sulle morti nel Mediterraneo sono raccolti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni e dall’Unhcr, due organizzazioni internazionali. Non sono calcoli facili e di solito si pensa che i numeri siano sicuramente più bassi della realtà visto che le stime sono basate sulle testimonianze, sui ritrovamenti e la conta dei corpi.

Ebbene, secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni e l’Unhcr i morti sono 153 fino al 18 marzo, quelli che hanno provato a raggiungere l’Italia, si intende. 274 in tutto.

Si potrebbe già finire così, per mostrare la mostruosità detta da Salvini. Ma non basta, no. Conviene anche parlare di percentuali: nel 2018 ne moriva circa il 3% e nel 2019 ne muore l’11%.

La sentite la puzza?

Ecco tutto.

Buon mercoledì.

La Catalogna, l’Europa e la democrazia

Some 15,000 students take part in a protest against Spanish police forces' actions during the '1-O Referendum' held the previous day, in Barcelona, on 02 October 2017. Catalan President Puigdemont has asked for an 'international mediation' to deal with the current situation in Catalonia and claimed for the 'withdrawal of the police forces' deployed in the region. Catalonia held on 01 October an independence referendum, that was celebrated in spite of it had been banned by the Constitutional Court, ending with clashes between police and pro-independence people. A day after of the illegal referendum, a high tension atmosphere is present between the Catalan Government and the Spanish central Government with an open door to a possible unilateral declaration of independence by the Catalan Government. EFE/Juan Carlos Cardenas

A Madrid, nel cuore dell’Europa occidentale, dodici esponenti della politica e della società civile catalana sono in questi giorni sotto processo. Nove di essi si trovano in regime di detenzione preventiva, in molti casi da ben oltre un anno. I capi di imputazione sono gravissimi, con richieste di pena da parte della pubblica accusa che arrivano sino a 25 anni.
Tra i reati contestati vi è la “ribellione”: si tratta della figura criminosa utilizzata per chi, nel 1981, entrò con le armi in parlamento e portò in strada i carri armati. Il codice penale spagnolo, in effetti, richiede, nella tipizzazione del reato, l’elemento della “rivolta violenta”. L’unica violenza finora certa, per le innumerevoli immagini che la mostrano e che hanno fatto il giro del mondo, è però quella messa in atto dalle forze dell’ordine spagnole: che partono da ogni angolo del Paese per la Catalogna al grido minaccioso di “a por ellos!” (“a prenderli!”; “dategli addosso!”); che picchiano votanti e manifestanti – anche non indipendentisti – intenti a resistere pacificamente, con le braccia alzate, in difesa dei seggi; che sparano proiettili di gomma sui cittadini, nonostante il loro utilizzo sia vietato in Catalogna.
Ma la vicenda giudiziaria non si esaurisce a Madrid, innanzi al Tribunal Supremo. Altri imputati verranno giudicati (per disobbedienza e ulteriori reati) da Tribunali in Catalogna; centinaia i sindaci, gli attivisti sociali, gli artisti indagati (e in alcuni casi condannati) per aver contribuito in qualche modo alla preparazione del referendum o per aver semplicemente manifestato le loro idee (eloquente, in tal senso, l’Amnesty International Report 2017/18, pp. 339-341). Vi sono, poi, i sette politici, sia parlamentari che componenti del precedente governo catalano rifugiatisi in Belgio, Scozia e Svizzera per sfuggire all’arresto e continuare a condurre la propria azione politica dall’estero. Sono liberi cittadini in tutta Europa, visto che, anche a seguito della decisione del tribunale tedesco nel caso Puigdemont, l’autorità giudiziaria spagnola ha ritirato tutti gli ordini d’arresto europeo a loro carico. Al di là delle anomalie tecniche dei procedimenti giudiziari (evidenziate da diversi osservatori internazionali), è evidente ciò che sta accadendo: si discute, nelle aule dei tribunali, di una questione eminentemente politica, che dal campo della politica non sarebbe mai dovuta uscire. Si criminalizza un’intera classe politica, la cui responsabilità è quella di aver cercato di smuovere le istituzioni spagnole da posizioni di radicale chiusura al dialogo. Si dimentica che oltre due milioni di cittadini catalani chiedono da anni, in maniera civile e pacifica, di potersi esprimere liberamente e democraticamente sull’assetto della relazione tra la Spagna e la Catalogna.
Solo da una posizione di intransigente nazionalismo si può continuare a ritenere la questione dell’indipendenza catalana un tema su cui non può neanche essere aperta una discussione democratica; solo da una posizione illiberale si può ritenere preferibile a quella prospettiva la compressione di fondamentali diritti civili e politici.
Il silenzio dell’Europa, che liquida la vicenda come affare interno alla Spagna, è deprecabile e pericoloso. Si tratta di un segno di debolezza delle istituzioni europee, non di forza, e contribuisce alla radicalizzazione del conflitto anziché alla sua risoluzione. Se la UE accetta la criminalizzazione della protesta pacifica e della disobbedienza civile in un Paese membro della rilevanza della Spagna, ad essere minacciati sono i diritti democratici non solo dei catalani, ma degli spagnoli e degli europei tutti. E quel silenzio diviene imbarazzante allorquando il Parlamento europeo vieta ai politici catalani rifugiati all’estero di partecipare ad una conferenza organizzata nei suoi locali mentre consente, quasi contestualmente, un dibattito anti-catalanista promosso dal partito spagnolo di estrema destra Vox, dichiaratamente e programmaticamente omofobo, maschilista, xenofobo.
Preoccupa anche la scarsa attenzione di parte della stampa, dell’opinione e degli intellettuali del nostro Paese. Nello scenario descritto, crediamo invece siano necessari l’impegno e il controllo vigile di tutti coloro che hanno a cuore la protezione dei diritti, dei valori democratici e dei principi sanciti dagli stessi Trattati UE.
Chiediamo, come cittadini europei, la scarcerazione dei prigionieri catalani, il ritorno ad una situazione di normalità democratica e l’apertura di un dialogo politico sulla questione, unica strada che possa condurre ad una risoluzione della stessa coerente con i valori della democrazia.
Il destino della Catalogna è anche il nostro destino, e il destino dell’Europa intera.

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PRIMI FIRMATARI

Maurizio Acerbo, segretario nazionale PRC-Sinistra Europea, Roma
Luigi Agostini, saggista, Roma
Matteo Angioli, Partito Radicale, Roma
Vando Borghi, Università di Bologna
Bojan Brezigar, giornalista, Trieste
Luca Cassiani, Consigliere PD Regione Piemonte, Torino
Luciano Caveri, giornalista e politico, Aosta
Lluís Cabasés, giornalista, Alba
Massimo Cacciari, filosofo, Venezia
Duccio Campagnoli, ex Assessore Emilia-Romagna, Bologna
Elisa Castellano, Fondazione Di Vittorio, Roma
Pietro Cataldi, Rettore dell’Università per stranieri di Siena
Nancy de Benedetto, Presidente Associazione italiana di studi catalani, Università di Bari
Luigi de Magistris, sindaco di Napoli
Piero Di Siena, giornalista, Roma
Fausto Durante, Resp. politiche internazionali ed europee Cgil, Roma
Paolo Ferrero, vice presidente del Partito della Sinistra Europea, Torino
Gennaro Ferraiuolo, Università di Napoli Federico II
Luigi Foffani, Università di Modena e Reggio Emilia
Eleonora Forenza, Parlamentare europea GUE/Ngl, Rifondazione comunista, Bari
Laura Harth, Rappresentante alle Nazioni Unite del Partito Radicale, Roma
Rafael Hidalgo, insegnante, Ràdio Catalunya Itàlia, Roma
Andrea Maestri, Avvocato per i diritti umani, Ravenna
Fabio Marcelli, ISGI CNR, Associazione giuristi democratici, Roma
Maria Grazia Meriggi, Università di Bergamo
Sandro Mezzadra, Università di Bologna
Cesare Minghini, sindacalista CGIL, Bologna
Tomaso Montanari, Università di Siena, Firenze
Simone Oggionni, Responsabile Forum Europa MDP-Articolo 1, Roma
Fiorella Prodi, segreteria regionale Cgil Emilia-Romagna, Modena
Roberto Rampi, senatore PD, Vimercate (MB)
Patrizio Rigobon, Università Ca’ Foscari di Venezia
Simonetta Rubinato, avvocato, ex senatrice e deputata, Treviso
Emilio Santoro, Università di Firenze, Centro di documentazione “L’altro diritto”
Rossella Selmini, Università del Minnesota, Minneapolis-Bologna
Barbara Spinelli, giornalista e Parlamentare europea GUE/Ngl, Roma
Massimo Torelli, coordinatore nazionale di Altra Europa Con Tsipras, Firenze
Gianni Vernetti, ex senatore e sottosegretario agli Affari esteri, Torino
Walter Vitali, Direttore esecutivo Urban@it – Centro nazionale studi politiche urbane, Bologna

SOTTOSCRIVONO:

Cristina Accardi, studentessa, Salemi (TP)
Carla Acocella, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Ivana Aiello, avvocato, Avellino
Rosalba Altopiedi, Università del Piemonte Orientale
Anna Amat, CNR Perugia
Umberto Amato, IMM CNR Napoli
Luciana Ambrosino, copywriter, Napoli
Giso Amendola, Università di Salerno
Virginia Amorosi, avvocato, Lecce.
Daniele Amoroso, Università di Cagliari
Giorgio Andreoli, psicologo, Milano
Simona Anichini, traduttrice, Firenze
Sara Antoniazzi, Università Ca’ Foscari di Venezia
Francesco Ardolino, Universitat de Barcelona
Gennaro Avallone, Università di Salerno
Edoardo Balletta, Università di Bologna.
Danilo Barbi, sindacalista Cgil, Bologna
Giuliano Barbolini, ex senatore PD, Modena
Albert Barreda, pittore, Savona
Ursula Bedogni, traduttrice, Barcelona
Marzia Bertazzoni, impiegata, Parma
Gabriele Bettelli, responsabile MDP, Modena
Imma Boixadós, agente immobiliare, Bra (CN)
Mirka Bonomi, pensionata, Ostia (Roma)
Enric Bou, Università Ca’ Foscari di Venezia
Mario Bravi, presidente IRES Umbria, Terni
Stefania Buosi Moncunill, insegnante, Trieste
Rosa Maria Caballé, dipendente pubblico, Bologna
Marco Calaresu, Università di Sassari
Domenico Caminiti, ingegnere, Torino
Stefano Campus, funzionario amministrativo, Presidente Òmnium Cultural de L’Alguer
Fulvio Capitanio, economista, Aiguafreda (Barcellona)
Flora Cappelluti, giornalista, Milano
Lìdia Carol, Università di Verona
Maria Carreras Goicochea, Università di Catania
Imma Caruso, Napoli, ISSM-CNR
Sergio Caserta, attivista e blogger, Bologna
Giovanni Castagno, insegnante, Roma
Giovanni C. Cattini, Università di Barcellona
Ivan Cecchini, dirigente pubblico, Bellaria-Igea Marina
Giulio Ceci, libero professionista, Roma
Giovanni Cherubini, ingegnere, Gilching (Germania)
Federico Chicchi, Università di Bologna
Claudia Ciavatta, dipendente pubblico, Roma
Adriano Cirulli, Università La Sapienza di Roma
Elena Coccia, Napoli, consigliere comunale Napoli, Sinistra in comune
Maria Teresa Colarossi, insegnante, Tivoli (Roma)
Gemma Teresa Colesanti, ISEM CNR Napoli
Maria Cristina Coliva, pensionata, Bologna
Mauro Colombarini, sindacalista Spi-CGIL, Bologna
Anna Maria Compagna, Università di Napoli Federico II
Michele Conia, Sindaco di Cinquefrondi (RC)
Roberto Cornelli, Università di Milano Bicocca
Giacomo Comincini, studente, Pavia
Enrico Curti, imprenditore, Riomaggiore (SP)
Salvatore D’Acunto, Seconda Università di Napoli.
Ettore D’Agostino, insegnante, Torino
Francesco D’Agresta, coordinatore provinciale MDP Pescara
Patrizia D’Antonio, insegnante, Roma
Elisa D’Ugo, studentessa, Roma
Pasquale D’Ugo, agente di commercio, Roma
Gaspare Dalia, Università di Salerno
Gaetano Damiano, bibliotecario, Archivio di Stato di Napoli
Alessandro De Giorgi, San Josè State University (USA)
Maurizio Del Bufalo, coordinatore Festival del Cinema dei Diritti Umani, Napoli
Claudia della Ragione, studentessa, Napoli
Gabriele de Martino, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Matteo de Notaris, neurochirurgo, Benevento
Gioacchino de Padova, Consevatorio Piccinni di Bari
Luisa Derosa, Università Aldo Moro di Bari
Giuliana De Vivo, giornalista, Milano
Ebe Diaferia, impiegata, Caserta
Cristina Di Domizio, pensionata, Bologna
Pietro Umberto Dini, Università di Pisa
Anna di Ronco, Università di Essex
Francesco Donato, insegnante, Torino
Eugenio Donise, ex senatore, Napoli
Mercedes Escribano Ferre, operatore sanitario, Parma
Marco Esposito, giornalista, Napoli
Maurizio Fabbri, Spi Cgil Nazionale, Bologna
Simona Fabbris, insegnante, Pisa
Anita Fabiani, Università di Catania
Andrea Fabbri Cossarini, sindacalista Cgil, Bologna
Chiara Fagone, studentessa, Milano
Federico Fenaroli, Università di Oslo
Nino Ferraiuolo, pensionato, Napoli
Beppe Fiorelli, pensionato, Bologna
Giorgio Fontana, Università di Reggio Calabria
Emanuela Forgetta, Università di Sassari
Fabio Fraccaroli, imprenditore, Verona
Alberto Franchi, pensionato, Bologna
Marisa Fugazza, pensionata, Crema (CR)
Àngels Fumadó Abad, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Maria Grazia Galli, pensionata, Bologna
Luciano Gallinari, ISEM CNR Cagliari
Alessandro Gamberini, avvocato, Bologna
Alessandro Gamberini, agente di commercio, Bologna
Emanuele Gamberini, agente di commercio, Bologna
Daniel Gamper, Universitat Autonoma de Barcelona, visiting Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Cristiano Garavini dipendente pubblico, S.Giorgio Piano (BO)
Angela Gargano, Istituto Nazionale Fisica Nucleare, Napoli
Andrea Garofani, pensionato, Bologna
Roberto Gastaldo, attivista e scrittore, Torino
Teresa Garrofer, insegnante, Barcellona
Gabriella Gavagnin, Universitat de Barcelona
Margherita Gavagnin, ICB CNR, Napoli
Andrea Geniola, CEDID, Universitat Autónoma de Barcelona
Gabriele Gesso, progettista sociale e attivista, Segretario provinciale PRC Napoli
Gladys Ghini, dipendente pubblica, Castelmaggiore (Bo)
Carlo Gianuzzi, Radio Onda d’urto, Brescia
Marco Giralucci, Architetto, Barcellona
Elena Giustozzi, sindacalista, Bologna
Adriano Gizzi, giornalista, Roma
Giuseppe Grilli, Università Roma 3
Daniela Grossi, impegata, Roma
Maria Grossmann, Università dell’Aquila
Nuria Gonzalez, impiegata, Genova
Noemi Antonella Guadagno, Università di Oslo
Paolo Guarino, consulente di comunicazione, Roma
Maria Hernandez, guida turistica, Roma
Simona Iaquinto, Architetto Barcellona
Annalisa Insardà, attrice, Roma
Esther Jiménez García, Export Manager, Legnano
Giacomo Landi, consigliere comunale S.Lazzaro (Bo)
Giagu Ledda, medico, Barcellona
Iban Leon Llop, Università di Sassari
Vincenzo Leonbruno, libero professionista, Barcellona
Antonio Landro, insegnante, Torino
Teresa Lapis, Insegnante, San Donà di Piave (Ve)
Maria Liguori, impiegata, Bologna
Debora Lombardi, docente, Napoli
Sara Longobardi, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
María Jesús López Montalbán, insegnante, Torino
Alexandre Madurell, attivista, Milano
Carlo Magnani, Università Carlo Bo di Urbino
Maria Luisa Malossi, pensionata, Bologna
Fabiola Mancinelli, antropologa
Annalena Marcacci, pensionata, Bologna
Azzurra Margiotta, Università di Oslo.
Giovanni Marsico Caggiano, artista, Bari
Esther Martí, ISEM CNR Cagliari
Lourdes Martinez Catalan, lettrice universitaria, Siena
Adriano Martufi, dottore di ricerca, Università di Ferrara
Teresa Masciopinto, economista, Bari
Bernardo Massari, magistrato, Bologna
Maria Grazia Masulli, impiegata, Pianoro (BO)
Maria Assunta Matteucci, pensionata, Bologna
Cesare Melloni, sindacalista Cgil, Bologna
Dario Melossi, Università di Bologna
Eva Mendoza, impiegata, Torino
Andrea Merola, giornalista, Vercelli
Marina Milella, insegnante, Napoli
Claudia Minghini, pensionata, Roma
Federico Minghini, DJ, Bologna
Vito Mocella, IMM CNR Napoli
Judit Molina, dipendente amministrativo, Firenze
Walter Molino, studente, Napoli
Giovanni Montanari, pensionato, Bologna
Albert Morales, Università Ca’ Foscari di Venezia
Sandro Moretto, pensionato, Bologna
Maxi Morgante, impiegato, Roma
Giuseppe Mosconi, Università di Padova
Sandra Muraretto, educatrice, Padova
Salvatore Musto, Università di Napoli Federico II
Cèlia Nadal, Università per stranieri di Siena
Gabriella Napolitano, Fotografa, Barcellona
Alina Narciso, regista teatrale, Napoli
Nicola Nesta, insegnante, Bari
Michele Novaga, giornalista, Milano
Dolors Obregón Nogués, psicologa, Riomaggiore (SP)
Veronica Orazi, Università di Torino
Toni Orpinell, artigiano, Roma
Alessandro Ottaviano, dipendente, Roma
Giovanni Paglia, ex deputato, Sinistra italiana, Ravenna
Giovanni Palladino, Direttore agenzia di servizi editoriali, Bari
Stefania Pallini, libera professionista, Livorno
Claudio Paltrinieri, pensionato, S. Giorgio Di Piano (Bo)
Mimmo Palumbo, impiegato di banca, Mugnano di Napoli
Vanna Palumbo, giornalista, Roma
Matteo Panarello, commerciante, Pieve ligure (GE)
Gina Panicucci, pensionata, Bologna
Raffaella Paolessi, docente e giornalista, Roma
Susana Pérez Civit, poetessa e insegnante, Napoli
Giulia Perretti, impiegata, Napoli
Fabrizio Perrone Capano, Avvocato, Napoli
Enzo Parziale, Presidente Ass. Europa Mediterraneo Campania, Napoli
Bruno Patierno, Gruppo Atlantide, Milano
Andrea Pica, Scientist EMBL Grenoble, France
Adelina Picone, Università di Napoli Federico II
Diego Pietrafesa, libero professionista, Napoli
Elena Pistolesi, Università per stranieri di Perugia
Ciro Pizzo, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
Lourdes Planas, art director, Parma
Elena Platania, conservation scientist, Oslo
Ida Porfido, Università di Bari
Giada Porretta, assessora comunale di Cinquefrondi (RC)
Olga Porta Arenas, infermiera, Chiavari
Stefano Portelli, Università di Leicester (UK)
Osiride Pozzilli, pensionato, Roma
Diego Praino, Università metropolitana di Oslo
Nuria Puigdevall, Università di Napoli Federico II
Natale Raco, giornalista, Roma
Valentina Ripa, Università di Salerno
Enrico Rivella, impiegato,Torino
Anton Roca, artista, Cesena
Maurizio Ronga, operaio, Varese
Montserrat Ros, insegnante, Oggiona con S. Stefano (VA)
Francesco Rotondo, Università di Napoli Federico II
Laura Rubino, architetto, Bari
Angélica Teresa Ruiz Oseguera, insegnante, Napoli
Pasquale Ruzza, pensionato, Roma
Antonio Sacchi, Cavaliere della Repubblica, Pavia
Esther Sagrera Cardet, perito contabile, Parma
Silvia Sànchez, insegnante e traduttrice, Londra
Marco Santopadre, giornalista, Sant’Antioco
Mirella Santi, pensionata, Bologna
Simone Sari, Universitat de Barcelona
Vincenzo Sarnataro, lettore di italiano, Barcellona
Adriana Savarese, insegnante, Napoli
Luciana Savarese, Marketing e content manager, Milano
Amaranta Sbardella, traduttrice e docente, Torino
Vincenzo Scalia, Università di Winchester (UK)
Alberto Scarinci, bibliotecario, Bologna
Alessandro Scarsella, Università Ca’ Foscari Venezia
Francesco Schiaffo, Università di Salerno
Gianluca Schiavon, Responsabile nazionale Giustizia PRC/SE, Venezia
Sonia Serra, consigliera comunale di Budrio (BO)
Victor Serri, fotoreporter, Barcelona
Mirella Signoris, sindacalista SPI-CGIL, Bologna
Pinuccia F. Simbula, Università di Sassari
Fabiana Simeoli, studentessa, Napoli
Neus Soler, insegnante, Barcellona
Piero Soldini, Cgil Nazionale, Roma
Francesca Sorrentino, insegnante, Napoli
Sabrina Sorrentino, architetto, Napoli
Alessandro Speranza, artigiano, Napoli
Antonella Speranza, Traduttrice, Barcellona
Fra’ Agnello Stoia, francescano, convento dei Santi Apostoli di Roma
Giorgio Tassinari, Università di Bologna
Ciro Tarantino, Università della Calabria
Rita Tavolazzi, pensionata, Bologna
Raffaele Tecce, ex senatore, segreteria nazionale PRC SE, Napoli
Fiamma Terenghi, Università di Trento
Michael Tonry, Università del Minnesota, Minneapolis-Bologna
Sergio Trematerra, Direttore tecnico aziendale, Napoli
Isabel Turull, Università La Sapienza di Roma
Valeria Vanella, architetto, Napoli
Carla Valentino, traduttrice e insegnante, vicepresidente Òmnium Cultural de L’Alguer
Pau Vidal, scrittore e traduttore, Barcellona
Alessandro Vitale, Università di Milano
Lello Voce, poeta, Treviso
Teresa Yague, assistente familiare, Genova
Elena Zaccherini, esperta di cooperazione internazionale, Bologna
Marco Zavaglia, agente di commercio, Chiavari (GE)

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«Ora basta!». Tornano le Pantere con un libro-manifesto per ricostruire la politica contro le destre e i populismi

«La pantera siamo noi» scandivano gli universitari ribelli del movimento studentesco della Pantera nato tra la fine del 1989 e la primavera del 1990, che ha portato all’occupazione della maggior parte delle facoltà universitarie in tutta Italia. A trent’anni di distanza, alcuni dei protagonisti di allora si sono riuniti per un esperimento di scrittura collettiva dal quale è nato il libro firmato The Panthers. Ora Basta! Come populismo e sovranismo stanno devastando il nostro Paese e come possiamo restituirgli dignità, Edizioni Clichy, in libreria dal 26 marzo. La Pantera è il terzo, e finora ultimo, movimento studentesco di livello nazionale con un’effettiva dimensione politica, dopo quelli del 1968 e del 1977. Cosa è rimasto delle parole d’ordine di allora, delle spinte rinnovatrici verso una società più aperta e libera, e del senso di comunità e di giustizia sociale che animava i giovani del tempo? E cosa pensano gli ex studenti ribelli di quelli di oggi che scioperano per il clima?
Silvia Bacci, libera professionista di Prato, è una delle coautrici del pamphlet e spiega a Left: «Il nostro libro è una sorta di manifesto politico alternativo per un’Italia molto diversa da quella in mano alle nuove destre, ed è il risultato di un esperimento collettivo di una quarantina di ex studenti della facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze appartenenti al movimento della Pantera».

Come è nata l’idea del libro?
Tutto è partito da una chat di gruppo creata per organizzare una cena dopo tanti anni. Con grande sorpresa ci siamo accorti che nonostante gli anni trascorsi, i figli, i lavori precari o le carriere di alcuni, nessuno di noi si era trasformato in un seguace di Grillo e Di Maio né tantomeno di Salvini o Berlusconi, e che le cose in cui credevamo e per cui avevamo lottato da ragazzi sono rimaste le stesse.
Si spieghi meglio.
L’idea di una politica intesa quale agire collettivo per un fine comune anche se, esattamente come ogni sinistra che si rispetti, spesso ci siamo scoperti divisi e lontani nelle nostre posizioni. Nonostante questo abbiamo individuato un codice minimo di valori completamente condiviso – convivenza civile, buon senso, rispetto e normale umanità – che potrebbe essere una traccia di riferimento per chi vorrà riprendere in mano l’opposizione alle destre e proporre un’Italia diversa da quella che precipita ogni giorno di più nel baratro oscuro e violento dei proclami, delle promesse, della minacce e del ringhio affidate ai social.
Il sottotitolo del volume è piuttosto tranchant: «Come populismo e sovranismo stanno devastando il nostro Paese e come restituirgli dignità». È quindi la ricerca della dignità la soluzione per uscire da questa impasse?
Può esserlo se intendiamo la dignità come impegno in prima persona, il non tacere e non voltarsi dall’altra parte per stanchezza o rassegnazione. Torniamo a parlare di politica tra di noi, tra le persone reali e non sui social dove ognuno di noi spesso si limita a scrivere dei proclami senza ascoltare le idee altrui. Purtroppo non esiste una formula magica efficace e sicura, ma la base di partenza per qualunque discorso politico e sociale dovrebbe essere chiara a tutti: il rispetto dei principi costituzionali e della democrazia. Il tema vero è semmai come ricostruire passione e attenzione alla politica. Certo è che la politica odierna non può più essere nazionale. Il respiro europeo è quello minimo indispensabile. Politica è soprattutto dare risposte concrete alle grandi sfide e le sfide non sono più nazionali. Governare l’economia, l’ambiente, i diritti guardando all’ombelico romano è sempre stata una strategia perdente. Oggi più che mai.
Nella prefazione si legge: «I capitoli del libro non sono firmati. Non è un caso. Siamo convinti che una delle cause del declino politico e culturale italiano sia il processo di personalizzazione che ha invaso la politica, che è un servizio indispensabile e non un esercizio narcisistico». A chi vi riferite?
Credo che ci riferiamo tutti alla stessa persona, anzi alle stesse persone (ride). Sicuramente a Matteo Renzi che ha distrutto la sinistra, o quello che ne rimaneva; ma anche all’altro Matteo, l’attuale ministro degli Interni. Ed è stato esattamente a causa della sua indegna attività politica se abbiamo deciso di metterci in gioco, con la testa e con il cuore, scegliendo di fare qualcosa di più del solo lamentarsi tra di noi.
Leggendo il libro si riscoprono parole e concetti scomparsi dal lessico comune e politico: lavoro, servizio alla comunità, impegno concreto degli intellettuali (e qui ricordate Pasolini, Sciascia, Cederna e Gozzini), ambiente, lotta alla mafia e cultura. Siete dei nostalgici fuori tempo massimo o al contrario credete che uno degli errori più gravi sia stato aver dimenticato certi temi e certe parole?
Non siamo dei nostalgici, anche se forse qualcuno tra di noi, del gruppo, potrebbe ritenersi tale. Ma in definitiva è un aspetto secondario: il senso del nostro lavoro è quello di riuscire ad andare oltre le posizioni personali per individuare una sintesi generale, di sinistra. Certe parole, come il lavoro, la cultura o l’ambiente, dovrebbero tornare a far parte del linguaggio comune e condiviso di una sinistra che si vuol definire tale.
Nel volume viene ricordata anche la questione femminile con tutto il suo carico di disparità sociali, economiche e lavorative, oltre alla mentalità patriarcale della cultura italiana alimentata dalla religione e dalla politica attuale. Nonostante tutto, lo sciopero femminista dell’8 marzo scorso ha avuto un successo indiscutibile. Le donne sono la chiave per migliorare il nostro futuro?
Le rispondo con due esempi: innanzitutto citando la Conversazione su Tiresia di Andrea Camilleri, quando il protagonista si ritrova con sembianze e cervello di donna che gli fa pensare migliaia di cose contemporaneamente. Non è uno stantio luogo comune, le donne riescono a pensare e a gestire molte idee nelle stesso momento, e sono convinta che la nostra società sia in declino perché le donne nei posti di comando sono ancora un numero troppo esiguo. In secundis, con l’esempio concreto di ribellione civica della deputata Rossella Muroni che ha impedito ai mezzi che sgomberavano i richiedenti asilo di lasciare il Cara di Castelnuovo di Porto, sbarrando la strada ad un gigantesco pullman. Quindi la mia risposta è ovviamente sì, le donne rappresentano una grande forza di cambiamento per un futuro migliore.
E i giovani che hanno scioperato per il clima non sono anche anch’essi un esempio positivo di partecipazione attiva? Cosa ne pensa da ex studentessa “ribelle”?
Certamente le nuove generazioni sono fondamentali. Possiamo solo ringraziarli per aver riportato nel dibattito pubblico il tema dell’ambiente, scomparso dalle agende politiche di tutto il mondo. E da ex universitaria della Pantera sono felicissima del loro impegno. Sono bellissimi.
A Prato, nella sua città, il 23 marzo potrebbe tenersi la manifestazione nazionale di Forza Nuova, ancora in forse nonostante le numerose proteste, una raccolta firme che ha raggiunto le 12 mila sottoscrizioni e la contro manifestazione promossa da Anpi. A Milano, nello stesso giorno, era previsto un raduno di Casapound ma il prefetto al contrario lo ha vietato. Cosa farete nel caso l’autorizzazione venga concessa?
Molte persone protesteranno, con il loro corpo e la loro presenza, in maniera civile ma decisa il proprio sdegno per una manifestazione anticostituzionale.
Ultima domanda: ma la sinistra e la destra, secondo lei, esistono ancora?
Ovviamente: la sinistra è la forza politica sempre dalla parte dei più deboli, mentre la destra sta dalla parte dei più forti. Difendiamo i deboli e risolveremo buona parte dei nostri problemi.

I proventi dei diritti d’autore derivanti dalla vendita del libro saranno interamente devoluti all’associazione Mediterranea.

Il lungo viaggio di Manfredini fra Antonioni e Camus

Danio Manfredini

«I primi passi della mia vita li muovo nella casa di via Carducci… La nostra è l’ultima casa in fondo alla via. Poi iniziano i campi. E, all’orizzonte, c’è la montagnola di spazzatura che brucia sempre».

Parole evocative quelle che segnano l’incipit dello spettacolo Al presente, per il quale Danio Manfredini fu insignito, nel 1999, del premio Ubu come migliore attore. Parole venate della malinconia spesso legata ai ricordi, soprattutto se lontani nel tempo, che riempiono il vuoto di uno spazio bianco, all’interno del quale Manfredini si muove come su una grande tela. Un ritratto d’artista, il suo.

Davanti a questa enorme scatola, lo spettatore, dapprima disorientato, quasi abbagliato dal bianco abbacinante che emana, è costretto a rimanere lì, inchiodato, senza possibilità di resa, al Presente. Si prega di aprire gli occhi!, sembra intimare l’artista, con il quale percorriamo, ora con passo lento, ora veloce, la stanza della memoria che ci si staglia di fronte.

Insieme all’attore, il suo doppio. Un manichino con le sue stesse sembianze, al quale Manfredini si rivolge per rimarcarne l’immobilità: «Sembri lo straniero di Camus», richiamando così il personaggio scelto dalla penna dello scrittore francese per parlare di anaffettività. Nel corpo dell’attore/performer abitano personaggi, voci, storie, molte delle quali incontrate durante gli anni trascorsi negli ospedali psichiatrici come operatore. Personaggi che raccontano di solitudine, di attese, della ineluttabile fine, quando «la sera è una tregua malinconica»; uomini e donne con «il cuore nelle mani che, dopo tante palpitazioni, forse, può tornare a sorridere». Esseri umani trascinati sulla scena con la poesia irriverente del teatro di Manfredini, immersi «in un biancore talmente… totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili».

Alcuni personaggi di Al presente dichiarano di “non vedere”, di aver paura di sparire, oppure di essere alla ricerca dell’ombra che oscura la loro mente, il pensiero, e senza la quale è possibile guarire. La sensibilità dell’artista è tutta lì, nel suo sguardo spietato e appassionato, come gli occhi dipinti di rosso – unico colore presente in scena – suggeriscono.

Fin dall’inizio ci accorgiamo di come le immagini, evocate, del teatro di Manfredini permettano di andare a cercare sempre più a fondo quello che si nasconde dietro l’obiettiva materialità. Forse si rischia un confronto arduo, accostando queste immagini a quelle dalle tinte dense utilizzate da Michelangelo Antonioni ne Il deserto rosso (1964) per parlare della malattia mentale. Ma la montagna di rifiuti che brucia e il fumo che sale al cielo – osservati durante le passeggiate del piccolo Danio, nei campi, con il nonno – rievoca il fumo giallo scrutato da Giuliana e da suo figlio Valerio nel paesaggio industriale nei dintorni di Ravenna. Deserti entrambi. Di detriti industriali e di affetti, dove «la mamma invecchia dietro i vetri di una finestra» e il «padre sulla poltrona davanti alla televisione», dove la perdita del rapporto con la realtà umana porta Franz ad uccidere e poi infierire sul cadavere della moglie Maria. Una normalità assassina che ricorda i tanti casi di femminicidio perpetrati lucidamente, e poi giustificati con superficiali attenuanti, quali le “tempeste emotive”.

Ritratti di un’umanità ferita, lesa, annullata, di cui Manfredini si fa portavoce, misurando sapientemente ogni gesto, ogni parola. «Spero che ci siano molti spettatori nel giorno della mia esecuzione, e che mi accolgano con urla di odio.» È una dichiarazione di poetica quella dell’artista, coraggioso nel mostrarsi nudo davanti allo spettatore, che esorta a «fare la domanda o per sempre restare», a esser(ci) o non esser(ci), a vedere o non vedere. Perché la rivoluzione è, nonostante tutto, raccontare di speranza, e Manfredini ce lo dimostra: l’arte, nascita senza madre, non invecchia. Avere vent’anni e non dimostrarli.

Parafrasando ancora Camus, che Manfredini ci ha suggerito: «L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale… la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione».

Che pena, la pena di morte

Nella California dell’epoca Trump ci sono settecentotrentasette detenuti nel braccio della morte. Settecentotrentasette persone che, per legge, dovrebbero morire. In California, nell’epoca Trump, c’è un governatore, Gavin Newsom, democratico che ha concesso la sospensione delle esecuzioni e, di fatto, ha detto basta alla pena di morte.

Il fatto è considerevole perché la California non è uno Stato qualunque in Usa e l’importanza politica della California potrebbe essere un importante incentivo per gli altri Stati, tenendo anche conto del fatto che, anche se pare incredibile, anche sotto la presidenza Trump la pena di morte gode di sempre meno appoggio da parte della popolazione.

Che si continui a ritenere gli Usa maestrini della democrazia mentre ancora rimangono inchiodati a questa barbara misura rende l’idea di quanto siamo strabici nel misurare i valori, secondo amicizie e inimicizie e poteri più o meno forti.

“So che la gente pensa che sia giusto ragionare con la legge dell’occhio per occhio ma a violenza non si risponde con altra violenza. – ha detto il governatore Newsom – Penso che se qualcuno uccide, noi non lo dobbiamo uccidere. Dobbiamo essere meglio di lui”.

Nel suo coraggioso discorso tra l’altro il governatore ha sottolineato “l’alto costo sociale” e le disparità razziali (lo so, sembra incredibile di questi tempi) oltre alle condanne errate.

Può sembrare una cosa minima e invece è una scintilla che profuma di buono.

Ed è bello. Svegliarsi così.

No?

Buon martedì.

Tajani e quel filo rosso con Caravaggio

Caravaggio,_Decollazione_di_San_Giovanni_Battista

Cosa lega le recenti dichiarazioni a proposito del fascismo rilasciate dal presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani (in quota Forza Italia), alla cronaca di questi ultimi giorni che ha visto coinvolto ancora una volta Caravaggio? Verrebbe da rispondere: una sottile, complessa linea rossa, scorrere minuscolo, impercepibile, assordante di fronte alla vastità dello scenario pittorico in un caso (il Martirio del Battista) attraverso cui il pittore costruisce la sua firma.

Se quel rivolo, nel caso artistico, è l’umana dichiarazione dell’ultimo legame alla vita (dal passato al futuro attraverso il presente) di un’esistenza drammatica, nell’altro, lo scenario politico attuale, è ancora un sottile filo rosso che ci stravolge perché rimane sempre un’attestazione di quanto sia flebile ciò che ci lega agli eventi storici e alla memoria degli stessi. È solo mancanza di memoria quella perorazione di Tajani pro fascismo dimentica in realtà delle leggi razziali e soprattutto di un sacrosanto principio secondo cui qualunque opera (dalle bonifiche alla fondazione di città compiute dal regime) non vale nulla rispetto al dolore inflitto anche a un solo essere umano. Già proprio il nulla, quel banale nulla che, vedremo a breve, ritornerà associato al nome di quel politico in modo inaspettato.

E ancora il nulla della memoria è tornato in questi giorni legandolo al nome del pittore. Circa un anno e mezzo fa scrivemmo di quanto sciocco fosse spostare di poche migliaia di metri nella stessa città, Roma, la statua di santa Bibiana dalla chiesa titolare, sua sede storica naturale, alla Galleria Borghese dove accadeva la messa in scena di curatori prima di tutto e poi dell’opera di Gian Lorenzo Bernini. Tutte le cautele promesse non furono sufficienti in quel trasferimento a impedire la rottura di un dito della mano della Santa. A dire il vero riproporre la stessa questione a distanza di così breve tempo ma per il celebre dipinto Le opere di Misericordia di Caravaggio sembrava pleonastico.

Non si erano fatti i conti, però, con il nulla della memoria degli organizzatori della mostra napoletana: il direttore della Reggia di Capodimonte, Sylvain Bellenger, e della dottoressa Cristina Terzaghi.
A leggere poi un recente articolo di Nicola Spinosa ancora quel nulla si amplia e si addensa come il sangue di san Gennaro quando apprendiamo che lo spazio in cui, durante quella prossima mostra, si sarebbe dovuta esporre la tela da spostare non era la riproposizione di quello originario ma di altro cronologicamente intermedio. E allora quella perdita di memoria va a intaccare un altro aspetto dell’organizzare un evento espositivo, quello della ricerca scientifica. Perché la mostra non diventa l’occasione per indagare la storia dello spazio della chiesa dove attualmente si custodisce la tela di Caravaggio? Analisi degli atti notarili, dei mandati di pagamento presso l’archivio storico del Banco di Napoli e ancora, soprattutto, lo studio del sottosuolo e delle murature con il georadar (giusto per fare un esempio). In questo caso la mancanza di memoria sembra farsi più acuta e quella linea rossa ancora più flebile.

Ultimo caso di memoria abiurata, in questa ennesima vicenda caravaggesca, è quello del proprietario e detentore l’opera di Merisi ovvero quel Pio Monte della Pietà che seraficamente ammette che i prestiti delle opere d’arte (sacra) devono avere un giusto ritorno economico. “Fuori i mercanti dal tempio” furono le parole dette non dal professore universitario o dall’ex soprintendente o dal direttore generale di un ministero. Quelle parole furono pronunciate da chi è, o almeno dovrebbe essere, e proprio per quel Pio Monte, di un’autorevolezza fuori dal comune per quanto dense esse sono di quella umanità e memoria che quel rivolo di vita, ora come allora, alimentano.

Un aneddoto conclusivo. Era il 2001. Il volto di Tajani, all’epoca della sua candidatura a sindaco di Roma, sulla lavagna di un’aula di Architettura dove, ironia del caso, s’insegnava proprio Storia, apparve come un ritratto composto da due sole parti anatomiche accompagnate dalla didascalia: il nulla fra due orecchie. Sono passati diciotto anni da quella candidatura, l’uomo politico è invecchiato, il suo volto reale si è dilatato e lo spazio fra le orecchie, così come il nulla, è aumentato.