Home Blog Pagina 629

Primarie democratiche Usa, nel segno di Beto

«Questo è un momento decisivo di verità per questo Paese e per ognuno di noi». Con queste parole Robert Francis O’Rourke, conosciuto da tutti con il suo nomignolo d’infanzia “Beto”, ha annunciato la sua candidatura alle primarie Democratiche in vista delle elezioni presidenziali Usa 2020. O’Rourke si inserisce nell’affollata arena dei candidati pronti a contendersi la nomination di partito e tentare il tutto per tutto nel duello contro Donald Trump.
L’annuncio è stato fatto durante una visita in Iowa, ma il rally, la manifestazione politica che darà ufficialmente il via alla campagna, si terrà a El Paso il prossimo 30 marzo. La scelta della città del Texas come quartier generale non è casuale: è lì che Beto O’Rourke è nato 46 anni fa. «È dove voglio stare», ha dichiarato ai microfoni della Cnn per giustificare la sua scelta. Il Texas è anche uno Stato in cui le disparità tra città e campagna sono ancora ben evidenti, rendendolo una buona cartina al tornasole della situazione delle aeree rurali degli Stati Uniti, dove spesso non si può beneficiare nemmeno della connessione internet. Ma El Paso rappresenta anche l’inizio della sua carriera politica, oltre che della sua vita privata. O’Rourke ha fatto parte dell’amministrazione comunale della città dal 2005 al 2011, prima di diventare il deputato del sedicesimo distretto del Texas alla Camera dei Rappresentanti. Ma è durante le scorse elezioni di Midterm, quando ha tentato la scalata al Senato, che ha iniziato a farsi veramente notare. Dopo aver condotto una campagna elettorale di successo, che si è contraddistinta per la sua raccolta fondi da capogiro (quasi 62 milioni di dollari), O’Rourke ha perso di misura contro il senatore uscente Ted Cruz. Ma ha vinto qualcosa di molto più importante del seggio statale. Con i suoi comizi accorati ha conquistato le folle, passando alla storia come il candidato più sudato della storia delle elezioni americane. Un elemento di colore che non sembra averlo offeso affatto: nel suo nuovo sito web, Beto for America, campeggia una sua fotografia dove i rivoletti che gli imperlano la fronte e le tempie sono ben visibili.
Di certo qualcosa per farsi notare deve averlo fatto, e con successo: Vanity Fair ha deciso addirittura di dedicargli la copertina del suo numero di aprile. La tentazione di fare paragoni con il passato è quasi irresistibile per i giornalisti americani, che dopo aver paragonato Kamala Harris a Barack Obama, ora accostano O’Rourke a John Fitzgerald Kennedy.
«Ci vedrete condurre la più grossa campagna per la gente comune che questo Paese abbia mai visto», ha detto ai giornalisti riuniti per raccogliere le sue dichiarazioni sulla candidatura in una caffetteria di Keokuk, Iowa. La passione che guida O’Rourke dai tempi del Midterm e la presa che questo sembra avere sui cittadini americani preoccupa non poco i suoi avversarsi alle primarie, primo tra tutti Bernie Sanders. Il senatore del Vermont sembra essere il favorito, ma la discesa in campo di O’Rourke potrebbe cambiare le carte in tavola. Il candidato texano acqua e sapone, che si è presentato in video con la sua ormai caratteristica camicia celeste e sua moglie al fianco, fa tremare i polsi ai suoi avversari. La prima sfida da affrontare sarà quella di dimostrare sul campo che le critiche di essere “politicamente inconsistente” sono infondate. D’altronde Beto O’Rourke non sembra essere spaventato dalle sfide: la scelta di incentrare buona parte della sua campagna sul clima ne è una dimostrazione, incitando i suoi possibili elettori a superare le differenze e a combattere uniti per un futuro migliore.

Dove sta l’inghippo del salario minimo, l’ultimo annuncio di Di Maio

Il vicepremier e ministro Luigi Di Maio nel corso dell'incontro con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo a Roma, 13 marzo 2019. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Sarà il salario minimo il prossimo tormentone della propaganda del governo. Anzi di Luigi Di Maio, ansioso di rubare i riflettori al collega Matteo Salvini che, al contrario, sta portando a casa quasi tutto facendo (e lo farà anche con la riforma fiscale) compreso il pieno di voti nelle elezioni che si sono svolte dopo le politiche del 2018 e prima delle europee del 26 maggio. Il vicepremier e ministro del Lavoro e dello sviluppo economico ha convocato i sindacati al tavolo tecnico sul salario minimo per il 20 marzo prossimo alle 15. «È una misura bandiera, un guanto di sfida che M5s e governo lanciano al sindacalismo confederale dopo quella del reddito di cittadinanza e quota 100», spiega a Left Salvo Leonardi che, per la Fondazione Di Vittorio, si occupa di relazioni industriali. Dopo le controverse misure, ben lontane dall’essere a regime, ecco dunque «una sfida insidiosa – continua Leonardi – anche per la capacità tecnica che rivela il testo, scritto, probabilmente, da una mano di provenienza sindacale, dotata di una solida cultura confederale. Il ddl ha il merito di porre alla discussione un problema reale, il tema dei salari, però le proposte concrete non convincono i sindacati confederali e buona parte dell’associazionismo datoriale».
Dov’è l’inghippo? «All’articolo 2 – risponde Leonardi – dove si indica che il salario minimo legale non potrà essere inferiore a 9 euro l’ora, una soglia come quella della Germania». Sono tanti? Sono pochi? Sarà su quell’articolo che dovrebbe concentrarsi il negoziato che partirà il 20 marzo. «L’insidia è che non ci si limita a dire che si applicherà il Ccnl siglato dalle organizzazioni più rappresentative, ma si specifica che “comunque non potrà essere inferiore a 9 euro al lordo dei contributi”».
Considerando i minimi tabellari, moltissimi lavoratori sono al di sotto di questa soglia, nella ristorazione, nell’agricoltura, nelle cooperative, i portieri. Ma altri lavoratori invece rischiano perché questi 9 euro possono essere meno del loro trattamento ecomico comprensivo di una serie di istituti come la rateizzazione della 13ma, del Tfr, della 14ma quando c’è, formazione, indennità di malattia, livelli di inquadramento, maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, e altre voci e premi retributivi più tutta una serie di garanzie normative conquistate negli anni: tutele per malattia, maternità e infortuni superiori a quelle previste dalla legge; welfare previdenziale e sanitario. La retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare. «Il rischio è che si apra una voragine, che i datori potrebbero non avere più interesse ad applicare i loro Ccnl perché comunque applicheranno i 9 euro e già sarebbe un risparmio e riservare gli aumenti eventuali alla loro discrezionalità», dice Leonardi.

Ennesimo capolavoro grillo-leghista
Sul tavolo, portati in Parlamento dai vari enti, sono arrivati molti dati. Per l’Inps il 22% dei dipendenti privati è sotto il limite di 9 euro lordi (senza considerare quelli domestici che hanno retribuzioni medie ancora più basse) e quindi potrebbe avere con le nuove norme un aumento di salario. Aumento che l’Istat calcola in media di 1.073 euro l’anno per circa 2,9 milioni di lavoratori con un costo per il sistema delle imprese di 3,2 miliardi. Il cammino nel disegno di legge, anche dopo le aperture di Di Maio al confronto, appare in salita. E non solo per i dubbi delle parti sociali. Il salario orario fissato a nove euro lordi, dice anche l’economista dell’Ocse Andrea Garnero – porterebbe le retribuzioni italiane al livello delle minime più elevate nell’area Ocse con il sostanziale adeguamento alla Germania e addirittura al top dei Paesi più industrializzati guardando in contemporanea al potere d’acquisto degli stipendi. Sembra addirittura lunare poi il livello per il salario minimo orario a 9 euro netti (sarebbero oltre 13 lordi) fissato sul secondo disegno di legge sostenuto dal Pd perché di fatto supererebbe, secondo statistiche prodotte dall’Inapp, quello di oltre la metà dei lavoratori dipendenti con un aggravio di costo per le imprese di oltre 34 miliardi. I rischi di un salario minimo troppo alto sarebbero quelli di una riduzione dell’occupazione o di una riduzione delle ore lavorate (con l’imposizione di part time involontari), ma sono possibili anche effetti sulla qualità del lavoro con un cambiamento dell’intensità del lavoro stesso a fronte di un costo più alto per l’azienda. L’aumento, secondo l’Ocse, dovrebbe andare al lavoratore evitando aumenti del peso contributivo. Se il 22% dei lavoratori dipendenti privati che lavorano a tempo pieno ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, il 40% ha comunque una retribuzione oraria inferiore a 10 euro. Ad avere retribuzioni basse sono soprattutto le donne (il 26% del totale conta su meno di 9 euro lordi l’ora a fronte del 21% degli uomini) e gli under 35 (il 38% ha retribuzioni inferiori a 9 euro l’ora a fronte di appena il 16% degli over 35). Il settore con i salari dei dipendenti più bassi è l’artigianato (il 52% è sotto la soglia) seguito dal terziario (il 34% dei lavoratori conta su un salario inferiore a quello del disegno di legge in esame) mentre nell’industria solo un dipendente su 10 ha un salario inferiore a quello minimo proposto e si vedrebbe quindi aumentare la busta paga. «Resta la grande questione della Gig economy – avverte Leonardi – per la quale serve una legge che ne riconosca il carattere di lavoro dipendente».
«Una norma di legge che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti deve innanzitutto stabilire il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai Contratti collettivi nazionali di lavoro», si legge anche nella memoria consegnata ai parlamentari in occasione dell’audizione in Commissione lavoro a Palazzo Madama. Questo perché «potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti, rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele dei lavoratori. Un rischio che si fa maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e medie imprese presenti nel tessuto economico italiano». Insomma: un numero elevato di aziende potrebbe cogliere la palla al balzo per disapplicare il contratto di riferimento e adottare il salario minimo, rimanendo in questo modo perfettamente nella legalità. Sarebbe, insomma, «un fortissimo disincentivo al rinnovo di alcuni contratti nazionali relativi a settori ad alta intensità lavorativa, a basso valore aggiunto e a forte compressione dei costi». «La strada migliore è dare validità erga omnes ai contratti nazionali» dando loro «valore di legge, così da farli valere per tutti quelli che lavorano», ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. «Erga omnes sia per la parte retributiva che per quella normativa», insiste Leonardi. «Il salario minimo – prova a rassicurare Di Maio – non vuole superare la contrattazione sindacale».
Proseguiamo a discuterne con Leonardi: «Il testo realizza una sorta di erga omnes (che ha efficacia per tutti, ndr) come Cgil, Cisl e Uil chiedono da tempo». Da quando un documento congiunto chiede che si giungesse al recepimento dell’articolo 39 della Costituzione («L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»).
Dunque, la nuova legge conferirà validità di legge ai contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) secondo un sistema di certificazione, «una ponderazione», la definisce Leonardi, della rappresentatività dei sindacati firmatari, incrociando il numero degli iscritti e i voti alle elezioni per le Rsu. «La prassi giurisprudenziale di questi decenni ha interpretato i principi dell’articolo 36, sul «diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», ricavandoli dall’applicazione dei minimi tabellari della categoria. Questo, invece è un testo che fa esplicito riferimento ai sindacati più rappresentativi e al testo unico firmato da Confindustria e confederali, così si aggirerebbe il proliferare incontrollato di “contratti pirata”». Se almeno il 15% della popolazione lavorativa non ha alcun contratto (lavoro nero o forme di sottoccupazione come le false cooperative e le false partite Iva che “flat tax” farà lievitare), su 800 contratti nazionali depositati al Cnel, solo 250 sono siglati dai confederali, gli altri, molto spesso sono frutto di accordi tra il padronato e sigle di comodo, sindacati “gialli” che, in questo modo, consentono ai datori di lavoro di risparmiare un quinto dei costi. «Una forma di dumping salariale su contratti già non generosissmi in tempi di crisi», aggiunge Leonardi aggiungendo il tema del lavoro povero: «Piuttosto che imputarlo ai minimi contrattuali, il nostro problema sono i salari medi, non indicizzati dal ’93 (da quando anche con l’avallo della Cgil fu cancellata la scala mobile, ndr), con incrementi salariali, quando non c’è contrattazione aziendale (che riguarda solo il 35% dei lavoratori) che non garantiscono il potere d’acquisto, e i part time involontari e con pochissime ore oltre alle forme giuridiche del finto lavoro autonomo. Questi sono gli elementi che vanno aggrediti ad esempio con la contrattazione inclusiva (pezzo forte della strategia di Corso Italia assieme al Piano del Lavoro e alla Carta dei diritti, ndr)». In sostanza, quando si siedono al tavolo le parti dovrebbero farsi carico delle figure «più deboli, più flessibili, per concrete tutele economiche normative e sindacali e, a parità di livello, un’ora di lavoro precario deve costare di più un’ora di lavoro garantito. In Germania, quattro anni dopo l’introduzione del salario minimo garantito, si calcola che un milione e 700mila lavoratori ancora non se lo vedono applicare. Figuriamoci qui rispetto al numero ridicolo di ispettori (4 mila a fronte di un milione 800mila aziende private, ciascun ispettore dovrebbe controllare mediamente 456 aziende l’anno, ndr), in un Paese che non riesce a evitare il lavoro degli schiavi. Il settore dei controlli è cruciale. È una scorciatoia pensare che solo con una legge abbiamo abolito la povertà».

Il coraggio di chiamarsi perdenti

Ci pensavo oggi, un pensiero così, uno di quelli che ti vengono quando ti è scivolata di mano una grossa opportunità e tu non ci puoi fare niente, solo accettare il verdetto. Ti verrebbe voglia di scatenare l’inferno, di gridare al complotto o di uncinettare qualche magnifica storia per dipingere un sabotaggio. E invece no. Hai perso. Succede nella vita. Si perde, si vince. Si perde, soprattutto. E quando si perde pesa soprattutto il sogno di tutto quello che ti eri costruito presumendo la vittoria. Come se alla fine tu fossi il peggiore nemico di te stesso.

Eppure non c’è posto per i perdenti, qui. Tutti vincitori, oppure ben armati contro un nemico ben riconoscibile, tutti bravi a essere puntati contro un nemico ben definito. Non perdono mai, quegli altri. Al massimo vengono fregati, dicono loro. Così quando succede di perdere non sai nemmeno dove metterti perché l’unico spazio che ti è concesso è quello tra i falliti.

Bisognerebbe allenare il coraggio di chiamarsi perdenti, di dirselo dandosi del tu, guardandosi allo specchio: ho perso perché le regole del gioco mi hanno fatto fuori, ho perso perché probabilmente qualcuno meritava più di me.

È la vita vissuta come un enorme game (leggetevi il libro di Baricco se vi capita) dove tutto è punteggio, dove anche i fatti quotidiani diventano schermi da superare, nuovi livelli da raggiungere e dove perdere è considerato un peccato mortale.

Che bello che sarebbe il mondo se la gente ci scherzasse su, a una sconfitta, ci bevesse qualcosa ripromettendosi di fare meglio la prossima volta, vivendo invece fuori dal game e immaginando che l’esperienza sia quel pesantissimo bagaglio che contiene le nostre sconfitte e le nostre fragilità

E qualcuno che dice “ho perso” si merita un abbraccio più forte, perfino un abbraccio di consolazione. Senza classifiche, punti. Restando umani, davvero.

Buon lunedì.

La battaglia necessaria dei giovani che hanno raccolto la sfida di Greta

Un momento della "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell'attivista 16enne svedese Greta Thunberg, Roma 15 marzo 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

I giovani, ha scritto Enrico Palandri, stanno al mondo come i gatti e la luna. Cercano, provano, si innamorano e lasciano tutto il resto indietro. Ad inseguirli.
Venerdì 15 marzo in piazza sono scesi in tanti, tantissimi. Raccogliendo la sfida lanciata da una sedicenne svedese. Un’adolescente dalle trecce bionde, che ha deciso di puntare i piedi: ora basta. L’hanno seguita in centinaia di migliaia, in tutto il globo. Una battaglia necessaria, coraggiosa, vitale, che urla al mondo incancrenito degli adulti l’ingiustizia dei suoi meccanismi produttivi. E le risposte non si sono fatte attendere: rabbiose, scomposte, incattivite. Giornali e personalità hanno tentato di sporcare la rivolta bella di Greta Thunberg e degli adolescenti. Troppo sciocche e strumentali le contestazioni: le carte sporche per la strada, i tranelli dei giornalisti che volevano far passare gli intervistati per scolari poco diligenti, che hanno colto l’occasione per trascorrere una giornata al sole. Dietro deve esserci qualcos’altro. È sempre stato così.
Negli ultimi decenni, la storia dei giovani si è ritagliata uno spazio a sé nel panorama storiografico. E non avrebbe potuto essere altrimenti dopo il Novecento, dopo il secolo che ha visto per la prima volta un gran numero di giovani che hanno avuto il tempo di essere tali: le generazioni post-belliche. Questo nuovo campo di studi pone inevitabilmente molti interrogativi sul senso dei movimenti giovanili e delle risposte che a questi sono state date.
Nel 1964 gli studenti si ribellarono nell’università di Berkeley, in California, e i ghetti delle città statunitensi entrarono in subbuglio. Un fermento mai visto. La cultura, spietata, rispose proponendo una riscoperta di Freud e Lacan. Il comando imperativo di chiudere gli occhi prese alle spalle i ragazzi che scendevano in piazza. I tomi illeggibili volevano raccontare dell’impossibilità di ribellarsi ai padri. Della loro onnipotenza di statue monumentali, davanti alle quali chinare il capo, con devozione. Il “non posso” sussurrato nelle orecchie intorpidite stregò i giovani del ’68, costringendoli a credere. A pensare che non c’è umano, ma solo animale.
Ma le generazioni cambiano, velocissime. Gli anni 70 furono per l’Italia il massimo del riformismo e insieme il massimo della distruttività: il terrorismo, l’eroina, la violenza diffusa. Ancora i giovani che gridavano per chiedere il pane e le rose, i bisogni radicali, forse anche oltre il comunismo. E il grande partito, ripiegato sui suoi santini, che chiudeva le finestre per non ascoltare, per non sentire. Urlava più forte, spaventato, tentando di far sparire quanto, muovendosi, gli ricordava la sua fine vicina. Ingrao l’ha scritto, trent’anni dopo, che avrebbero dovuto ascoltare i giovani. Ma così non andò. Restarono, sfingi di ghiaccio, ad urlare il proprio sapere, in faccia ai ragazzi che non riuscivano a capire.
Vogliamo solo cantare la nostra canzone, senza più padri, senza più simboli. Liberi, come selvaggi partoriti alla luna da una squaw dai fianchi generosi. Semplici, come ragazzi innamorati che cercano le parole per dirsi il loro primo amore. Il movimento del ’77 raccolse tutto questo: dispersi, studenti, operai, ex-militanti, adolescenti alla ricerca. Tra mille contraddizioni, ritornarono le domande spiazzanti dei giovani: un mondo nuovo, parole nuove, nuovi rapporti.
Ma il grido della rivolta si impastò con le frasi di maestri come Deleuze e Guattari, che rendono impossibile l’amore. Che mischiano Marx con Freud, sporcando l’idea di una socialità umana originaria. A marzo del ’78, Rossana Rossanda dal suo alto scranno di decana della rivoluzione fallita sentenziava: il ’77 è stato la microfisica del potere foucaultiana. Nel frattempo, il filosofo francese aveva iniziato a scrivere parole d’amore per la rivoluzione iraniana, per il sentimento oceanico che scioglie il singolo nella massa credente. Era la vittoria dei padri, che avevano smorzato in gola il respiro ai giovani ribelli.
Eppure, né Freud né Foucault sono bastati a fermare il movimento. Il grande partito, la cultura, i giornali sono stati tutti troppo stupidi e sciatti per non capire che la rivolta degli adolescenti non aveva bisogno di idoli immortali. Si muoveva sui passi leggeri di Corto Maltese, di Salgari, di Sandokan. Immagini belle di una navigazione oltre i confini del mondo, senza paura.
In piazza, venerdì 15 marzo, c’era una folla che non era massa. Identità singole, giovani, che si incontrano per un momento, per poi disperdersi, ed inseguire un altro sogno. Al centro della città antica, all’ombra dei suoi monumenti maestosi, canti e balli irriverenti ci hanno raccontato la storia del mondo. Da una parte, i “professionisti del significato”, impettiti nelle loro divise inamidate, che tentano di confondere, di guidare, di stregare gli occhi belli di una ragazza con i morsi di una mela avvelenata. Dall’altra, i giovani, sempre loro, sempre diversi, con tagli nuovi e nuovi vestiti. Inconcepibili e spiazzanti, rumorosi o estremamente quieti. Ma forse oggi qualcosa è cambiato, anzi, è tutto diverso: i maestri velenosi sembrano in declino, è solo una debole battaglia di retroguardia. A nulla sono valsi gli attacchi furiosi: i ragazzi si sono lasciati, come si erano incontrati, con la naturalezza dei loro gesti adolescenziali. Ci hanno lasciato, innamorati, a chiederci il segreto della loro sicurezza. Sotto le colonne antiche, sono scomparsi i padri immortali, è rimasto solo il movimento bello dei giovani. E le trecce bionde di un’adolescente svedese.

Luigi Manconi: C’è ancora un’Italia che rifiuta il razzismo

«Diversi perché unici». È il titolo della XV settimana contro il razzismo promossa dall’Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (Unar) con un festival che si svolge dal 18 al 24 marzo a Roma. Titolo evocativo che ci fa pensare all’uguaglianza che accomuna tutti gli esseri umani, perché uguale è la dinamica della nascita, ma anche all’originalità, unica e irripetibile, di ognuno di noi. Questione cardine in tempi di disumane e oscurantiste politiche di governo contro i migranti e contro le donne. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Luigi Manconi, presidente dell’Unar già senatore Pd e presidente della Commissione per i diritti umani (ruolo che il governo giallonero ha affidato alla leghista Stefania Pucciarelli paladina di politiche anti immigrati). Sociologo, politico e fondatore dell’associazione A buon diritto, Manconi è da sempre impegnato nella battaglia per l’affermazione dei diritti umani, tema a cui ha dedicato numerosi libri, fra i quali Aboliamo il carcere (Chiarelettere) e il più recente Non sono razzista, ma pubblicato da Feltrinelli e scritto con Federica Resta.
Riflettendo sullo slogan che avete scelto per il festival dell’Unar potremmo dire, che nasciamo uguali e che l’originalità che poi ognuno sviluppa è una ricchezza?
Sì, “Diversi perché unici” significa che la parità non è mai anonimato, non è mai serialità, non è mai meccanismo omologante, ma al contrario è la capacità di valorizzare l’unicità di ciascuno dentro un tessuto comune, contro una idea mesta e burocratica di uguaglianza. L’uguaglianza è una articolazione vitale delle differenze. La ricchezza delle differenze può essere un fattore di condivisione, può essere la base di un cammino comune, dove è possibile ricomporre i conflitti.
In questa chiave andrebbe letto il fenomeno della migrazione?
Mi interesso di immigrazione dal 1989. Inizialmente grazie all’insegnamento di Laura Balbo. Ho sempre pensato che la convivenza sia difficile, suscettibile di tensioni, ma che soprattutto sia una occasione di crescita. Per questo, da sempre, contesto alcune categorie proprie della retorica anti razzistica, quelle di società multiculturale, multietnica, multireligiosa. Mi sono sempre sembrate un succedaneo del socialismo, della società di liberi e uguali, della pienezza della realizzazione dell’umanità, ma ridotte a slogan.
Ci spieghi meglio.
Voglio dire che la società multiculturale è un terreno di conflitti, quindi non valgono queste formule che hanno questa dimensione enfatica. Ma certamente vanno attentamente analizzate. La convivenza, che è la sola via, può essere non solo piena di conflitti, ma anche dolorosa. La politica deve fare proprio questo, deve impedire che le tensioni diventino lacerazioni e far sì che possano essere foriere di dinamiche virtuose.

Chi chiude i porti, denigra le Ong, inneggia ai respingimenti vorrebbe fare della solidarietà un reato, che ne pensa?

Potrà sembrare strano ma ho sempre pensato che la categoria di solidarietà rischia di apparire come qualcosa che chi molto possiede, graziosamente, concede a chi non ha nulla. La solidarietà è una strepitosa virtù, indispensabile, ma appartiene alla sfera intima delle persone. È ciò che motiva l’azione, spinge ad intervenire, ma quando poi la motivazione ci porta ad agire nella sfera pubblica la solidarietà deve lasciare spazio all’iniziativa pubblica, alla politica, al volontariato intelligente.

Invece di parlare di “criminalizzazione della solidarietà”, bisognerebbe parlare di criminalizzazione dei diritti?

Il punto è che non stanno criminalizzando il tuo sentimento intimo di solidarietà. Stanno facendo un’operazione estremamente più pericolosa. Perciò voglio definirla con le parole giuste: criminalizzazione del diritto. E in particolare del diritto al soccorso. A mio avviso tutto questo costituisce un attentato particolarmente grave all’intero sistema dei diritti umani che si fonda sul mutuo soccorso. Mi spiego meglio. L’individuo fa parte di una collettività e ne comprende l’irriducibile indispensabilità quando si trova in pericolo: in quel caso la relazione con l’altro diventa questione di vita o di morte. Tutto si fonda su un formidabile non detto: io aiuto te e so che quand’io avrò bisogno di te tu mi aiuterai. Questo elementare sentimento è il fondamento stesso della società umana, si chiama reciprocità. È questa reciprocità che fonda il legame sociale, non un generico spirito fraterno. Il diritto al soccorso in mare perciò è fondamentale.

Quanto è importante combattere quotidianamente le fake news e trovare un linguaggio diverso dalla maniera allarmistica, emergenziale, che caratterizza i giornali mainstream? È uno dei compiti che ci siamo dati con questo festival. Vogliamo superare una immagine “miserabilista”, “poveraccista” dell’immigrazione. Per far questo è fondamentale partire da un ragionamento oggettivo: tutti gli allarmi sociali legati all’immigrazione hanno a che fare con 5-600mila irregolari. In questo gruppo troviamo chi sbarca, coloro a cui non è consentito sbarcare, chi è sospinto verso una vita ai margini, chi si trova nei vari centri di trattenimento (che vanno dagli Hotspot ai Cpr), coloro che stanno in carcere, coloro che lavorano in nero. Se si analizzano tutte queste categorie vi si trovano collegati tutti gli allarmi sociali di cui abbiamo parlato e, ripeto, riguardano solo 5-600mila persone. Dopo di che ci sono 5 milioni e 200 mila stranieri regolari, fra i quali 900mila minori presenti nelle nostre scuole, che non costituiscono alcun allarme sociale; ci sono tensioni, contraddizioni ma non c’è una emergenza, anzi c’è l’esatto contrario, c’è una convivenza con ben più di 5 milioni di persone integrate, di cui la società italiana ha fatto esperienza, dei quali non intende fare a meno, verso i quali non ha sentimenti di odio.

Ma perlopiù sono senza voce?

Ecco il punto, ignorare, negare loro la parola è stato un errore gravissimo. Dall’altra parte, come accennavo, ci si è accontentati di una visione “poveraccista”. Uno degli obiettivi del festival è mettere in luce la forza delle nuove generazioni, la loro capacità di elaborazione culturale, la loro capacità di produzione artistica, la loro ricchezza. Vogliamo mostrare questo piccolo tesoro, ancora tutto da sviluppare, ma indubitabilmente presente. Molti media raccontano l’Africa come se fosse una realtà di sole capanne, senza vederne lo sviluppo, senza considerare l’immensità del continente nelle sue variegate differenze culturali. Abbiamo la responsabilità di cambiare il nostro sguardo lasciando che siano loro a raccontarsi? Questa incapacità di dare parola la si vede in tutti i campi in Italia. Davvero fatico a farmi una ragione del fatto che – se non con rare eccezioni – i sindacati non abbiano personale straniero militante e organizzato nelle proprie fila. Lo trovo inconcepibile. Possibile che Cgil, Cisl, Uil non abbiano creato in 25 anni una leva di sindacalisti stranieri? Tutto ciò ci dà una strana rappresentazione di questo Paese.

Non siamo razzisti, ma recita il titolo del suo ultimo libro. C’è sempre più razzismo in Italia?

Sì, sta crescendo il numero dei razzisti. Ma, con questo, non possiamo dire che l’Italia sia un Paese razzista. Chi lo afferma lo fa con una tonalità razzista, perché prende l’atteggiamento, le parole, gli atti di una minoranza e intorno a questo omologa tutto il resto. A Macerata un razzista ha sparato ma possiamo dire che sia una città razzista? Ovviamente no. Beninteso non dobbiamo ridimensionare il razzismo, dobbiamo vederlo nella sua reale misura. Crescono i razzisti? Sì. Cresce l’indulgenza verso il razzismo? Sì. Ma il problema dell’Italia è la xenofobia. Nel discorso pubblico il razzismo è diventato sinonimo di xenofobia. Non sono la stessa cosa. Io penso che la buona politica abbia un compito essenziale, intervenire in quello spazio che c’è tra xenofobia e razzismo e impedire che quella xenofobia si trasformi in razzismo. Se diciamo che l’Italia è tout court razzista facciamo un grande regalo a Salvini. Guai a farlo.

Dal 18 al 24 marzo alla Città dell’Altra economia a Roma si svolge la XV settimana contro il razzismo promossa dall’Unar con il titolo Diversi perché unici. Left partecipa alla festa dell’Unar: giovedì 21 marzo, a partire dalle 18.30, Simona Maggiorelli direttrice di Left intervista in pubblico il direttore dell’Unar Luigi Manconi sul tema “Il futuro”. Tutto il programma qui.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Luigi Manconi prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

La nostra Hebron, città chiusa

Israeli soldiers take position during clashes with Palestinian stone throwers nearby an Israeli army checkpoint in the centre of the divided West Bank city of Hebron on October 22,2013. Israeli forces fired rubber bullets at stone-throwing Palestinians in clashes in the southern West Bank city of Hebron, as troops hunted for the suspected killer of an Israeli soldier. AFP PHOTO/HAZEM BADER (Photo credit should read HAZEM BADER/AFP/Getty Images)

Ahmad e Jannat hanno vent’anni. Sono nati e cresciuti ad Hebron, città palestinese nel sud della Cisgiordania. Non hanno mai visto Shuhada Street, la principale arteria della città, aperta.
È una strada fantasma da oltre due decenni: negozi chiusi per ordine militare israeliano, case occupate dai coloni, decine di blocchi stradali che impediscono il movimento. Eppure Shuhada Street era il cuore della città vecchia di Hebron: era sede della stazione dei bus, del mercato della frutta e della verdura, di centinaia di negozi. Affollata a ogni ora di auto e persone, un groviglio di corpi, grida dei venditori per attirare la clientela, saluti tra conoscenti: «Era così piena di gente che non lasciavo mai la mano di mio padre per paura di perdermi», ci raccontava Mohammed poco tempo fa, davanti al suo negozio di souvenir.
Lui, che oggi ha quasi 30 anni, Shuhada la ricorda così. Ahmad e Jannat no: «L’abbiamo vista solo in fotografia». I due giovani sono arrivati in Italia all’inizio di marzo per una serie di eventi organizzati da Assopace per la campagna Open Shuhada Street, che da anni i palestinesi portano avanti dentro e fuori la Palestina per tenere accesa l’attenzione sull’occupazione militare israeliana di Hebron. Un’occupazione diversa, in qualche modo, da quella subita dal resto dei Territori Occupati: Hebron, Al Khalil in arabo, è la sola città della Cisgiordania dove le colonie (illegali per il diritto internazionale) occupano il cuore della comunità, il centro storico.
La prima colonia costruita ad Hebron dalle autorità israeliane, Kiryat Arba, è anche la prima sorta nei Territori dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Un anno dopo le colline intorno alla città palestinese vengono occupate dall’insediamento. Da lì parte una colonizzazione che permea l’intera città e la divide fisicamente in due: nel 1994, dopo il massacro alla Moschea di Abramo (29 palestinesi uccisi mentre pregavano all’alba di un giorno di Ramadan da un colono israeliano, Baruch Goldstein), Tel Aviv impone la divisione della città in due. Area H1 e Area H2, la prima sotto il controllo palestinese e la seconda (che coincide con il centro storico, il cuore commerciale, culturale e politico di Hebron) sotto il controllo israeliano. Pian piano sempre più…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

In Nigeria a difendere la democrazia ci pensano le donne

A group of girls wait for their families at a polling station at the Malkohi refugee camp in Jimeta, Adamawa State, on February 23, 2019, during the presidential and parliamentary elections. Malkohi is an internal displaced camp for people who fled their homes from areas affected by the conflict with the Islamist terrorist group Boko Haram. - Nigerians began voting for a new president on February 23, after a week-long delay that has raised political tempers, sparked conspiracy claims and stoked fears of violence. Some 120,000 polling stations began opening from 0700 GMT, although there were indications of a delay in the delivery of some materials and deployment of staff, AFP reporters said. (Photo by Luis TATO / AFP) (Photo credit should read LUIS TATO/AFP/Getty Images)

È stato il voto più rosa nella storia della Nigeria, con sei donne in corsa per la presidenza e centinaia di candidate all’assemblea nazionale. In un Paese dove la rappresentanza femminile alla Camera è del 5,5% e in Senato del 5,8%, si può definire un progresso, seppur minimo. Resta l’amarezza per l’inatteso ritiro di colei che avrebbe potuto portare un significativo contributo alla battaglia per l’uguaglianza di genere nel più popoloso Paese africano, Oby Ezekwesili.
Già ministro dell’Istruzione, è stata il cuore e l’anima del movimento Bring back our girls, nato per chiedere la liberazione di 276 studentesse nigeriane rapite nel maggio 2014. La sua candidatura a presidente rappresentava la smentita diretta della narrativa maschile che ha sempre etichettato le donne impegnate in politica in Nigeria come incompetenti, incapaci di essere competitive. La decisione di ritirarsi è maturata alla fine di una deludente campagna elettorale che ha visto la continua emarginazione della componente femminile, sia in termini di visibilità sui media sia per l’inadeguato sostegno che i comitati delle candidate hanno ricevuto dalla società civile, tanto da costringerne molte a lasciare la corsa prima del voto. Stesso discorso per la partecipazione agli uffici e ai seggi elettorali, nonostante le donne costituiscano il 47% degli elettori registrati.
Pur non essendo ancora definitivo il quadro degli eletti, quella femminile resta una minoranza significativa nelle assemblee parlamentari. Ma prima di analizzare e approfondire la questione è necessaria una panoramica sul risultato delle presidenziali e sul contesto Paese. Per quanto messe in ombra da pressanti crisi internazionali come il Venezuela e il delicato dossier della Brexit, le elezioni nigeriane che si sono svolte il 23 febbraio rappresentavano un test importante per tutto il Continente, capace di suggerirci a che punto sia il processo di democratizzazione in Africa dopo le deludenti e poco trasparenti tornate elettorali in Congo e in Camerun. Il più popoloso dei Paesi africani ha deciso di…

L’articolo di Antonella Napoli prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

C’è scritto prostituta, si legge schiava

GOMA, DRC - OCTOBER 4: Nonmume Alitteee, age 18, a victim of a horrible gang rape by five men, hides her face as she poses for this portriat at the Ndosho center on October 4, 2006 in central Goma, DRC. The center is run by Heal Africa, an NGO. She was attacked when she was walking to a market in her village. Her parents are now homeless and the men killed her grand parents to scare her to silence. Due to the recent civil war, Congo has the worst humanitarian crisis since World War 2. About four million people have died of treatable diseases. Many women has been abducted and used as sex slaves by different militias and rebel groups during the conflict. (Photo by Per-Anders Pettersson/Getty Images)

Da 61 anni, compiuti lo scorso 20 febbraio, la legge Merlin è uno dei baluardi in difesa dei diritti delle donne e da 61 anni resiste agli “attacchi” di chi vorrebbe modificarla se non addirittura abrogarla, attraverso proposte di legge, referendum o sollevando questioni di legittimità costituzionale. L’ultimo tentativo di metterla in discussione si è consumato il 6 marzo scorso. Anche questa volta senza esito. La Corte costituzionale ha infatti ritenuto infondate le questioni di legittimità sollevate dai giudici della Corte d’Appello di Bari su richiesta dei difensori di Giampaolo Tarantini, accusato dei reati di favoreggiamento della prostituzione e reclutamento nei confronti di 26 ragazze portate a prostituirsi tra il 2008 e il 2009 nei festini dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Le argomentazioni sull’abrogazione del reato di favoreggiamento e di reclutamento si fondavano sul fatto che la legge Merlin sarebbe disancorata dalla realtà odierna che vede diffondersi la prostituzione “libera” delle c.d. escort o sex workers. Per tali motivi, sarebbero maturi i tempi per legalizzare la prostituzione e riaprire le case chiuse.
A parere di chi scrive, l’idea della prostituzione come lavoro subordinato o come impresa non è frutto del progresso dei costumi, infatti, proprio sull’idea che la donna fosse libera di prostituirsi si fondava il sistema delle case chiuse che segregava le donne, rendendole merce e oggetto di profitto altrui; sistema contro il quale ha reagito la legge Merlin.
Nell’udienza dinanzi alla Corte costituzionale sono intervenute le associazioni Differenza Donna Ong e Rete per la parità, per rappresentare il significato e il valore attuale della legge Merlin e la sua incidenza sulle libertà fondamentali delle donne. La prostituzione è, infatti…

L’avvocato Teresa Manente è responsabile dell’ufficio legale della Ong Differenza Donna 

L’articolo di Teresa Manente prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Con le migrazioni climatiche alle porte

Bangladeshi pedestrians holding umbrellas hitch a ride on a rickshaw van as they attempt to stay dry over flood waters in the Bangladeshi capital of Dhaka on July 28, 2009. Seasonal monsoon rains brought Dhaka to a standstill, with vehicles scarce on the flooded roads, offices off to a slow start and people trapped in homes as low-lying areas of the city were inundated. The weather office recorded 333mm of rainfall between midnight and 7am in Dhaka. AFP PHOTO/Munir uz ZAMAN (Photo credit should read MUNIR UZ ZAMAN/AFP/Getty Images)

A Reykjavik e oltre il circolo polare artico, a metà febbraio, i turisti sono rimasti delusi: lo spettacolo dell’aurora boreale non aveva la magia immaginata senza il candido manto bianco, soppiantato da un paesaggio triste di alberi spogli e fango.
Ma quasi non fanno più scalpore i disastrosi e ricorrenti incendi propagati dalla lunga siccità in California. E anche il gelo polare che ha paralizzato quest’inverno New York e trasformato la Baia dell’Hudson in una lastra di ghiaccio, scenario degno di un film apocalittico, sembra destinato al dimenticatoio primaverile.
Eventi meteorologici anomali ed estremi come piogge torrenziali continuano, anno dopo anno, a devastare Paesi del Mediterraneo come il nostro, mentre ondate di calore intenso hanno fatto oltre 100mila vittime nel Nord Europa, Russia inclusa, negli ultimi quindici anni. Eppure resiste una fetta consistente dell’opinione pubblica occidentale, soprattutto delle élite al governo a cominciare proprio da Russia e Stati Uniti, in cui continua a prevalere il negazionismo sull’allarme lanciato dagli scienziati dell’Ipcc – l’Intergovernmental panel on climate change – che sotto l’egida dell’Onu hanno tentato nella conferenza di Katowice a dicembre di rianimare gli impegni dell’accordo di Parigi per mantenere almeno sotto i due gradi la temperatura media del pianeta entro fine secolo. In Polonia non è stato raggiunto alcun accordo vincolante, solo la solita professione di intenti.
I ragazzini che si sono mobilitati sulla scia della teatrale indignazione messa in atto dalla sedicenne svedese Greta Thunberg ora sfidano l’inerzia dei governi e sono oggi gli unici veri alleati dei climatologi.
Roberto Buizza è un fisico dell’atmosfera, matematico, per una trentina d’anni ha messo a punto modelli per le previsioni meteorologiche in Inghilterra, dove fino a pochi mesi fa dirigeva un team di ricerca dell’European centre for medium-range weather forecast (Ecmwf), ente intergovernativo supportato da 34 Stati per le previsioni globali. Tornato in Italia, dalla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa intende mettere su un centro studi in tandem con l’ateneo di Pavia sulla climatologia. «In Italia – dice – c’è veramente molto da fare. È necessario puntare sulle nuove generazioni».
Professore, a Katowice è stato detto che resta poco più di un decennio per dimezzare le emissioni dei gas serra. Siamo spacciati?
Il problema è globale e va affrontato urgentemente senza ombra di dubbio. Ma secondo me bisogna stare attenti a non essere troppo catastrofisti, per non alimentare il senso dell’irreparabilità e la perdita di speranza che inibisce l’azione. Abbiamo le conoscenze e le risorse per affrontare il problema. Quindi con le scelte giuste, abbiamo gli strumenti per affrontarlo. Allo stesso tempo non possiamo negare che non abbiamo mai registrato cambiamenti del clima così imponenti in tempi così rapidi. Ci sono state altre modificazioni climatiche e ambientali nella storia umana ma con un tempo lungo per adattarsi, ora invece la scala è dell’ordine delle decine di anni.
Cosa pensa che sia successo?

 

L’intervista di Rachele Gonnelli a Roberto Buizza prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

#FridaysForFuture, quando sono gli studenti a dettare l’agenda politica

Le malelingue li chiamano Klimaat spijbelaars: quelli che marinano la scuola per il clima. Si riferiscono a studenti e studentesse delle superiori, che in Belgio saltano scuola ogni giovedì. Da quasi due mesi. Sì, ogni giovedì. «Si tratta di uno sciopero – ribattono gli adolescenti -. Inutile studiare se il nostro futuro è in pericolo». Il pianeta ha la priorità, perciò si marcia e si assedia il Parlamento, anzi i Parlamenti del Belgio: quello federale insieme ai tre regionali. Anuna De Wever, 17 anni, fondatrice di Youth for climate, ha lanciato l’idea dell’appuntamento del giovedì, seguendo le orme della svedese Greta Thunberg, emblema della lotta al cambiamento climatico per adolescenti di mezzo mondo. «Rispettare l’esistenza o aspettarsi una resistenza», aveva scritto Anuna su Facebook il 20 dicembre. E la resistenza è arrivata. «Aspettavamo una ventina di persone – mi spiega – e ne sono arrivate tremila. È stata un’emozione incredibile e inaspettata». Era il 10 gennaio. Il 31 dello stesso mese gli studenti in marcia erano 35mila a Bruxelles, 15mila a Liegi, diverse migliaia a Charleroi. Una marea. Verde.
Le proteste sono arrivate anche a domicilio. Di preciso a quello di Marie-Christine Marghem, ministro federale dell’Ambiente. Una quindicina di studenti di Tournai, seduti in cerchio, l’hanno aspettata in giardino mentre usciva di casa alle 7 del mattino: «Non vogliamo rivolgerti la parola, sai bene qual è il tuo compito». Strade (e case) non sono l’unico luogo di mobilitazione. Attraverso il sito wakeupyourministers.be, migliaia di mail e sms sono stati inviati ai quattro ministri per l’Ambiente. «Pretendiamo azioni più audaci dai nostri politici – sottolinea Anuna – alcuni stanno diventando matti, sotto la nostra pressione e della stampa». Ad avere la peggio è stata la ministra delle Fiandre Joke Schauvliege (dei cristiano-democratici fiamminghi Cd&v). A colpirla, con un potente effetto boomerang, le accuse di complottismo che Schauvliege aveva lanciato nei confronti del movimento studentesco, manipolato a suo dire dalle organizzazioni ambientaliste. Tempestata di critiche, costretta a ritirare accuse risultate infondate, ha dichiarato in lacrime…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA