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Pasionaria a sedici anni, così Greta Thunberg ha sfidato i potenti

epa07385346 16 year-old Swedish climate activist Greta Thunberg (C) and Belgian students gather to call for urgent measures to combat climate change during a demonstration in Brussels, Belgium, 21 February 2019. According the police more than 7,500 students took part in the demonstration. EPA/STEPHANIE LECOCQ

Greta Thunberg ha da poco compiuto sedici anni, è sì una giovane attivista svedese, ma anche una studentessa che, nella scorsa estate, precisamente dal 20 agosto 2018, ha deciso di scioperare non andando a scuola fino al 9 settembre, giornata di elezioni per il suo Paese. Da allora ha cominciato a recarsi ogni venerdì davanti al Parlamento manifestando con cartelli il suo disappunto verso una politica che non dedica attenzione alla situazione climatica ed ecologica, e quindi al futuro, una situazione che è in grave peggioramento.
A chi le dice che sarebbe meglio occupasse il suo tempo con lo studio, lasciando intendere che le sue proteste servano a poco o a niente, ha saputo mostrare il suo zaino con dentro i libri scolastici sottolineando quanto ci tiene ad imparare e promette indubbiamente di farlo, ma spiegando anche le urgenze su cui tutti dovremmo essere chiamati a riflettere. E poi, con un vivace e pungente umorismo, ha incalzato: «Cosa ho intenzione di imparare a scuola se i fatti non contano più? I politici non ascoltano gli scienziati, quindi perché dovrei imparare?».
Greta è ferma nelle sue idee, si dimostra coraggiosa poiché ha chiarezza e conoscenza degli argomenti di cui parla, ciò dimostra che oltre l’attivismo c’è un grande interesse per lo studio e la capacità di esporsi con saggezza. È sincero il desiderio che anima il suo impegno nel farci conoscere i rischi a cui andiamo incontro e la pochissima attenzione data da decenni all’ambiente.
Il discorso che ha fatto a dicembre 2018 alla Conferenza sul cambiamento climatico organizzata dalle Nazioni unite a Katowice, in Polonia – con l’obiettivo di decidere i criteri per misurare le emissioni di Co2, indagando sulle misure per rendere più efficace il contrasto al climate change – è stato essenziale, incisivo ed emozionante. Greta ha ribadito che non le interessa risultare impopolare, è importante rivendicare la giustizia climatica e un pianeta vivibile soprattutto per le giovani generazioni. Ha sottolineato quanto gli adulti siano…

L’articolo di Ilaria capanna prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


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Tajani ha fatto anche cose buone

Ci risiamo. Ancora una volta un uomo politico italiano, tra l’altro con responsabilità istituzionali internazionali, il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, è caduto nel solito equivoco, tutto italiano, che tenta di salvare il salvabile della dittatura fascista.

“Mussolini ha fatto qualcosa di buono per il suo paese”.

“Ha costruito strade, ponti, ferrovie, ha bonificato le paludi.”

Per carità, tutte opere meritevoli, che è possibile riscontrare anche in altre dittature di ieri come di oggi, boreali e australi, di destra come di sinistra, laiche e teocratiche. Anche se c’è da dire che noi abbiamo più gusto degli altri e che il nostro made in Italy è esportato in tutto il mondo.

Un dato è certo, i dittatori, gli imperatori, i sovrani, i cesari dell’est come dell’ovest del pianeta, sanno costruire. I ponti, poi, sono il loro fiore all’occhiello. Basta guardare la toponomastica di Roma: ponte Elio (oggi ponte Sant’Angelo), ponte Sisto, ponte Umberto I, ponte del Littorio (oggi ponte Matteotti).

Pontifex, “costruttore di ponte”, questo il titolo della casta sacerdotale dell’antica Roma, che si è tramandato fino a diventare Sommo Pontefice, prerogativa della più alta autorità religiosa riconosciuta nella Chiesa cattolica.

Peccato però che questi costruttori di ponti abbiano accidentalmente commesso qualche sciocchezza qua e là. Per tornare al ventennio, Tajani, con onestà intellettuale, non può fare a meno di ricordare le leggi razziali e la guerra, oltre a considerare Mussolini “non un campione di democrazia”. Un eufemismo, per ricordare a tutti, che la nostra dittatura è stata più blanda rispetto ad altre. Giusto, come si fa a non riconoscere il fair play del fascismo nel campionato delle dittature mondiali? Allora, se c’è questo in palio, facciamo bene a non ricordare, o a dimenticare tutte le volte, la stagione dello squadrismo che ha visto cadere come mosche operai e contadini socialisti, preti, dissidenti politici e persone comuni, i delitti eccellenti come quelli di Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti e Giovanni Amendola, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con le sue 4596 condanne, di cui 31 a morte, il confino, l’olio di ricino, la tortura, le atrocità delle guerre coloniali, l’uso dei gas tossici, vietati da tutte le convenzioni internazionali dell’epoca, contro la resistenza etiope, i 275.000 morti della guerra per la conquista della “Abissinia”. E per concludere questa lista sommaria di nefandezze, anche la vergogna mai cancellabile delle leggi razziali e l’orrore della seconda guerra mondiale.

Ma la leggerezza compiuta da Tajani, e come lui da tanti altri che ogni volta ci ricascano, è anche comprensibile. È tutta colpa di quel ponte. Chi l’ha costruito ci ha visto lungo. Sapeva che prima o poi qualcuno lo avrebbe tirato fuori per una sua riabilitazione postuma.

Beni culturali alla deriva

Roman Forum, Rome, Italy - December 29, 2017: An amazing winter day with the ancient sculptures and the columns inside the forum.

Dopo le varie trasformazioni che il ministero ha vissuto e che hanno investito aspetti normativi e organizzativi, è con la “riforma” dell’ex ministro Dario Franceschini che il cambiamento nella cura dei Beni culturali diventa radicale. Egli interviene con la decisa volontà di separare le competenze in precedenza svolte dalle Soprintendenze negli ambiti della tutela e della valorizzazione. La logica viene totalmente ribaltata con l’obiettivo di lasciare alle Soprintendenze il solo compito della tutela (non è poi del tutto così), accorpando in esse tutte le discipline (Archeologia, Belle arti e Paesaggio) e alle altre istituzioni, Poli museali e Istituti autonomi, la gestione di musei e parchi archeologici, con il compito preminente della valorizzazione (con eccezioni che contemplano tutela e valorizzazione).

Tale nuova organizzazione è stata attuata rapidamente e drasticamente, in due fasi, tra luglio 2014 e gennaio 2016, senza che per molte realtà venisse fatta anche una banale valutazione di sostenibilità, determinando una gerarchia per gli istituti autonomi, con la conseguente assegnazione di un direttore di livello generale e non generale. Non sono stati affrontati aspetti logistici, sono state previste dotazioni organiche solo sulla carta e, a tutt’oggi, la nuova organizzazione non è stata portata a compimento, lasciando condizioni di caos per archivi, servizi centralizzati, laboratori che in precedenza erano funzionali all’intero apparato delle Soprintendenze, oggi rimasti casualmente e integralmente (per fortuna!) dove erano collocati, ma nella competenza di uno solo degli istituti derivati dalla scomposizione delle Soprintendenze.

Queste riflessioni riguardano le competenze specialistiche, l’assetto culturale, la sostenibilità economica e organizzativa, con il fine di individuare possibili soluzioni per le maggiori criticità, di ordine culturale innanzitutto, e quindi logistico, con uno sguardo anche al mondo del lavoro che risulta gravemente danneggiato da tale nuovo assetto. L’urgenza si impone anche alla luce delle annunciate revisioni della riforma e del malessere crescente avvertito da coloro che operano all’interno e all’esterno, specialisti per i quali sembrano essere scomparsi diritti e dignità e mortificate le competenze disciplinari maturate in anni di studio e di esperienza sul campo, come è emerso animosamente nell’incontro pubblico (sul sistema delle Soprintendenze dopo la riforma Franceschini, tenutosi a Roma il 5 marzo, ndr) Peraltro in un silenzio imposto dal codice etico al quale il Ministero ha assegnato una accezione molto restrittiva.

Per il personale tecnico dell’Amministrazione non si intravede una opportunità di crescita professionale e di carriera, in una condizione di difformità irragionevole tra i funzionari che operano per la tutela e la gestione, le cui retribuzioni sono rimaste miserevoli, e direttori i cui compensi economici sono, in molti casi, equiparati a quelli dei direttori generali. Il personale di vigilanza è ridotto a numeri inadeguati per fare fronte alla situazione ordinaria e a quella straordinaria delle giornate gratuite, con la conseguenza, inaccettabile, del ricorso al volontariato, soluzione che si sta adottando in diversi musei.

La grande innovazione poi, tra le tante trasformazioni attuate, quella di cui più si è parlato e che ha letteralmente invaso le cronache, è stata la creazione di musei e parchi dotati di autonomia, affidati alla direzione di figure selezionate tra italiani e stranieri che avrebbero dovuto rappresentare l’eccellenza per la gestione di questi luoghi della cultura, per migliorarne la visibilità e incrementare la valorizzazione. Per realizzare questo in una forma clamorosa e che apparisse in totale rottura col passato, si è adottata una procedura di selezione affidata a commissioni con membri estranei all’amministrazione, quindi privi di conoscenza sulla gestione della tutela e del patrimonio, lasciando la scelta finale (su una terna di nomi) alla discrezionalità del ministro pro tempore o del Direttore generale che può essere anche una figura esterna, per nomina diretta del ministro. Senza offesa per alcuno dei direttori, credo si possa tranquillamente affermare che, in numerosi casi, non vi è un nesso chiaro tra gli stessi, i “super direttori”, e i luoghi che sono andati a dirigere.

Una delle principali osservazioni critiche mosse al sistema precedente era che i luoghi della cultura, musei, siti, complessi, fossero uffici all’interno delle Soprintendenze, ordinarie o speciali, e non vi è dubbio che un luogo aperto alla fruizione pubblica debba avere una propria identità e visibilità ed essere gestito da un direttore con un grado di autonomia rispetto alla struttura di appartenenza. Tale assetto, tuttavia, sarebbe stato facilmente risolvibile con una migliore organizzazione del lavoro all’interno delle istituzioni già esistenti, individuando le figure professionali più idonee, per formazione ed esperienza, tra i tecnici nei ruoli dell’amministrazione per la quale sono stati selezionati con concorsi pubblici. Questa forma di organizzazione avrebbe consentito, oltre un notevole risparmio economico, di non smembrare l’assetto culturale delle Soprintendenze, laboratori continui nella ricerca, nella tutela, nella diffusione della conoscenza, mantenendo così centralizzati gli uffici e i servizi amministrativi e tecnici. Si sarebbe assecondata anche la legittima aspettativa di crescita professionale da parte del personale tecnico al quale non è mai stato dato adeguato riconoscimento anche economico.

La separazione tra Soprintendenze, che si occupano della tutela, i musei confluiti nei Poli – nella maggior parte dei casi distanti culturalmente e spazialmente (sono 46 nella Regione Lazio) – e i musei autonomi, ha cancellato l’assetto culturale che si componeva di attività di tutela e ricerca sul territorio e di conservazione ed esposizione, nei musei “minori” e in quelli “maggiori”, di opere e collezioni di quel contesto territoriale. Questo smembramento ha dunque causato enormi disagi, e una moltiplicazione di incombenze burocratiche, da gestire senza il personale necessario, con effetti negativi negli ambienti di lavoro. Separazioni e accorpamenti hanno gettato nel caos l’amministrazione della tutela, senza più la possibilità di attuare il naturale processo di ricerca sul campo e immissione dei ritrovamenti nei laboratori di restauro, nei depositi e negli spazi espositivi. Caos per il quale non si prefigura alcuna soluzione. Risulta evidente che i problemi gestionali hanno preso il sopravvento rispetto all’ordinamento culturale e specialistico del quale si sarebbero dovute far crescere le potenzialità, indirizzando le attività e la formazione del personale tecnico.

Gli effetti di questa situazione sono insidiosi anche per il messaggio che passa al pubblico, tutto basato sui numeri e sulle imprese dei “super direttori”, con una ossessiva attenzione verso le situazioni che attraggono maggiori visitatori, mentre nella tavola rotonda del 5 marzo a Roma è stato sottolineato che, nonostante le apparenze, il patrimonio sembra essersi allontanato dai cittadini, tra musei che rischiano di essere luoghi di lusso e gratuità che non consentono una fruizione buona e consapevole, privando un certo numero di luoghi del ruolo sociale e formativo che ne è l’essenza. Il resto fa fatica a sopravvivere, se ne parla e se ne sa poco. Dove la sfida è più ardua, invece, l’impegno dovrebbe essere maggiore e allora non resta che cercare di risvegliare la consapevolezza verso una visione culturale più ampia, in grado di ristabilire una relazione corretta tra il patrimonio culturale e il modo di gestirlo.

L’incontro pubblico ha restituito, anche attraverso la passione dei molti interventi e della discussione, l’immagine di un Ministero disarticolato nella sua struttura, indebolito nelle funzioni principali, impoverito nelle competenze e nelle risorse. E assieme, è emerso il profondo disagio di quanti vi lavorano, sviliti – in particolare i precari – anche nella dignità professionale. È davvero questo che merita un patrimonio culturale con il quale vorremmo competere nel mondo globale?

* Rita Paris, archeologa, già direttore del Parco archeologico dell’Appia antica di Roma, è presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli

 

L’articolo di Rita Paris è tratto da Left del 15 marzo 2019


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Gli sbarchi continuano. Solo che sono un segreto di Stato

A boat of Guardia Costiera (Italian Cost Guard) full of migrants arrives in Lampedusa island, south Italy, 13 October 2018. ANSA/ELIO DESIDERIO

No, non è un’isola felice. È un’isola che prima stava su tutte le pagine dei giornali, nazionali e internazionali, e ci rendeva fieri in tutto il mondo. La Lampedusa di Giusi Nicolini era, a suo modo, quella solidarietà architrave della democrazia (parole del presidente Mattarella) che dimostrava al mondo come l’Italia non avrebbe mai permesso che ne sarebbe morto nemmeno uno nel Mediterraneo per colpa dell’inerzia della politica europea.

Oggi Lampedusa ha un nuovo sindaco, opposto a Giusi Nicolini, e in molti da quelle parti avevano creduto allo spot elettorale di chi continua a urlacciare stop agli sbarchi eppure finisce ogni giorno sepolto dalle sue bugie. Il nuovo sindaco, Totò Martello, non è un buonista e nemmeno di sinistra, anzi avrebbe voluto essere proprio di quella parte che prometteva di alzare muri, seppur simbolici, per tenere lontani gli stranieri.

E invece? E invece niente. Totò Martello dall’inizio dell’anno ha contato sette sbarchi (l’ultimo nella notte tra il 7 e l’8 marzo) quando sono arrivati in 46, tra cui sei donne e due bambini di tre anni. Non ne avete sentito parlare? No, vero? E no, perché non bisogna parlarne. Bisogna illudere e illudersi davvero che i porti chiusi (che non sono chiusi) siano una realtà e non solo un patetico slogan del ministro dell’Interno. E invece niente.

Ah, poi ci sono quelli del 2018: oltre 300 sbarchi per oltre 3500 persone, solo a Lampedusa, secondo i numeri dati dal sindaco stesso, attenzione, mica da qualche pericolosa Ong. E infatti il sindaco ha perso la pazienza e si è lasciato andare a parole pesantissime intervistato da Vita: «È evidente che tutto ciò che viene detto agli italiani non tiene conto di quanto accade a Lampedusa, che è stata cancellata moralmente e geograficamente da questo governo. Eppure negli anni abbiamo svolto un’azione non indifferente per l’Italia e per l’Europa».

Nascondere la realtà. Banalmente. Semplicemente. In modo criminale, ovviamente, senza nessuna etica verso i cittadini.

E così ci si accorge che nella pagina del ministero su sbarchi e accoglienza in realtà Lampedusa non viene calcolata. Sapete cosa significa? Che l’isola praticamente è stata cancellata. Non esiste.

E allora quanto potrebbero essere affidabili quei dati che vengono continuamente sventolati come una delle vittorie più importanti di questo governo? Niente. Zero.

Lo spiega benissimo il sindaco Martello: «Il fatto che siamo stati cancellati dal cruscotto del ministero dell’Interno ha due chiavi di lettura: dimostrare agli italiani che non ci sono più sbarchi e toglierci i fondi che ricevevamo in quanto eravamo tra i comuni italiani interessati dagli sbarchi. Dal 2011 – prosegue Martello – avevamo ricevuto la sospensione delle tasse che era inserita nel decreto Milleproroghe, un’esenzione che è stata abolita per il 2018 e il 2019, quindi fra qualche giorno a tutti gli imprenditori lampedusani arriveranno le cartelle esattoriali e saranno falliti. Su questo abbiamo informato il governo, abbiamo scritto a Tria, al ministero dell’Interno, a Conte, ma nessuno si è fatto vivo. Un governo che si definisce del popolo non può non rispondere a un’istituzione che rappresenta il popolo, siamo un’isola mortificata dallo Stato».

Ora decidete voi. Quanto vi farebbe incazzare litigare su dati che non esistono?

Ecco tutto.

Buon venerdì.

Il “benvenuto” a Minniti degli studenti inglesi: «La tua retorica sui migranti non copre il sangue versato»

«No border no nation, stop deportation», con queste grida studenti e attivisti hanno “accolto” l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti nella capitale britannica, dove si trovava per una conferenza su migrazione e sicurezza alla London school of economics (Lse). «Vergogna Minniti», «Eu border kills», questi i cartelli sventolati fuori dall’ateneo, da mani verniciate di rosso, per ricordare – spiegano i manifestanti – il sangue di cui sono macchiate le mani dell’Unione europea, con le sue politiche di respingimento dei migranti e di esternalizzazione delle frontiere. Ad organizzare la protesta, una rete di studenti universitari di Lse e della School of oriental and african studies (Soas), impegnati sul fronte della migrazione. Gli studenti, durante l’incontro, hanno posto al ministro alcune domande, come spiegano in una nota.

«Il 12 Marzo 2019 – scrivono gli attivisti nel comunicato – l’ex ministro degli Interni Marco Minniti ha tenuto una conferenza presso la London school of economics (Lse) sulla “situazione del Mediterraneo, migrazioni e sicurezza”. Il ministro ha provato a presentarsi come il volto pulito e razionale del governo neoliberale delle migrazioni. Ha esordito invocando la separazione tra emergenza, sicurezza e migrazioni, a suo dire, usate dalla sola destra “nazional-populista” per conquistare il consenso in Europa. Minniti ha impostato il suo discorso in linea con la retorica europeista di Macron contro chi mette in pericolo la democrazia. Pur essendoci differenze tra i neoliberali europeisti e i nazional-populisti, non possiamo che sottolineare le forti continuità a cui abbiamo assistito nelle politiche omicide della Ue di Merkel, dalla Turchia, alla Francia di Macron (da Calais a Bardonecchia e Ventimiglia), all’Italia di Gentiloni con il patto siglato con la Libia e il Niger.

Se ora la gente spara urlando “Salvini, Salvini!” e l’odio è ufficialmente sdoganato, è anche perché c’è una lunga storia di criminalizzazione delle migrazioni che affonda le sue radici nei governi di centro destra e centro sinistra, e assume infine il suo volto più feroce con le politiche di Minniti sotto il governo Gentiloni prima e Salvini e Toninelli ora.

Come attivist*, student* e ricercator* abbiamo posto delle domande al ministro ricordandogli che lui ha ampiamente favorito la dimensione emergenziale del governo delle migrazioni che a Lse ha voluto contestare. Dal supposto rischio per la democrazia posto dai flussi migratori, al codice di condotta per le Ong che ha innescato la loro criminalizzazione, al diritto etnico che ora regola il diritto d’asilo, fino al governo neoliberale ed autoritario della povertà, con la sua potente razzializzazione, implicito nelle misure sul Daspo urbano, sindaci-sceriffi e senza tetto.

Infine, dopo avergli fatto notare che a seconda del pubblico egli ritaglia le sue risposte, ricordandogli le dichiarazioni al festival di Atreju dei giovani di Fratelli di Italia in cui si vantava di aver difeso i confini meglio dei governi di destra, egli si è abilmente sfilato parlando di quando da giovane, “quando era di sinistra”, nel Pci, doveva fare a botte con i fascisti a Reggio Calabria per andare al liceo. Non ci crediamo a questa narrativa. La sua teoria della sicurezza oltre destra e sinistra (presentata con il suo centro studi Icsa lanciato nel 2009) è la naturalizzazione di una gestione della marginalità e delle migrazioni totalmente assorbite nel discorso securitario e neoliberale.

Nelle poche domande che abbiamo potuto fargli, gli abbiamo chiesto perché morire in mare dovrebbe essere meno grave che essere torturati o violentati in Libia o morire nel deserto. Ci ha risposto che entrambe sono morti inaccettabili ma ha deviato il discorso sui cosiddetti. trafficanti di esseri umani. Gli abbiamo infine ricordato che se ci sono i trafficanti è perché l’Europa non ha approntato canali umanitari e ha anzi fatto accordi con loro in Libia.

Gli abbiamo quindi mostrato le mani rosse per ricordargli che la sua retorica non copre il sangue versato – e invisibilizzato – dalle politiche europee. Lo abbiamo seguito giù per le scale dove poi ha trovato una cinquantina di attiviste ed attivisti con cartelli e mani tinte di rosso fuori da Lse. L’ex ministro ha cercato un’altra uscita ma non gli è stato possibile e così è dovuto passare attraverso il nostro presidio che gli ha ricordato con forza le sue responsabilità.

Il nostro intento è stato quello di porre l’attenzione sulla maniera in cui le azioni dell’ex Ministro Minniti hanno favorito l’attuale situazione dei migranti nel Mediterraneo e in Libia.

In qualità di Ministro degli Interni, Minniti ha messo in atto le seguenti manovre:

1) Esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea in Libia e chiusura della rotta del Mediterraneo. Nel febbraio 2017, l’Italia e il governo al-Sarraj hanno firmato il Memorandum di Intesa, volto a porre fine alle partenze dei migranti diretti in Italia attraverso il Mediterraneo, privilegiando la sovranità nazionale e dell’unità territoriale a discapito della protezione dei richiedenti asilo. Tale Memorandum di Intesa è in contrasto con il principio di non respingimento, uno dei cardini della Convenzione di Ginevra e del diritto internazionale consuetudinario, che impedisce agli Stati di respingere i richiedenti asilo in Paesi in cui sono a rischio di persecuzione. Nel marzo 2017, un gruppo di sei avvocati, giuristi e politici libici è riuscito a vincere il ricorso in appello e, di conseguenza, ad ottenere che la corte di Tripoli sospendesse il Memorandum di Intesa, giudicandolo incostituzionale e illegittimo. Ciononostante, tale accordo, incaricando la Guardia costiera libica di intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli in Libia, ha condannato questi ultimi alla reclusione nei centri di detenzione libici. Minniti ha tuttavia continuato a stringere molteplici accordi con le ‘autorità’ libiche (molte delle quali costituite da milizie armate, gruppi para-statali, spesso coinvolti nel traffico di esseri umani) e ha segretamente negoziato un accordo al fine di mettere in ‘sicurezza’ i confini libici (marzo 2017). Inoltre, ha promosso un’ulteriore esternalizzazione dei confini europei, fornendo supporto e fondi alle pattuglie di frontiera libiche al confine meridionale e alla guardia costiera libica nel Mediterraneo. Tale politica è stata approvata da 27 rappresentanti dell’Unione europea durante l’incontro del Comitato degli Affari internazionali nel luglio 2017.

2) Criminalizzazione della solidarietà e del sostegno nei confronti dei migranti. Durante l’estate 2017, Minniti è stato responsabile dell’introduzione del Codice di Condotta per le Ong, criminalizzando la pratica del salvataggio e della solidarietà, portata poi agli estremi dal ministro degli Interni Matteo Salvini. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha definito il Codice di Condotta ‘un esercizio di giurisdizione in disaccordo con i principi fondamentali del Diritto del mare’, che sfocia nella ‘diminuzione oggettiva della capacità delle Ong di operare in mare al fine di salvare vite’, in quanto proibisce di trasferire persone su altre imbarcazioni, anche qualora fossero in pericolo di vita. Inoltre, nonostante le numerose prove delle pericolose azioni messe in atto dalla guardia costiera libica contro le norme di base per la sicurezza in mare, il Codice di Condotta impone alle Ong di cooperare con quest’ultima nelle operazioni di ricerca e salvataggio, sia entro che oltre i confini delle acque libiche. Infine, il Codice di Condotta prevede la presenza di ufficiali di polizia armati sulle imbarcazioni delle Ong e pretende la collaborazione di queste ultime alle investigazioni, nonostante ciò sia in contrasto con il principio umanitario di neutralità delle Ong.

3) Riduzione dell’accesso alla giustizia per i richiedenti asilo, contemporaneamente ad un aumento delle deportazioni. L’obiettivo principale del Decreto Minniti-Orlando (aprile 2017) è stato quello di ‘accelerare i procedimenti in materia di protezione internazionale’ e contrastare ‘l’immigrazione illegale’. Il provvedimento, eliminando un grado di giudizio per i ricorsi relativi alle richieste di asilo e rimuovendo la necessità di comparire dinnanzi al giudice per il primo grado, non solo incide negativamente sulle possibilità di ottenere la protezione internazionale ma favorisce inoltre la creazione di un sistema di giustizia discriminatorio. Infatti, la riduzione a due gradi di giudizio per provvedimenti inerenti al riconoscimento di diritti umani fondamentali appare altamente discriminatoria in un sistema giudiziario che garantisce tre gradi di giudizio anche per semplici contravvenzioni al codice della strada. Inoltre, il Decreto prevedeva la costruzione di un centro di detenzione ed espulsione in ogni regione italiana, con una capacità fino a 1.600 persone.

Queste politiche hanno portato a centinaia di migliaia di persone intrappolate in Libia, detenute arbitrariamente, torturate, violentate, schiavizzate e sfruttate. Hanno anche implicato una significativa limitazione del lavoro di salvataggio delle Ong, il che ha portato ad un aumento del tasso di vittime nel Mar Mediterraneo. L’attuale ministro degli Interni Matteo Salvini non solo ha implementato politiche ancora più raccapriccianti sulla questione migratoria (per esempio la strategia dei ‘porti chiusi’ e il Decreto Sicurezza, che ha portato all’abolizione della protezione umanitaria e al sostanziale smantellamento del sistema Sprar) ma ha anche favorito l’esponenziale aumento di discorsi di odio e episodi di discriminazione razziale, aumentati drammaticamente nell’ultimo anno.

Denunciando a gran voce queste politiche, il nostro intento è quello di sottolineare che le azioni di Salvini, nei confronti della questione migratoria, sono in continuità diretta con quelle avanzate inizialmente dall’ex ministro Minniti. Di conseguenza, cogliamo questa occasione per denunciare le politiche disumane messe in atto in Italia sia dell’ex governo di centro sinistra che dall’attuale coalizione di governo di estrema destra, le quali sono state ampiamente supportate dall’Unione Europea. Contro le politiche razziste, di esclusione e di morte, ad oggi dominanti in Europa, facciamo appello ad una radicale riconsiderazione dei regimi di mobilità, a partire dalla fine dall’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea – un atto dal forte stampo neocoloniale -, la riforma del Regolamento di Dublino, e dalla rimozione del sistema dei visti, che rendono impossibile per la gran parte della popolazione mondiale di viaggiare in maniera legale e sicura».

Fridays for future

La mia generazione, quella di chi ha avuto venti anni negli anni Novanta, quella del movimento studentesco la “Pantera”, poi la generazione di chi ha avuto venti anni negli anni Duemila, e infine quella di chi ha avuto venti anni in questo decennio, quella che ha provato a mobilitarsi di nuovo col movimento chiamato “Onda”, sono le prime generazioni dal Dopoguerra, ma a ben rifletterci anche da molto prima, che si sono trovate a dover studiare, fare amicizia, innamorarsi, cercare un lavoro, con la concreta prospettiva di vedere peggiorare le proprie condizioni lavorative e di vita rispetto alla situazione di provenienza, a quella della loro famiglia, dei loro genitori.
Generazioni che le classi dirigenti politiche asservite al pensiero liberista, hanno tentato – in gran parte riuscendovi – di abbagliare col luccichìo della modernità, prospettando le magnifiche sorti e progressive del lavoro flessibile, che poi si è tradotto invece soltanto in precarietà di vita, sfruttamento, spesso frustrazione se non disperazione vera.
Generazioni che, fatta eccezione per un’eroica minoranza, non hanno di fatto reagito, accettando con rassegnazione il proprio destino.
Le ragazze e i ragazzi che scendono in piazza per FridayforFuture, la generazione di chi oggi ha quindici, diciassette, venti anni, è però la prima generazione, nella storia dell’umanità, che ha la concreta prospettiva addirittura di vivere di meno, forse molto di meno, di chi li ha proceduti.
La prima generazione alla quale non solo è stato tolto il benessere, ma rischia di essere scippata la vita stessa.
Catastrofismo? Esagerazioni?
Assolutamente no.
Ormai tutti i report scientifici governativi, quelli ufficiali, sono concordi: nei prossimi decenni miliardi di persone sono in pericolo di vita.
Miliardi.
Non era mai successo niente di simile e nemmeno di assimilabile.
Il responsabile per l’Ambiente della Nazioni Unite ci dice in questi giorni che l’Uomo sta causando la sesta estinzione di massa: la sesta estinzione, da quasi quattro miliardi di anni che esiste la vita su questo Pianeta.
Studi recentissimi ci parlano di un crollo impressionante della popolazione degli insetti in tutto il mondo.
Gli insetti. Gli animali più resistenti, quelli imbattibili, immortali, quelli che in cinque estinzioni di massa si erano estinti una volta sola. Stanno scomparendo pure loro.
Siamo di fronte a cose talmente enormi, che si ha persino difficoltà a percepirle, ad inquadrarle. Si ha difficoltà a capire da dove iniziare per affrontarle.
Non sono cose per grandi, per adulti.
Gli adulti sono coloro che hanno imparato ad affrontare il quotidiano, e su quello si sono “settati”.
Qui bisogna uscire dal quotidiano, buttarlo via, nel cestino.
E provare a pensare tutto in un’altra maniera.
C’è da cambiare tutto il sistema economico, ma anche quello istituzionale, politico, la cultura, la scala dei valori.
C’è da costruire un mondo diverso, non basato sul consumo, l’individualismo, la competizione, l’omologazione, ma sull’empatia, il rispetto, la sobrietà, la cooperazione.
Solo cuori puri, si direbbe in una favola, e menti senza incrostazioni, possono concepire tutto questo.
Cuori puri come quello di Greta, la creaturina meravigliosa che ci sta ridando una speranza e che ci ha richiamato tutti a guardare in faccia la realtà.
Ragazze, ragazzi.
Salvatevi. Salvateci.
Voi dovete fare questa battaglia, per forza.
Noi, le tre generazioni che vi hanno preceduto, non le abbiamo sostanzialmente fatte, le battaglie per migliorare le nostre vite.
Abbiamo accettato di stare peggio.
Voi questa battaglia invece dovete farla a qualunque costo.
Non avete proprio altra scelta, e noi non abbiamo altra scelta che quella di aiutarvi e sostenervi con tutte le nostre forze.
Questa volta, ne va della vita.

L’editoriale di Mauro Romanelli è tratto da Left in edicola dal 15 marzo 2019


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Corsa contro il tempo

Students take part in a march for the environment and the climate o, in Brussels, on February 21, 2019. - Greta Thunberg, the 16-year-old Swedish climate activist who has inspired pupils worldwide to boycott classes, urged the European Union on February 21, 2019 to double its ambition for greenhouse gas cuts. (Photo by EMMANUEL DUNAND / AFP) (Photo credit should read EMMANUEL DUNAND/AFP/Getty Images)

Proprio nel giorno in cui questo numero di Left arriva in edicola, miliardi di persone si staranno lamentando del tempo, del clima sempre più imprevedibile, dell’aria sempre più irrespirabile, e alcuni milioni staranno manifestando in 957 eventi (cento dei quali in Italia) sparpagliati su 92 Paesi: sono i “Venerdì per il futuro”, FridaysForFuture, iniziati in agosto quando una ragazzina, la (allora) quindicenne Greta Thunberg, si è seduta davanti al Parlamento svedese per tre settimane, per protestare contro la mancanza di azione sulla crisi climatica. Ha pubblicato quello che stava facendo sui social e presto è diventato virale. Così l’8 settembre ha deciso di continuare a scioperare a oltranza, ogni venerdì. Gli hashtag #FridaysForFuture e #ClimateStrike si sono diffusi e studenti e adulti hanno cominciato a protestare fuori dai loro Parlamenti e dai municipi di tutto il mondo. Ciò ha ispirato anche gli scioperi scolastici del giovedì in Belgio. E il 15 marzo è il giorno dello sciopero globale, il Global strike for future. «Siamo la prima generazione a sentire gli effetti del cambiamento climatico e l’ultima a poter fare qualcosa», sintetizza, sulla scia di Greta, Nadir, studente bresciano che sta promuovendo questo percorso nella sua città in collegamento con coetanei francesi, belgi e spagnoli con cui condivide un approccio «ecosocialista e anticapitalista», ci spiega. Non è che gli studenti siano tutti così radicali, ma la fine del mondo scredita ogni strategia migliorista e offre alle nuove generazioni la possibilità di una critica del modello di sviluppo che il neoliberismo aveva scippato loro con i suoi sistemi elettorali maggioritari e le scelte calate dall’alto. «C’è senz’altro un dato generazionale, con vari gradi di consapevolezza, che ha il merito di ripoliticizzare la questione ambientale», dice a Left il documentarista Michele Citoni, autore di ricerche sulla storia dell’ambientalismo.
Intanto, in Italia, infuria un pressing senza precedenti delle lobby Sì Tav. Però, da otto settimane, anche Luca Franceschetti, ventenne romano, attivo nell’Unione degli studenti all’Università di Roma3, è tra quelli che presidiano Montecitorio ogni venerdì «per chiedere…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 15 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Perfino Di Maio non sopporta Fontana: «È la destra degli sfigati»

«È la destra degli sfigati» l’ha detto così, senza mezze misure, il misuratissimo Di Maio riferendosi allo schifosissimo XIII Congresso mondiale delle famiglie che si terrà a Verona dal 29 al 31 marzo e vedrà alternarsi il peggio che c’è in circolazione, dal ministro Fontana, al, per riprendere le parole della deputata Giuditta Pini «presidente moldavo Igor Dodon, il ministro per la Famiglia ungherese Katalin Novak, il patriarca della Chiesa cattolica di Siria, e Theresa Okafor, attivista nigeriana che nel 2014 voleva criminalizzare, e rendere reato, le relazioni tra persone dello stesso sesso, e addirittura frequentare locali e associazioni gay. C’è poi Lucy Akello che ha sostenuto la legge ugandese antigay che prevedeva l’ergastolo o la pena di morte per gli omosessuali».

La feccia, insomma, tutta riunita per spiegarci che la donna deve rimanere a casa a crescere i figli e curare la casa mentre l’uomo insegna alla donna come gestire la propria sessualità. Uno schifo insomma. Se non fosse che in quell’orrido convegno compare anche il logo della Presidenza del Consiglio e, al solito, per capire chi ce l’abbia messo, comincia il solito balletto di rimbalzo di responsabilità. Qualcuno addirittura invoca la manina, giuro, roba da mettersi le mani, le manine, tutte e due, nei capelli.

Di Maio dice che «a lui risulta che non sia stata nemmeno inoltrata domanda di patrocinio» (ma va?) e promette comunque di toglierlo. Ma arriva il colpo di scena. «Non risulta alcuna richiesta di revoca del patrocinio al World Congress of families di Verona», fanno sapere fonti del ministero della Famiglia. «È spiacevole – aggiungono le stesse fonti – che questa notizia emerga mentre il ministro Fontana e il dipartimento Famiglia sono in viaggio per New York per un evento all’Onu sul tema della conciliazione dei tempi famiglia-lavoro».

E quindi?

E quindi come al solito ci si riempie di merda e non si sa nemmeno di chi sia la colpa. E intanto certa propaganda continua, perfino in veste ufficiale.

Buon giovedì.

Tra sovranisti e tecnoburocrati europei esiste un’altra politica per riconquistare il futuro

epa06044959 Prime Ministers of the 'Visegrad Group' countries: Hungary's Viktor Orban (2-L), Poland's Beata Szydlo (3-L) and Polish Deputy Minister of Foreign Affairs Konrad Szymanski (4-L) meet with French President Emmanuel Macron (3-R), on the second day of the European Council in Brussels, Belgium, 23 June 2017. European heads of states and governments gather for a two-days European Council meeting on 22 and 23 June which will mainly 'focus on the ongoing efforts to strengthen the European Union and protect its citizens through the work on counterterrorism, security and defence, external borders, illegal migration and economic development'. On the meeting's second day the EU leaders 'are expected to reaffirm their commitment to a rules-based multilateral trading system, as well as to free trade and investment', the European Council said in a press release. EPA/BARTLOMIEJ ZBOROWSKI POLAND OUT

Alcune domande pregiudiziali: l’America di Franklin Delano Roosevelt ha qualche affinità con quella di Donald Trump? Ancora: l’Europa di Ventotene ha tratti che la accomunano a quella di Juncker (e prima di lui Barroso)? Nel 1989 la Storia è finita con l’instaurazione del regno della Libertà liberale o – piuttosto – si sono rotti i sigilli del vaso di pandora della Guerra Fredda con la fuoriuscita di un Turbocapitalismo ormai privo di contenimenti, che imponeva l’assiomatica cannibalesca dell’interesse avido? Ancora più in generale: possiamo chiamare Capitalismo (cioè la ricchezza che si riproduce attraverso l’investimento) questo presidio accaparrativo dei varchi per sottoporre a balzello il transito dei flussi materiali/virtuali, laddove si accumulano le faraoniche ricchezze odierne? Andando sulla congiuntura: è accettabile che il campo competitivo per le prossime elezioni europee di maggio si riduca a due soli giocatori altrettanto imbarazzanti (seppure in misura diversa), quali i sovranisti, che vanno dal Gruppo di Visegrad ai putiniani padani, contrapposti all’aggregato insalata russa pro tecno-buro-Europa, che dovrebbe imbarcare una ciurma altamente eterogenea che svaria dal fils préféré della banca e della Massoneria parigine Emmanuel Macron fino a uno Tsipras ormai declassato a sguattero dalla Troika?
Tanto per dire, in chiave nazionale esiste un’uscita in positivo dall’assunto profilattico, quanto meramente negativo, “né con Salvini, né con Calenda”?
Eppure sull’intera vicenda involutiva, a partire dai suoi lontani pregressi, continua a rimanere calata la cappa del mimetismo a scopo imbonitorio. L’antica tattica del potere illusionistico, che ammanta se stesso nei presunti attestati che ne confermerebbero l’attitudine a incarnare naturalità e verità. L’antico assunto panglossiano del “migliore dei mondi possibili”, trasformato al tempo del fordismo rampante in The Best Way, infine riaggiornato in TINA (There is no alternative, non ci sono alternative) dai ghost writers del duo anglo-americano di profeti e battistrada della restaurazione oligarchico-plutocratica: Margaret Thatcher e Ronald Reagan, i primi massacratori in ordine di tempo degli assetti liberalsocialisti postbellici.
Ossia, la rimozione di ogni possibile opzione divergente come estrema difesa di un ordine morente; per confondere la capacità analitico-strategica degli schieramenti avversari, a partire dai loro modelli di rappresentazione. Già dalla definizione del campo competitivo. Con il supporto indispensabile della stra-collaudata tecnica manipolatoria e diversiva con cui si tende a mettere fuori gioco il dissenso colpevolizzandolo. Il primario meccanismo socio-psicologico che induce sottomissione financo ai soprusi. Per cui uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è quello di squarciare il velo di Maya che offusca nelle vittime la percezione della realtà/reale che li opprime; e – dunque – smascherare le giustificazioni autocelebrative del Potere-Verità. Operazione-alibi che questa fase storica vede messa in pratica stressando all’ennesima potenza la leva comunicativa; come conquista, attraverso le definizioni performative, di una posizione previlegiata e potenzialmente vincente nel terreno di scontro tra conservazione e cambiamento.
Se – in tutt’altro senso – Voltaire e Diderot si attestavano in maniera vincente attribuendosi la luce (non è certo casuale l’appellativo di “illuministi”) e – così – confinavano gli antagonisti nella scomoda e perdente collocazione sul lato oscuro del campo; mutatis mutandis la proliferazione di neo-lingue create per conto della Reazione hanno – di volta in volta – attribuito etichette denigratorie alla controparte di turno: “giustizialisti” per i propugnatori di legalità, “comunisti” per quanti difendevano la funzione democraticamente redistributiva della leva fiscale, oggi “populisti” per i critici delle politiche antipopolari di questi ultimi decenni (il cosiddetto “keynesianesimo privatizzato”: se nella versione originale l’uscita dalla stagnazione economica si otteneva attraverso l’investimento pubblico in funzione anticiclica, oggi l’onere del prelievo è a carico dell’area centrale della società mediante precarizzazioni e impoverimenti).
La fine del patto sociale cementato da coesione e inclusività, già garante della legittima aspirazione alla Giustizia e alla Libertà.

Decadenza e caduta dell’ordine americano

Qui siamo, «sospesi tra due mondi e tra due ere», come il Filomazio protomedico bizantino nella canzone di Francesco Guccini.
Magari lo stato d’animo di chi scruta l’orizzonte, in questa lunga fine da cui non si intravvede un nuovo inizio, assomiglia a quello dei letterati gallo-romani tardo classici – i Rutilio Namaziano, gli Ausonio – che assistevano attoniti all’inarrestabile declino di ciò che per loro era assai più di una città, il luogo dello spirito; la Roma, ritenuta eterna, che irrimediabilmente franava per consunzione endogena, prima ancora che sotto i colpi barbarici.
La differenza è che l’odierna decadenza in procinto di degenerare in caduta non è più quella di una città, bensì di un intero sistema-mondo. In piena crisi terminale e a rischio di subire quella vera e propria mutazione genetica che lo storico dell’economia Giovanni Arrighi preconizzava come “caos sistemico”.
La perdita di centralità negli equilibri globali come vera e propria catastrofe della capacità egemonica di ricomporre il quadro frantumato offrendo un nuovo paradigma ed esercitando la correlata governance. Come era avvenuto in tutto il mezzo millennio del Moderno, nel susseguirsi di centralità politico-economiche (dalla Genova cinquecentesca dei banchieri di Carlo V e Filippo II alla New York del “secolo americano”, passando per Amsterdam e Londra).
Difatti buona parte del Novecento ha parlato anglo-americano. E in tale lingua aveva sancito i principi-guida connotativi valevoli per quella parte del pianeta che definiamo Occidente; il cui vocabolario veicolava valori e modelli democratico-progressisti: New Deal, Welfare State, fino alla Great Society estremo lascito della breve stagione kennediana. Una centralità ormai priva di spinta propulsiva e che si regge su rendite posizionali inette a generare fertili interdipendenze spaziali: il quasi-monopolio del dollaro quale valuta di riserva globale; il presidio dell’ordine mondiale grazie alla più grande macchina bellica mai apparsa nella storia umana (seppure incapace di contrasto delle tattiche di guerriglia, terrorismo in particolare).
Sicché – a differenze delle sequenze del passato – non si profilano all’orizzonte nuove centralità sistemiche, per almeno due impreviste modificazioni intervenute nelle condizioni di funzionamento nelle alternanze delle gerarchie planetarie: la crisi irreversibile dello Stato-nazione, che fungeva da placenta protettiva di nuove egemonie in incubazione; questa finanziarizzazione globalizzata dell’economia, che imprigiona nel suo tempo immobile i mondi della vita.
Difatti analisti economici attendibili come Larry Summers, Paul Krugman e Joseph Stiglitz ormai prospettano l’avvento di una “stagnazione secolare”.
Mentre – come scriveva lo storico Tony Judt nel suo saggio-testamento apparso postumo – nel frattempo “il mondo si è guastato”.
Lo testimoniano punti di crisi visibili a occhio nudo.

Una rottura nel Sistema-mondo odierno che appare insanabile al proprio interno, estesa dalla globalizzazione a larga parte del pianeta attraverso le sue connessioni.
Molti i segnali di non-ritorno in tale rottura epocale; al tempo morale, politica, sociale ed economica. Oltre che crisi di accumulazione, nel passaggio dal capitalismo a base industriale a quello finanziario.
Procedendo all’ingrosso:

La prevalenza del mediocre nella selezione delle leadership e la trasformazione del ceto politico in una corporazione postdemocratica autoreferenziale (la marmellata informe volgarmente denominata “Casta”);
L’ascesa della cleptocrazia, ovvero l’avvenuta legittimazione della finanza criminale da parte di quella legale (paradisi fiscali e organizzazioni di riciclo del denaro sporco, presidio malavitoso di territori e aree di business);
La desertificazione del lavoro organizzato, declassando il cittadino titolare di diritti a “consumatore”, manipolato da tecniche subliminali, cancella ogni contrappeso al comando manageriale capitalistico finanziarizzato;
La creazione di un immenso apparato pervasivo di sorveglianza che vira l’utilizzo delle tecnologie informative, presentate come decisive nella lotta a terrorismo e criminalità, allo scambio fraudolento tra libertà e sicurezza.

Con il punto di irradiamento di questi processi (interconnessi al peggio) corrispondente sempre al centro del presente sistema-Mondo (o “Impero”, come piace dire a qualcuno): gli Stati Uniti d’America e il suo satellite britannico.

La bellezza della lotta
Se per l’intera Prima Modernità (industriale) il karma progressista fu “i filosofi sinora hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”, nella Seconda (finanziario-logistica) diventa quello di “interpretarlo in modo diverso”. Viste le trappole concettuali/comunicative di cui è disseminato il terreno su cui l’istanza di cambiamento è costretta a procedere.
Ma oggi non siamo più al tempo in cui Albert Otto Hirschman ricostruiva le retoriche argomentative di una Reazione sulla difensiva, che partivano dal riconoscimento della bontà della ragione progressista per deviarla ai propri scopi: le tre tesi dell’effetto perverso (ogni rivoluzione sfocia nel suo contrario), della futilità (il tentativo di cambiare le cose è destinato ad abortire) e della messa a repentaglio (ogni progetto innovativo è un rischio per precedenti realizzazioni). Il nostro è il tempo in cui la Reazione guidata dalle oligarchie plutocratiche, dopo aver asservito la Politica ai propri interessi e prosciugato la Democrazia prima in Post-democrazia e poi in Democratura (lo svuotamento delle regole democratiche trasformate in guscio per pratiche autoritarie), presidia esplicitamente tale dominio teorizzandone la superiorità nei confronti di qualsivoglia altro reggimento.
Per questo vale la pena di chiederci quali modificazioni nei rapporti di forza abbiano determinato un tale ribaltamento. La tesi che qui si espone è che tutto ruota attorno alla rimozione del conflitto avvenuta nel corso dell’ultimo quarto del ventesimo secolo. In altre parole, il comando plutocratico non trova più nella sua marcia trionfale nessun ostacolo a fungere da dente d’arresto. Quei contrappesi che erano conseguenti alle lotte vittoriose di due contropoteri novecenteschi che hanno determinato profondi cambiamenti e nuove dimensioni della libertà: il lavoro e le donne. Lotte vittoriose perché si svolgevano nei punti critici dell’ordine sociale (la famiglia) ed economico (il sistema produttivo di fabbrica). Quindi, in grado di bloccare la riproduzione del potere sociale (patriarcale) e di quello capitalistico (il processo produttivo, attraverso l’arma dello sciopero o della sua minaccia).
Situazione azzerata modificando il modo di produrre attraverso il decentramento transnazionale delle imprese foot-loose (senza piedi, disancorate dal territorio) che desertifica l’occupazione nelle economie mature; imprigionando la rivendicazione femminile (femminista?) nelle gabbie ideologiche depistanti dell’individualismo radicale che riduce l’emancipazione a carriera e seduttività. Strategie che hanno declinato in pratiche di normalizzazione l’assunto di base della contro-rivoluzione anti-welfariana: “la società non esiste”.
Sul piano inclinato dallo sfruttamento all’emarginazione.
Con il risultato che ad oggi non è dato riscontrare la presenza di un soggetto che svolga a supporto di una rinnovata instaurazione democratica lo stesso ruolo assunto in altre stagioni dalla “classe generale” aggregata e organizzata attorno al lavoro. Quella classe che non è destinata a riapparire nella stagione post-industriale per ragioni storiche incontrovertibili. Dunque, “che fare?”. È qui che ci fornisce un interessante contributo la “ragione populista”. Ossia quei cantieri di riflessione sorti nelle aree periferiche del dominio anglo-americano in declino. Pensiamo alle esperienze pratiche avvenute nel mondo iberico (Podemos, Barcelona en Comù o le sperimentazioni di Antonio Costa come sindaco di Lisbona) non meno che alle teorizzazioni provenienti da Latino America in materia di neo-gramscismo. In altre parole il tema della costruzione di un soggetto collettivo in grado di supportare efficacemente la reconquista da parte di “maree cittadine indignate” dello spazio pubblico mondiale; ora condannate alla diseguaglianza e all’emarginazione dal kombinat tra plutocrazia finanziario-mediatica e corporazione autoreferenziale di una politica che sequestra la ricchezza del pluralismo democratico attraverso l’uso distorto della rappresentanza (classica la metafora di Fernand Braudel della stanza sopra la sfera rumorosa del mercato in cui il possessore del denaro incontra il possessore del potere regolativo: il contesto in cui prende corpo il Big Business).
Ecco, il pluralismo liberale può riaffermarsi solo con una vigorosa ripresa di cittadinanza attiva che richiede – per dirla nel linguaggio populista alla Ernesto Laclau – “la costruzione del popolo”: l’aggregazione di pezzi diversi di società, orientati a una soggettività coalizionale dalla messa in luce della condizione reciproca di prevaricati. L’essere vittime di un esproprio di futuro che accomuna l’ambientalismo, le molteplici istanze di genere, la legalità, i diritti alla salute e alla cultura, i progetti individuali o collettivi di vita secondo modelli che rifiutano la normalizzazione repressiva e – ultimo ma non certo l’ultimo – il lavoro.
Per inciso, la possibile base di incontro per una Nuova Alleanza Rosso-Verde, visto il successo del Die Grünen tedesco di Katharina Schulze alle recenti elezioni bavaresi; confermato dalle rilevazioni che ne segnalano la crescita in tutti i Land di Germania.
Trend che sembrerebbe rappresentare un massiccio ritorno in campo delle tematiche ambientaliste organizzate. Tanto da far ipotizzare – in questa fase e almeno sul medio termine – che proprio i Verdi redivivi potrebbero fungere da piattaforma federatrice del variegato universo di AltraPolitica. La struttura organizzativa, magari alleata con i soggetti iberici di cui si diceva e qualche altro stato nascente che ancora non scorgiamo, su cui andare ad ancorare le istanze “terze” rispetto agli aspiranti distruttori dell’Europa e i (sinergici a propria insaputa) propugnatori di un continuismo a Strasburgo-Bruxelles che mostra palesi gli stigmi dell’insensatezza.
Ritornando al punto e concludendo con le parole dalla politologa belga Chantal Mouffe, partner di Laclau nel saggio fondativo del neo-populismo contemporaneo: «non sono solo le istanze operaie a essere importanti per un progetto di emancipazione. C’è il femminismo, c’è l’ecologia, ci sono le istanze antirazziste e per i diritti dei gay. Per questo parlo della necessità di stabilire una catena di equivalenze tra tutte queste istanze. Ed è proprio questa catena di equivalenza che chiamo costruire un popolo».
Del resto non si tratterebbe di un’operazione poi così nuova. Visto che dopo la Comune parigina Carlo Marx riformulava il concetto di proletariato includendovi pure gli osti e i barbieri. Un tale precedente come viatico al “conflitto populista” per la riconquista di un futuro – come direbbe Clifford Geertz – anti-anti-democratico?

Pierfranco Pellizzetti già docente di Sociologia dei fenomeni politici e politiche globali all’Università di Genova attualmente insegna Comunicazione alla Scuola politecnica. Collabora con Micromega e Critica liberale. Tra i suoi libri, Italia invertebrata (Mimesis, 2017), Società o barbarie (Il Saggiatore 2015), Conflitto (Codice, 2013), Fenomenologia di Berlusconi (manifestolibri 2009). Il 14 marzo esce per Ombre corte il suo libro Il conflitto populista. Potere e contropotere alla fine del secolo americano.

Sgombero Sprar Ex Canapificio: La pacchia? Abbiamo già querelato Salvini una volta

 

Sono arrivati i carabinieri. Quelli del Nucleo investigativo di Caserta, su richiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere a porre i sigilli in uno dei luoghi più importanti della città: il Csa Ex Canapificio. Spazio di accoglienza, di vertenza sindacale, di inclusione sociale, di contrasto al crimine organizzato. «Ci hanno notificato un verbale di sequestro preventivo ex articolo 677 comma 1 e 3 basato su indagini e perizie tecniche racconta Gianpaolo – uno degli attivisti storici del Centro – Vogliono garantire la nostra incolumità» Ci hanno scritto.

Ma intanto proviamo a sgomberare il campo. A differenza di quanto il ministro dell’Interno continua ad affermare, il Centro Sociale non è uno «spazio occupato che gestisce soldi pubblici e per cui è finita la pacchia». Si tratta di un luogo assegnato in cui esiste uno Sprar da anni, gestito dall’associazione e in cui si svolgono tutte le pratiche per il riconoscimento delle domande di asilo, tanto da divenire punto di riferimento di una realtà ampia e che raccoglie tutta la provincia, il Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta. Una occupazione, in altro locale, l’ex Macello di Via Laviano, c’era stata nel 1995 ma già 3 anni dopo, nel 1998 chi ci operava si è trasferito nell’ex Canapificio, a Viale Ellittico, altro capannone abbandonato a poche decine di metri dalla Reggia di Caserta. Ma perché i sigilli in un luogo che garantiva di fatto minore marginalità sociale? Che contrastava ogni forma di esclusione? Ufficialmente, secondo il perito della Procura di Santa Maria Capua Vetere, sul tetto ci sono infiltrazioni di acqua che metterebbero a rischio la struttura, in particolare il tetto. Si tratta di problematiche strutturali non così gravi e urgenti, di cui la Regione, proprietaria dell’immobile è perfettamente a conoscenza da anni ma su cui non c’è mai stato alcun intervento per una “messa in sicurezza”. Eppure nel centro, oltre che gli uffici dello Sprar, ci sono uno sportello di sostegno al reddito, dove presentare domande per il Rei e per il Reddito di cittadinanza, utile anche ai cittadini casertani, ma evidentemente non bastava. Da ormai venti anni, altro che business e “pacchia che è finita” come insiste l’ineffabile guidatore di ruspe, nel centro operano, volontariamente uomini e donne, italiani e migranti che si occupano delle più diverse tematiche. «Abbiamo praticato forme diverse di lotta – racconta Mimma – ma sempre nella convinzione di combattere uno sfruttamento concreto. Siamo contro una società organizzata per perseguire profitto, per comprimere i diritti delle persone e garantire benessere solo ad una parte ristretta». Venti anni fa, quando hanno iniziato, molti erano giovanissimi ma già consapevoli della necessità di costruire giustizia sociale guardando tanto a quanto accadeva lontano che a quello che si determinava nel proprio territorio. Così hanno acquisito un consenso trasversale che andava dal vescovo, alle istituzioni, alle realtà più conflittuali. Hanno praticato vertenze concrete, rivolte ai più vulnerabili, in nome dell’avanzamento dei diritti. Significative le parole di Andrea Segre, alla notizia dell’intervento repressivo. «L’Ex Canapificio – ha detto – è uno dei luoghi in cui di maggiore civiltà e umanità che io abbia mai conosciuto. Lì ho girato i miei film Il Sangue Verde, Come il Peso dell’Acqua, IBI e lì ho conosciuto persone davvero speciali che per sempre ringrazierò. Il Centro per altro gestisce uno dei progetti di accoglienza più grandi d’Italia, un progetto ufficialmente inserito nella rete Sprar di Anci e ministero Interni. Eppure da alcune settimane è sotto attacco di inchieste e provvedimenti che hanno portato alla sua “sigillatura” e sequestro. Chiedo alle istituzioni pubbliche che ben conoscono l’attività del Centro e che spesso ne parlano pubblicamente come uno dei progetti più positivi d’Italia di far sentire la propria voce. Chiedo a tutti i cittadini italiani e non di far sentire la propria solidarietà, perché attaccare e chiudere realtà come questa significa bloccare il futuro del Paese. Non possiamo accettarlo. Mobilitiamoci tutti».

Ancora più secca la risposta degli attivisti del Centro, dopo il pronto tweet di giubilo proveniente dal Viminale: «In merito al tutt’altro che inatteso comunicato del ministro Salvini sul sequestro dei locali dell’ex-Canapificio di Caserta, vogliamo precisare quanto segue: 1) Il ministro sa fin troppo bene che i finanziamenti/Sprar, che provengono dal suo ministero i cui controlli dal lontano 2007 hanno sempre constatato l’eccellenza della relativa gestione, senza la benché minima censura, sono finalizzati all’assistenza dei titolari di protezione internazionale, per cui dovrebbe il signor ministro guardarsi bene dall’istigare alla commissione di un reato, quello di “distrazione di fondi”, in cui i gestori del progetto/Sprar (oggi Siproimi) incorrerebbero ove utilizzassero impropriamente quei fondi per la manutenzione, senza peraltro aver nessuno scudo immunitario come quello che evita al ministro Salvini di andare a processo e al segretario leghista Salvini di restituire congruamente 49 milioni di euro di finanziamenti pubblici scomparsi nei conti della Lega; 2) Il ministro deve aver letto frettolosamente il decreto di sequestro della procura di Santa Maria Capua Vetere, perché ignora che nel provvedimento i lavori di manutenzione, come è ovvio, vengono espressamente richiesti alla Regione. 3) Il ministro Salvini è già stato da noi querelato per averci già in precedenza diffamato; ci riserviamo di fare altrettanto anche di fronte alle sue odierne esternazioni».

Ma ci sono anche risposte di ordine più concreto, come racconta Gianpaolo: «Ovviamente ci rimettiamo alle decisioni della magistratura ma noi abbiamo sempre agito con coscienza e non abbiamo paura, ribatte. Ci hanno chiuso il centro ma non ci fermiamo. Riapriamo in città, con tutti quelli che hanno collaborato con noi negli anni dalle associazioni alle parrocchie, dall’università ai tanti e alle tante che ci stanno manifestando sostegno. La nostra esperienza non è rappresentata da un luogo ma da persone che tentano di costruire una città diversa. Per questo proseguiremo con il garantire i servizi dello Sprar, garantiremo anche per strada o negli spazi che ci verranno offerti da chi ci sostiene, la possibilità di continuare a svolgere le pratiche burocratiche per gli immigrati, gli appuntamenti in questura, le audizioni alle commissioni per la richiesta di asilo, i ricorsi, le nostre forme di sindacalismo sociale». E poi immediatamente mobilitazioni: «È per questo che da giovedì, 14 marzo, dalle ore 10 convochiamo un presidio ad oltranza in piazza della prefettura e sabato 16, alle 14 partirà una grande manifestazione nazionale in tutta la città a cui tutte/i sono invitate/i #siamotutticentrosocialeexcanapificio».

Contro il ministro partirà una seconda querela ma intanto si condivide una riflessione comune. L’accanimento formale contro l’Ex Canapificio somiglia troppo a quello che si continua a svolgere contro Mimmo Lucano e l’esperienza di accoglienza di Riace. Si cerca il cavillo formale per interrompere esperienze sostanzialmente diverse da quelle da business che tanto piacciono agli inquilini del Viminale. Chi saranno i prossimi? E come reagire pacificamente senza subire l’ennesima ingiustizia in nome del potere?