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Corrotti e impuniti, ecco chi erano i fascisti

Ultimo di una serie di politici italiani, il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani recentemente ha lodato Mussolini per avere fatto, fino all’entrata in guerra con Hitler, cose buone per l’Italia: strade, ponti, edifici, impianti sportivi, bonifiche. Non era un campione di democrazia, ha ammesso a chi gli ha ricordato l’assassinio di Matteotti e le leggi razziali, ma le infrastrutture sono importanti, e non bisogna essere faziosi.
Verrebbe da suggerirgli la lettura del libro di Mauro Canali e Clemente Volpini, Mussolini e i ladri di regime (Mondadori), uscito da poco, che racconta la storia degli arricchimenti illeciti dei gerarchi nel ventennio fascista. Lavoro documentatissimo, come ci racconta Mauro Canali, è fondato su relazioni del ministero delle Finanze e della Polizia giudiziaria svolte a partire dal 1943, per giungere alle vertenze con gli eredi, che si trascinano fino agli anni Sessanta. Fonti recentemente versate all’Archivio centrale dello Stato, e mai aperte prima, hanno consentito di ricostruire una pagina finora molto chiacchierata, ma poco conosciuta. Le vicissitudini dell’inchiesta sono convulse: dalla Commissione per gli illeciti arricchimenti istituita da Badoglio all’indomani del 25 luglio 1943, con la Repubblica Sociale si passa all’effimero tentativo di Mussolini di rilanciarla, ma depoliticizzandola. Sarà ripresa nell’aprile 1944, quando la clamorosa apertura di Togliatti a Badoglio consente la formazione di un nuovo governo, anch’esso di breve durata. Con il Cln finalmente l’inchiesta approda alla rottura netta con il passato, rientrando nel programma delle sanzioni contro il fascismo. Nel dopoguerra, con il mutare del clima politico, le inchieste sono derubricate a reati fiscali e passate al ministero delle Finanze, in vista di concordati che si risolveranno con il recupero del 10 per cento della cifra accertata.
Vizi privati e pubbliche virtù. La dittatura fascista, nata all’insegna dell’onestà per risanare la vita nazionale dallo scandalo dei «pescicani», dei corrotti e dei parassiti che avevano lucrato alle spalle di centinaia di migliaia di caduti in guerra, fin dall’inizio fu affetta da un’endemica e pervasiva corruzione. Il mito dell’Italia «proletaria e fascista» contro le «democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente» si sgretola lacerandosi pagina dopo pagina, come un fondale di carta che mette a nudo quanto accade dietro le quinte. Il racconto si svolge avvincente intrecciando…

L’articolo di Noemi Ghetti prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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I sostenitori di Greta alla prova del Tav

A train leaves the station of Bussoleno, where "No TAV" had been written on a placard during a protest against the high-speed train line between Lyon and Turin on March 23, 2013, in Bussoleno in the Susa valley. Environmental campaigners, trade unionists, students and lawmakers staged the protest in the Val di Susa, where work is under way on the rail line between Turin in Italy and Lyon in France. AFP PHOTO / MARCO BERTORELLO (Photo credit should read MARCO BERTORELLO/AFP/Getty Images)

Una volta all’anno succede che anche La Repubblica spari in prima pagina che occorre salvare il mondo dalla catastrofe climatica. D’altronde almeno a Natale bisogna andare a messa. Poi c’è Greta Thunberg che è diventata un fenomeno mediatico e il presidente Sergio Mattarella ha richiamato il dovere di impegnarsi. Intendiamoci: meglio così. Ci sono stati anni in cui l’ambiente e il clima stavano ai primi posti dell’agenda di politici e mass media. Poi è arrivata la crisi economica e poi sono arrivati i populisti. I migranti hanno sostituito l’effetto serra come se non fosse quest’ultimo a determinare i profughi climatici.

Ma ora Greta ha chiamato alla mobilitazione e le manifestazioni ci sono state in tutto il pianeta. Per altro lo ha fatto con un modo che rimanda a quello delle femministe di Non una di meno, e cioè ha chiesto lo sciopero. Certo, degli studenti, ma comunque sciopero. Il femminismo si è definito intersezionale, intendendo che il legame tra violenza subita e sciopero rimanda alla intersezione dei conflitti. In Spagna lo ha ben capito il sindacato che ha fatto grandi scioperi, mentre in Italia no. Lo sciopero per il clima degli studenti lo possiamo chiamare anch’esso intersezionale, uno sciopero per il futuro contro ciò che letteralmente te lo brucia. Potremmo dire la devastazione climatica e la precarietà.

D’altronde dopo l’empasse in cui sono cadute le politiche per il…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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Una nuova società della conoscenza

«L’Europa è di nuovo in crisi. E lo è anche il suo rapporto con la scienza. Ancora una volta le due crisi non sono indipendenti Ancora una volta la seconda è causa della prima». Pietro Greco apre così la premessa al suo nuovo libro La Scienza e l’Europa – Dal secondo dopoguerra ad oggi. Quinto e ultimo volume della collana “La Scienza e l’Europa” de L’Asino d’oro ed., il libro racconta gli ultimi 75 anni di storia europea, costringendo il lettore a un’affascinante e necessaria ricerca sul rapporto inscindibile tra politica, cultura e scienza. In quella che viene definita “L’Era dell’informazione e della conoscenza”, l’Europa ha smesso di scommettere sulla ricerca e, in particolare, sulla ricerca scientifica.

«Per la prima volta nella sua storia dopo la rivoluzione scientifica del Seicento», scrive Pietro Greco, «la spesa europea in ricerca è inferiore a quella media del resto del mondo». Calano gli investimenti europei nel settore “Ricerca e sviluppo” (con un trend costante a partire dal 2008), mentre cresce il consenso dei movimenti antiscientifici (dai NoVax, al caso Stamina, ai negazionisti della Xylella). E in questo clima trovano terreno fertile idee xenofobe e razziste, che potremmo includere tra i movimenti antiscientifici più estremisti.

La crisi dell’Europa con la scienza è una vera e propria crisi identitaria. L’Europa sembra aver dimenticato la sua nascita, che è prima di tutto quella di entità culturale, e i suoi primi anni di vita, di cui proprio la scienza è stata il primo e solido collante.

Negli anni che…

L’articolo di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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«Onore a Tarrant». Ecco l’ultradestra che inneggia ad una Christchurch italiana

C’è chi in Italia vorrebbe che quanto accaduto in Nuova Zelanda accadesse anche qui. C’è chi, nel nostro Paese, vorrebbe che qualcuno prendesse un fucile, si recasse in una moschea e sparasse all’impazzata. Per quanto inquietante, è questo ciò che emerge leggendo i commenti che si susseguono nei gruppi chiusi e privati in cui parlano, discutono, commentano fascisti, razzisti e leghisti. Entrare in questi microcosmi che si muovono sottotraccia (e all’interno dei quali spesso troviamo genitori, insegnanti, ragazzi, persone assolutamente comuni e da cui, vedendo il profilo, mai ci si aspetterebbe una tale carica di odio e xenofobia) non è facile: come Left ha già documentato, spesso per l’ingresso è necessario rispondere ad alcune domande poi vagliate dagli amministratori.

Domande che lasciano intendere quali siano i criteri della selezione: «Sei di destra?», «Cosa pensi degli immigrati?», «Sei contrario agli immigrati?», «Ti senti sicuro dove risiedi?». All’interno, ovviamente, si commentano tutte le notizie di attualità, in particolare quelle in cui si può dar libero e vergognoso sfogo al proprio odio contro i migranti e contro chi è “reo” di difenderli. Da Laura Boldrini a Rossella Muroni, da Gino Strada a Luigi de Magistris. Esaltato oltre ogni limite, invece, Matteo Salvini.

Ma è proprio sull’attentato di Tarrant che si raggiunge un apice probabilmente mai raggiunto prima. Nel gruppo privato “Movimento nazionalista” (quasi 7mila iscritti) viene pubblicato un post con il ritratto del killer suprematista. I commenti che si susseguono sono spaventosi: «Grande uomo», scrive Francesco T., per Franco B. è «un crociato», per Salvatore S. è «da medaglia d’oro».

In “Ultima legione”, gruppo organizzato online ma anche sul territorio (in questo periodo si stanno organizzando pullman per presenziare a Predappio il 28 aprile, anniversario della morte di «Sua Eccellenza Benito Mussolini»), i toni sono ancora più inquietanti. «Sono ancora pochi», scrive Massimiliano Z. Diversi utenti mettono a paragone quanto avvenuto in Nuova Zelanda con gli attentati islamisti in Europa: «Chi semina raccoglie», scrive Claudio B. E c’è chi scomoda addirittura il padreterno: «Occhio per occhio, dente per dente. Dio lo vuole». Nella follia dei commenti, non manca chi comincia a far di conto: «89 ammazzati al Bataclan, fatto per mano dei mussulmani e tanti altri morti cristiani innocenti. Io non mi indigno per niente per questi mussulmani morti ma non sono ancora abbastanza i conti non sono alla pari». Luigi P., invece, porta avanti una singolare argomentazione: «Io sono contro la violenza ma non contro la difesa personale e quella per me si chiama difesa personale».

Commenti e visioni sulla strage in Nuova Zelanda non mancano anche in “Gruppo lega”, dove campeggia come immagine di copertina la faccia del ministro dell’Interno. Tra i tanti che attaccano «la sinistra» perché avrebbe dato la colpa dell’attentato suprematista allo stesso Salvini, spicca Mara P. che si chiede: «E se vi dicessi che è tutta una finta? Avete visto quanto sangue che c’era? Ma dov’era». Insomma, un montaggio cinematografico e nulla più. Per gli “attacchi” della sinistra, invece, c’è chi consiglia di entrare «a Botteghe Oscure ben armato. Poi tutto si risolve».

Ma i commenti più atroci si rincorrono in “Salviamo l’Occidente dall’invasione”. «E bravi i neozelandesi che hanno assaltato delle moschee», scrive un utente. Per Marco H. dovremmo imparare da loro: «Squadre di quattro (…) È guerra e non l’abbiamo cominciata noi». Qualcuno prova a replicare che è un crimine sempre e comunque ammazzare innocenti. «Sei sicuro? Credi anche tu nei bravi muslims? Questo gruppo ha un titolo preciso. Evidentemente non conosci l’Islam», replica Duncan W. «È un popolo maledetto. Non esiste un musulmano bravo», ribatte Stefano C.

Ma c’è chi alza ancora di più il tiro: «Hitler aveva sbagliato popolo da sterminare», chiosa uno. «L’ho sempre detto anche io che se l’è presa col popolo sbagliato», conferma un altro. «Quanti ne hanno uccisi loro di innocenti? Che comincino a capire che il mondo si sta svegliando», vomita ancora un altro. Fino alla chiusa, inquietante e spaventosa: «Il musulmano bravo esiste: è quello morto! È bravissimo nel concimare la terra! Però a volte la terra la intossica».

Vedremo se il ministro dell’Interno, a capo delle Forze dell’ordine e dunque anche della Polizia postale, farà in modo che si prendano provvedimenti su tali gruppi.

Fasci cent’anni dopo. Ecco chi erano e chi finanziò i sansepolcristi che piacciono a Casapound

La sede di CasaPound Italia, oggi 15 aprile 2011 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La polizia di Milano, la sera stessa di domenica 23 marzo 1919, in un rapporto su «Riunione di fasci interventisti», riferì di circa 300, tra ex combattenti, interventisti e “arditi”, radunatisi nel salone del Circolo per gli interessi industriali, commerciali e agricoli di piazza San Sepolcro. Secondo altre fonti in realtà erano poco più di duecento. Un insuccesso se solo si consideri che l’incontro era stato promosso da un uomo politico, Benito Mussolini, conosciuto da più di quattro anni per le sue posizioni interventiste, e che l’evento era stato propagandato per venti giorni da un quotidiano, Il Popolo d’Italia, fondato dallo stesso Mussolini il 15 novembre 1914 allo scopo di far entrare l’Italia in guerra contro l’Impero asburgico.

L’avvenimento passò pressoché inosservato. Il Corriere della Sera, nella rubrica “Le conferenze domenicali”, non sprecò più di dieci righe. Più o meno lo stesso spazio che fu dedicato al furto di sessantaquattro casse di sapone in via Pomponazzi. Inizialmente l’assemblea fondativa dei Fasci di combattimento avrebbe dovuto tenersi al Teatro Dal Verme, luogo prestigioso, duemila posti, decisamente troppi anche secondo le più rosee previsioni dei promotori.

Ex combattenti, arditi e futuristi
Grazie all’elenco dei nomi e degli incarichi trascritti il giorno successivo su Il Popolo d’Italia (come ricostruito da Mimmo Franzinelli nel recentissimo Fascismo anno zero, Mondadori) sappiamo che il grosso dei partecipanti, per lo più giovani (oltre i tre quarti aveva meno di quarant’anni), era rappresentato da ex combattenti, soprattutto milanesi. Numerosi gli “arditi” (i reparti d’assalto costituiti nel 1917 all’insegna dello spirito di corpo e dell’oltranzismo patriottico), circa una quarantina. La parte restante era composta da chi si era battuto per l’entrata in guerra dell’Italia, tra loro anche l’ala “rivoluzionaria”, composta da socialisti, sindacalisti e anarchici che avevano dato vita nel 1914 ai Fasci d’azione rivoluzionaria. Un piccolo gruppo, una decina, proveniva, infine, dal movimento “futurista”, guidato in persona da Filippo Tommaso Marinetti, il suo fondatore, che a margine della riunione, secondo una testimonianza, si adoperò a organizzare una colletta «per acquistare indispensabili pistole». La riunione non durò più di quattro ore e si sciolse alle 16,40.

Il programma
Mussolini prese la parola due volte. Prima per illustrare alcune mozioni, poi approvate, che andavano dal sostegno alle rivendicazioni degli ex combattenti alla condanna di ogni «imperialismo», anche di quello italiano, alla rivendicazione dell’«annessione di Fiume e della Dalmazia», fino all’impegno di «sabotare con tutti i mezzi le candidature di tutti i neutralisti di tutti i partiti». Nel secondo intervento affrontò la questione del programma. Definì i Fasci di combattimento «una minoranza attiva», dichiarò quindi «guerra al socialismo perché contrario alla nazione» e al «partito socialista», incapace «di mettersi alla testa di un’azione di rinnovamento». Disse anzi che fosse necessario «scindere il partito socialista dal proletariato». Si dichiarò a favore delle richieste operaie, dalle otto ore alle pensioni di invalidità e di vecchiaia, fino al «controllo delle industrie». Sostenne quindi il diritto dei Fasci di combattimento a succedere alla classe politica, propose l’abolizione del Senato e l’elezione della Camera a suffragio universale, esteso alle donne, con sistema elettorale proporzionale. Concluse pronunciandosi «contro tutte le forme di dittatura» in favore del sistema repubblicano. Un programma confuso e demagogico, declinato al «negativo», come scrisse lo storico Renzo De Felice nel suo Mussolini il rivoluzionario, «genericamente orientato a sinistra», nel senso «di un nuovo ordine che neppure essi sapevano bene prefigurarsi».

L’assalto alla redazione dell’Avanti
Furono gli “arditi”, costituitisi in associazione nel gennaio del 1919 anche grazie ai finanziamenti di industriali ottenuti tramite Mussolini, a rappresentare il braccio armato del nascente movimento fascista e a giocare un ruolo politico. Squadre di “arditi” armati presidiavano, giorno e notte, la redazione de Il Popolo d’Italia in via Paolo da Cannobio, dietro il Duomo, e la propria sede in via Cerva con la connivenza della polizia. La svolta avvenne il 15 aprile, un martedì, solo tre settimane dopo piazza San Sepolcro. Una quarantina di sansepolcristi spalleggiati da numerosi studenti ufficiali (almeno 300) capitanati da Ferruccio Vecchi, e gruppi di futuristi con Marinetti in testa (come lui stesso raccontò in La battaglia di via Mercanti, il 15 aprile 1919, la prima vittoria del fascismo), provenienti da una manifestazione “patriottica”, sciolse a colpi di revolverate e bombe a mano, in piazza Mercanti, un corteo di anarchici e socialisti di un migliaio di persone. Venne uccisa un’operaia cucitrice diciannovenne e furono ferite gravemente almeno trenta persone. Fascisti, “arditi” e ufficiali si diressero quindi in un corteo rapidamente ingrossatosi (circa 1.500 persone) alla sede dell’Avanti!, in via San Damiano, dove travolsero il cordone dei soldati per poi devastare e dare alle fiamme la redazione. Un soldato e due socialisti rimasero uccisi. Alcuni “cimeli”, tra cui l’insegna in legno divelta all’ingresso dell’Avanti!, vennero poi donati a Mussolini nella redazione de Il Popolo d’Italia. Giorni dopo il ministro della Guerra, Enrico Caviglia, giunto a Milano, disse che il loro gesto aveva «salvato la nazione». Le autorità politiche e militari coprirono l’aggressione.

I finanziatori
Gli storici che hanno approfondito la nascita dei Fasci di combattimento, confrontando i nomi di coloro che erano intervenuti alla riunione di piazza San Sepolcro con i partecipanti al congresso nazionale tenutosi a Napoli alla vigilia della “marcia su Roma”, nell’ottobre del 1922, hanno rilevato come nel giro di soli tre anni si fosse eclissata la quasi totalità dei fondatori. Un mutamento radicale del primo gruppo dirigente del movimento fascista. I socialisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici e i repubblicani erano letteralmente svaniti. Al loro posto erano affluiti in massa i nazionalisti. Anche dal punto di vista sociale al posto degli operai e dei piccoli borghesi erano arrivati industriali, agrari e aristocratici.

Grazie a recenti acquisizioni d’archivio ora sappiamo anche che a finanziare il primo movimento fascista furono alcuni comparti della grande borghesia, tutt’altro che spaventati dal “rivoluzionarismo diciannovista”. L’elenco degli inserzionisti su Il Popolo d’Italia dice delle elargizioni delle aziende milanesi e settentrionali «con particolare riguardo all’industria pesante». Si va dall’Ansaldo all’industria mineraria Montecatini, dalle officine meccaniche di Reggio Emilia all’Ilva, solo per citarne alcune. La «parte più moderna del capitalismo», sostiene lo storico Franzinelli. Così certamente sarà in seguito. La piccola borghesia in Italia, sosteneva Gramsci, paragonabile ai bandar-log – alla tribù delle scimmie ne Il libro della Jungla di Kipling – sradicati e distruttivi, divenne il naturale strumento dei propositi controrivoluzionari degli industriali e dei proprietari terrieri, ovvero della vecchia classe dirigente. In questo ambito sociale si sviluppò e radicò il movimento fascista.

Oggi
Ora in piazza San Sepolcro, nell’edificio che ospitò la fondazione dei Fasci di combattimento, da molti anni si è insediato un commissariato di polizia. Sul fianco è visibile una torre littoria. Dietro un presidio dei carabinieri con fregi del Ventennio sui muri. Via Paolo da Cannobio esiste ancora, ma l’intero quartiere, il Bottonuto, alle spalle del Duomo, malfamato e degradato, fu sventrato e completamente ridisegnato già a partire dagli anni Trenta. Ora della vecchia redazione de Il Popolo d’Italia non esiste più nulla e al suo posto sorge un edificio abbastanza moderno e anonimo. In via Cerva, nei locali un tempo covo degli “arditi”, si trova adesso una bottiglieria gestita dagli eredi dei proprietari. Nessun segno dell’antica presenza.

Chi vorrebbe ricordare quei tempi sono oggi le organizzazioni neofasciste. In prima fila CasaPound, che più di ogni altra si ispira alle gesta del primo movimento fascista e che ha programmato per la stessa giornata del 23 marzo un concerto nazi-rock a Milano, volutamente con inizio alle ore 19 e 19. Sono attese delegazioni estere e folte rappresentanze dalla Lombardia, dal Lazio e da Trieste.

La nuova via della seta, una sfida storica per la Cina

epa07455218 Chinese President Xi Jinping (L) shakes hands with Italian President Sergio Mattarella (R) at the Quirinale Presidential Palace, in Rome, Italy, 22 March 2019. President Xi Jinping is launching a two-day official visit aimed at deepening economic and cultural ties with Italy through an ambitious infrastructure building program called 'Belt and Road' that has raised suspicions among Italy's U.S. and European allies. EPA/ALESSANDRA TARANTINO / POOL

Il rapporto Nomisma – Centro di studi sulla Cina contemporanea sul ruolo dell’Italia nel progetto cinese denominato One Belt One Road (Obor), in cinese Yi dai yi lu, commissionato dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, presenta le linee programmatiche del progetto di sviluppo economico avviato dalla Cina nel 2013, per un valore complessivo di oltre 1000 miliardi di dollari e che è stato inserito addirittura nella costituzione cinese, per segnalarne la fondamentale importanza strategica.
A fronte di un indubbio interesse commerciale dell’Italia, credo sia però opportuno inquadrare il progetto nel più ampio ambito storico delle relazioni fra l’Italia e la Cina, perché, come dicono i cinesi con un motto ormai famoso “Per conoscere il nuovo bisogna ricordare il passato”.
Il passato nella storia fra l’Italia e la Cina ha davvero un significato speciale: nessun Paese occidentale è infatti in grado di vantare una storia così antica di relazioni commerciali e culturali, di idee e di persone, come la nostra penisola. L’Italia è stata il primo Paese “occidentale” ad avere rapporti con l’Impero cinese e, fino al XVII secolo, per oltre un millennio furono quasi esclusivamente gli italiani a consentire una seppur minima conoscenza fra l’Europa e la Cina.
Il retore Floro alla fine del I secolo d. C. riferisce che al tempo di Augusto, quindi dal 69 al 14 a.C., sarebbe arrivata a Roma una ambasceria della terra dei Seres (Cina) dopo un viaggio durato quattro anni, notizia completamente ignorata dalle fonti cinesi.
A stare alle fonti cinesi invece, i romani avrebbero inviato nel 166 d.C. una ambasceria, che arrivò in Cina provenendo dalla zona dell’odierno Viet Nam. Leggiamo infatti nel testo cinese che regnava allora in Roma l’imperatore Andun, cioè Marco Aurelio (121-18 d.C).
Fioriva invece il commercio fra i due imperi e Plinio il Vecchio così stigmatizzava ferocemente gli sfrenati consumi delle matrone romane: «Cento milioni di sesterzi come minimo vengono sottratti ogni anno dall’India, dai Seres e dalla penisola (Arabica). Tanto ci costano il lusso e le femmine». Il Senato romano emanò addirittura un editto per limitarne il commercio. A distanza di 2000 anni sembra di risentire la voce di una nostra pungente giornalista che appunto su una importante emittente televisiva lamenta che i camion cinesi arrivano pieni e tornano vuoti lungo le vie arterie ferroviarie che legano l’Europa alla Cina.
Se fin dal tempo degli antichi romani le merci potevano viaggiare lungo le vie carovaniere dell’Asia centrale e meridionale era perché con passare dei secoli erano stati lentamente costruiti dei percorsi che collegavano la città della Cina occidentale, in particolare la citta di Chang’an, l’odierna Xi’an, capitale dell’Impero Cinese, con il Centro Asia e via via attraverso la Persia ed il Medio Oriente, e il Mediterraneo. Questo insieme di strade, sentieri, via carovaniere a tratti ampie e pianeggianti, a volte strette ed anguste, devono essere immaginate come parte integrante di un complesso di vie di comunicazione paragonabile oggi ad una rete autostradale. Un reticolato di strade e tragitti che si snodava per oltre 8000 chilometri di lunghezza, che non ebbe mai un nome. Fu solo nel 1877, cioè duemila anni dopo la sua realizzazione, che fu chiamata Seidenstraße o via della seta da un geografo tedesco. Per oltre duemila anni era stata semplicemente una rete di piste, che difficilmente erano percorse lungo tutto il percorso da Oriente ad Occidente o viceversa, ma più sovente erano usate solo per un tratto da mercanti che si spingevano oltre i propri confini per scambiare merci comprate altrove. Questa rete di vie di comunicazione ha garantito per millenni un fiorente scambio di merci. Prima fra tutte la preziosa seta, della quale gli abitanti dell’Europa non avevano mai conosciuto l’origine, ma anche e soprattutto scambi di idee e di persone. Il buddismo si diffuse ad Oriente lungo le arterie della via della seta, ma anche religioni cristiane come il manicheismo e il nestorianesimo grazie a questo percorso riuscirono a raggiungere l’Asia centrale. Non possiamo immaginare la storia antica o medievale dell’Occidente senza tenere a mente gli intrecci di lingue e culture, gli scambi scientifici e tecnologici, la matematica e la geometria, e le contaminazioni religiose avvenute fra Oriente ed Occidente, fra Asia orientale, centrale e Medio Oriente, grazie a questa complessa rete di vie comunicazione.
Parliamo spesso – o meglio parlavamo spesso fino a qualche tempo fa – di globalizzazione, un tempo in senso solo positivo, oggi con i nuovi governanti in senso solo negativo, ma in realtà la globalizzazione è sempre esistita, solo con tempi e modi differenti, più lenti, meno frenetici, meno invasivi. La seta cinese si vendeva a Roma fintanto che gli italiani non iniziarono a produrla, ma poi nel XIX secolo una epidemia di bachi da seta fu il principale motore per lo stabilimento di relazioni commerciali e politiche fra il Regno d’Italia e l’Impero Cinese. E ancora le vie carovaniere dell’Asia furono percorse da tanti nostri mercanti che – come il più famoso di loro, Marco Polo – arrivarono nella Cina, al tempo governata dai mongoli, riportando in Europa suggestioni così precise sulla grandezza del continente asiatico, al punto che il racconto dei suoi viaggi, il Milione, spinse Cristoforo Colombo ad immaginare una via navale verso Oriente, passando per Occidente.
Lungo la via della seta arrivarono in Europa nozioni scientifiche, quali l’impiego dei vaccini, la matematica binaria e lo zero e poi scoperte tecniche, come la polvere da sparo e la bussola, oppure pratiche amministrative come il complesso sistema degli esami per l’accesso alle carriere statali di origine cinese, oggi (si spera) ancora in uso nelle nostre democrazie. Troppo lungo sarebbe anche l’elenco dei ritrovati della scienze e della tecnica che a sua volta la Cina ha acquisito dall’Europa, dall’astronomia alla matematica, dalla balistica all’anatomia, alla geografia.
Quella che noi oggi indichiamo genericamente come via della seta è stata una rete di arterie di comunicazioni, per via terreste e marittima, che per oltre due millenni ha legato l’Europa con l’Asia, attraverso lingue, culture e religioni diverse, in un unico grande continente euroasiatico.
Quando nel 2013, durante due discorsi, uno in Kazakistan e uno in Indonesia, il presidente Xi Jinping ha lanciato il faraonico progetto denominato Yi dai Yi lu o Cintura Economica della Via della Seta e Via della Seta Marittima del XXI secolo, pochi si accorsero che la Cina si apprestava a lanciare un progetto di sviluppo internazionale che non ha precedenti nella storia mondiale; un progetto che per la prima volta in 70 anni di storia della Repubblica popolare la vuole spingere oltre i propri tradizionali confini geografici, un tempo segnati dalla Grande Muraglia. L’impegno economico finanziario della Cina sarà circa dieci volte il volume complessivo del Piano Marshall, avviato nel 1947 dagli Stati Uniti verso l’Europa sconfitta. Il paragone non è casuale perché tale impegno cinese viene ora considerato da molti osservatori americani proprio come un progetto di sostegno economico finalizzato a minacciare la politica economica del cosiddetto Washington Consensus.
In questi anni il quadro internazionale e l’atteggiamento del presidente Trump hanno dato ai cinesi motivi ancora più solidi per sfruttare il risentimento di un gran numero di Paesi nei confronti della politica nordamericana verso l’Asia centrale, orientale e meridionale. La Cina ha bisogno di mercati, ma ha soprattutto bisogno di migliorare l’efficienza del proprio sistema economico e per raggiungere questi obiettivi ha deciso appunto di contribuire alla costruzione di una vasta rete di infrastrutture commerciali in grado di assorbire le capacità produttive delle proprie aziende di Stato e al tempo stesso di consentire l’apertura di nuovi spazi per le proprie merci all’estero. L’obiettivo è in primo luogo commerciale, ma ha anche una valenza politica sia in chiave interna che internazionale. L’attuale dirigenza sa perfettamente che solo consentendo un miglioramento del tenore di vita a quella metà della popolazione cinese che non è stata ancora raggiunta da un relativo benessere economico sarà possibile garantire al Paese e quindi alla sua classe dirigente la stabilità politica. A livello internazionale invece il progetto ha lo scopo di fornire al mondo l’immagine di una Cina, per la prima volta superpotenza a livello globale.
Affinché tale imponente progetto possa procedere è necessario che nei Paesi più sensibili alla propaganda statunitense si diffonda invece una nuova immagine della Cina e della sua cultura, non solo Paese del Made in China, ma anche potenza scientifica e culturale, dotata di capacità tecnologiche. Tutto questo non sta a significare un reale desiderio della Cina di diventare un punto di riferimento culturale e politico nel mondo occidentale, come avvenne nel secondo dopoguerra quando gli Stati Uniti imposero il loro modello nella cultura europea, ma solo di creare le condizioni internazionali per continuare a prosperare al suo interno, sfruttando ove possibile le opportunità commerciali ed economiche offerte in Asia, in Europa e soprattutto in Africa.
E l’Italia? Il nostro Paese potrebbe cogliere le opportunità di questo progetto governandolo, per quanto possibile, invece di subirlo, come sembra accadere in questi mesi, fra sterili polemiche giornalistiche e la creazione di gruppi di lavoro ministeriali. Si tratterebbe di prendere sul serio la Cina e la sua lungimiranza intesa come capacità di “guardare lontano”, di immaginare scenari futuri di sviluppo economico e commerciale, ma soprattutto capacità di pensare oltre l’oggi, oltre quello che accadrà alle prossime elezioni di quartiere, nella convinzione che fra 10, 20 o 100 anni il mondo potrebbe non essere uguale ad oggi e potrebbe forse anche essere migliore, laddove riusciremo a valorizzare ciò che il mondo e quindi anche la Cina ci invidia, non chiudendo però gli occhi di fronte alle capacità imprenditoriali dei nostri vicini o lontani. Tenendo sempre bene a mente che, come dice un proverbio cinese: “un albero se lo sposti muore, mentre un essere umano se lo muovi vivrà”.

Federico Masini, sinologo, è prorettore alla didattica dell’Università di Roma Sapienza. Si è occupato di linguistica cinese, storia delle relazioni fra l’occidente e la Cina, letteratura cinese moderna e letteratura cinese vernacolare, temi su cui ha scritto numerosi saggi. Il testo è il discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 18 settembre per la presentazione del rapporto Nomisma – Centro studi sulla Cina contemporanea “L’Italia e il progetto Obor – le opportunità e le priorità del sistema Paese” .

L’articolo di Federico Masini è stato pubblicato su Left del 28 settembre 2018


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La vera sicurezza in Europa, diritti uguali per tutti

Che cosa intendiamo per “politica europea dei beni comuni”?
Per bene comune (da distinguere dal bene comune inteso in senso teologico-filosofico), intendiamo qualsiasi bene (o servizio associato) naturale e artificiale, materiale e immateriale, essenziale per la vita di tutti gli esseri viventi (se esiste il diritto umano all’acqua potabile, esiste anche il diritto dell’acqua ad essere mantenuta in un buono stato ecologico). Per questo motivo, nessuno può appropriarsi di un bene comune a titolo privato ed esclusivo: esso deve essere disponibile e accessibile per tutti. Pertanto è responsabilità comune della collettività (ovvero di tutte le comunità umane) che se ne deve prendere cura e deve garantire il diritto alla vita per tutti nell’uguaglianza, senza distinzioni di nazionalità, di genere, di reddito, di colore della pelle, di posizione geografica, di funzione economica.
Il legame tra il diritto alla vita e i beni comuni è un principio fondamentale della definizione di bene comune. Essendo il diritto alla vita universale, i beni comuni essenziali ad essa fanno parte dell’universalità della vita. Quindi, per definizione, un bene comune è un “bene mondiale”. Non ha nessuna specificità patrimoniale territoriale particolare. Il suo carattere essenziale per la vita fa sì che non si possa dire che fa parte del patrimonio di una regione, di una città, di un paese, di una nazione. D’altronde, con una sola eccezione, tutti i 273 principali bacini idrografici del mondo sono “transnazionali”. Inoltre l’attuale regola che attribuisce la proprietà e la sovranità assoluta “nazionali” sulle “risorse naturali” del territorio di ogni Stato è incompatibile con i principi dell’universalità della vita e della comunità globale della vita della Terra. Ancor più contraddittoria e ingiustificata è la legalizzazione del diritto di proprietà privata sui beni, in teoria riconosciuti come comuni, in particolare il diritto di proprietà intellettuale privata sul vivente e sugli algoritmi. Per politica europea dei beni comuni intendiamo l’insieme dei principi, delle regole, dei mezzi e delle istituzioni che permettono a chi vive in Europa di definire, attuare, perseguire in Europa degli obiettivi precisi di salvaguardia, cura e promozione dei beni comuni (nei termini sopra definiti) nella giustizia, nella democrazia, nella solidarietà, nella fraternità e nella sicurezza d’esistenza in nome di, per e con gli abitanti d’Europa e della Terra. La politica del…

L’economista e docente universitario Riccardo Petrella è uno studioso di globalizzazione, welfare, problemi ambientali e della tematica dell’acqua come diritto alla vita e bene comune. È fondatore e presidente dell’Università dei Beni comuni di Parigi. Il testo, pubblicato su Transform! (tradotto per Left da Catherine Penn) riprende il Rapporto del gruppo di lavoro 7 “I beni comuni pubblici mondiali” dell’Università dei Beni Comuni di Parigi.

L’articolo di Riccardo Petrella prosegue su Left in edicola del 22 marzo 2019


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Navigare silenziosamente, la piazza di Greta esiste già

Notavo che ormai ogni venerdì, sempre più spesso, mi capita di dedicarlo alle buone notizie. Forse perché l’intossicazione del resto della settimana mi provoca malumore e invece ho scoperto che i risultati di una ricerca inglese dicono che gli ottimisti vivono in media due anni in più. Quindi anche questo venerdì provo ad allungarmi la vita e per farlo ci si sposta a Oresund, la striscia di mare che separa Danimarca e Svezia, una tratta su cui passano circa sette milioni di persone per circa cinquecentomila viaggi.

Da qualche mese i traghetti elettrici Aurora e Tycho Brahe sono ufficialmente in servizio sullo stretto, lungo circa quattro chilometri, e non accendono più i motori a gasolio per spostarsi. Tutto elettrico. Tutta elettricità che proviene solo da fonti rinnovabili. Sembra fantascienza, e invece è proprio così. Le navi arrivano in porto e grazie e un sistema ad alto voltaggio riescono in poco minuti a ricaricare per il viaggio di ritorno. Non c’è nemmeno un minuto in più da aspettare rispetto agli orari precedenti. Grazie al progetto co-finanziato dall’Unione Europea le due navi, originariamente a diesel, sono state convertite in elettriche tramite 640 batterie al litio per una potenza installata pari a 11 mega-watt.

Colpiscono le parole dell’ingegnere capo Henrik Fald Hansen: «Come ingegnere meccanico provo una strana sensazione nel sentire la sala macchina silenziosa. La prima volta che abbiamo fermato i motori diesel per navigare a batteria mi è venuta la pelle d’oca. È fantastico, sorprendente vedere come le batterie possano alimentare una nave così grande.»

Ed è una pelle d’oca sana che assomiglia così tanto al profumo di quelle piazze che hanno riempito il mondo per l’ambiente, nonostante alcuni fessi abbiano fissato Greta piuttosto che la luna. E ci spiega che la volontà politica conta. Quella. Solo quella.

Buon venerdì.

Contro il governo dell’ignoranza

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini (D) e il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Danilo Toninelli (S) nell'aula della Camera durante il question time, Roma 3 ottobre 2018. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Forti con i deboli, abbiamo scritto in copertina lo scorso agosto, denunciando la violenta caccia al migrante del governo giallonero, che da mesi impone di chiudere i porti, lasciando naufraghi alla deriva o rimandandoli nei lager libici e altri luoghi di tortura. Dopo aver attaccato il lavoro di salvataggio della Aquarius, della Sea Watch, della italiana Diciotti (vicenda che è valsa al ministro degli Interni Salvini una richiesta di rinvio a giudizio) e di altre navi di Ong, il Nostro ci ha riprovato, ordinando di chiudere i porti all’italianissima Mare Jonio, rea di aver salvato 49 persone, fra i quali 12 minori. E per questo, perché ha tratto in salvo vite umane, definita «illegale» e «minaccia per la sicurezza pubblica».

A chiudere i porti, va ricordato, ci aveva provato anche il ministro degli Interni Pd Marco Minniti. Ora con una “direttiva”, ovvero un atto amministrativo del ministero, Salvini pretenderebbe di cancellare leggi internazionali. Con un gesto onnipotente pretenderebbe di far sparire il millenario diritto del mare e il diritto internazionale umanitario. Di queste politiche prepotenti e disumane i grillini al governo sono corresponsabili. Intervistata da Left, in un ampio servizio che sottoponeva a politici di differente orientamento il documento Migrazione, accoglienza e antirazzismo dell’Osservatorio solidarietà della Carta di Milano, la vice presidente del Senato Paola Taverna la settimana scorsa rivendicava la «linea dura», «come la strada più efficace contro queste partenze sconsiderate». Proprio così ha definito le partenze forzate di chi fugge da guerre, fame, torture. Con la stessa pericolosa fatuità con cui le navi delle Ong erano state definite «taxi del mare» da Di Maio. Corresponsabili di queste politiche razziste e xenofobe sono anche i grillini che si sono espressi in primis sulla piattaforma privata Rousseau contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini.

Il patto corporativo tiene perché i M5s non sono né di destra né di sinistra e la mano di Salvini li muove come pupazzetti. Che M5s e Lega fingano di litigare (sulla firma del memorandum con la Cina sugli F35, sulla Tav ecc.) sta nel gioco delle parti. In questo balletto rientra anche il gesto di Luigi Di Maio di lanciare un guanto di sfida al deuteragonista Salvini mostrando così di prendere le distanze della ideologia confessionale, misogina e retrograda propagandata dal congresso internazionale delle famiglie che si svolgerà a Verona dal 29 marzo, con il patrocinio di Palazzo Chigi e con la partecipazione dei ministri dell’Interno Salvini, della Famiglia Fontana e del ministro della Scuola Bussetti e di molti altri esponenti della Lega, come il senatore Simone Pillon pifferaio magico di vari grillini. Se, infatti, si va a vedere chi ha firmato il suo oscurantista e inaccettabile ddl sull’affido condiviso, che occulta i casi di violenza in famiglia e tarpa l’autonomia delle donne, troviamo anche nomi di esponenti del M5s come D’Angelo, Evangelista, Giarrusso e Riccardi.

Un palese gioco delle parti, dicevamo, badando bene di stare attaccati alle poltrone almeno fino alle elezioni europee. A far da collante è l’accordo corporativo siglato con il contratto di governo, sempre più a trazione leghista, come dimostrano anche i provvedimenti rilanciati in questi giorni. A partire dalla Flat tax che nega il principio costituzionale di progressività fiscale (vedi l’articolo 53 della Carta), fino allo sblocca cantieri con cui Salvini e Di Maio promettono centinaia di migliaia di posti di lavoro. Come già avevano fatto Berlusconi e Renzi inneggiando alla costruzione del ponte di Messina. E se il ponte sullo Stretto è rimasto per fortuna sulla carta, non così è accaduto per tantissime altre opere, grandi e piccole, molte delle quali incompiute, come ricostruisce un’inchiesta su questo numero di Left.

Più si avvicinano le elezioni, più crescono le promesse elettorali dei populisti. Al momento non sappiamo quali opere il governo giallonero intenda sbloccare. Quali saranno? Con quale impatto? Davvero il governo vuole togliere le gare e prevedere l’affidamento diretto per opere fino a un milione di euro come è stato scritto? Possibile che non ci si renda conto del rischio tangenti? Davvero intendono togliere il tetto del 30 per cento ai subappalti, quando è ben noto che proprio questo sistema di scatole cinesi sfuggenti ai controlli mina la sicurezza dei lavoratori e i loro diritti? Contro scellerati provvedimenti come questi e contro annunciate nuove colate di cemento sulla penisola già martoriata da fragilità idrogeologica e da altissimo consumo di suolo, il popolo di sinistra e i giovani dei #FridaysForFuture tornano in piazza a Roma il 23 marzo.

Contro l’incompetenza, la prepotenza e la visione miope di un governo giallonero che si barcamena demagogicamente fra provvedimenti assistenzialistici e repressione, noi proponiamo alla sinistra di rimettere al centro la lotta contro le disuguaglianze sociali, ma anche la formazione, la preparazione, il pensiero critico, il metodo scientifico il sapere. Per il futuro del Paese e dell’Europa, come dicono le senatrici Elena Cattaneo e Liliana Segre , serve – oggi più che mai – una forte battaglia contro l’ignoranza, il negazionismo e contro l’oscurantismo. 

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 22 marzo 2019


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Elena Cattaneo: Il mio vaccino contro l’oscurantismo

ELENA CATTANEO (© 2018 Carmine Flamminio / Senato della Repubblica)

Un viaggio lungo due anni per disseminare la cultura scientifica all’interno del sistema scolastico italiano e per gettare un ponte a tre arcate tra gli studenti, il mondo della ricerca e dell’innovazione e quello del lavoro. Un progetto dedicato alle scuole superiori, per ispirare i ragazzi nella scelta di percorsi formativi e professionali nel campo della scienza e della tecnologia, comunicando loro il fascino di studiare e indagare l’ignoto. UniStem tour prenderà il via l’8 maggio, a Roma, e in 30 tappe attraverserà l’Italia, dal nord al sud alle isole, portando a dialogare con gli studenti alcuni tra i “numeri uno” del mondo scientifico italiano. Il tour è stato presentato nei giorni scorsi all’Università Statale di Milano durante UniStem day 2019, il più grande evento internazionale di divulgazione scientifica per i giovani, giunto alla sua XI edizione, che quest’anno ha coinvolto complessivamente 30 mila studenti, ospitati in 99 università e istituti di ricerca nel mondo. A margine dell’evento abbiamo incontrato la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo a cui spetta il compito di inaugurare gli appuntamenti dei “nostri” ricercatori con i ragazzi lanciando loro la sfida di impegnare il proprio talento nell’avventura della ricerca e dell’innovazione. Oltre alla senatrice, hanno già aderito la direttrice del Cern Fabiola Gianotti, l’antropologa forense Cristina Cattaneo, il virologo Roberto Burioni, l’esperto in medicina rigenerativa e staminologo Michele De Luca, il matematico Alessio Figalli e l’immunologo Alberto Mantovani.

Professoressa Cattaneo, lei ha detto che questa è «un’occasione in cui trasmettere ai ragazzi che stanno concludendo il loro percorso scolastico la passione inesauribile di ogni studioso per le sue ricerche e allenare le loro giovani menti al metodo scientifico». Come si fa a far innamorare della scienza un adolescente? Chi è che se ne dovrebbe far carico (e non lo fa)?
Per far innamorare della scienza bisogna raccontare non solo i successi ma anche…

L’intervista di Federico Tulli a Elena Cattaneo prosegue su Left in edicola dal 22 marzo 2019


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