Home Blog Pagina 642

Porte aperte allo sconosciuto

La realizzazione dello Human Rights Pavilion, il primo padiglione internazionale dei diritti umani, previsto nella prossima Biennale di Venezia, ideato da Eiuc/Global Campus of Human Rights e la Fondazione Berengo, la dice lunga sull’urgenza di affrontare su scala mondiale un dibattito politico e culturale sul tema, anche mediante la sfera creativa ed estetica. Quello spazio sovranazionale vedrà radunate le opere di artisti attivisti, impegnati a sostenere i valori dei diritti umani, per sensibilizzare un pubblico attento a una vetrina internazionale.
«Restiamo umani/Stay human», l’adagio con cui il reporter e scrittore Vittorio Arrigoni concludeva i suoi contributi, è probabilmente oggi più che mai una condizione necessaria con la quale porsi di fronte a fenomeni che, in un’epoca di globalizzazione, vanno allargandosi: guerre, terrorismo, esodi migratori, povertà, che inevitabilmente creano emarginati, apolidi, infanzie abbandonate, disagi sociali, discriminazioni di genere, epurazioni etniche, persecuzioni religiose. Vengono meno i diritti umani, espressione della dignità della persona; viene negata l’uguaglianza tra gli esseri umani. Tragedie umane varcano oggi non solo i confini nazionali, ma anche le barriere culturali e mentali provocando, sul piano emotivo, una variegata costellazione di reazioni: dalla più disincantata indifferenza fino, all’opposto, all’empatica immedesimazione.
Dal punto di vista artistico, il complesso scenario mondiale ha profondamente condizionato l’atteggiamento di molti artisti, di livello internazionale e non solo, che avvertono la necessità e, a un tempo, il dovere di partecipare alla comprensione di quei fenomeni politico-sociali che attraversano e mutano la realtà contemporanea.
Da queste riflessioni, dal 2017, è nato a Lizzanello – un Comune del Salento distintosi negli anni per una vocazione all’accoglienza, valore oggi rimarcato e confermato nell’emergenza umanitaria- il progetto triennale }All Right?{ Arte&diritti umani, che abbina le attività artistico visive alla convegnistica in punta di diritto, entro un…

L’articolo di Massimo Guastella prosegue su Left in edicola dall’8 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Pinocchio

Non è molto tempo che fa freddo. Ma è già qualche tempo che la voce di Salvini ripete sempre le stesse cose. Ascoltarlo è sentire una lama fredda che colpisce al cuore. Perché un ministro degli Interni non è guidato dagli affetti come tutti ma dalla logica semplice della politica. “Padroni a casa nostra. Aiutiamoli a casa loro. Prima gli italiani.” Un ministro degli Interni non deve odiare nessuno e (forse) non deve amare nessuno. Mantiene l’ordine e la sicurezza per gli italiani. Il problema è il significato che questo ministro dà alla parola “italiani” e cosa considera “ordine e sicurezza”.

È di poche settimane fa la notizia di un ragazzo di 14 anni, affogato attraversando il Mediterraneo, che aveva la pagella cucita nella tasca del suo vestito. Evidentemente sapeva che il viaggio sarebbe stato pericoloso e lui non voleva rischiare di perderla quella pagella. Perché ne era fiero come tutti i bambini e i ragazzi che sono felici di ciò che hanno realizzato a scuola e che è scritto nelle loro pagelle. Sono il riconoscimento della loro realizzazione. Della loro voglia di crescere e di sapere. Dei loro occhi aperti che hanno sete della conoscenza che il mondo e la vita gli può offrire.

La storia di ogni bambino che diventa grande è la storia di Pinocchio che deve riuscire a realizzare se stesso e la propria capacità di amare per diventare un bambino in carne ed ossa. Ogni realizzazione è una nascita. Ogni realizzazione è un occhio nuovo che si apre che permette di vedere e sentire la verità del suo essere al mondo. La vita di ogni bambino si costruisce nelle mille realizzazioni di nascita e di separazione che fanno la crescita. Sono mille occhi che si aprono e fanno un’identità. Accadrà poi che Pinocchio si innamorerà di una Fata Turchina e ritroverà il sentire di quando è nato. E nessuno dice mai che la Fata Turchina non è la madre di Pinocchio. Allora sarà un bambino in carne ed ossa che diventerà un uomo che non cadrà più negli inganni del gatto e della volpe. Un uomo e una donna che sanno come sopravvivere al morso del serpente grazie al ricordo della resistenza del legno che faceva il corpo di piccolo Pinocchio. Il legno che non è freddo, che non è metallo che affonda ma sale in alto nell’acqua del mare.

Sono giorni di freddo. Mia figlia mi dà la sua manina mentre la accompagno a scuola. La sua piccola mano nella mia è un calore prezioso. È l’amore che ogni bambino ha spontaneamente per gli altri. Un ragazzo su un gommone aveva la pagella cucita nella tasca del vestito. Non la voleva perdere. Forse prevedeva la possibilità di cadere in acqua e non voleva perdere quella sua bella pagella. Quella pagella che dice che aveva una capacità di amare e amava quelli che stavano dall’altra parte del mare anche se non li conosceva. Pensava che anche essi lo avrebbero amato e lo avrebbero riconosciuto nel suo essere bravo. La pagella era la prova del suo amore per la vita e per loro. Quando è caduto in acqua avrà sognato la Fata Turchina che lo andava a salvare da quelle acque gelide. Ma poi certamente, mentre perdeva i sensi e moriva nel mare gelido, con la sua capacità di amare ci avrà pensato e perdonato per non averlo salvato. Avrà pensato che la sua pagella ci avrebbe detto che lui era innamorato di noi e che aveva sbagliato a fidarsi dei trafficanti di esseri umani. Ma che lui voleva venire lo stesso, nonostante i trafficanti di esseri umani e il nostro ministro dell’Interno.

Il nostro ministro dell’Interno non odia e non ama nessuno. Ha una voce fastidiosa ed esulta quando tiene lontani dall’Italia i bambini che non sono nati in Italia. Noi come faremo a spiegare ai nostri bambini che non abbiamo fatto niente per salvare quegli altri bambini che hanno avuto la sventura di non essere italiani? Come faremo a spiegare loro cosa significa che vengono prima gli italiani? L’amore di un bambino non conosce e non capisce questa logica. Conosce solo gli esseri umani. Non sappiamo spiegare e chiudiamo gli occhi. Non ci pensiamo più. Annulliamo. Le lacrime poi scompaiono… e con esse perdiamo un pezzo di noi stessi, di quell’amore per l’altro che è il primo pensiero di ogni nuovo nato. Nel tempo si consumerà il crimine orrendo di far pensare ai bambini che sia giusto far morire persone che disperatamente cercano un futuro migliore per sé e per i propri cari. Perché è proprio questo ciò che vuole il nostro ministro degli Interni. Che la ricerca di un futuro migliore diventi un “crimine”.

La speranza di trasformare se stessi e di non essere più un Pinocchio di legno sarà vietato per legge. Ognuno dovrà stare a casa sua. Le donne dovranno badare alla famiglia. Non si dovranno avere aspirazioni a migliorare la propria condizione sociale e culturale. Studiare non servirà e sarà sconsigliato. Andare all’estero a studiare e lavorare sarà vietato perché fa male all’economia nazionale. Chi lo fa, fa del male al Paese e dovrà essere pubblicamente condannato. La violenza è parte naturale della vita e le violenze in famiglia saranno sempre giustificate. Il ministro dell’Interno ci dice quotidianamente che è normale uccidere le speranze… e anche lasciar morire le persone che malgrado tutto rischiano la vita per quelle speranze. È normale. È normale e giusto impedire a Pinocchio di diventare bambino. La nuova legge sarà d’ora in poi avere il freddo nel cuore. È necessario ribellarsi, opporsi, protestare. Stare insieme. Pensare. Non rinunciare mai, anche quando sembra che nessuno ci ascolti, anche quando sembra che tutti sono contro di noi, anche quando sembra che ci siano solo stupidità e violenza attorno a noi.

Dovremo andare anche noi con la pagella cucita sul cuore a dire al nostro ministro che noi, al contrario di lui, amiamo e speriamo in un futuro migliore non solo per noi e per i nostri figli ma per tutti, anche per chi non è nato in Italia. Anche per chi ingenuamente si fida dei trafficanti di esseri umani e pensa che il nostro governo li salverà se si troveranno in difficoltà. Dovremo chiedere con forza che la Repubblica italiana debba fare del tutto perché questa fiducia sia ben riposta. Ma il nostro ministro non odia e non ama nessuno. Lui fa il ministro. Egli non conosce il tempo ma solo lo spazio e i suoi confini. Non sa cosa significa dare tempo, aspettare. Vuole risultati subito. E poco importa che la capacità di amare di ogni bambino richiede tempo perché diventi identità adulta. Il nostro ministro è così. È irrealistico pensare che possa cambiare. Ma egli governa con i 5 stelle. E allora mi chiedo se a Di Maio sia mai capitato di giocare, magari ad acchiapparella, con un bambino. Chissà, magari con il figlio del suo amico Di Battista. Allora, caro vicepresidente e ministro Di Maio, ti chiedo: qual è la sensazione che si prova a giocare con un bambino sapendo che le azioni del governo, di cui il tuo partito è azionista di maggioranza, sono direttamente responsabili della morte di migliaia di altri bambini che amano il mondo e la vita proprio come quel bambino che gioca con te? È criminale uccidere le speranze e i sogni di chi cerca un futuro migliore. È criminale lasciare morire migliaia di persone in mezzo al mare. È criminale dare ad intendere che è giusto uccidere per difendere un confine. È criminale lasciare pensare che la vita sia questa. È più criminale ancora farlo pensare ai bambini.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dall’8 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Gianna Fracassi: L’Italia torni a essere un Paese per giovani

Bari, 24 gennaio 2019: XVIII Congresso della Cgil Nazionale Gianna Fracassi Simona Caleo/Cgil

«È venuto il momento di unire il Paese, e mettere al centro i giovani, dando loro un futuro». È stato questo uno dei primi buoni propositi di Maurizio Landini, riferito ai microfoni di RadioArticolo1, pochi giorni dopo la sua elezione al vertice del più antico sindacato d’Italia. E proprio di giovani si è occupata per anni Gianna Fracassi, ora al fianco di Landini come vice segretaria, con un passato nella Flc toscana e poi nazionale. Mentre disoccupazione giovanile e precarietà aumentano, e l’Italia entra in recessione, le abbiamo chiesto in che modo il nuovo corso della Cgil intende invertire la rotta e lottare per il futuro e i diritti delle nuove generazioni. Accompagnandole a partire dai loro primi passi nel mondo del lavoro.

L’alternanza scuola lavoro, come documentato con diverse inchieste su queste pagine, costituisce un serbatoio di manodopera giovanile a costo zero, per imprese che spesso hanno più interesse a risparmiare sul personale che a fare formazione. Con la manovra, il governo ha tagliato il monte ore obbligatorio, ma per Camusso si tratta di una mossa utile solo a «fare cassa» e «nulla ha a che vedere col rafforzamento della qualità» dei percorsi. In che modo bisognerebbe intervenire?
Prima di tutto, dobbiamo intenderci su che cos’è oggi l’alternanza scuola lavoro. La misura era stata pensata come una vera e propria metodologia didattica. Ma, sin dalla Buona scuola, i fini di questo strumento sono stati assolutamente deviati. Tra i percorsi di alternanza proposti ai ragazzi abbiamo visto esperienze molto frustranti o addirittura di “paralavoro” non pagato. Questa non è vera alternanza, che viceversa deve prevedere un contributo forte dei docenti.

Per riformare l’alternanza, dunque, bisogna coinvolgere di più le parti sociali, come ha ricordato Camusso, o è necessario pure abolire l’obbligatorietà delle ore, come ha ribadito il segretario generale Flc Francesco Sinopoli?
Secondo me l’errore grave è stato quello di…

L’intervista di Leonardo Filippi a Gianna Fracassi (vice segretaria Cgil) prosegue su Left in edicola dall’8 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Caso Cucchi, risolto il giallo della doppia annotazione. Un carabiniere depone: «Me la dettò il maresciallo Mandolini»

Ilaria Cucchi durante la trasmissione "In 1/2h" condotta da Lucia Annunziata, Roma, 10 gennaio 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

«Ho cambiato l’annotazione di servizio sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi la sera del suo arresto riscrivendola sotto dettatura del maresciallo Roberto Mandolini il quale mi disse che la prima versione non andava bene». Il racconto dell’ennesima udienza, la prossima sarà già il 14 febbraio, inizia con un’altra ammissione. A parlare il carabiniere Davide Antonio Speranza, che il pm Giovanni Musarò aveva già interrogato lo scorso dicembre nell’ambito dell’inchiesta bis sui falsi e sui depistaggi, sentito oggi al processo in Corte d’assise che vede imputati cinque militari dell’Arma per l’omicidio di Stefano Cucchi e le manovre di occultamento messe in atto nell’immediatezza.

Mandolini, il maresciallo dei tre carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale (ossia Francesco Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ndr), è imputato per falso e calunnia (insieme a Vincenzo Nicolardi, ndr): fu lui, come riferito da Speranza a far cambiare la versione su quanto avvenne il 15 ottobre dopo l’arresto di Cucchi che dopo essere stato fermato per droga, fu picchiato nella caserma del Casilino e poi trasferito in quella di Tor Sapienza. La seconda annotazione risultata datata il 16 ottobre ma, come ha riconosciuto oggi il militare dell’Arma, fu redatta dopo la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre al Sandro Pertini, e venne dettata da Mandolini alla presenza del carabiniere Vincenzo Nicolardi, anche lui sotto processo per calunnia.

Tutte queste cose però Speranza le dice solo ora, mentre non disse nulla sulla modifica delle due annotazioni quando fu sentito dal primo pm Vincenzo Barba, quello che puntò tutto sul mix tra malasanità e botte della penitenziaria, all’indomani della morte del geometra trentunenne e neppure quando sotto processo in assise tra gli imputati, oltre a medici e infermieri dell’ospedale, figuravano tre agenti di polizia penitenziaria, poi assolti.

Nelle prime intercettazioni effettuate dagli stessi carabinieri “stranamente” è stata omessa la famigerata telefonata nella quale il militare Nicolardi diceva «magari morisse, li mortacci sua…». Non si sa chi è il portatore di “spirito di corpo” che abbia effettuato e trasmesso le intercettazioni al pm Barba. Altra anomalia: un’interpretazione trascritta ma senza registrazione su supporti magnetici. Già dall’inizio delle investigazioni c’era il sospetto che alcune registrazioni fossero state omesse o meglio che alcune non fossero state inserite. Le intercettazioni di fine 2018 evidenziano i contatti tra alcuni testi e colleghi dell’Arma che cercano di indurli a edulcorare le dichiarazioni.

Speranza, dunque, oggi non ricorda granché delle condizioni di Cucchi ma conferma che il maresciallo Mandolini gli chiese espressamente di cestinare la relazione di servizio che aveva redatto insieme a Nicolardi, e lo stesso Mandolini gli avrebbe dettato la nuova relazione dove si dichiara che Cucchi dava in escandescenze. A margine della nuova stesura una nota a mano: «Bravi!». La prima relazione Speranza non la cestina e la tiene per sicurezza. «A me è stato chiesto di farla, un maresciallo me lo ha chiesto e io ho obbedito». In quei giorni fu convocato anche dal comandante di compagnia Unali per relazionarlo sul caso ma oggi è vago non ricorda nemmeno quell’incontro e chi altro fosse con lui. Quando Fabio Anselmo, e gli altri legali di parte civile, gli chiederanno perché nella prima inchiesta non ha deposto sulla prima nota da “cestinare”, con fatica dirà di averci pensato solo dopo l’inizio della seconda inchiesta. «Ero in servizio da due mesi, ero giovane e inesperto e mi fidai di Mandolini e Nicolardi che erano più anziani e più esperti di me» afferma ora il militare dell’Arma che all’epoca, dice, non sapeva nemmeno cosa volesse dire “dare in escandescenze”.

E si torna a parlare del corpo di Stefano davanti ai genitori e alla sorella Ilaria, visibilmente commossi. Sul corpo di Stefano «sicuramente c’erano due fratture vertebrali» a livello lombo-sacrale, entrambe «recenti» e «contemporanee», ha spiegato alla corte Carlo Masciocchi, professore ordinario di Radiologia dell’Università di L’Aquila ed ex presidente della Società italiana di Radiologia medica, sentito oggi nel processo. Masciocchi nel 2015 fu autore di una consulenza tecnica per conto dell’avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile, poi confluita agli atti dell’odierno processo, dove appunto rilevava la presenza delle fratture. Tant’è che oggi è stato sentito in aula, dopo essere stato chiamato a chiarimenti dal pm Giovanni Musarò. «Nel giugno 2015 – ha detto Masciocchi – l’avvocato Anselmo mi chiese la disponibilità a visionare del materiale radiografico su Cd». Quale il contenuto? «Una lastra di colonna vertebrale dell’Ospedale Fatebenefratelli in formato jpeg; immagini Tac total body multistrato eseguita circa 40 giorni dopo la riesumazione; immagini con tecnica Cone Beam, una sorta di panoramica sofisticata. Sicuramente c’erano due fratture vertebrali, una del corpo S4 (quarta vertebra sacrale) e l’altra nel corpo L3 (terza vertebra lombare). La frattura S4 certamente si trattava di una frattura recente, e, quando dico recente, intendo una frattura prodotta in un arco temporale stimabile in massimo 7-15 giorni; la frattura L3 si tratta anch’essa di una frattura recente. Morfologicamente può affermarsi che sono contemporanee, prodotte da un unico evento traumatico». Un calcio, la caduta e un altro calcio, come ipotizza Anselmo? «Possibilissimo». Subito dopo, il professore Masciocchi ha puntualizzato di avere «la forte sensazione che sia stato esaminato al tempo solo un tratto di colonna vertebrale e sezionato solo un tratto di L3».

Intanto, la pista di Musarò, punta in alto. Anche un generale è indagato per i depistaggi sulla morte di Stefano Cucchi. Il generale dell’Arma, Alessandro Casarsa potrebbe non essere l’unico alto papavero ed essere nel mirino degli inquirenti. Il nome di Casarsa compare nella lista testi depositata da un legale di parte offesa e sarebbe iscritto nel registro degli indagati per il reato di falso in atto pubblico. Casarsa, all’epoca dei fatti era comandante del Gruppo Roma, ed è stato tirato in ballo, anche nelle udienze degli ultimi mesi, nella vicenda delle manipolazioni di due relazioni di servizio sullo stato di salute del geometra arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto sette giorni dopo mentre si trovava detenuto presso il reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini. Nei giorni scorsi Casarsa, che fino ad un mese fa era a capo dei corazzieri in servizio presso il Quirinale, è stato ascoltato dai magistrati di piazzale Clodio e durante l’atto istruttorio ha respinto le accuse.

Nel filone sul depistaggio sono attualmente indagate una decina di persone tra ufficiali e sottoufficiali dei carabinieri. E nell’aula del tribunale di Roma, nei prossimi mesi, comparirà anche il generale Vittorio Tomasone, che figura nella lista testi dell’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. All’epoca dei fatti, Tomasone era il comandante provinciale e secondo alcuni testimoni ordinò le verifiche interne su quanto accaduto in caserma nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando venne arrestato il geometra romano.

Istruzioni per difendersi dagli abusi di questo tempo

Il viaggio inaugurale della nuova tratta della metro C di Roma 9 novembre 2014. Il logo del Comune di Roma sul vagone della nuova metro.

Dall’ultima settimana di novembre anche il 409 è diventato spesso teatro di controlli mirati, come racconta Stefania di Link Roma che si è trovata a subire ispezioni della sua borsa più volte nell’arco di poche settimane: «Inizialmente i controlli riguardavano soltanto gli uomini di colore, ma poi si sono estesi anche alle donne, di ogni età. Spesso a salire sull’autobus sono due agenti in divisa, ma altre volte sono arrivati in sette, altre volte in borghese, mostrando il distintivo e chiedendo di aprire le borse. Il resto della popolazione dell’autobus ti guarda fisso cercando di capire se ti porteranno via o ti lasceranno lì.  Una signora l’ultima volta che è successo mi ha chiesto perché stesse succedendo solo a noi, e le ho risposto: “Niente di grave signora, sono solo negra, non si preoccupi, questo qui non lo sapeva che non ho niente, gli altri ormai mi conoscono tutti, mi hanno già controllata più volte”».

26 Gennaio, Francesco Armenio, studente: «Scendo dal tram a porta Maggiore. Alla fermata ci sono sei poliziotti che salgono e iniziano a fare controlli. Il criterio è semplice: i bianchi vengono lasciati stare, ai neri vengono chiesti i documenti e, se hanno una borsa, viene perquisita. Un ragazzo viene fatto scendere e identificato. Alla mia richiesta di spiegazioni mi viene prima chiesto di allontanarmi, poi, visto il mio rifiuto, mi viene detto che “ogni extracomunitario che transita per porta Maggiore è passibile di sospetto”. Alle mie proteste per l’affermazione evidentemente razzista vengo prima a mia volta identificato e poi minacciato di denuncia per aver detto che stanno contribuendo al clima di razzismo nel paese. A quanto pare, avendo detto che obbediscono agli ordini di un ministro razzista, avrei “usurpato (sic!) un’alta carica dello Stato”. Il ragazzo è stato lasciato andare insieme a me. Non hanno trovato nessun motivo per trattenerlo, altra dimostrazione che il controllo fosse assolutamente ingiustificato, e dettato solo dal colore della pelle. Ciononostante uno dei solerti agenti non ha potuto fare a meno di dirgli con fare minaccioso di “stare attento” a quello che fa e di comportarsi bene perché “in Italia ora funziona così”. Questo è il clima che si respira in questa città, ed è insopportabile. Io però mi sono stancato di starmene zitto e buono».

La storia di Nadia: «Sono Nehad Awad, ho 26 anni e sono una studentessa e mediatrice culturale. Sono nata e cresciuta in Italia ma, nella percezione altrui, resto comunque straniera. Nella mia vita, diverse volte mi sono trovata ad essere oggetto di battute a sfondo razziale. Tutti i giorni, nella mia attività di mediatrice, mi trovo a confrontarmi con migranti che subiscono violente discriminazioni e vessazioni. Il razzismo esiste e lo si percepisce ad ogni angolo e molto spesso a mettere in campo pratiche discriminatorie sono proprio le forze dell’ordine. Solo, per fare qualche esempio, nell’arco dell’ultimo mese, a Roma Est, mi è capitato di assistere a tre diverse, discutibili, operazioni di polizia. La prima, sulla Prenestina, a danno di due ragazzi di colore che stavano tranquillamente aspettando il 412 seduti sulla panchina della fermata. Sono stati avvicinati da due agenti in divisa che, prima, hanno chiesto loro i documenti e successivamente hanno ispezionato i loro zaini. Non trovando nulla. Una settimana fa, invece, stavo sul Tram 14; a piazzale Prenestino salgono due agenti in divisa che cominciano ad ispezionare, senza identificare, le borse di tutte le persone di colore presenti. Era interessante notare come le forze dell’ordine si soffermassero solo sui “negri”, donne e uomini indipendentemente dall’età. I “bianchi” non erano minimamente toccati dai controlli. Mi sono “permessa” di chiedere agli agenti il perché di quella operazione apertamente discriminatoria, mi hanno risposto che non era di mia competenza e che se avessi continuato mi avrebbero portato in commissariato. Infine, tre giorni fa, salgo nella metro C a Gardenie, vicino a me era presente una famiglia senegalese composta da madre, padre e due bambini di 5 e 3 anni. Un agente delle security ha chiesto loro, dentro il vagone, i biglietti della metro. Ancora una volta, bisogna precisare che i biglietti sono stati chiesti solo a questa famiglia e non al resto dei presenti. In realtà la famiglia aveva un regolare abbonamento che ha fatto visionare all’agente security, quest’ultimo però non contento ha scortato la famiglia all’uscita della metro Malatesta, conducendola dinanzi a dei militari che hanno controllato la regolarità dei documenti. La famiglia aveva tutto in regola, tanto che alla fine gli agenti sono stati “costretti” a lasciarli andare».

Ma è legale tutto questo? Sì e no.

Le ispezioni e le perquisizioni compiute dalle forze dell’ordine in violazione delle norme che le regolano, possono integrare il reato di “Perquisizione e ispezione personali arbitrarie” punito dall’art.609 del Codice penale, che comporta la reclusione fino ad un anno per il pubblico ufficiale che esegue una perquisizione o un’ispezione personale “abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni”, pertanto puoi denunciarlo. C’è un sito, da cui abbiamo raccolto tutte queste storie, che è Alterego – Fabbrica dei diritti ed è merce rarissima in tempi di quest’aria avvelenata. Sono eroici. Davvero, eroici. E informati. E sempre disponibili a informare.

Non subite. Non tacete.

Buon venerdì.

Cogne, la follia della porta accanto

Vi proponiamo l’articolo di Simona Maggiorelli pubblicato su Avvenimenti il 20 marzo 2002

Cogne, un’apparente normalità, una villetta in montagna, una famiglia tranquilla e poi, d’improvviso un omicidio così efferato come quello del piccolo Samuele. Un anno fa il caso di Erika di cui di recente si è tornati a discutere in tv e in un denso convegno organizzato dall’Università di Chieti a cui hanno preso parte psichiatri, criminologi, avvocati e seguito da migliaia di persone, fra pubblico e studenti. A parlare di psichiatria e diritto nella città abruzzese c’era anche lo psichiatra e docente universitario Massimo Fagioli, autore di libri fondamentali per la ricerca psichiatrica, fondatore della scuola romana di psichiatria e psicoterapia. A lui, dopo aver saputo che la madre di Samuele è stata incriminata, Avvenimenti ha chiesto lumi di approfondimento su sanità e malattia mentale, cosa potrebbe nascondere questa tranquillità borghese della famiglia Lorenzi.

Professor Fagioli che cosa emerge in termini psichiatrici da questo caso di Cogne, se le accuse alla madre di Samuele saranno provate?
«Viene fuori quello che abbiamo sostenuto tante altre volte. In particolare nel 1995 quando a Firenze una madre improvvisamente salì le scale e buttò il figlio dalla finestra. Anche lì si parlò di “raptus”. Nel settembre scorso, per citare un altro caso, c’è stato quello che d’improvviso ha sparato alla famiglia, ha ucciso la moglie. Anche lì si diceva una persona normale, forse un uomo un po’ chiuso, ma una bravissima persona. E poi ancora c’è il caso di Erika e quello del ragazzo di Sesto San Giovanni che ha preso un coltellino e, d’improvviso, ha tagliato la gola alla ragazza. Allora evidentemente c’è qualcosa di grosso da indagare. Bisogna mettere in discussione questa normalità. Di questo ci siamo occupati in otto ore di convegno a Chieti, andando a ripescare anche storie più vecchie, facendo dei nessi con casi come quello di Pierre Riviére, un ragazzo che più di centocinquant’anni fa uccise il padre».

Tutti casi in cui gli assassini non avevano dato fin lì nessun segno di malattia a livello di comportamento…
«È questo il punto. Non si tratta di persone, che so, che hanno dato pubblicamente in escandescenza, per cui a un certo momento si chiama il 118 e si fa un trattamento sanitario obbligatorio, quello che oggi si chiama un Spdc. Bisogna cercare più a fondo. Qui si parla di persone che hanno un rapporto ordinato con l’organizzazione sociale e con le cose. Hanno un rapporto lucido, preciso con la realtà materiale, ma quello che manca totalmente è il rapporto con l’umano. Per cui al limite un bambino è come un vestito vecchio che mi ha stufato e di cui mi sbarazzo. Per questo arrivano a questi livelli di efferatezza. In questi casi parliamo di schizoidia, di persone fredde, lucide, razionali, che non percepiscono il significato emotivo di un gesto come uccidere un bambino».

Sono casi di schizofrenia in cui il malato è in grado di occultare il suo nucleo di grave malattia, al limite di essere anche camaleontico come, supponiamo solamente, potrebbe essere avvenuto per la madre di Cogne che nelle interviste, nelle dichiarazioni, sembra ritagliarsi un ruolo di vittima.
«Su questo sono interessanti le dichiarazioni dei vicini: “Non è più lei”, “è alterata, non è più come prima”. È quello che si sente dire quando la malattia esplode, si manifesta in maniera conclamata».

Ma perché a Cogne, come a Novi Ligure, per lungo tempo il paese ha teso a negare. In entrambi i casi è come se un’intera comunità si fosse come accecata di fronte alla violenza a un caso di psicosi?
«È il discorso che facevamo prima, non riescono a accettare che dietro a una società ordinata e perfetta come può essere quella di Aosta, in cui tutto è a posto, l’autobus è puntuale, ci sia una tale sterilità, questa totale anaffettività nel rapporto interumano».

C’è un nesso fra questo tipo di patologia e un contesto religioso? Il nonno di Samuale dice che il bambino ucciso è diventato un angelo del cielo solo per fare un esempio.
«Nove volte su dieci in questi casi c’è dietro un delirio, per cui il bambino sarebbe il diavolo o cose del genere».

Mi ha colpito anche un’affermazione del suocero di Annamaria che dice: “Non è stata lei, qualcuno ha scritto che a Cogne è ricomparso il diavolo e credo che davvero ci sia accaduto qualcosa di sinistro”.
«Sono discorsi che fanno tornare al medioevo, di negazione della malattia mentale. La malattia mentale non esisterebbe e in questo modo neanche la cura e la possibilità di guarire».

Per ora nel caso della madre di Samuele si tratta solo di carcerazione preventiva. Ma lo abbiamo visto con chiarezza nel caso di Erika come giudice e psichiatra possano rischiare di confondere i propri ruoli. Come può uno psichiatra chiamato a fare una perizia non tramutarsi in giudice?
«In linea teorica potrebbe rifiutarsi, ma il punto è un altro. È che il compito di un giudice è quello di giudicare e punire, quello di uno psichiatra di fare una diagnosi e di curare. Non ci deve essere confusione fra queste due diverse e distinte identità».

Una formulazione come “capace d’intendere e di volere” usata per l’imputazione è valida in questi casi?
«È una formulazione che dice poco. Il volere, può essere un volere razionale di mangiare o di bere, ma ritorniamo qui. In casi come quello di Erika, per esempio, da un punto di vista psichiatrico non bisogna analizzare solo il comportamento, il pensiero razionale di rapporto con le cose. Quello funziona benissimo. Erika è stato detto è sempre stata una persona puntuale, con un rispetto formale assoluto delle regole sociali».

Se diceva di tornare alle 19,30 a quell’ora era puntualmente già in casa, ha raccontato il padre di Erika.
«Già, il rapporto con le cose funzionava perfettamente. La ricerca deve essere fatta a livello più profondo, è a livello inconscio di rapporto con l’umano che le cose non andavano».

Erika adesso è in carcere, e si dice che non abbia adeguate cure psichiatriche. E più in là, proprio al convegno di Chieti, il criminologo Francesco Bruno ha detto che nelle carceri italiane ci sono almeno 5 mila psicotici…
«Il confine fra delinquenza e malattia mentale spesso è una zona di transizione, non è sempre facile distinguere. Esistono omicidi di mafia, omicidi di guerra e questi sono una cosa, possono essere legati a specifici contesti. Altra cosa sono questi omicidi freddi, con livelli di efferatezza come questo di Cogne. Ma pur facendo tutti i dovuti distinguo, quando una persona arriva ad uccidere un altro essere umano, io penso, il cervello completamente a posto non ce l’ha».

La carica degli sfruttati

A rider working for the food delivery company Deliveroo piles up his delivery bag with others in front of the company's offices in Bordeaux, southwestern France, on August 28, 2017, during a protest to complain about changes to their pay. More than a hundred cyclists who deliver food from restaurants in the cities of Paris, Bordeaux, Nantes and Lyon demonstrated on August 27, with another round of protests planned for August 28, including at the group's Paris offices. Britain's Deliveroo has switched all its riders from August 27 to the same contract in which they are paid per delivery -- between 5.0-5.75 euros -- rather than an hourly rate. / AFP PHOTO / GEORGES GOBET (Photo credit should read GEORGES GOBET/AFP/Getty Images)

«Finché non sono rimasta incinta». Claudia ripete queste parole ancora incredula per quello che ha vissuto a soli 25 anni. Dopo anni di sacrifici e di stage, aveva firmato un contratto a tempo indeterminato in un negozio di abbigliamento a Roma. Pensava che la sua vita fosse definita e, invece, una volta tornata dalla maternità è cominciato l’inferno: «Non avevo più diritto a nulla, a giorni liberi o a riposi». La ragione? «Mi dicevano che già avevo fatto molte assenze. Le stesse ore di allattamento erano diventate a discrezione della mia azienda e non in base alle esigenze del mio bambino. Ho provato a resistere, ma dopo tre mesi sono andata via».

Ad Alessandra è andata forse anche peggio: «Comincio a lavorare in un centro commerciale, ma dopo pochi mesi mi accorgo che l’ambiente non è sano. Pretendono ore di straordinario gratis, orari assurdi, e quando ad agosto mi sposo mi concedono solo pochi giorni. Con la busta paga, a settembre, scopro perfino che l’assenza era stata indicata come ferie, e non come congedo matrimoniale». Ma non è finita: «Il secondo rinnovo va dal 31 agosto al 30 novembre. Ad ottobre mio padre viene ricoverato. Deve subire un’operazione complessa, quando non lavoro sono in ospedale da lui, di notte non dormo per la preoccupazione, mangio male, al lavoro sono stanca e prendo un po’ di peso». Il 29 novembre le dicono che il suo impiego non verrà rinnovato perché «sospettano che io sia incinta». E allora? «Mi chiedono un test di gravidanza per farmi eventualmente un ulteriore mese di contratto».

Sembrano storie incredibili, invece sono la realtà. Lo sa bene Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas e punto di riferimento per i tanti sfruttati in campo lavorativo. «I ragazzi in Italia non hanno più futuro – commenta Iacovone -, se non una schiavitù quasi regolarizzata dall’inesistenza di controlli». Come nel caso della gig economy. Alle porte di Piacenza c’è il centro di smistamento Amazon più grande d’Europa, dove a decidere la vita lavorativa di ogni dipendente è un algoritmo. «Siamo automi», spiega…

L’inchiesta di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola dall’8 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Chiesa e pedofilia: rivedere Concordato e obbligo di denuncia per i vescovi, ecco le raccomandazioni dell’Onu all’Italia

Come per primi avevamo anticipato a giugno 2018 (e tuttora Left è stata l’unica testata giornalistica in Italia ad aver documentato costantemente l’evoluzione del caso), il 22-23 gennaio scorso a Ginevra si è svolto il confronto tra il governo italiano e il Comitato Onu dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in merito al rispetto da parte dello Stato italiano della relativa Convenzione ratificata nel 1989. L’Italia è stata chiamata a rispondere di pesanti accuse di negligenza nella gestione, prevenzione, controllo e giudizio in particolare dei casi di pedofilia clericale, mosse dall’associazione di vittime Rete L’Abuso. Tutto è iniziato lo scorso giugno, dopo un incontro a Ginevra con il funzionario dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, Gianni Magazzeni, al quale ha partecipato anche l’associazione internazionale ECA Global (presente in 18 paesi e 4 continenti di cui la Rete L’Abuso è uno dei membri fondatori). La Rete L’Abuso, coadiuvata dall’avvocato Mario Caligiuri, ha iniziato a documentare al Comitato di Ginevra “responsabile” della Convenzione per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza le gravi lacune che di fatto in Italia permettono l’impunità dei membri del clero. Nel pomeriggio di giovedì 7 febbraio 2019 sono state pubblicate dal Comitato Onu le Conclusioni di cui l’Italia dovrà rispondere quanto prima. Ecco una sintesi tradotta in italiano (a cura di Rete L’Abuso):

Il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza è preoccupato per i numerosi casi di bambini vittime di abusi sessuali da parte di personale religioso della Chiesa cattolica nel territorio dello Stato italiano e per il basso numero di indagini e criminali azioni penali da parte della magistratura italiana.

Con riferimento alle sue precedenti raccomandazioni (CRC / C / ITA / CO / 3-4, par. 75) e commento generale n. 13 (2011) sul diritto del bambino alla libertà e contro tutte le forme di violenza nei suoi confronti e prendendo atto dell’obiettivo 16.2 dello sviluppo sostenibile degli obiettivi, il Comitato raccomanda all’Italia di:

(a) Adottare, con il coinvolgimento attivo dei bambini, un nuovo piano nazionale per prevenire e combattere l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei bambini e assicurarne l’uniforme implementazione su tutto il suo territorio e a tutti i livelli di governo;

(b) Istituire una commissione d’inchiesta indipendente e imparziale da esaminare tutti i casi di abuso sessuale di bambini da parte di personale religioso della Chiesa cattolica;

(c) Garantire l’indagine trasparente ed efficace di tutti i casi di violenza sessuale presumibilmente commessi da personale religioso della chiesa cattolica, il perseguimento dei presunti autori, l’adeguata punizione penale di coloro che sono stati giudicati colpevoli, e il risarcimento e la “riabilitazione” psichica delle vittime minorenni, comprese coloro che sono diventate adulte;

(d) Stabilire canali sensibili ai bambini, per i bambini e altri, per riferire sulle violenze subite;

(e) Proteggere i bambini da ulteriori abusi, tra l’altro assicurando che alle persone condannate per abuso di minori sia impedito e dissuaso il contatto con i bambini, in particolare a livello professionale;

(f) Intraprendere tutti gli sforzi nei confronti della Santa Sede per rimuovere gli ostacoli all’efficacia dei procedimenti penali contro il personale religioso della Chiesa cattolica sospettato di violenza su minori, in particolare nei Patti lateranensi rivisti nel 1985, per combattere l’impunità per tali atti;

(g) Rendere obbligatorio per tutti, anche per il personale religioso della Chiesa cattolica, la segnalazione di qualsiasi caso di presunta violenza su minori alle autorità competenti dello Stato italiano;

(h) Modificare la legislazione che attua la Convenzione di Lanzarote in modo da garantire che non escluda il volontariato, compreso il personale religioso della Chiesa cattolica, dai suoi strumenti di prevenzione e protezione.

In merito alla violenza di genere.

22. Il Comitato attira l’attenzione dello Stato italiano sull’obiettivo 5.2 degli Obiettivi di sviluppo e lo sollecita a:

(a) Garantire che le accuse di crimini legati alla violenza di genere, compresa la tratta di bambini stranieri, in particolare le ragazze, siano accuratamente indagate e che i responsabili siano consegnati alla giustizia;

(b) Fornire regolari corsi di formazione per giudici, avvocati, procuratori, i polizia e altri gruppi professionali pertinenti su procedure standardizzate, di genere e di allerta per i minori per quanto riguarda le vittime e su come gli stereotipi di genere da parte il sistema giudiziario influisca negativamente sulla rigorosa applicazione della legge;

  1. Garantire la “riabilitazione” dei minori vittime di violenze di genere.

Link al documento originale

La scommessa di Landini

Il segretario confederale della Cgil Maurizio Landini durante l'assemblea Nazionale della CGIL "Cgil del futuro" verso il XVII congresso, Roma, 08 gennaio 2019. ANSA/ANGELO CARCONI

L’Italia non è un Paese per lavoratori. Specie se giovani. I giovani italiani costretti ad emigrare ogni anno per cercare un lavoro all’estero sono molti più degli immigrati che approdano nella penisola dove sono costretti ad accettare lavori massacranti, senza diritti, per pochi spicci.

Nonostante il tanto sbandierato reddito di cittadinanza che ancora nei fatti non c’è (per adesso abbiamo solo il portale) la realtà che le nuove generazioni si trovano ad affrontare, specie al Sud, è fatta di disoccupazione, lavoretti, lavoro povero, precario, a chiamata, senza alcuna possibilità di organizzare il poco tempo libero, dovendo sacrificare gli affetti, le relazioni, le esigenze di realizzazione di sé. All’epoca della gig economy, che comprime il costo del lavoro e le tutele, lavorare è tornato ad essere un inferno. Nel medioevo cristiano era imposto dalla condanna biblica: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», e tu donna «partorirai con dolore». Nella attuale società secolarizzata a renderlo un inferno è il dogma del neoliberismo, è la religione del profitto a tutti i costi e a vantaggio di pochi (come documenta anche il rapporto Oxfam). È la legge del capitalismo a cui la religione protestante ha offerto supporto ideologico come ha scritto Max Weber.

Dalla Cgil guidata da Maurizio Landini, che il 9 febbraio scende in piazza insieme a Cisl e Uil, certo non ci aspettiamo una rivoluzione anti capitalista, ma di sicuro ci aspettiamo che lotti concretamente contro le disuguaglianze, per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, per chi il lavoro non ce l’ha. La speranza in questa situazione di afasia dell’opposizione è che il sindacato non si impegni solo sul piano della contrattazione ma che dia un serio contributo per ripensare il mondo del lavoro e il modello di sviluppo, mettendo al centro donne e uomini in carne ed ossa, nella loro complessità di esseri umani e non solo come forza lavoro. Dalla sua relazione al congresso di Bari e da tutte le interviste che il neo segretario generale Cgil ha rilasciato fin qui, come dall’intervista alla sua vice Gianna Fracassi in questo sfoglio, traspare l’idea di un sindacato soggetto attivo sulla scena politica, sganciato dai partiti, ma in cerca di una interlocuzione critica; balena l’immagine di una Cgil che non accetta più di essere messa in un angolo dalla disintermediazione imposta da Renzi come da Salvini.

In tutte queste occasioni pubbliche Landini ha scandito le stesse parole chiave. Fra queste, alcune particolarmente importanti: democrazia partecipata, antifascismo, antirazzismo, lotta alle disuguaglianze, inclusione. «“Prima gli italiani” è uno slogan che distoglie dai problemi. Gli asili nido in Italia sono pochi, non perché ci sono gli stranieri, la precarietà nel lavoro non è colpa degli stranieri, l’evasione non è colpa degli stranieri, nemmeno la corruzione o la mancanza di lavoro sono colpa degli stranieri; la colpa è di scelte politiche sbagliate in questi anni, la colpa è di politiche che hanno messo al centro il mercato, il profitto, non le persone», ha detto Landini in tv intervistato da Formigli. Parole semplici, chiare, dirette.

Tralasciando, per ora, la questione dell’unità sindacale che poco ci convince (meglio la dialettica fra prospettive culturali e politiche molto diverse fra loro che l’unitarismo a tutto i costi) riconosciamo a Landini il coraggio di prospettare un’idea di sindacato non più ancella dei partiti, adattato ai sacrifici e alle compatibilità, ma che lavora per trasformare la società. Landini cita spesso Di Vittorio, figura carismatica che tenne testa a Togliatti con una netta presa di posizione della Cgil contro i carri armati sovietici in Ungheria. Figlio di braccianti, impegnò il sindacato nella lotta contro rapporti primitivi di dominio nel sud pre-industriale ma anche per il sapere e la conoscenza, pensando che la cultura fosse un potente strumento di riscatto.

Landini parla oggi di formazione continua dei lavoratori. Fondamentale anche come strumento di prevenzione per gli infortuni. I dati Istat ci dicono che le morti sul lavoro sono in aumento, specie fra gli under 20 senza una adeguata formazione e fra gli over 60, come leggerete nella nostra storia di copertina. In un Paese civile chi ha più di 60 anni ha il diritto di non dover andare a rischiare la vita nei cantieri. Ma tutti i recenti provvedimenti che hanno ridotto le tutele, Jobs act compreso, hanno reso il lavoro meno sicuro. E come raccontano le nostre inchieste anche il governo giallonero, lungi dall’introdurre politiche d’investimento, ha “risparmiato” sulla prevenzione. Ci aspettiamo che anche su questo la Cgil di Landini dia battaglia, ci auguriamo che non si accontenti di Quota 100 e di inefficaci e inconsistenti politiche assistenziali come il reddito di cittadinanza che su questo numero Giuseppe Allegri torna a criticare puntualmente, da sinistra. Ci aspettiamo che la Cgil di Landini non si dimentichi di lottare per l’abolizione della Fornero e per il ripristino dell’articolo 18 di cui non sentiamo più parlare.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dall’8 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Io, minacciata per aver raccontato in presa diretta cosa sta succedendo in Sudan

Sudanese protesters walk past garbage set on fire during an anti-government demonstration in the capital Khartoum's twin city of Omdurman on January 29, 2019. (Photo by - / AFP) (Photo credit should read -/AFP/Getty Images)

«Sei il nemico del Sudan. Non sei la benvenuta nel nostro Paese. Se non ci ascolterai e tornerai qui, te ne pentirai. Ma sarà troppo tardi». Poche parole, un testo chiaro: chiunque parli delle rivolte sudanesi è un nemico da abbattere.

A inviare questo messaggio un sedicente gruppo di Fratelli musulmani sudanesi che dopo aver letto del mio fermo in Sudan su un giornale in lingua araba ha pensato bene di minacciarmi per impedirmi di scrivere su quanto stia avvenendo nel Paese africano governato da Omar Hassan al Bashir, un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità e genocidio.

Partita la segnalazione alla Polizia postale, e senza voler sottovalutare la vicenda, continuo come sempre il mio lavoro senza arretrare di un passo. A cominciare dal racconto dell’ultima vita spezzata dagli aguzzini del regime di Bashir, gli agenti del Niss.

Ahmed al-Khair Awad al-Karim, era stato arrestato il 1 febbraio dopo aver partecipato a una manifestazione pacifica a Gedaref. Nessuno sapeva dove fosse stato portato e di cosa fosse accusato. Dopo 48 ore di detenzione nelle mani dei servizi di sicurezza nella sede di Khashm al-Qurba, il fratello Saad lo ha rivisto all’obitorio. Sul suo corpo segni di torture: dalla testa alle spalle, dai reni alle gambe. Ma anche di una violenza ancora più infame per un credente musulmano, lo stupro.

Ahmed è l’ennesima vittima delle proteste in Sudan. Ormai sono oltre 50 i morti, ma il governo ne ammette solo la metà, e continuano gli arresti nonostante le autorità sudanesi avessero garantito il rilancio di tutti i dimostranti fermati dall’inizio delle dimostrazioni. L’ultima retata ha interessato la categoria degli avvocati. In 30, tra cui molti difensori dei diritti umani, sono stati arrestati nel sobborgo di Riyad, nella capitale Khartoum, il 31 gennaio durante un incontro per discutere su come suddividere il carico di lavoro per fornire assistenza legale ai manifestanti pacifici vittime di repressioni e abusi da parte del governo sudanese.

Sul fronte politico qualcosa, invece, sta cambiando. Le dichiarazioni del ministro della Difesa Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf, secondo il quale i giovani coinvolti nelle proteste in Sudan hanno «ragionevoli ambizioni» e «la situazione di crisi nel Paese ha mostrato una spaccatura con gli anziani che richiede una comunicazione intergenerazionale e soluzioni eque ai problemi per soddisfare le aspettative delle nuove generazioni» evidenziano come gli equilibri governativi stiano subendo qualche scossone.

Per la prima volta un esponente autorevole del National congress party prende una posizione che si dissocia da quanto espresso finora dal presidente Bashir e riconosce che le proteste indichino «un necessario rimodellamento di entità politiche e partiti con una mentalità diversa rispetto a prima». Seppure le dichiarazioni siano giunte nel giorno in cui la polizia ha nuovamente disperso centinaia di manifestanti pacifici sia a Khartoum che a Omdurman, rappresentano un cambio di atteggiamento. Almeno a parole.

Le proteste hanno assunto con il passare del tempo i connotati di una sommossa contro il presidente, arrivato al potere con un golpe nel 1989. Bashir finora ha sempre respinto la richiesta di dimissioni, puntando il dito contro «i traditori e gli agenti stranieri» che complottano contro il Sudan. Va però evidenziato come nelle ultime ore il presidente si sia lasciato andare a dichiarazioni di apertura verso chi oggi lo contesta, dicendosi pronto a cambiare le leggi repressive che hanno portato all’abuso della violenza da parte delle forze di sicurezza. Come se l’ordine di sparare sulla folla non fosse partito da lui. Intanto ha ribadito la sua intenzione di ricandidarsi alle elezioni presidenziali previste il prossimo anno.

Ma l’Alleanza 2020, ombrello politico che racchiude alcuni partiti dell’opposizione sudanese che hanno partecipato al dialogo nazionale guidato dal governo, continua a sollecitare l’ex generale a fare un passo indietro. Con un documento inviato al presidente del Parlamento Ibrahim Ahmed Omer, la coalizione chiede di non modificare la Costituzione per consentire all’attuale presidente di correre per un terzo mandato e di mettere in pratica i risultati della Conferenza di dialogo nazionale, in particolare nei settori relativi alla lotta alla corruzione e alle libertà politiche.

A fronte dell’autorevolezza della richiesta le chances che Bashir si ritiri appaiono comunque limitate. Lo scorso agosto il Partito del Congresso nazionale ha modificato il proprio statuto permettendo a Bashir di essere eletto per la terza volta alla guida del partito, mossa interpretata come preludio alla modifica della Carta costituzionale. Nessuna sorpresa, dunque, quando a dicembre un gruppo di parlamentari sudanesi, in rappresentanza di 33 partiti, hanno presentato una proposta di legge ad hoc per modificare i dettami della Costituzione relativi all’elezione del presidente.