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Il mercato delle figurine

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (D) con il ministro per gli Affari europei Paolo Savona (S) durante le comunicazioni alla Camera in vista del Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre a Bruxelles, Roma, 11 dicembre 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Savona alla Consob. Vi stupisce? Ma va. Quando un partito (ma vale anche per un governo, un movimento culturale o una coalizione) soffre di mancanza di classe dirigente perché si è completamente costruita su simboli, idoli e uomini-metafore da dare in pasto alla stampa è normale che poi i nomi che girino e rigirino siano sempre gli stessi. Che Savona sia ministro o presidente della Consob poco cambia. Non è il ruolo: basta che ci sia, che sia esposto in bella vista e che soddisfi gli stomaci dei fans.

Peccato che Savona alla Consob violi più di una di quelle regole che il Movimento 5 stelle ha tanto voluto in nome della meritocrazia, dell’onestà e della trasparenza.

Viola la legge Frattini (siamo nel 2004) che regola il conflitto d’interessi. È quella legge che impedisce a chi ha ricoperto un incarico di governo di ricoprire un ruolo dirigenziale pubblico senza che sia passato nemmeno un anno. Era stata pensata per mettere un freno ai tanti trombati che poi venivano regolarmente parcheggiati. E invece, niente.

La seconda legge violata è la Madia, siamo nel 2014, che stabilisce che i pensionati, come lo è Savona, non possono ricoprire incarichi dirigenziali dentro alcune amministrazioni pubbliche tra cui si cita, indovinate un po’, la Consob. Tutto bene? Non è finita qui.

La terza ragione di incompatibilità è che l’ex ministro è tuttora socio di Euklid, un fondo speculativo con sede Londra del quale era presidente fino a poco prima della nomina a ministro. Quelli dicono comunque che si tratta di un fondo londinese e dobbiamo stare tranquilli.

C’è altro: Paolo Savona, in otto mesi da ministro per gli Affari europei, non ha mai partecipato a una riunione con altri ministri Affari europei o commissari a Bruxelles. Per questo probabilmente si è stufato subito.

Su quanto conti invece far crescere una classe dirigente per non rimanere attaccati ai vecchi dinosauri ne parliamo un’altra volta. A sinistra siamo maestri, in questo.

Buon giovedì.

A proposito di fake news: il senso (alterato) di Bergoglio per l’ateismo

«I mass media celebrano l’apertura papale all’islam, compiuta in un paese accusato da tante parti di violare i diritti umani più elementari. A leggere le dichiarazioni ufficiali, però, l’apertura è stata compiuta condannando non soltanto l’estremismo religioso (ma nomi non ne ha fatti, e gli Emirati non sono evidentemente stati ritenuti estremisti), ma attaccando anche “l’estremismo ateo e agnostico”, che contribuirebbe al rischio di una “terza guerra mondiale”. Nel suo hate speech, il papa non ha ovviamente portato un solo esempio di come atei e agnostici agiscano contro la pace mondiale. Gli ricordiamo che in nome dell’ateismo e dell’agnosticismo non è stata mai proclamata alcuna guerra, a differenza della religione – e di conflitti religiosi se ne stanno combattendo anche in questo preciso istante. Il ricorso alla menzogna è però una spia di quanto siano in difficoltà le religioni. Il futuro dell’umanità o sarà laico, o sarà orrendo. Quale sarà, dipenderà anche da noi».

Adele Orioli, segretaria dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar), commenta così il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” diffuso in occasione del viaggio apostolico di Bergoglio negli Emirati Arabi Uniti. Nel documento il papa ha parlato del «vortice dell’estremismo ateo e agnostico» che, a detta del pontefice, come l’integralismo religioso, l’estremismo e il fondamentalismo cieco (come se ne esistesse uno “non cieco”), porta le «persone ad arrendersi a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva».

«Il papa sembra dimenticare che atei e agnostici sono in realtà vittime di persecuzioni in diverse parti del mondo», continua la segreteria dell’Uaar. «71 sono infatti i paesi che prevedono restrizioni legali all’espressione della propria blasfemia: in 18 è prevista una multa, in 46 la prigione, in 7 la condanna a morte (Afghanistan, Iran, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita e Somalia). 18 sono invece i paesi che criminalizzano l’apostasia: in 6 è punibile con la prigione (Bahrein, Brunei, Comore, Gambia, Kuwait, Oman) e in 12 con la pena di morte (Afghanistan, Iran, Malaysia, Maldive, Mauritania, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Yemen). Inoltre, la maggior parte di questi 12 paesi spesso considera la blasfemia come prova di apostasia».

«Ma Bergoglio è in buona compagnia», prosegue Orioli: «Basti pensare che l’ultima Legge di bilancio del governo all’art. 1 comma 287 stabilisce l’istituzione di fondo destinato a sostenere le minoranze perseguitate nelle aree di crisi. Peccato però che lo faccia limitando questo provvedimento alle minoranze cristiane…».

«Le parole del papa dimostrano ancora una volta quanto lontana sia la possibilità di un vero dialogo e come costante sia la ricerca di un nemico immaginario, di una divisione tra un “noi” e un “loro”. D’altronde il divide et impera ha sempre fatto scuola…».

Di Maio, Di Battista e quell’incontro in Francia con i gilet gialli dalla storia molto ambigua

Magari non lo sa, Christophe Chalençon, che i Cinque stelle al governo, come un sol uomo, hanno votato il decreto Salvini che, oltre a complicare la vita drammaticamente ai rifugiati e ai richiedenti asilo, equipara il blocco stradale al sequestro di persona. Christophe Chalençon è un gilet giallo e quelli come lui, in Italia, rischierebbero da 2 a 12 anni di galera. Ma per una poltrona a Bruxelles può anche capitare che in un albergo dell’hinterland meridionale di Parigi, Luigi Di Maio incassi una bozza di accordo con Chalençon, leader dell’ala “dura”, o forse ambigua, del movimento transalpino (per dare un’idea del personaggio, è quello che a dicembre ha chiesto le dimissioni del governo e la nomina del generale de Villers, ex capo di stato maggiore, al suo posto) e, soprattutto, con quella parte dei gilet gialli che scenderà in campo – con la lista Ric (Ralliement d’initiative citoyenne) – il 26 maggio. È un accordo a metà, anche perché, al momento, Chalençon nega qualsiasi alleanza elettorale. Chalençon, che esclude al momento ogni ipotesi di alleanza: «È possibile? Per niente», dice, annunciando in ogni caso un nuovo vertice, stavolta in Italia: «Andremo presto a Roma».

L’accordo finto tra Di Maio e Chalençon
Ma a Dibba e Di Maio, per ora, basta. La prossima settimana, a Roma, l’incontro con la capolista Ingrid Lavavasseur potrebbe segnare un passo decisivo per la ratifica del manifesto comune lanciato dal M5s. Manifesto che, finora, raggruppa partiti minori di Paesi che porteranno a Strasburgo un numero comunque non cospicuo di europarlamentari. Ecco perché, nella strategia del M5s, l’accordo sia pur con una parte dei gilet gialli potrebbe fare da pivot in una campagna dove Di Maio è costretto a destreggiarsi tra socialisti, popolari e i sovranisti capeggiati dal suo alleato Matteo Salvini. L’incontro con Chalençon e con alcuni esponenti della lista Ric avviene con un vero e proprio blitz Oltralpe, lontano dalle telecamere, che Di Maio e Alessandro Di Battista organizzano in Francia con gli eurodeputati Ignazio Corrao, Fabio Massimo Castaldo e Tiziana Beghin. «Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi», esulta il vicepremier sottolineando le battaglie in comune con i gilet gialli: dall’ambiente alla democrazia diretta fino ai diritti sociali e al no alla Tav. Si tratta, invero, solo dell’ala guidata da Chalençon, 52enne fabbro di professione, considerato il leader dei “gilet gialli liberi” e teorico di una vera e propria guerra civile, con tanto di sostituzione dell’attuale ministro dell’Interno francese con un esponente militare. Poco dopo, non a caso, uno dei principali – e più noti – leader dei gilet gialli, Eric Drouet, disconosce qualsiasi «iniziativa politica» fatta a nome del movimento. E in serata lo stesso Chalençon, pur dicendosi d’accordo «su tutto» con Di Maio, frena su un patto per le Europee con il M5s. Anche se, spiega, Di Maio ci ha assicurato che «le liste del M5s saranno separate dalla Lega, e questo ci piace». Che l’accordo vada o meno a buon fine, la mossa del duo Di Maio-Dibba porta nel vivo il duello elettorale con la Lega. Un duello in cui la strada del MSs, incrociandosi con i gilet gialli, punta a drenare voti in Francia a Marine Le Pen e in Italia proprio a Salvini. Del resto, nel Movimento, c’è atmosfera da campagna elettorale. «Se riusciamo a consegnare fisicamente le card guadagneremo almeno 5 punti», osserva un parlamentare M5s in vista delle Regionali e delle Europee. In questo quadro, il nodo Tav e quello Diciotti fanno da convitati di pietra. Difficile che sulla Torino-Lione il M5s faccia ora dietrofront. L’obiettivo-tampone è rinviare la questione a dopo le Europee, con il consenso di Francia e Ue. Anche perché il rischio è che, se lo scontro perdurerà, si vada al voto in Aula per modificare il trattato Italia-Francia sulla Tav. Voto che sarebbe una sorta di bomba a orologeria sull’alleanza. E l’incrocio tra la tempistica della Tav e quella del voto in Giunta, e poi in Aula sul caso Diciotti, è ad alto rischio. «Si curi chi pensa ad uno scambio» tra i due dossier, avverte Matteo Salvini, tornando ad attaccare il M5s: stop a «insulti e supercazzole». Ma l’idea dello scambio, tra i 5 Stelle, serpeggia eccome. E se sulla Tav il Movimento non arretra si fa avanti l’idea del no all’autorizzazione a procedere: scelta che, secondo i sondaggi che girano nel M5s, non sarebbe poi così invisa alla base. E potrebbe essere affidata al referendum online.

Chalençon, se fosse italiano sarebbe leghista oppure grillino
Il Ralliement d’initiative citoyenne raggruppa solo una parte dei gilets gialli che ha deciso di presentarsi alle prossimi elezioni europee di maggio 2019. Il Ric è guidato da Ingrid Levavasseur, infermiera trentunenne della Normandia e da Chalençon, 53 anni, un fabbro originario dalla Provenza e un ex candidato alle legislative nel 2017 per il partito Génération citoyens (GC) guidato dal giornalista e eurodeputato Jean-Marie Cavada. A differenza di altri gilet, come Jacline Mouraud o Paul Marra che hanno creato movimenti politici ma che hanno scelto di non presentare alcuna lista alle Europee, o di Priscillia Ludosky ed Eric Drouet, considerati come elementi più radicali, il Ric invece è sceso in pista per la prossima tornata elettorale. L’iniziativa di Levavasseur, che prevede una selezione dei candidati attraverso il sito euroric.fr, è stata contestata anche da una parte del movimento complessivo che è contrario ad un movimento politico. «Non siamo apolitici. Noi siamo, diciamo all’avanguardia, quelli che si sono lanciati. Poi vedremo», sottolinea Levavasseur spiegando di «non essere né di estrema destra né di estrema sinistra» e di aver votato nel passato per i verdi. «Purtroppo alle ultime elezioni presidenziali ho votato Emmanuel Macron perché non volevo votare Marine Le Pen», la presidente del Rassemblement National, l’ex Front National. Secondo alcuni sondaggi un movimento dei gilets gialli alle elezioni europee potrebbe prendere intorno al 10-13%. Intanto Hayk Shahinyan, il direttore della campagna elettorale del Ric, un passato tra i giovani socialisti, ha già gettato la spugna appena cinque giorni dopo la discesa in campo. «La guerra civile è inevitabile», ha detto Chalençon in un video postato a dicembre, auspicando l’intervento dell’esercito per ristabilire il potere del popolo sovrano. «Faccio appello a monsieur Macron o, se non vuole piegarsi, ai militari». Parole che qui da noi potrebbe pronunciare solo un leghista, o un grillino visto che sul tema della democrazia le differenze fra i due soci di governo sono sempre più invisibili. Islamofobo, a giudicare da certi post, Chalençon tre anni fa si dichiarava del Front National per combattere il «flagello silenzioso» dell’immigrazione, lui che ha fatto affari in Tunisia e che i suoi stessi concittadini accusano sui social di essere un imprenditore truffaldino, lui che a dicembre chiedeva un incontro al governo per negoziare ma fu sconfessato dal movimento reale, lui che ha risposto all’appello del faccendiere di destra Bernard Tapie e ha lanciato il Ric con Ingrid Levavasseur. Lui che aveva provato a candidarsi con la lista di Macron, che non l’ha voluto, e allora è sceso in campo con Révolution Nationale, partitino già scomparso ma che mastica la trita trinità di Lavoro-Patria- Famiglia, come un Pillon qualsiasi, o un Borghezio, o un Di Maio, appunto.

La convergenza con i sindacati e la legge anti-casseurs
Tutto ciò proprio mentre nelle vie di Parigi andava in scena la prova di convergenza (a cui i Cinque stelle sono allergici) tra sindacati e gilet gialli: diverse decine di migliaia di persone hanno manifestato ieri in tutta la Francia, nel quadro delle proteste indette dal sindacato Cgt, ma anche – per la prima volta – con la partecipazione dei gilet gialli che fino ad ora avevano guardato alle sigle sociali con una certa diffidenza. Alla mobilitazione nazionale di 24 ore aderivano anche i syndicats Fo, Solidaires, France Insoumise. Altrettanti organismi fortemente orientati a gauche, per la prima volta in piazza ovunque con le casacche gialle. Per il segretario generale della Cgt, Philippe Martinez, questa prima giornata di convergenza delle lotte è certamente «un successo». Lo dimostra anche la chiusura per sciopero di un monumento simbolo del Paese, la Tour Eiffel. A Parigi, secondo il sindacato, sono state 30mila le persone scese in piazza, 18mila secondo la polizia. Tra le principali rivendicazioni, innalzamento dei salari, giustizia fiscale, opposizione alla riforma scolastica, aumento della retta degli studenti stranieri o difesa del servizio pubblico. Migliaia di persone in piazza anche in altre metropoli francesi come Marsiglia o Rouen. Mentre rallentamenti, blocchi e disagi si sono registrati ai quattro angoli della République. In totale, sono stati circa 160 gli avvisi di sciopero depositati, in particolare, nella funzione pubblica (Dgccrf), nei trasporti (come il gruppo Ratp che gestisce la metropolitana di Parigi o le ferrovie Sncf). Disagi, dal primo mattino, anche all’aeroporto di Nantes e blocchi nel porto di Le Havre. Sempre questa mattina, secondo France Info, diverse centinaia di militanti tra lavoratori e gilet gialli hanno bloccato, tra l’altro, i mercati generali di Rungis, alle porte della capitale. Oltre alle rivendicazioni sociali come innalzamento dei salari ed equità fiscale, alcuni sono sfilati per difendere «la libertà di manifestare». L’Assemblea Nazionale il 5 febbraio ha approvato in prima lettura la legge anti-casseurs, che attribuisce ai prefetti la possibilità di vietare le manifestazioni. Un provvedimento che spacca la stessa maggioranza presidenziale di Emmanuel Macron, passato con 387 voti favorevoli, 92 contrari e 74 astenuti. Un testo che avrebbe dovuto «essere buttato via nella sua interezza», ha detto martedì a Franceinfo Arié Alimi, avvocato del “barreau” di Parigi e membro della Lega per i diritti dell’uomo (LDH), «perché ogni disposizione è ultra-liberticida e cambia radicalmente l’equilibrio naturale e giuridico del diritto alla protesta in Francia. La prima cosa è proteggere il diritto alla protesta che è un diritto costituzionale. E poi dobbiamo permettere alle famiglie di tornare alle dimostrazioni. Questo testo aggrava solo il reato e la pena esistenti. Avere il volto completamente nascosto, ad esempio, è già proibito. Tuttavia, data la violenza dei dimostranti e delle forze dell’ordine oggi, dobbiamo proteggerci imperativamente, inclusi i gas lacrimogeni. Oggi sarebbe praticamente impossibile arrivare a un evento senza protezione sul volto».
La disposizione più preoccupante, per l’attivista per i diritti umani, è il daspo a persone che possono causare disturbi all’ordine pubblico. «Se una persona conosce un’altra persona che può causare disturbi nel corso di una manifestazione, il governo ha il diritto di proibire a quella prima persona di dimostrare. Inoltre, è il governo, non il giudice, che proibirà a quella persona di manifestare. E questa persona sarà schedata. Da oggi il governo ha l’opportunità di impedire ai suoi avversari politici di manifestare».

La storia di Nice, guerriera masai in lotta contro la mutilazione genitale

Nice_ph_Giulio Paletta

Nice Nailantei Leng’ete – operatrice di Amref health Africa, scelta dal Time nel 2018 tra le 100 persone più influenti al mondo – è in Italia per la giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili del 6 febbraio.
Giovane donna Masai, Nice ha sfidato le norme sociali di una comunità dominata dagli uomini, nel tentativo di porre fine alle mutilazioni genitali femminili. Dopo essere rimasta orfana, è sfuggita a soli nove anni al taglio, opponendosi con caparbietà alla volontà della sua famiglia, in particolare dei suoi zii. Da allora il suo impegno per mettere fine a questa pratica dannosa e violenta non si è mai arrestato.

Oggi, nel mondo, almeno 200 milioni di donne e bambine hanno subito le mutilazioni genitali femminili, 44 milioni hanno meno di 14 anni. Si tratta di un fenomeno diffuso principalmente in Africa, ma che coinvolge anche Asia ed Europa. Nel nostro continente si stima siano 550mila le donne vittime, in Italia sono tra le 60 e 80 mila. «Spero che la mia storia sia di incoraggiamento per tante altre bambine e ragazze, per camminare insieme verso l’obiettivo che il mondo si è dato, ossia mutilazioni zero entro il 2030» dichiara la keniana Nice, che lancia un messaggio forte contro l’indifferenza: «All’inizio ho dovuto lottare per la mia condizione, poi ho visto che c’erano altre bambine in pericolo come me. Mi sono detta che avrei dovuto combattere anche per loro. Quello non mi ha più fermato».

Sull’Africa afferma: «Conosciamo i drammi, le ingiustizie, le difficoltà che avvolgono il nostro continente, ma non possiamo fermarci e dare spazio allo sconforto. Ci sono molte ragazze, donne e giovani, che, come me, sono consapevoli che solo attraverso noi passerà il futuro dei Paesi africani. Nel nostro impegno, nel nostro coraggio, e nella fiducia del mondo intero c’è il futuro della mia e nostra Africa».

Numerosi i riconoscimenti a livello mondiale, i media che ne hanno parlato (New York Times, The Indipendent, Bbc, molti media italiani e di tutto il mondo) e tanti i leader che hanno conosciuto la sua storia. Tra questi Clinton, Obama e i reali di Spagna. Questi ultimi hanno conferito un recente premio ad Amref – Principessa delle Asturie.

https://www.facebook.com/amrefit.it/videos/239004890322660

Martedì 5 febbraio Nice è a Milano per raccontare la sua storia e confrontarsi con Diana De Marchi (presidente della Commissione Pari opportunità e diritti civili del Consiglio comunale di Milano), Manuela Brienza (assessorato alle Politiche sociali, salute e diritti del Comune di Milano), Maria Elena Viola (direttore di Elle), l’attrice Gianna Coletti e Paola Magni di Amref health Africa. L’evento si inserisce nel quadro delle iniziative in vista della mobilitazione nazionale del 2 marzo a Milano People, “Prima le persone”.

Il giorno dopo, il 6 febbraio, in occasione della Giornata mondiale “Tolleranza zero su mutilazioni genitali femminili” Nice sarà ospite presso il Parlamento europeo, a Bruxelles.  Sabato 9 febbraio alle ore 14.30, a Roma, Nice incontrerà le comunità africane presenti in città.

Ma non vi bastano nemmeno le minacce all’Anpi?

Un momento della manifestazione dell'Anpi a San Lorenzo, in piazza dell'Immacolata, per ricordare la morte di Desiree Mariottini, Roma, 27 ottobre 2018. ANSA/GIUSEPPE LAMI

L’ultimo nemico del ministro dell’Interno è l’Anpi. Sì, sì avete capito bene: l’Associazione nazionale partigiani d’Italia è considerata nemica del popolo italiano, addirittura negazionista e, dice Salvini, non merita i generosi contributi dello Stato.

A colpire l’Anpi, oltre a Salvini, ci pensa ovviamente Il Giornale che titola “Partigiani con i soldi pubblici: ecco gli incassi di Anpi & Co.” e si lancia in un delirante articolo in cui racconta di «Un’ambiguità che rende comprensibile le ire della Lega e dell’intero centrodestra: mentre l’assessore veneto Elena Donazzan chiede a Mattarella di “valutare lo scioglimento” dell’Anpi, il Carroccio punta a togliergli i (generosi) finanziamenti statali. “È necessario rivedere i contributi alle associazioni che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra”, ha detto il ministro dell’Interno. Apriti cielo».

E non solo: nella migliore tradizione di rimestamento di feci scambiato per giornalismo ci tiene a fare i conti in tasca alle associazioni antifasciste (del resto, non avete mai notato quanti ex partigiani sfrecciano per le nostre città con Ferrari e Rolex al polso?) parlando di «una galassia antifascista davvero variegata». Come se non fosse la Costituzione stessa, antifascista. Come se non fosse la nostra democrazia, antifascista. Come se non fosse, da sempre che il contrario del fascismo che vorrebbero restaurare non sia il comunismo ma piuttosto la democrazia.

Ora ci sarà qualcuno che ci spiegherà che la polemica con l’Anpi è un semplice diverbio. Cercheranno di minimizzare ben sapendo che i topi usciti dalle fogne invece in questi giorni stanno assistendo alla realizzazione dei loro sogni più reconditi.

Il 25 aprile 2016 il presidente Anpi disse: La Resistenza è stata sogno, sacrificio, utopie, vittorie, sconfitte, perdite; giorni belli e giorni difficili. Ma abbiamo resistito e abbiamo vinto. Dunque, vincere si può, anche approfittando di un giorno di festa, per trovare la gioia di stare insieme e provare, insieme, a costruire un futuro migliore: una società più giusta ed equa, dove ci sia più libertà, più uguaglianza, più lavoro, più dignità, per tutti. È un sogno? Ma i sogni si avverano se si sanno compiere le scelte e se si sa gettare tutti se stessi verso l’obiettivo. In fondo, è ciò che volevano i Resistenti, è ciò che volevano i nostri caduti. In loro nome e per i nostri giovani, prendiamo in mano il nostro futuro e rinnoviamo l’Italia, diffondiamo l’idea della pace, della solidarietà; e questo sarà il frutto migliore di un giorno come questo.

Ma non vi bastano nemmeno le minacce all’Anpi per accorgervi di questo tanfo?

Buon mercoledì.

Stadio della Roma, esultanza a 5stelle: la colata di cemento si farà

La sindaca di Roma Virginia Raggi in Campidoglio durante conferenza stampa sul progetto dello stadio di Tor di Valle, Roma 5 febbraio 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Dopo il parere positivo del Politecnico di Torino sembra ufficiale: «#lostadiosifa. In arrivo oltre un miliardo di euro di investimenti per la città». Il moVimento 5 Stelle Roma, partito che governa la Capitale, affida il proprio giubilo al social dei 240 caratteri. «Brava Virginia Raggi. E poi dicono che il M5s è contro le grandi opere. Avanti così!», risponde sul medesimo social il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Danilo Toninelli.

«Ho già scritto al presidente dell’assemblea capitolina De Vito – annuncia anche la sindaca – ci sarà un consiglio straordinario sullo stadio della Roma e sul parere del Politecnico». «L’amministrazione non è contro le grandi opere ma a favore delle opere che vanno a beneficio dei cittadini», continua Virginia Raggi presentando la relazione del Politecnico di Torino. «Un’ottima notizia per tutta la città». Il partito del cemento, insomma, è contento e pensa allo Stadio come «apripista a una nuova stagione di idee, progetti e lavoro ed anche ai tanti programmi urbanistici da tempo in istruttoria».

Ma il sì allo stadio «è un sì condizionato: cioè lo stadio va bene, ma prima vanno realizzate politiche che portino a un’offerta di mobilità plurimodale, che si aggiunga alla mobilità privata», ha voluto precisare Bruno Dalla Chiara, docente del Politecnico che ha realizzato lo studio per verificare l’impatto sulla mobilità dell’area prodotto dall’impianto.

Dopo una serie di annunci, ritardi burocratici, “contrattempi” di ogni sorta (l’ultimo dei quali ha portato all’arresto del palazzinaro Parnasi, proponente del progetto con la società Eurnova), James Pallotta, il presidente della As Roma, sente di essere a un passo dalla posa della prima pietra. Si tenga a mente che, nella speculazione originale di Tor di Valle la cubatura destinata all’impianto era soltanto il 14% di quella complessiva. Il resto era un diluvio di altri 800mila metri cubi di cemento che forma un “business-park” di uffici, centri commerciali, alberghi e tre enormi torri (la più alta è di 200 metri). La più grande colata di cemento in progettazione in Europa, l’ha definita l’urbanista Portoghesi (non certo un estremista). Il progetto è stato localizzato in un’area poco servita, verde, ma in stato di abbandono dopo la chiusura dell’ippodromo, con evidenti problemi di viabilità, raggiungibilità e rischi di esondazione. Allora perché proprio lì? Parnasi, indebitato fino al midollo con Unicredit, ha acquistato i terreni da una società fallita a prezzi da saldo e s’è offerto come location e “sviluppatore”. Unicredit vede in questa operazione la possibilità di rientrare dei debiti di Parnasi e tramite i suoi strettissimi rapporti con la proprietà di As Roma – di cui aveva finanziato il salvataggio – pilota e instrada la proposta a Pallotta, presidente della Roma ma soprattutto gestore negli USA di fondi di investimento e grande speculatore finanziario. La compagine dei proponenti avvia una trattativa con la giunta Marino che avvia la “contrattazione” urbanistica. Il Comune non ha un cent, così i proponenti si offrono “generosamente” di realizzar urbanizzazioni e infrastrutture in cambio di ulteriori cubature. Marino e l’allora assessore Caudo non fecero una piega concedendo la delibera di interesse pubblico e diventano i paladini, spacciandolo per “sviluppo” e “occasione per Roma”. Come fanno Raggi e Toninelli ora. La retorica ufficiale lo pompa come il “nuovo Colosseo”. Sul sito ufficiale, non aggiornato dal 2017, non ci sono dettagli ma si possono leggere proclami di questo tenore: “Lo Stadio della Roma è stato progettato per garantire agli appassionati un’esperienza unica nel giorno della partita. Le sezioni dello stadio e la vicinanza del campo alle tribune consentiranno di creare un’atmosfera intensa ed emozionante, unica nel suo genere… Lo Stadio della Roma rappresenterà con orgoglio la Città di Roma – una gloriosa miscela di passato, presente e futuro che potrà essere ritrovata nel design stesso dello Stadio e nei materiali utilizzati. L’architettura del nuovo stadio è un omaggio alla ricca storia di Roma, in grado di abbracciare, al tempo stesso, la moderna e innovativa estetica italiana di fama internazionale. Lo Stadio della Roma fungerà da cardine per un progetto di sviluppo più ampio, multiuso e a gestione privata. Trasformerà il modo dei romani di integrare sport e intrattenimento nelle loro vite quotidiane”.

A febbraio 2017, siamo ormai nell’epoca dei Cinque stelle, il Campidoglio consegna alla Regione il parere unico sul progetto di Tor di Valle. Ci sono ancora frizioni fra i gruppi di lavoro di Pallotta e della sindaca che, infine, trovano un accordo. Viene approvata la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) e la Regione a novembre convoca la Conferenza dei Servizi, invitando tutte le componenti a dare in modo chiaro il proprio assenso o dissenso sull’opera. Il 5 dicembre arriva l’ok definitivo. Continua il braccio di ferro tra i proponenti e il Campidoglio a 5 stelle in cui entra in gioco anche l’avvocato Luca Lanzalone, e a fine febbraio viene raggiunto un accordo m5s-proponenti che si poggia su un drastico taglio delle cubature. Ne esce un progetto senza le torri ma anche con meno fondi privati per opere pubbliche. Il nuovo progetto viene portato nella conferenza dei servizi in Regione che si chiude ad agosto del 2017 con criticità e osservazioni delle istituzioni coinvolte. A settembre apre una nuova conferenza dei servizi che analizzerà nuovamente il piano integrato dai proponenti. Il 5 dicembre arriva l’ok definitivo con prescrizioni dalla conferenza dei servizi.

In realtà si tratta comunque della distruzione di un area verde potenzialmente rinaturalizzabile come gran parte dell’ansa del Tevere, della realizzazione di cubature enormi in una città che vede oltre 185mila appartamenti sfitti ed una quantità enorme di uffici vuoti, di un ulteriore grande centro commerciale che sarebbe ben il quarto in un asse di 10 chilometri. Le infrastrutture da realizzare sono esclusivamente a servizio dell’opera, visto che lì non ci abita nessuno, e i costi di manutenzione resterebbero comunque a carico del pubblico, compreso il funzionamento delle grandi idrovore che dovrebbero scongiurare il rischio di esondazione. Vengono millantati migliaia di posti di lavoro che ovviamente evaporeranno ben presto. In realtà l’impianto sportivo in sé non interessa a nessuno, nemmeno a Pallotta, grande elettore di Trump, che ha senz’altro più confidenza con Wall Street che con il pallone. L’urbanistica “contrattata” e il sistema delle “compensazioni” hanno provocato disastri clamorosi a Roma negli ultimi 25 anni e fallimenti sia di obiettivi, sia in termini di danni materiali per la finanze del Comune, persino quando le “compensazioni” avrebbero dovuto servire per realizzare impianti sportivi e verde (si pensi alla vera e propria truffa dei “Punti verdi Qualità). C’è un dettaglio che non dovrebbe tenere tranquillo neppure il più acritico dei tifosi (della Roma, perché i tifosi dell’opera in sé non li smonta nessuno): lo stadio (inteso nel senso dell’impianto sportivo) non sarà dell’As Roma ma della società di Parnasi-Pallotta che l’affitterà all’As Roma.

A giugno 2018 scatteranno le manette ai polsi di Parnasi, titolare della società Eurnova e cinque suoi collaboratori. L’obiettivo del gruppo, scrive il Gip nell’ordinanza di custodia cautelare, era «ottenere i favori del mondo Cinque Stelle» e di altre forze politiche. Ai domiciliari anche Luca Lanzalone, presidente di Acea (51% del Comune di Roma) e consulente della Giunta Raggi per il dossier dello stadio; il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Adriano Palozzi di Forza Italia; e l’ex assessore regionale all’Urbanistica Michele Civita, del Partito democratico.

Il nodo resta quello dei flussi di traffico nell’area di Tor di Valle e le simulazioni fatte «in presenza di un evento sportivo» per il Politecnico restituiscono «un quadro catastrofico con punte di oltre 8.500 veicoli orari per singola direzione sul Gra». Parallelamente, come recita il documento, occorre una strategia per «disincentivare fortemente l’uso dell’auto privata poiché soprattutto in corrispondenza delle partite infrasettimanali emergerebbero situazioni d’estrema congestione». Una situazione che i tecnici dell’ente torinese consigliano «fortemente di evitare, consapevoli di due cose: che si tratta pur sempre di problemi di traffico» e che il romano «possa essere presumibilmente abituato a situazioni di traffico intenso, forse in media con un approccio molto più paziente d’un utente stradale di altre città». La relazione, nel paragrafo che si occupa delle simulazioni studiate, bolla anche come «troppo ottimistiche le previsioni effettuate». «Poco credibile» pensare che un 50% di utenti si possa spostare con il trasporto pubblico anche se Raggi assicura che si starebbe lavorando con la Regione per ammodernare la Ferrovia Roma-Lido e la Orte-Fiumicino. Non dovrebbe spuntate un secondo ponte nell’area, quello di Traiano, che invece secondo la Regione avrebbe dovuto affiancare quello dei Congressi. E Stefano Brinchi, presidente dell’agenzia per la mobilità di Roma, spiega che il Piano urbano della mobilità sostenibile (mai approvato dall’aula Giulio Cesare) «vede come unico scenario percorribile lo spostamento del trasporto dalla gomma al ferro».

«Questo parere non ha un valore giuridico ma mediatico politico. Non siamo sorpresi, e ci attendevamo un esito positivo», commenta il vicepresidente dell’As Roma, Mauro Baldissoni, a margine della conferenza stampa in Campidoglio ricordando il “catastrofico” progetto «con un’offerta intorno allo stadio per favorire una presenza nella zona più lunga, non solo legata ai 90 minuti della partita».

«Il progetto approvato dalla conferenza dei servizi è tuttora gravemente inadeguato e si intende portare in Assemblea capitolina un’opera completamente carente sotto il profilo della mobilità, che può stare in piedi solo grazie alla promessa di interventi a carico dei contribuenti ed inseriti in un piano, il Pums, che l’Amministrazione capitolina non ha mai approvato – commenta Cristina Grancio, esponente di demA e capogruppo del Misto – lo #stadiofattobene sta sconfinando nella farsa, una farsa pericolosa perché è evidente che a queste condizioni non è più ravvisabile l’interesse pubblico del progetto approvato. L’unica novità apprezzabile scaturita dalla conferenza stampa è che la maggioranza si deciderà finalmente a convocare l’Assemblea capitolina sul tema. All’ordine del giorno proporremo l’impegno a chiudere una vicenda nata male, compromessa dai troppo lati oscuri, e ad aprire una fase nuova nell’interesse della città». Grancio, eletta coi cinque stelle, fu emarginata proprio per le critiche al mega progetto. Di lei il capogruppo Paolo Ferrara (uno dei 27 indagati con Parnasi, ora autosospeso) dirà: «Cristina Grancio non ha mai dato nessun contributo: cambi poltrona, si sposti in una di quelle delle opposizioni in modo da liberarci da una macchia nera che deturpa la bellezza del nostro gruppo».

«Fa sorridere come i tecnici interpretino in modo assolutamente personale il significato del termine “catastrofico” usato dal Politecnico nella relazione preliminare sui flussi di traffico», ricorda anche il Codacons, che contro la realizzazione dell’opera ha presentato ricorso al Tar del Lazio.

Anche per Stefano Fassina, consigliere di Sinistra per Roma deputato LeU, «è davvero fuori luogo il trionfalismo della Sindaca e dei vertici del M5s. Inaccettabile dedicare centinaia di milioni di euro di preziose risorse pubbliche per la sostenibilità viaria e finanziaria di un’opera certamente non prioritaria, in una città martoriata da drammi sociali. Inoltre, rimangono tutte le criticità relative alla localizzazione e ai risvolti urbanistici». La As Roma, si aspetta di concludere tutta la procedura, inclusi i passaggi consiliari, nel giro di poche settimane. Parallelamente andrà avanti la trattativa fra il presidente della Roma, James Pallotta, e il nuovo management di Eurnova (non è escluso un vertice a Boston nelle prossime settimane) per l’acquisto delle quote del progetto e dei terreni di Tor di Valle. Pallotta, pronto a mettere sul piatto una cifra intorno ai 100 milioni di euro, dovrebbe procedere direttamente con la società “Stadio TdV”, creata apposta per occuparsi del dossier. Società peraltro che nell’assemblea dei soci riunita a Boston lo scorso 21 dicembre ha nominato fino al 2021 un nuovo organo amministrativo dopo la scadenza del mandato di David Ginsberg da amministratore unico. Nello specifico è stato nominato un Cda composto da Baldissoni, presidente, e Giorgio Francia, già responsabile amministrazione e finanza della Roma, e Gianluca Cambareri, membro anche del Cda giallorosso.

E il Pd, il partito delle grandi opere per antonomasia? Strizza l’occhio ai tifosi perché : «L’unica cosa che non si può fare è approfittate del cuore e della passione di migliaia di tifosi giallorossi e cittadini romani, magari per cercare di recuperare qualche voto alla vigilia delle europee dopo oltre due anni di amministrazione fallimentare della città», si legge in una nota del deputato Roberto Morassut.

Le piccole adozioni che salverebbero il mondo

A Carmagnola cammina, abbastanza spaesato, un bambino di 8 anni. Niente nomi di fantasia in questo articolo: un bambino rende bene l’idea di un bambino senza bisogno di appiccicargli un nome posticcio. Bene così. Il bambino si aggira perché, per i casi terribili della vita (quelli che noi siamo diventati incapace di annusare) si ritrova senza genitori: il padre è sparito e la madre non lo vuole. Dice lei, la madre, che dovrebbero occuparsene i nonni. E invece il bambino è lì, per strada, solo, e il suo sguardo di chi s’è ritrovato orfano incuriosisce vigili urbani. Anche perché, così solo, rischiava ogni passo di finire sotto un’auto.

Ai vigili racconta di sapere parlare bene in italiano. Ne è fiero. Ma non sa scrivere il proprio nome. Anzi, proprio non sa scrivere. Non è mai andato a scuola. La vita gli ha buttato addosso problemi di sopravvivenza più urgenti del rispettare l’orario della campanella.

Adesso grazie all’aiuto del Terzo settore è tornato a sorridere. «Una storia da spezzare il cuore – ha commentato il sindaco di Carmagnola, Ivana Gaveglio al Corriere della Sera -. Il bambino è diventato la mascotte di tutti e in particolare della polizia municipale. Adesso è iniziata una gara di solidarietà per procurargli abiti e beni di prima necessità. Lui sta bene, il suo percorso di crescita è sicuramente in salita, ma l’importante sarà dotarlo degli strumenti per affrontarlo».

Di lui si sa poco. Viveva in una roulotte e racconta di avere avuto una mamma buona (che è la nonna) una mamma cattiva (che è sua madre). «Vi prego non riportatemi da lei» ha supplicato. Ora è in affidamento.

Ed è una storia di accoglienza. Di solidarietà. Ed è anche una storia di tutto quello che ci stiamo perdendo, proprio ora, in giro per il mondo, affollato di bambini per cui, chissà perché, i nostri occhi si sono induriti e si consolano con un bambino dal nome posticcio di Carmagnola. E come sarebbe bello se Carmagnola fosse grande quanto il mondo.

Buon lunedì.

 

A 40 anni dalla rivoluzione iraniana

Quella iraniana fu l’ultima grande rivoluzione del Novecento, la prima ad essere trasmessa in televisione e a essere immortalata dai reporter di tutto il mondo. Esistono quindi moltissime immagini di quegli eventi, oggi facilmente reperibili sul web: le manifestazioni di massa, la fuga dello scià Mohammad Reza Pahlavi dall’Iran, il ritorno dell’ayatollah Ruhollah Khomeini e l’instaurazione della Repubblica islamica. Eventi noti pressoché a tutti. Ma conosciuti probabilmente in modo superficiale proprio perché dati ormai per assodati, come se l’Iran fosse da sempre una Repubblica islamica, un antagonista degli Stati Uniti e un nemico di Israele. Il “peccato originale” dell’Iran contemporaneo – agli occhi dell’osservatore occidentale – è proprio la rivoluzione del 1979. Una rivoluzione quasi sempre bollata come “irrazionale” e retrograda, colpevole di aver inaugurato la stagione del fondamentalismo islamico. Una narrazione semplicistica che non prende in considerazione i perché di quella rivoluzione.

Da Mossadeq a Khomeini: dove lo scià fallisce
Dal 1963, con la cosiddetta “Rivoluzione bianca”, lo scià vara una serie di riforme con cui vuole scardinare l’impianto “tradizionalista” della società iraniana: concede il diritto di voto alle donne, vara la riforma agraria, tenta di creare una burocrazia manageriale, combatte l’analfabetismo inquadrando i giovani universitari nel cosiddetto “Esercito del sapere” e inviandoli a insegnare nei paesini più sperduti. Incoraggia i giovani ad andare a studiare in Europa e negli Usa perché sogna di creare una nuova classe dirigente di stampo occidentale. Paradossalmente, moltissimi di questi studenti all’estero costituiranno un nucleo fondamentale dell’opposizione allo scià: a contatto con altri modelli di partecipazione politica e di potere, trovano ancora più intollerabile l’autocrazia dello scià. Il golpe del 1953 aveva deposto il governo democraticamente eletto di Mossadeq, “colpevole” di aver voluto nazionalizzare il petrolio e si era aperta una lunga stagione di repressione. Il partito comunista (Tudeh) era al bando, così come le opposizioni liberali e nazionaliste. In questo contesto, la voce di Khomeini che dalla città santa di Qom tuona contro le riforme “immorali” dello scià, diviene subito un punto di riferimento per chi non si riconosce nel progetto ambizioso e paternalista dell’imperatore. Nei disordini che nei primi anni Sessanta seguono all’arresto e poi all’esilio di Khomeini, ci sono già in nuce, tutti gli elementi politici che ritroveremo nella rivoluzione di quindici anni dopo: l’ayatollah parla la stessa lingua del popolo, ne comprende le paure e i bisogni. Lo scià invece, cresciuto in un collegio svizzero, non conosce davvero l’Iran: immagina di rimodellarlo a suo piacimento, di farne uno tra i primi dieci Paesi industrializzati del mondo. Un’impresa titanica e probabilmente anche molto narcisistica. Anche perché, accanto a questi progetti di riforme sociali ed economiche, non pone in cantiere alcuna apertura politica.

A questi fattori politici, vanno poi aggiunti quelli economici. Fino a metà degli anni Settanta, il boom delle esportazioni petrolifere consente allo scià investimenti enormi. Alcuni senza dubbio di valore, come infrastrutture, scuole, servizi. Altri frutto unicamente della propria mania di grandezza, quali le spese record per gli armamenti o le celebrazioni kitsch del 1971 a Persepoli per i 2.500 anni di monarchia. Quando il mercato petrolifero si contrae, cominciano i guai. La riforma agraria si era rivelata un fallimento, con l’espulsione di manodopera dalle campagne e la creazione di un nuovo sottoproletariato nelle grandi città. In un Paese segnato da enormi diseguaglianze economiche, in cui cento famiglie detengono in pratica la maggior parte della ricchezza del Paese, crescono di colpo la disoccupazione e l’inflazione. Lo scià – libero dal controllo di qualsiasi forma di opposizione – reagisce accentrando ulteriormente il potere. Alla parvenza di bipartitismo (liberali e conservatori, sempre comunque fedelissimi allo scià) in vigore ormai da decenni, impone il partito unico della “Rinascita” (Rastakhiz). Il controllo del Paese è affidato alla Savak, la polizia politica che applica in modo sistematico arresti arbitrari, tortura e omicidio.

Il rapido precipitare degli eventi
Una prima crepa nel regime si apre con l’elezione alla Casa Bianca del democratico Jimmy Carter che impone all’alleato persiano una timida apertura in tema di libertà di opinione. Bastò che la pressione si allentasse un po’ perché le voci di un dissenso soffocato da venticinque anni si levassero in modo fragoroso. Di lì in poi, sembra quasi che un meccanismo misterioso orchestri la tempesta perfetta che nel giro di quindici mesi porterà alla caduta dello scià e all’avvento di Khomeini.

Tutto precipita nel volgere di pochi mesi. L’anziano religioso in esilio da quindici anni diventa di colpo la figura di riferimento di un movimento quanto mai eterogeneo, che conta al proprio interno marxisti e islamisti, liberali e nazionalisti, tutti uniti dal desiderio di farla finita con la dittatura dello scià. La fazione di Khomeini finisce col prevalere perché è l’unica ad avere un legame con il Paese reale. Le altre, ridotte da anni alla clandestinità e all’esilio, hanno perso contatto con il popolo. I religiosi hanno moschee su tutto il territorio nazionale e godono della fiducia delle masse popolari. È impressionante notare come fino all’autunno 1978 nessuno, all’interno del movimento rivoluzionario, parli di “repubblica islamica”, che diventa poi di colpo la parola magica, capace di mobilitare tutti sotto la guida di Khomeini. Che ha teorizzato da tempo il velayat-e faqih, la teoria del “Governo del giureconsulto”, tutt’ora alla base dell’ordinamento costituzionale iraniano, ma non ne ha di certo fatto una parola d’ordine della rivolta.

Quanto fu davvero islamica la rivoluzione?
Probabilmente non nacque come tale, almeno nelle intenzioni di una parte consistente dei suoi protagonisti. Ma è innegabile che fin dal suo inizio, la cadenza degli avvenimenti fu scandita dalle ricorrenze e dai riti islamici e che tutti i suoi leader più importanti erano esponenti religiosi. Un altro fattore decisivo per l’affermazione di Khomeini è quello geopolitico. Alla fine della Guerra fredda mancavano ancora dieci anni e l’Iran, coi suoi duemila chilometri di confine con l’allora Unione Sovietica, era una pedina fondamentale. I servizi segreti dei Paesi occidentali agirono di concerto per far sì che tra le fazioni rivoluzionarie quella islamista prevalesse su quella marxista. Ad esempio, è ormai accertato che quando nel 1983 Khomeini decide di sbarazzarsi dei comunisti iraniani, può utilizzare i dossier che l’agente sovietico Vladimir Kuzichin, un tempo comandante della sezione del Kgb di Teheran, aveva passato alla Gran Bretagna che a sua volta li aveva girati alla Cia che pensò di “girare” il regalo al governo iraniano, in chiara funzione anti-sovietica.

La rivoluzione iraniana non si realizza tramite un’insurrezione armata, ma con una combinazione frenetica di sedici mesi di proteste, sei di manifestazioni di massa e cinque di scioperi. La guerra imposta dall’invasione di Saddam Hussein sarà poi il mito fondante, capace di ricompattare il Paese contro l’aggressore esterno e di mettere a tacere ogni forma di dissenso, sacrificando di fatto un’intera generazione. La rivoluzione iraniana incise in modo fondamentale sull’Islam politico, sovvertendo la concezione quietista dello sciismo e realizzando una forma del tutto inedita di Stato. Stato che -ristrutturato e rafforzato dal processo rivoluzionario – costituisce oggi la vera risorsa, l’asset più importante dell’Iran nel contesto drammaticamente irrisolto del Medio Oriente del XXI secolo.

Il libro di Antonello Sacchetti – “Iran, 1979. La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq” –  sarà presentato mercoledì 6 febbraio alle 18 al Bibliocaffè Letterario a Roma. Con l’autore intervengono la scrittrice e studiosa della storia dell’Iran Farian Sabahi e la direttrice di Left Simona Maggiorelli

 

Ma voi ci avete capito qualcosa sulla Tav?

Lavori per la linea ferroviaria Torino-Lione nel cantiere TAV a Chiomonte (Torino), in una immagine del 12 novembre 2013. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Le baruffe chiozzotte in confronto sono un lineare racconto da leggere per conciliare il sonno. La questione Tav, invece è una ridda di dichiarazioni, controdichiarazioni, vaffanculi artificiali, pace fatte nel tempo di un amen, e poi di nuovo governi che sembrano crollare, nemici che tornano grandi amici e che si baciano di fronte alle telecamere, visite sul cantiere per complimentarsi con i lavoratori, assenze dal cantiere di qualcuno (come Di Maio) che dice che non c’è nessun cantiere, come Babbo Natale: non esiste.

Sulla questione Tav il governo sta dando il meglio di se stesso: Di Maio e Toninelli contro Matteo Salvini. Solo che mentre i pentastellati si appellano alla temperatura cardiaca di un popolo che li ha abbandonati da un pezzo, dall’altra parte Salvini rilancia un nuovo Piano Marshall per le grandi opere e per rilanciare l’economia. Indovinate un po’ chi sembra più convincente? Metteteci che da una parte c’è Di Maio che nega l’esistenza di un qualsiasi buco e dall’altra, Salvini, che dice che non ha senso spendere soldi per riempire buchi.

A differenza di altri temi (tra cui quota 100 e il reddito di cittadinanza) sulla Tav sembra impossibile trovare un compromesso. Ed è un gran casino. Perché chi vincerà (posto che il governo non cadrà per la Tav, interesse di potere troppo piccolo rispetto a quelli che si sono spartiti e ci sono ancora da spartire) sarà ufficialmente il capo del governo. Nonostante il terzo incomodo che è quel presidente del Consiglio.

Intanto, se ci fate caso, un’altra occasione di approfondire, di combattere (per una posizione o per l’altra) è caduta nel pentolone e delle minchiate da spararsi addosso per aizzare i tifosi. Banalizzazione. Banalizzazione continua. Gli daranno un Oscar alla banalizzazione, a questi, prima o poi.

Buon lunedì.

Uso e abuso del termine raptus

Caino e Abele. Olio su tela, cm. 149 x 196. Gallerie dell'Accademia, Venezia. Archivio fotografico del Polo Museale del Veneto

Scorriamo i titoli di alcuni giornali relativi a fatti di cronaca: “Yara è stata uccisa per un raptus sessuale”, “Ha colpito in preda a un raptus”, “Accoltellata per un raptus di follia”, “14enne ha un raptus mentre gioca e uccide il padre a coltellate”. Si potrebbero citare tanti altri esempi relativi a casi di infanticidio o femminicidio che testimoniano l’uso da parte della stampa del termine raptus come sinonimo di atto violento impulsivo non controllabile compiuto in una condizione di incapacità di intendere e di volere. Così la parola raptus utilizzata in contesti e in relazione a dinamiche e motivazioni molto diverse assume un significato generico all’interno di analisi spesso superficiali e non documentate. L’uso specialistico, storicamente molto circoscritto, del termine differisce da quello giornalistico: troviamo per esempio la dizione, rara, di raptus melancholicus riferita ad una condizione conosciuta come stupor depressivo nella quale si ha un ottundimento della coscienza accompagnato da un blocco quasi totale del movimento. Si osserva come all’improvviso il soggetto fortemente inibito vada incontro ad una crisi di agitazione accompagnata o meno da gesti auto o etero distruttivi. Il raptus, secondo una concezione classica sostenuta da Eugen Bleuler può intervenire anche in una patologia completamente diversa cioè la schizofrenia catatonica nella quale la persona è immobilizzata dal terrore nell’attesa di un evento apocalittico ritenuto imminente: di colpo può sopraggiungere una crisi psicomotoria. In certi schizofrenici poi si danno anche tipi di raptus che costituiscono estrinsecazioni di ideazioni improvvise (einfhall) non precedute da una tensione emotiva riconoscibile. Nell’ambito del giornalismo che abusa del termine raptus e ne generalizza il misuso, conferisce un carattere sensazionalistico alla notizia il fatto che il gesto efferato e improvviso viene riferito come avvenuto in un contesto apparentemente “normale” nel quale spesso non ci sono condizioni psicotiche conclamate che avrebbero potuto far presagire la tragedia. Ma esiste davvero l’episodio psicotico puntiforme, uno scompenso imprevedibile senza tracce né prima né dopo?…

 

Sul tema “Uso e misuso del termine raptus” lo psichiatra Domenico Fargnoli interverrà giovedì 7 febbraio a Firenze, alla Biblioteca delle Oblate (ore 21). Modera Franco Bagnoli, Università di Firenze e Caffescienza

L’articolo di Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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