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«Con molta attenzion la bella donna»

un rendering di palazzo Diamanti progettato dagli architetti di Labics.

Siamo alla fine del ’400, il duca Ercole I d’Este governa la città di Ferrara e ne decide un vasto ampliamento, una addizione chiamata erculea. Compra tutti i terreni che poi rivenderà alla cittadinanza a prezzo maggiorato perché urbanizzati (si speculava anche allora!) e grazie all’architetto Biagio Rossetti disegna un grandioso progetto urbanistico modernissimo ma che sa dialogare con la città medioevale. Il fratello del duca si fa costruire dallo stesso architetto il palazzo dei Diamanti, al centro di questa addizione urbanistica, e realizza una straordinaria quinta in un quadrivio spettacolare, con quattro edifici che competono in bellezza ed eleganza. Come ogni palazzo rinascimentale che si rispetti possiede due grandiose facciate rivestite di diamanti marmorei, un cortile porticato e, separato da un portale, un giardino.

Dopo i gravi bombardamenti della guerra, mentre il giardino rimane abbandonato, il palazzo riprende vita nel 1963 quando lo storico direttore Franco Farina ha una grande intuizione che è quella di creare nelle stanze abbandonate del piano terra una galleria di arte moderna e contemporanea che farà fare un salto culturale importante alla città, contribuendo a sprovincializzarla e portando in mostra grandi artisti italiani da De Chirico a Morandi e Vedova, a tutta l’arte americana allora abbastanza sconosciuta in Italia. La necessità di nuovi spazi portò poi all’utilizzo della seconda ala del palazzo che negli ultimi anni è stata collegata alla prima da una passerella coperta, nello spazio del giardino. Dopo il terremoto del 2012 il Comune decise di…

(hanno collaborato Fiammetta Nante e Corrado Landi)

L’articolo di Giancarlo Leonelli è tratto da Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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Lotta al caporalato, solo false promesse

TO GO WITH AFP STORY BY GODFREY MARAWANYIKA- Zimbabwean peasant farmer Munyaradzi Mudapakati holds spinach in his farm in Chinhamora, about 50 km north of Harare on February 10, 2011. For more than a decade, most rural Zimbabweans have depended on food aid to survive, but good rains this season are promising an abundant 2011 harvest -- as long as politics doesn't get in the way. AFP PHOTO / ALEXANDER JOE (Photo credit should read ALEXANDER JOE/AFP/Getty Images)

La rapida successione di arresti nelle campagne di Latina, Matera e Colleferro nei giorni scorsi, ha inaugurato il nuovo anno di lotta al caporalato. Si tratta di operazioni importanti che – come nel caso di Latina – hanno messo fine a business in cui erano coinvolti anche un sindacalista Cisl ed un ispettore del lavoro. Un segnale del fatto che l’impianto repressivo della legge 199 del 2016, conosciuta ai più come legge “anticaporalato”, funziona, e può dare risultati. Ma la pars costruens solo debolmente tratteggiata da tale norma, quella che avrebbe dovuto intervenire sugli squilibri della filiera, per rilanciare un’agricoltura pulita, resta non solo insufficiente ma pure inattuata.

La Rete del lavoro agricolo di qualità, network (potenziato con la 199) che avrebbe dovuto riunire e promuovere le aziende virtuose che si autocertificano “caporalato free” conta ad oggi meno di 4mila iscritti (dati Inps dicembre 2018), su un totale di un milione e seicentomila aziende agricole e 100mila potenzialmente interessate. D’altronde, l’iscrizione non attribuisce alle ditte alcuno strumento concreto per ripararsi dallo strapotere della Grande distribuzione organizzata. Un fallimento totale, insomma, che continuiamo a denunciare con caparbia su queste pagine. Non solo. Andando ad indagare tra pieghe e contropieghe della manovra finanziaria, si scopre che i grandi proclami del governo giallonero della scorsa estate, che parlavano di un imminente rilancio della lotta al caporalato, sono restati – appunto – soltanto parole.

In seguito alle “stragi dei pulmini” di agosto nel foggiano – costate la vita a 16 braccianti immigrati – il vicepremier Di Maio aveva…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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I dimenticati dell’Appennino

L’area container per gli sfollati dal terremoto del 30 ottobre 2016. Tolentino

«Non studio non lavoro non guardo la tv, non vado al cinema non faccio sport»: Lorenzo, alla domanda su come viva la sua condizione di terremotato, risponde citando una vecchia canzone dei Cccp. La sua famiglia è dispersa, chi a Selva di Val Gardena, chi a Camerino, chi ancora negli alberghi sulla costa. A Muccia, 50 chilometri da Macerata, davanti alla tenda di plastica che cerca di tenere fuori il gelo dal bar, ora ospitato in un prefabbricato, la gente si incontra, fuma una sigaretta, scambia due parole sotto il sole freddo di gennaio, prima di ripartire. Per un impegno, un’occupazione, qualunque cosa purché lontano da qui, dove non c’è più niente.
Sono passati più di due anni dal 30 ottobre 2016, quando un sisma di magnitudo 6,5 sulla scala Richter ha provocato 25mila sfollati nelle Marche, dove interi paesi dell’Appennino sono stati distrutti dalla scossa più forte che avesse attraversato il nostro Paese dai tempi del terremoto dell’Irpinia del 1980. La terra in Centro Italia tremava dal 24 agosto, quando il terremoto aveva sorpreso Amatrice di notte, radendola al suolo; e di nuovo il 26 ottobre, dove aveva attaccato Visso e messo in ginocchio il maceratese. «Il terremoto ci ha telefonato», dicono i marchigiani alludendo al fatto che, spaventati, hanno avuto modo di mettersi in salvo. Ma anche in assenza di vittime, la situazione resta desolante: lo sciame sismico del 2016 ha coinvolto 87 comuni nelle Marche. O forse, proprio perché qui non si sono contati i morti, il terremoto non ha fatto audience ed è stato presto dimenticato. Poco importa se i suicidi aumentano, il consumo di psicofarmaci è alle stelle e gli anziani, lontani da casa, muoiono prematuramente.
Il paesaggio sembra cristallizzato ai giorni dell’emergenza, come una ferita cauterizzata ma mai curata davvero. A Muccia il 94% del territorio è danneggiato e dei circa 940 abitanti una parte sta nelle 164 Sae, le Soluzioni abitative di emergenza, mentre gli altri si sono arrangiati con i contributi di autonoma sistemazione, o ancora languiscono negli hotel al mare. E la ricostruzione?…

(foto di Stefano Stranges)

Il reportage di Federica Tourn e Stefano Stranges prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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Amane, Ahmed e gli altri, vittime di chi chiude i porti

RAS JDIR, TUNISIA - MARCH 14: A man runs for a coach at a United Nations displacement camp on March 14, 2011 in Ras Jdir, Tunisia. As fighting continues in and around the Libyan capital of Tripoli, tens of thousands of guest workers including men, women and children from Egypt, Tunisia, Bangladesh, Sudan and other countries continue to flee to the border of Tunisia. The situation has turned into a humanitarian emergency as Tunisia is overwhelmed with the workers. Libyan leader Muammar Gaddafi has vowed to fight to the end. (Photo by Dan Kitwood/Getty Images)

Khalid, Mohamed, Amane, Ahmed. Tutti giovani, giovanissimi. Erano partiti insieme dal Sudan dopo aver attraversato il confine lungo il deserto con l’Egitto. Raggiunta la Libia si erano imbarcati su un gommone che il 18 gennaio si è sgonfiato dopo circa undici ore di navigazione nel Mediterraneo, poco prima di arrivare in acque italiane. Sono annegati nel naufragio che ha coinvolto 120 africani, secondo i superstiti, 60 per la Guardia costiera libica, che fuggivano da guerre, repressioni e crisi umanitarie. Il mare gelato ha risparmiato solo tre delle persone che erano a bordo.
Balletto dei numeri a parte, macabro quanto inopportuno, questa tragedia racconta di un dramma nel dramma che ci arriva attraverso la voce di Abdul Ishag, scampato agli eccidi del conflitto del Darfur e in Italia, con status di rifugiato, da oltre dieci anni.
«Abbiamo saputo della morte dei nostri fratelli sudanesi da uno dei sopravvissuti che è riuscito a chiamare suo cugino che vive a Roma. Dei cinque compagni con i quali viaggiava è stato l’unico a salvarsi» dice con un filo di voce, lui che più degli altri esponenti della diaspora sudanese nel nostro Paese sa quanto sia difficile arrivare vivi in un porto sicuro. Nella traversata che 11 anni fa ha intrapreso insieme a sua moglie e a i loro due bambini ha perso tutto: il barcone su cui erano partiti da Tripoli è affondato. Lui è stato l’unico della sua famiglia a farcela. «Ogni volta che succede, pensando alle persone che una a una cadono in acqua, la maggior parte che annega, rivivo lo stesso strazio. Anche questa volta c’erano donne, una delle quali incinta, e bambini. E molti giovani. I quattro amici di Suliman avevano tra i 18 e i 25 anni» sottolinea Abdul.
Ma chi erano Khalid, Mohamed, Ahmed, Amane?

L’articolo di Antonella Napoli prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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Come smontare da sinistra la propaganda giallonera, in poche mosse

Italian Prime Minister Giuseppe Conte (C), Italian Deputy Premier and Labour and Industry Minister Luigi Di Maio (L) and Italian Deputy Premier and Interior Minister, Matteo Salvini, attend a press conference after a Cabinet at Chigi Palace in Rome, Italy, 17 January 2019. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Il reddito di cittadinanza in versione Cinque stelle ha tutti i difetti del mondo più uno. Eppure è difficilissimo criticarlo, perché mette sei miliardi sulla lotta alla povertà, quando quelli di prima avevano giurato che non fosse possibile. Lo stesso dicasi per la Quota 100 modificata. È lontanissima da qualsiasi promessa elettorale, ma è difficile sostenere che non si tratti di un passo in avanti, laddove si era sempre detto che fossero possibili solo salti all’indietro.
Sono misure irresponsabili, che mettono a rischio i conti dello Stato? Può essere, ma non abbiamo mai sentito grandi giornali e Confindustria lamentarsi quando i bilanci
si facevano pericolanti per il peso delle prebende elargite ad una classe possidente parassitaria e ingorda.
Dico questo perché conquistato da un virus governativo? No di certo. Semplicemente mi sconcerta l’idea che si possa pensare di opporsi a provvedimenti contraddittori mettendosi dalla parte del privilegio. Per chi ha lavorato 38 anni è infatti un insulto sentirsi dire che
la sua fatica è tempo rubato ai più giovani. Per chi è impoverito è inaccettabile sentirsi accusare di pigrizia, furbizia e scarsa propensione all’impegno.
Chi ragiona in questo modo, dimostra soltanto di essere completamente scollegato da un Paese travolto da 30 anni di crescenti ingiustizie e disuguaglianze, su cui la crisi è passata come uno tsunami, cancellando ciò che resisteva traballando del benessere passato.
Ci ha consegnato un panorama di giovani senza prospettive diverse dall’espatrio, di anziani sempre più numerosi e privi di mezzi, di un’età di mezzo privata della prospettiva della classe media. Ha lasciato dietro di sé cinque milioni di poveri e trenta milioni di persone convinte di aver subito un torto, senza nemmeno capire bene da chi.
È a loro che parlano i provvedimenti del governo, cogliendo un elemento di soddisfazione psicologica prima ancora che materiale. Esattamente come fecero gli 80 euro di Renzi, lasciano intendere che sia arrivato il momento della restituzione e del risarcimento del danno subito.
Aiuta ovviamente molto il fatto che chi li critica sia ritenuto giustamente responsabile di quel danno.
Allora io sono per cogliere questo elemento, ma per dire senza reticenze che non basta.
Che il reddito di cittadinanza va bene, ma che si potrebbe fare di più, escludendo le assurde clausole vessatorie con cui il M5s ha voluto omaggiare i critici. Uscire dalla povertà è infatti un diritto in uno dei Paesi più ricchi del mondo, anche senza la necessità di trasferirsi
a mille km di distanza.
Che ridurre il tempo di lavoro è corretto, ma dovrebbe avvenire anche in termini di orario settimanale e non solo di età di pensionamento.
Che soprattutto non può essere tutto ridotto a chi avrà la fortuna di maturare i requisiti nei prossimi tre anni, lasciando giovani di ieri e di oggi ad un destino di povertà certa dopo il ritiro. Vale anche per loro il diritto ad una vecchiaia serena, e si deve quindi prevedere un minimo di almeno 1.500 euro per tutti coloro che abbiano versato almeno 30 anni
di contributi.
Si può fare questo e molto altro, a partire da un piano straordinario di assunzioni nella scuola, nella sanità, nei servizi per l’infanzia, la terza età e la non autosufficienza.
È necessario semplicemente il coraggio di fare ciò che la destra della Lega e del M5s non avranno mai il coraggio di fare: attaccare i veri privilegiati, che sono quelli che si sono arricchiti mentre tutti si impoverivano. Serve una seria patrimoniale sulle grandi ricchezze, serve recuperare alla collettività le rendite generate dai servizi essenziali, serve tassare la speculazione di ogni tipo e recuperare l’evasione fiscale, vero furto ai danni di noi tutti.
Come vedete, non è difficile immaginare un’altra opposizione.
Cominciamo a farla.

L’editoriale di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola dall’1 febbraio 2019 


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Il business della repressione

MARCO MINNITI a MEZZ'ORA IN PIU’, SULLO SFONDO MATTEO SALVINI E GIOVANNI TRIA

Aveva iniziato nel maggio 2017 il ministro dell’Interno Salvini… ah no Minniti, scusate il refuso. Aveva cominciato dicendo che, per rispondere alle richieste dell’Ue, bisognava incrementare i rimpatri dei “clandestini”. E quindi riaprire i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) – uno strumento fallimentare sin dal 1998 – strutture divenute oggi residuali. Gli alti costi di spesa, le rivolte continue che portavano a doverli chiudere per lunghi periodi, il rifiuto delle amministrazioni locali, avevano fatto sì che dei 14 centri esistenti ne restassero – parzialmente – in funzione soltanto 4. Quello di Roma (Ponte Galeria), in cui era agibile solo la sezione femminile, quelli di Torino (vedi Left del 7 dicembre 2018), Bari e Brindisi.
L’obiettivo di Minniti – che in questi giorni si mostra sempre più umanitario e antirazzista (nostalgia da Viminale?) – era quello di aprire centri di piccole dimensioni, uno per ogni regione, con standard di vita “più umani” e maggiormente efficienti (?). E, per dare il tocco finale di vernice alla proposta, i Cie erano diventati Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Ma quello che nel dl Minniti-Orlando era già nell’aria, ovvero diminuire il numero di aventi diritto alla protezione, bloccare gli sbarchi attaccando le Ong e stipulando accordi con il sedicente governo libico e con i trafficanti al suo soldo, ha visto col tweetministro in carica Matteo Salvini una accelerazione, con un incremento delle politiche repressive.
L’ordine del predecessore si sta eseguendo, hanno riaperto i battenti i Cpr di Caltanissetta (Pian del Lago) e di Potenza (Palazzo San Gervasio) e si lavora per ottenere risultati concreti prima delle elezioni europee. Nell’articolo 2 della legge Sicurezza approvata in Parlamento si porta da 90 a 180 giorni il tempo massimo di trattenimento per le persone che debbono essere identificate e rimpatriate. Come prevedibile, questo ha già scatenato…

Il 16 febbraio a Milano si svolgerà la manifestazione promossa dalla rete No Cpr contro l’apertura del Centro per il rimpatrio in via Corelli (ore 14,30 da Piazza Piola)

L’inchiesta di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019 


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Kamala Harris, sulle orme di Obama

epa07326139 Democratic candidate for US President, US senator Kamala Harris greets the crowd at a kick-off campaign rally in her hometown in Oakland, California, USA, 27 January 2019. Harris made her announcement on the morning of Martin Luther King Jr. Day. EPA/D. ROSS CAMERON

La chiamano già “l’Obama al femminile”. Kamala Harris, avvocato 54enne di origine tamil e giamaicana, tenterà la scalata alla nomination Dem per le elezioni presidenziali Usa 2020. Lo ha ufficializzato la scorsa domenica con un comizio nella sua città natale Oakland, baluardo anti-trumpiano nella rossa California. Se dovesse vincere, Harris sarebbe la prima donna afro-americana e asio-americana a correre per la presidenza.
Ex-procuratore generale e attuale senatrice della California, le sue posizioni politiche sono molto simili a quelle dell’ex presidente democratico Barack Obama. La linea che propone è abbastanza moderata, riuscendo in questo modo a mettere d’accordo sia l’ala radicale che quella più centrista dei Democratici. Parlando del suo curriculum, ha dichiarato: «Io ho una qualifica unica: sono stata una leader del governo locale, del governo statale e del governo federale. Il pubblico americano vuole una combattente… e io sono pronta a esserlo». D’altronde, come lei stessa ha confermato, le prossime elezioni non saranno ordinarie perché sono le circostanze a non esserlo. La presidenza Trump ha minato molti dei capisaldi della cultura statunitense, arrivando ad intaccare alcuni dei valori tipici della democrazia a stelle e strisce.
Nonostante Harris rientri abbastanza nel profilo del classico candidato moderato “di sinistra” americano, alcune delle sue posizioni sono abbastanza radicali. Ad esempio, è stata la prima senatrice ad affermare che si sarebbe rifiutata di votare una legge di bilancio se il Congresso non avesse riconfermato la protezione assicurata ai DREAMers, i figli di immigrati irregolari che Obama ha liberato dalla clandestinità. Ferma è anche la sua posizione sul Medicare for all, l’accesso all’assistenza sanitaria gratuita che rappresenta un tasto dolente per gli Stati Uniti. Il suo appoggio alla causa è il ponte che collega il centrismo di Harris all’estremismo di Bernie Sanders, con cui combatte fianco a fianco per eliminare la speculazione sulla sanità privata. Nel programma anche diritti Lgbt, maggiore attenzione all’immigrazione e al processo di integrazione, senza dimenticare le prospettive del pianeta a livello ecologico e la tanto discussa legge sulle armi da fuoco.
La duttilità politica di Kamala Harris, però, non esclude una dura opposizione al governo Trump. Durante il comizio del 27 gennaio a Oakland, la neo candidata non ha risparmiato le critiche alla politica dell’attuale presidente, pur senza nominarlo mai direttamente. Una nota di stile che denota la sua esperienza nel campo della politica e che la allontana dal rischio di strumentalizzare i fatti personali del proprio avversario per utilizzarli come arma all’interno di un dibattito, una tattica che in passato si è rivelata un’arma a doppio taglio. Ha detto molte altre cose in modo molto chiaro, invece, tra cui: «America, noi siamo meglio di così». Ha citato Robert Kennedy e parlato più volte di donne e movimento #MeToo, conquistando l’attenzione dell’elettorato femminile (che attualmente rappresenta il 53% dei votanti).
Kamala Harris non fa parte di quella blue wave di nuovi Dem che sono entrati in politica passando dai banconi dei bar. I suoi genitori erano due accademici e suo nonno un diplomatico indiano. Ha studiato in tre università diverse per diventare avvocato, decidendo di specializzarsi in diritto criminale. Un percorso che però non l’ha allontanata dalla realtà ma ha invece alimentato la sua passione per la giustizia. La sua missione come rappresentante della legge è stata ben riassunta da lei stessa durante il discorso dell’annuncio della candidatura: «In tutta la mia vita, ho avuto un solo cliente: le persone». Non a caso il suo slogan è “For the people”, per la gente.

Perché non c’è nulla da esultare per il ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan

epa07293053 Afghans shout slogans during a protest to demand the governement for peace in the country in Kandahar, Afghanistan, 17 January 2019. Afghanistan in recent months has witnessed a large number of attacks against all types of targets claiming lives of dozens of civilians, military and government personnel. EPA/MUHAMMAD SADIQ

Nessuno si faccia illusioni: né su Trump, né sui Cinque stelle. Parliamo dell’ipotesi del ritiro dall’Afghanistan, la più lunga e costosa guerra in cui sono coinvolti gli States e in cui l’Italia è il secondo contingente sul terreno. In questa vicenda non ci sono pacifisti: se Trump si vuole ritirare è in nome dell’America first, non certo per amore della pace o dei diritti della popolazione dell’Afghanistan in ostaggio di fondamentalisti imperialisti o islamici. Se la ministra Trenta gli va appresso è solo perché l’urgenza dei Cinque stelle è quella di differenziarsi dalla Lega in questo rush finale verso le europee a cui il giallo della coalizione arriva in affanno con l’onta di ripetuti voltafaccia su tutti i temi qualificanti, solo col magro e controverso bottino del reddito di cittadinanza.

Media internazionali e analisti – gli stessi che hanno pompato la dottrina della guerra globale – sono scettici sulla affidabilità dei talebani e sulla tenuta di un eventuale accordo. Molti sostengono che il Paese potrebbe cadere nel caos, come successe dopo il ritiro dell’Armata rossa nel 1989 o come in Iraq dopo il rientro dei soldati Usa deciso da Obama. Così l’intesa viene presentata come una resa ai talebani, con i rischi di un ritorno della sharia e della segregazione femminile, offuscando i dati evidenti delle mancate promesse di sradicare i talebani e sradicare le coltivazioni di papavero da oppio, mai così floride. «Non possiamo dire che non l’avevamo detto – spiega a Left Franco Uda, responsabile internazionale dell’Arci – che sarebbe stato un fallimento: nessuno degli obiettivi della missione è stato conseguito in un Paese che è in guerra da 40 anni e l’età media è di 60. La guerra non è solo il fronte e le bombe, la guerra è la disgregazione delle vite e della società».

«Perché eravamo lì? Bin Laden è stato trovato e ucciso già otto anni fa e nemmeno era in Afghanistan ma in Pakistan. La verità è che ancora una volta l’Italia si muove agli ordini della Casa Bianca», dice anche Norma Bertullacelli, pacifista storica, una delle animatrici dell'”Ora di silenzio per la pace”, iniziativa che da 870 settimane, ogni giovedì dall’11 settembre 2001, si tiene sui gradini di Palazzo Ducale a Genova. La pratica dell’ora in silenzio, maturata nelle battaglie pacifiste dei primi anni 80, ha origine dal bisogno di superare le differenze e di unire su un obiettivo comune: le parole spesso dividono; «il silenzio crea un’atmosfera di rispetto e di intesa che accomuna e ci fa solidali gli uni con gli altri».

Ma Trump preferisce venire a patti per uscire da una palude che in passato ha inghiottito molti imperi. Per esempio quello sovietico, con la Russia che tenta ora di inserirsi anche su questo teatro come mediatrice, invitando a Mosca il 5 e 6 febbraio non solo i rappresentanti dei talebani ma anche del governo di Kabul.

«Se sarà raggiunto un accordo di pace ritirerò le truppe dall’Afghanistan», ripete Donald Trump sfidando non solo il monito dell’intelligence del suo Paese ma anche l’emendamento che il Senato ha approvato, 68 a 23, per mettere in guardia contro il «pericolo di un ritiro precipitoso» delle truppe Usa da Siria e Afghanistan, per il permanere della minaccia terroristica. Una iniziativa partita dal leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, che finora si era distinto per l’assenza di critiche al presidente. «Il mio emendamento riconosce il fatto evidente che Al Qaeda, l’Isis e i suoi associati in Siria e in Afghanistan continuano a rappresentare una minaccia seria», ha spiegato McConnell, che ha incassato, oltre ai voti del Gop, Grand old party, anche molti voti democratici in un Congresso che ha sfidato il presidente in modo bipartisan pure sul caso Khashoggi. Ma Trump continua a muovere sulla scacchiera internazionale e già il 1 febbraio potrebbe annunciare anche il ritiro degli Usa dallo storico trattato con la Russia sui missili nucleari a raggio intermedio (Inf, quello sugli “euro missili”), firmato da Reagan e Gorbaciov e pietra miliare della fine della Guerra Fredda. Washington accusa Mosca di averlo violato ripetutamente, ma tecnicamente ci sono ancora sei mesi per salvarlo, scongiurando una nuova corsa al riarmo. «Il tempo mi darà ragione», profetizza il tycoon alla Casa Bianca, dopo aver nuovamente umiliato ieri i suoi 007 («dovrebbero tornare a scuola») che lo avevano sconfessato sull’Iran, sulla Corea Nord e sull’Isis «che resta una minaccia».

Il presidente vuole arrivare alle prossime elezioni mantenendo la promessa del ritiro dei soldati non solo dalla Siria ma anche dall’Afghanistan, per mettere fine alla guerra più lunga e costosa nella storia americana. Una mossa che trascinerebbe anche gli alleati Nato, tra cui l’Italia, dove sono ancora vive le polemiche per l’annuncio della ministra della difesa Elisabetta Trenta di cominciare a pianificare il ritorno dei nostri 900 soldati da Herat – secondo contingente dopo quello americano, presente dal 2002 per una missione prima combat poi operazione di mero addestramento e costata la vita a 54 italiani – nello stesso giorno in cui gli Usa hanno annunciato una bozza di intesa con i talebani. E senza informare il ministro degl Esteri, Enzo Moavero Milanesi, creando più di qualche sussulto nella maggioranza e nell’opposizione.

La nuova telenovela della maggioranza va in onda da lunedì 28 gennaio, ma forse ora registrerà un colpo di scena sulla scia del Senato Usa, quando la ministra, diciassette anni dopo l’entrata in guerra nella santa alleanza Bush-Blair, ha annunciato di voler chiudere la storica missione «entro 12 mesi» creando un nuovo caso nel governo, cogliendo molti di sorpresa. A cominciare dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi – «lo apprendo ora» – mentre la Lega derubrica la questione a una mera valutazione di Trenta: «Nessuna decisione è stata presa». «Il ministro Trenta ha dato disposizioni al Coi, il Comando operativo di vertice interforze, di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan», hanno fatto sapere fonti della Difesa. Una decisione, precisano le stesse fonti, discussa con gli alleati americani, con la Nato e con le autorità afgane, e collegata all’annuncio dell’amministrazione Trump. Palazzo Chigi ha precisato che l’iniziativa del ministro della Difesa «è stata condivisa dalla presidenza del Consiglio» ma la Nato ha frenato: «Non lasceremo l’Afghanistan prima di avere una situazione che ci permetterà di ridurre il numero di truppe, il nostro obiettivo è quello di impedire che il Paese torni ad essere un paradiso sicuro per il terrorismo internazionale», ha detto il segretario generale Stoltenberg. «È troppo presto per speculare sul ritiro».

La lobby militare mastica amaro. Il ritiro deve avvenire «in maniera concordata tra i Paesi coinvolti nella missione, nell’unica sede deputata, che è l’alleanza, quindi a Bruxelles, a livello politico prima e a livello militare successivamente. Così come la missione venne disegnata inizialmente, definendo obietti e il tipo di apporti di ognuno, altrettanto il ritiro doveva essere concordato. Se non c’è stato questo siamo di fronte a un comportamento da biasimare su tutta la linea», ha detto Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della Fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis). «Se le decisioni statunitensi sono state prese senza una concertazione con gli alleati presenti in Afghanistan segnatamente con l’Italia questo – sottolinea l’ufficiale – non è solo un fatto di maleducazione istituzionale ma anche uno sgarbo immeritato verso chi non si è mai sottratto agli appelli statunitensi, e quello più emblematico è proprio relativo all’Afghanistan dove siamo accorsi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, come segno di solidarietà verso un Paese in grande difficoltà. La concertazione in una missione multinazionale non è un fatto formale ma attiene all’efficacia e alla sicurezza dell’intero apparato dato che, se viene a mancare l’apporto dell’operatore dominante, in questo caso gli Stati Uniti, la missione perde senso e diventa molto rischiosa anche nella fase di ritiro». Quanto può essere rischioso ritirare le forze di sicurezza occidentali ai fini della pace e della sicurezza del Paese? «Bisogna vedere il presunto accordo tra gli Stati Uniti e i talebani, se c’è stato – chiarisce Tricarico – e se i talebani manterranno fede all’accordo. Se si impegnassero a tenere l’Afghanistan fuori dalla minaccia terroristica sicuramente ci si potrebbe ritenere soddisfatti anche alla luce degli interessi nazionali. Ma se ci dovesse essere davvero un ritiro bisognerà necessariamente sedersi tutti insieme intorno a un tavolo e decidere tutti insieme, secondo una visione di sicurezza e di futuro».

Nel dettaglio, a fronte di un dimezzamento del contingente in Iraq, con l’annunciata chiusura nel primo trimestre di quest’anno della task force Praesidium (i 470 militari a protezione della diga di Mosul), per quanto riguarda l’Afghanistan era previsto solo il rimpatrio di un centinaio di uomini e la prosecuzione «a tempo indeterminato» della missione Resolute support, di addestramento delle forze di sicurezza locali. Un alleggerimento ritenuto necessario per consentire un maggior impegno in Africa, dove sono concentrati gli interessi nazionali e dove la Difesa guarda soprattutto alla missione in Niger, alla Libia e al possibile invio di un contingente in Tunisia nell’ambito di un’operazione Nato. L’annuncio di Trump, però, avrebbe scombinato i programmi e la Difesa si è messa al lavoro per pianificare una veloce exit strategy da Kabul. Si tratta di riportare a casa una forza ancora molto consistente – il Parlamento ha autorizzato, per i primi 9 mesi del 2019, fino a 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei – che ha la responsabilità di un’area grande quanto il Nord Italia e che è fondamentale per la missione di addestramento della Coalizione internazionale, di cui siamo uno dei Paesi più importanti. Insomma, una decisione pesante, che però ha lasciato di stucco il responsabile della Farnesina, in visita a Gerusalemme: il ministro Trenta «non ne ha parlato con me», ha detto Moavero.

Gelo dal Carroccio: «solo una valutazione del ministro Trenta, nessuna decisione è stata presa». E mentre il Movimento 5 stelle esulta – «una splendida notizia», dice ad esempio Di Battista – dall’opposizione attaccano: Pd, FI, FdI criticano a vario titolo l’annuncio del ritiro dato «a mezzo stampa e non in Parlamento», dove il ministro della Difesa viene invitata a riferire «con urgenza» per chiarire il «cambio repentino di politica estera», oggetto di «indiscrezioni e smentite che sono irresponsabili e vanno oltre il surreale». «L’Italia si ritira dall’Afghanistan ma mezzo governo non lo sa. Annuncio improvvido sulla pelle dei nostri soldati», sintetizza Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato, con un tweet. «Da questa e da quella sponda dell’Atlantico – riprende Uda – la politica è incapace di trovare una soluzione. In Italia le opposizioni sono contro il ritiro, come la Lega – è paradossale che la sinistra non riesca nemmeno ad agire sulle contraddizioni di questo governo aprendo una grande discussione su questi temi».

Nell’intesa preliminare i talebani si impegnano a garantire che l’Afghanistan non sia più usato come piattaforma per gruppi terroristici, a partire da Al Qaeda, che dopo l’11 settembre indusse gli Usa ad invadere il Paese. Ma ci sono altre due condizioni poste dagli Stati Uniti per lasciare completamente il Paese, dove hanno 14 mila soldati: il cessate il fuoco e colloqui diretti con il governo di Kabul. Due punti su cui la delegazione dei talebani ha chiesto tempo. Intanto, dall’ultimo rapporto trimestrale dell’ufficio dell’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) diffuso proprio dopo i «progressi» annunciati negli ultimi colloqui tra gli Usa e i Talebani in Qatar, si evince che il governo di Kabul controlla o ha influenza sul 53,8% distretti dell’Afghanistan. Tra luglio e ottobre 2018, riporta l’agenzia di stampa Dpa, il governo ha perso il controllo di almeno sette distretti su 407. Gli insorti controllano almeno il 12,3% dei distretti e il restante 33,9% risulta conteso. In termini di popolazione significa che il 63,5% degli afghani vive in aree in mano al governo, il 10,8% in zone sotto il dominio dei Talebani e il 25,6% in territori contesi. Il rapporto mostra un lento ma costante calo del controllo e dell’influenza del governo afghano sulla popolazione. A ottobre, le forze afghane contavano circa 308.700 unità, sul totale teorico previsto di 360mila, il dato più basso da gennaio 2015. La scorsa settimana il presidente afghano Ashraf Ghani ha ammesso che dal 2014 sono più di 45mila i caduti tra le forze afghane. Lo scorso anno lo stesso Ghani aveva parlato di 28mila caduti dal 2015. Un rapporto dell’intelligence Usa afferma che «né il governo afghano né i talebani saranno in grado di guadagnare un vantaggio strategico militare nella guerra afghana nel prossimo anno, neppure se gli Usa manterranno il loro attuale livello di supporto». Tuttavia, ha aggiunto Dan Coats, direttore della National Intelligence, gli attuali sforzi per un accordo di pace con i talebani e la decisione su un possibile ritiro delle truppe Usa potrebbero giocare un ruolo chiave nel decidere la direzione del Paese nei prossimi anni.

L’apologia dei secondi

Ho un sogno, nemmeno troppo recondito, di ribaltare le priorità. Ristabilire ad esempio un’apologia dei secondi, quelli che oggi facciamo marcire nei cassetti degli sconfitti. I secondi, badate bene, non sono quelli che sono stati toppo furbi o toppo poco furbi, nemmeno quelli che sono stati sconfitti perché stupidi, o quelli che erano troppo poco raccomandati, oppure quelli che non ci arrivano oppure quelli che non ne hanno voglia oppure quelli che si accontentano.

I secondi che sono una gran parte della nostra Italia sono quelli hanno sfiorato le stelle, le riconoscono, ma rimangono incollati al pianerottolo per quelle cose terribilmente terrene: i costi, i disagi, gli imprevisti. Non hanno nulla di diverso dai vincitori e dagli sconfitti e per questi sarebbero una razza da preservare, clonare, studiare, cullare e tutelare. Tutelare, sì. Tutelare dicendogli che non c’è sconfitta o vittoria, che il mondo non si divide tra vincitori e vinti (come vorrebbero sempre i vincitori) ma che in realtà nella terra di mezzo nonostante i significati assunti nell’indagine romana in realtà vivono i complessi. I complessi che non possono essere classificati con banalità. Sono persone complesse, i secondi: hanno bisogno di occhi, cuore e occhi puliti e puri in grado di cogliere tutti i particolari.

I secondi sono quelli che non hanno vinto. Che è ben diverso dai perdenti. I secondi sono quelli che fino alla fine sono convinti di potercela fare. I secondi sono quelli che stanno dietro ai primi, ai capipopolo che si sono autoincoronati ma i secondi ne hanno viste troppe per credere che ci possa essere un leader che riesca a contenere tutta questa dolorosa complessità. E allora resistono e desistono. Insieme.

Noi, in questo Paese, dovremmo disamorarci dei primi, aiutare gli ultimi e cominciare a seguire con passione i secondi. Quelli che non si notano finché non riescono a farsi massa.

Come diceva Logan Pearsall Smith, Ci sono due scopi nella vita: il primo è di ottenere ciò che vogliamo; il secondo di godercelo. Solo i più saggi tra gli uomini riescono a compiere il secondo.
Buon venerdì.

Nel Paese della bugia la verità è rivoluzionaria

TOPSHOT - A migrant keeps warm with a Red Cross blanket upon arrival at the harbour of Malaga on January 9, 2019 after an inflatable boat carrying 188 migrants was rescued by the Spanish coast guard. - Spain has become Europe's main entry point for migrants, overtaking Greece and Italy. More 56,000 migrants arrived in Spain by sea in 2018, and 769 have died trying, according to the International Organization for Migration (IOM). (Photo by JORGE GUERRERO / AFP) (Photo credit should read JORGE GUERRERO/AFP/Getty Images)

«È finita la pacchia» dice il ministro dell’Interno irridendo chi rischia la vita per raggiungere l’Italia e lavora come uno schiavo del caporalato nelle nostre campagne. «Hanno 17 anni e restano a bordo» sentenzia Salvini, cieco e sordo ai messaggi degli stessi siracusani che scrivono «Fateli scendere» su lenzuoli bianchi appesi alle finestre. «Non è roba nostra, se li prendano i Paesi Bassi», insiste lui riferendosi ai minorenni a bordo della Sea watch da giorni in balìa del mare. Il linguaggio carico di odio, sempre più violento, di esponenti di governo rimbomba ogni giorno nelle nostre orecchie. Rivolto a migranti, rom, giovani come Arafet, cittadino italiano di origine tunisina che ha perso la vita durante un fermo della polizia. «Dovevano dargli un cappuccio e brioche?» ironizza il Capitano che poi inneggia alle forze dell’ordine che hanno salvato una gatta, promettendo pene severe per chi voleva uccidere… la povera gattina.

È un eufemismo definire spregiudicata la propaganda orchestrata dai social media manager al servizio di Salvini. Difficile non pensare a certe fotografie dei nazisti che accarezzavano amorevolmente figli e cani, mentre sterminavano bambini ebrei come fossero cose, oggetti inanimati. Operazione comunicativa lucida, decisa a tavolino, spietata. Ma anche noi commentatori rischiamo di esserne complici quando diciamo che è un’operazione studiata per accaparrarsi voti, quando ripetiamo che lo fa per ottenere consenso. Come se fosse normale ottenere consenso con frasi che incitano all’odio e con provvedimenti che vanno contro i valori antifascisti della Costituzione, come quelli contenuti nel decreto “immigrazione e sicurezza” che negano i diritti ai richiedenti asilo e impongono una feroce stretta alla protezione umanitaria.

Il fascismo è ur fascismo, è endemico ed eterno diceva Umberto Eco. Noi non pensiamo che sia innato, ma che allora come ora una parte della società italiana, quella che si bea del revanscismo reazionario si sia gravemente ammalata, al punto da aver perso il proprio volto, al punto di aver perso ogni sensibilità e capacità di sentire. C’è qualcosa di patologico in questo consenso che cresce, almeno nei sondaggi, in modo proporzionale alla violenza del discorso politico legastellato. Ma c’è anche qualcosa di patologico nel trasformismo camaleontico di politici del centrosinistra che hanno dato avvio a tutto questo e oggi si fingono anime belle. E allora ci appare sempre più importante, contro questa ubriacatura di amnesia collettiva, tornare ogni settimana a rimettere in fila i fatti, ricordare le cifre del genocidio nel Mediterraneo di cui ci stiamo rendendo tutti responsabili stando in silenzio.

Ci pare fondamentale farlo riportando in primo piano le voci, le identità, le storie di chi è annegato perché l’Europa e questo governo si sono voltati dall’altra parte. Gli sbarchi sono diminuiti, Minniti e Salvini, fanno a gara nell’attribuirsene il “merito”, ma non dicono che se anni fa annegava nel Mediterraneo una persona su 39 ora ne scompare una su 6. È una palese menzogna affermare che nel Mediterraneo si muore perché ci sono le Ong come ha detto il ministro dell’Interno accusato di sequestro di persona aggravato per aver impedito lo sbarco di profughi dalla nave Diciotti. è vero l’esatto contrario, si muore perché le Ong non ci sono più, si muore a causa delle criminali politiche di chiusura dei porti e degli accordi con la Libia. Pesa su questo governo la responsabilità delle 170 persone annegate in due giorni a metà gennaio, ma anche la responsabilità delle centinaia di persone che sono state ricacciate nei lager libici. Fotografie agghiaccianti sono circolate anche nei giorni scorsi che mostrano persone in catene, con i segni di torture. “Si prega di chiudere gli occhi”. Lo pretende Matteo Salvini brandendo Vangelo e rosario. Con lui il devoto di padre Pio Giuseppe Conte. Ma anche il ministro delle Infrastrutture Toninelli che con un grottesco ribaltamento della realtà si appella ai trattati internazionali, che questo governo ha ampiamente violato, rinnegando il millenario diritto del mare e uccidendo qualsiasi forma di umana solidarietà. Per tentare di rifarsi una verginità in vista delle europee, il ministro Luigi Di Maio attacca la Francia additandone gli interessi neocoloniali in Libia. Come se l’Italia non ne avesse.

Non sa il giovane ministro che si vanta di non essere laureato che la Libia ha assunto la forma imposta dal colonialismo italiano? Non sa che gli italiani sono stati i primi a usare i gas contro i civili? I fascisti italiani sono responsabili di un genocidio in Cirenaica, perpetrarono uno sterminio di massa in Etiopia. La storia del colonialismo è lunga e agghiacciante, ha caratterizzato il fascismo ma anche le epoche precedenti. E in forme moderne il colonialismo italiano, francese, europeo e delle altre potenze continua ancora oggi sotto forma di land grabbing, di sfruttamento delle risorse da parte delle multinazionali, di esternalizzazione delle frontiere e di costruzione, diretta o indiretta di disumani campi profughi e luoghi di detenzione per migranti. Numerosi e approfonditi articoli su questo numero di Left ricostruiscono il panorama del neocolonialismo del nuovo millennio, riallacciando i fili con il passato. Conoscere, approfondire tornare a raccontare come fu compiuto lo sterminio è un impegno più che mai imprescindibile. Raccontare le storie dei migranti, capire perché sono costretti a lasciare le loro terre, quali sono le nostre responsabilità è un impegno civile prioritario. Risuonano come una denuncia fortissima le parole della senatrice Liliana Segre: «Noi ebrei eravamo senza nome, oggi percepisco la stessa indifferenza verso i migranti». Non accettiamo di chiudere gli occhi.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dall’1 febbraio 2019


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