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Domenico Lucano rilancia la campagna “Riace Nobel per la pace” – Rassegna stampa

In occasione della chiusura della raccolta firme (più di 90mila, quelle raccolte) per sostenere la campagna “Riace Nobel per la pace 2019”, il sindaco Domenico Lucano è intervenuto durante la conferenza stampa che si è tenuta il 30 gennaio nella sede di Left .

Ecco la rassegna stampa dell’evento organizzato dal comitato promotore per il Nobel al Comune di Riace

RaiNews24

Adnkronos

il manifesto

La Repubblica

La Repubblica (diretta live)
Il Fatto quotidiano

Popoff Quotidiano

Nobel prize to Riace: 90,000 signature for the city that welcomes refugees

TPI

https://www.tpi.it/2019/01/30/riace-premio-nobel-pace-firme

Pressenza

Chiusura della campagna per candidare Mimmo Lucano e Riace al Nobel per la Pace 2019

Il Giornale

 

Il Comitato promotore della campagna:
Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, ANPI, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, Solidarietà e Cooperazione Cipsi, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano

Il logo dell’iniziativa è disegnato da Gianluca Costantini

Padroni a casa d’altri

LUIGI DI MAIO OSPITE DI MYRTA MERLINO A L'ARIA CHE TIRA - 2019-01-23 LUIGI DI MAIO, EMMANUEL MACRON

E chi glielo spiega adesso a Luigi Di Maio che con queste accuse di neocolonialismo a Macron sta combinando un’ambaradan? «Una parola così sbarazzina…una reminiscenza abissina», per citare i versi del cantautore anarchico, Alessio Lega. Perché l’Italia e l’Europa hanno i loro scheletri nell’armadio e fuori dagli armadi quei processi agiscono potentemente anche dopo la decolonizzazione. Le schermaglie verbali tra Di Maio e Macron sono l’effetto di una concorrenza spietata tra Parigi e Roma piuttosto che il segnale di una diversità di approccio alla questione africana. Mentre il vicepremier a cinque stelle continua a provocare l’Eliseo perché «pensi a decolonizzare l’Africa», il suo premier Giuseppe Conte gira tra Ciad e Niger e poi vola negli Emirati a supportare le imprese italiane in quegli scacchieri ed Eni – mentre scriviamo – annuncia di aver messo le mani sugli impianti di raffinazione di Abu Dhabi, la più grande operazione mai condotta da quelle parti da un investitore straniero. Tutto ciò mentre i vertici del cane a sei zampe sono sotto processo per la maxi tangente in Nigeria. Continuiamo ad ascoltare Lega, nel senso di Alessio: «Che cosa mai vorrà dire “ambaradan”? / Colonialisti più bravi e più forti / abbiam portato le strade nel deserto / per il grande viaggio di tutti quei morti / L’Amba Aradam è la macchia dell’oblio / è il monumento a Rodolfo Graziani / i gagliardetti di Nassiriya / sono i due marò che fucilano gli indiani». Ventimila i morti etiopi e poche centinaia di italiani nel febbraio del ’36 all’Amba Aradam: una carneficina. Se ieri l’Italia non aveva nulla da invidiare alla capacità stragista di altri colonialismi («siamo stati i primi a usare i gas contro i civili», segnala Gabriele Proglio, giovane storico all’Università di Coimbra che lavora su memoria, migrazioni, confini e dunque colonialismo), anche nelle pratiche neocoloniali siamo in prima fila. Prendiamo il …

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dall’1 febbraio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

La giustizia, applicata alla famiglia Ciontoli

"Giustizia per Marco Vannini". È lo striscione che da stamani è stato esposto sulla facciata del Palazzo Municipale del Comune di Cerveteri "in onore e in memoria" di Marco Vannini, il ragazzo di 20anni di Cerveteri morto il 18 maggio 2015 a Ladispoli perché raggiunto da un colpo di arma da fuoco sparatogli da Antonio Ciontoli, padre della fidanzata del giovane e sottoufficiale della Marina Militare. ANSA

Non so se avete avuto modo di seguire il caso della morte di Marco Vannini. Marco il 18 maggio del 2015 faceva il bagnino e a fine turno raggiunge la sua fidanzata, Martina Ciontoli nella sua villa in cui cena con il padre Antonio e la madre Maria Pezzillo, il fratello di Martina e la sua fidanzata Viola Giorgini.

Marco conclude la cena e va a fare un bagno in vasca. Antonio Ciontoli fa l’eroe, prende la sua pisola Beretta calibro 9 e inavvertitamente (per quanto possa inavvertitamente usare un’arma un militare, maresciallo della Marina, siamo alle solite) e spara. Spara per fare il figo. Una cosa così.

Ma non è finita. Vannini si ferisce sotto la spalla destra, il proiettile trapassa il cuore, un polmone. Uno sparo del genere produce 130 decibel. 130 decibel sono di un martello pneumatico. «E’ stato un colpo d’aria», ha detto Ciontoli. Eh, già.

Ma non è finita qui. Federico Ciontoli chiama il 118, ma solo alle 23.40.  Dice: “C’è un ragazzo che si è sentito male probabilmente per uno scherzo, di botto è diventato troppo bianco e non respira più…”. Farfuglia e infine ammette che l’ambulanza non serve, la telefonata si interrompe. Qualcuno della famiglia Ciontoli gli ha detto di troncare la comunicazione, Marco è ancora vivo. A decidere di chiamare nuovamente l’ambulanza, per la seconda volta, è Antonio Ciontoli. Lo fa però senza rivelare che in quella casa c’è un ragazzo con una pallottola entrata dalla spalla e fuoriuscita dal fianco, parlando invece di un buchino generato dalla caduta su un pettine.

“Quando gli operatori del 118 arrivano nella villetta dei Ciontoli – si legge nelle cronache – trovano un ventenne agonizzante, lo portano d’urgenza all’ospedale ma non c’è nulla da fare, nemmeno quando Marco viene trasportato in elicottero al Gemelli, dove viene dichiarato morto. Inizia da lì la vicenda giudiziaria conclusasi ieri”.

Ieri è stata emessa la sentenza: 5 anni di condanna.

Le condanne non si contestano ma si possono commentare. Ancora, per fortuna. E un ragazzo morto per gioco e morto poi ancora per non allertare in tempo i soccorsi sarebbe qualcosa su cui riflettere. Forse. Discuterne.

Buon giovedì.

 

Da Riace a Treviso, viaggio nell’Italia che accoglie

Quando soffia il vento del cambiamento c’è chi costruisce muri e chi mulini a vento.

Il vento sarebbe soffiato presto sull’Europa. Si sapeva. Già Umberto Eco nei suoi Cinque scritti morali (Bompiani 1997) ci aveva avvisati: «Se vi piace sarà così e se non vi piace sarà così lo stesso». Ci si chiedeva, ai tempi, e, ahimè, lo si fa ancora, se fosse legittimo ammettere nelle università parigine studentesse con lo chador o se, in territorio italiano, sarebbe stato opportuno far erigere qualche moschea. Proseguiva Eco: «Nel prossimo millennio, non sono un profeta, non so specificare la data, l’Europa sarà un continente colorato». Eccoci qui, nel nuovo millennio, ormai non più solo da qualche minuto. Il vento ha soffiato, il cambiamento è arrivato. Quante volte abbiamo pensato di poter assistere a tutto ciò come stanchi e distratti spettatori. Quante volte abbiamo preferito il divano al dovere, sempre pronti a desiderare la pace, ma considerandola una “missione” e non un quotidiano e concreto impegno.

Massimo Ferrari e Gaia Capurso non si sono comportati così. Massimo e Gaia (MaGa Production) hanno preso un’automobile e si sono messi a percorrere l’Italia dal centro al nord e dal nord al sud facendo quello che sanno fare, il loro mestiere: raccontare attraverso le immagini la vita, i sentimenti, le gioie e i dolori delle persone. Autore e regista lui, autrice e produttrice lei.

È nato così il documentario Dove vanno le nuvole, proiettato nelle sale cinematografiche di tutta Italia e sbarcato, tra i consensi della critica, anche a Chicago. Già vincitore di numerosi premi tra cui è importante ricordare il primo posto ottenuto al Sole luna doc festival di Treviso nella sezione Human rights. È nato così, tra l’accanimento dei “potenti” contro le Ong e gli sgomberi di chi sa essere forte con i deboli.

È nato quando ancora Domenico Lucano poteva dormire tranquillo nella sua casa sapendo che, appena sorto il sole, sarebbe uscito insieme alla sua gente (che poi siamo tutti) per continuare a costruire, come faceva ormai dal 1998, un modello efficace di integrazione che l’ha portato a essere considerato dalla rivista americana Fortune uno dei leader più influenti al mondo. Ecco il senso profondo di un documentario che racconti, perché non si perda, diverse storie di solidarietà e coraggio. Sì, coraggio. Perché ad alzare la testa contro i deboli, contro chi ha fame, contro chi è stato spogliato di ogni dignità tutti siamo capaci. Ma ad alzare la testa con fierezza ogni mattina, al fastidioso e ripetuto suonare della nostra sveglia, ci vuole, in un mondo come quello di oggi, un immenso e cristallino coraggio.

Per questo, a conclusione della campagna Riace premio Nobel per la pace 2019, fortemente voluta da organizzazioni della società civile, Ong e comuni, è giusto ripercorrere le tappe di un viaggio alla ricerca della pace perché, come ha detto Fanny, fuggita da un conflitto armato in Congo e per diciannove giorni a bordo della nave Sea watch: “Non siamo pesci”. Né loro, né noi.

Com’è nato il vostro viaggio attraverso l’Italia?
È nato da una esigenza e da una urgenza, provare a capire se fosse possibile affrontare il tema migrazione in modo diverso, uscendo da stereotipi e notizie di cronaca. Capire se esistessero modelli di accoglienza e convivenza e conoscerli, provare ad indagare quello di cui nessuno parlava. Quindi è partito il viaggio.

Cercavate qualcosa di ben preciso: l’immagine di un’Italia sempre chiamata in causa riguardo alla questione “emergenza migranti”. Poi ne è nato molto altro…
Sull’emergenza hanno speculato e speculano in tanti. Abbiamo trovato un’Italia e degli italiani che si sono rimboccati le maniche, che hanno scoperto con l’esperienza e la pratica come risolvere i problemi, come trasformarli addirittura in risorse. Risorse dal punto di vista umano ma anche economico. È nato il documentario Dove vanno le nuvole e poi la serie di 15 documentari dal titolo Le città invisibili.

Le storie che si intrecciano nel vostro documentario sono diverse tra loro, eppure c’è qualcosa che le unisce fortemente…
Si, quelle del documentario sono storie da sud a nord Italia, che accomunano un sindaco calabrese, un imprenditore padovano, un regista bolognese ed un professore trevigiano. Quattro modelli e simboli di un’Italia che inventa soluzioni e strade imprevedibili difronte al vento del cambiamento. Quattro “mulini a vento” capaci di cambiare gli equilibri in un’epoca in cui sembra più facile ed utile costruire muri.

Il 20 dicembre 2018 al teatro Palladium di Roma è stata lanciata la campagna di “Riace Nobel per la pace 2019”. Voi avete vissuto accanto ai riacesi, avete dormito e mangiato insieme a loro: è davvero una storia da Nobel?
Sarebbe una storia normale in un mondo normale. Nel mondo in cui viviamo (in cui il sindaco di Riace è addirittura costretto all’esilio) è una storia da Nobel. Lucano è una bellissima persona, capace, perspicace, tenace, visionaria ma anche concreta. Basta parlargli, incontrarlo, basta vedere cosa è riuscito a fare nel suo paese, per capirlo.

I bronzi ritrovati nel 1972 e oggi Mimmo Lucano: una Calabria sfruttata ed emarginata che cerca sempre di rinascere da sola. È forse per questo che la storia di Riace sembra far paura ai potenti?Non so cosa spaventi di questa storia. So che è un modello che andrebbe studiato e replicato. Così come altri esempi che emergono nel documentario ma anche nella serie.

Perché il titolo Dove vanno le nuvole?
Il titolo nasce da un murales che si trova a Riace. Ci sono tante nuvole e su ognuna c’è scritto il nome di una nazione del mondo. In grande campeggia la domanda: Dove vanno le nuvole? Ci è sembrata più che altro una risposta però, è la storia dei popoli ad insegnarcelo, in periodi diversi siamo stati tutti migranti, il viaggio da sempre segna il destino dell’Uomo, da Ulisse in poi. Per cui tutti andiamo Dove vanno le nuvole

Avete incontrato ostacoli nel vostro lavoro?
Gli ostacoli ci sono sempre, ma abbiamo incontrato soprattutto persone straordinarie di cui, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, ci sembrava doveroso raccontare le storie. Una contro-narrazione che afferma una realtà altra, possibile, quotidiana.

«Come metafora immaginiamo che c’è una porta che si può chiudere e si chiude tutto, se si apre si apre tutto». Risponde così Mimmo Lucano a una vostra domanda. Nel vostro documentario emerge fortemente che l’Italia è un Paese che ha voglia di aprirsi a tutto. Cosa manca ancora perché questo desiderio possa trasformarsi in realtà?
Manca mettere in rete le esperienze virtuose che trasformano le urgenze in opportunità per tutti. Metterle in rete e renderle visibili, dissociando il degrado e la delinquenza dalle parole “migrazione” ed “accoglienza”. Spesso è così, specie nei grandi centri, ma è così per una incapacità di gestione. È la gestione errata o speculativa che ha creato il degrado. In Italia ci sono tante esperienze che dimostrano come una gestione umana ed intelligente possa diventare una opportunità per tutti. In termini di occupazione prima di tutto.

Il lettino rotto e i “molti sacrifici”

Fiori e peluche per il bimbo vittima di violenza domestica di Cardito a Napoli, 29 Gennaio 2019. ANSA/CESARE ABBATE

Il bambino a Cardito lo conoscevano tutti. A qualcuno faceva anche tenerezza mentre suo padre lo prendeva a calci in mezzo alla strada. “Sono esasperato”, diceva lui. Era esasperato, lui. E in fondo basta leggere le cronache di questi giorni per ritrovarci dentro  tutta la superficialità di chi crede che la ferocia sia stata superata dall’evoluzione e ora si mostri solo in casi di raptus. Raptus, li chiamano così.

“Salutava sempre, era gentile” dicono gli abitanti riferendosi al padre Tony. Il salutava sempre ormai è il più approfondito metro di giudizio di una società in cui l’importante è occuparsi del proprio cortile, al massimo del proprio pianerottolo e dei parenti ma solo quelli di primo grado. Salutava sempre. Eh, già.

Invece Tony, anche se salutava sempre, ha massacrato di botte i figli della madre trentenne. Sberle, calci, pugni e una scopa addirittura spezzata. La bambina di otto anni ha in faccia tutta la cattiveria dell’uomo che salutava sempre e invece il fratellino più piccolo no, non ce l’ha fatta.

“Queste cose le vedi in tv ma quando capitano sulla tua pelle non riesci a capacitartene” ha detto il sindaco di Cardito. Perché tra le nostre ultime perversioni c’è anche quella di essere diventati insensibili, refrattari a ciò che leggiamo e vediamo. Ci hanno convinto (bene) che non ci riguardi. E quindi il trauma c’è solo se accade nel nostro quartiere, solo quello.

Il padre (che oltre ai due figliastri pestati ne ha uno suo) ha negato ogni accusa. Come farebbe qualsiasi buon padre di famiglia, coraggioso e responsabile. Poi ci ha ripensato. Ha detto di averli picchiati ma senza scopa, quella, dice, l’avrebbe rotta per rabbia sul pavimento.

E poi la frase mostruosa che sembra essere passata sotto silenzio: “Per comprare la cameretta nuova avevamo fatto molti sacrifici, perciò quando i bambini hanno rotto le sponde del letto ho perso il controllo e li ho picchiati”.

Avete letto bene. I “sacrifici” per comprare il letto che andava preservato dai bambini. Ha difeso il letto, insomma. La difesa è sempre legittima, no?

Buon mercoledì.

Caso Diciotti, l’accusa di sequestro fa paura a Salvini: Processatemi, anzi no

Il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini incontra i suoi sostenitori in piazza Oberdan a Milano, 26 Gennaio 2019 ANSA / MATTEO BAZZI

«Salvini ha già detto “non voglio aiuti, voglio farmi processare”. Il problema non si porrà nella giunta autorizzazione a procedere». A tarda sera il dibattito si sposta sui talk show e Di Maio proclama questo da Rete 4. «Io ho preso le stesse decisioni di Salvini, non scappo dalle mie responsabilità». «E allora processate pure me!», dice Toninelli mostrando il petto a un plotone d’esecuzione che vede solo lui, ma lui lo vedono tutti quelli sintonizzati al mattino su Canale 5. Ma Salvini ci ripensa a mezzo stampa. E scrive al Corriere della sera. Quella per la nave Diciotti è stata una decisione presa «nell’interesse pubblico», per questo «va negata l’autorizzazione ai giudici». «La mia vicenda giudiziaria è strettamente legata all’attività di ministro dell’Interno e alla ferma volontà di mantenere gli impegni della campagna elettorale», evidenzia Salvini citando i dati su sbarchi e rimpatri. «Non rinnego nulla e non fuggo dalle mie responsabilità di ministro. Sono convinto di aver agito sempre nell’interesse superiore del Paese e nel pieno rispetto del mio mandato. Rifarei tutto. E non mollo».

«La valutazione del Senato è vincolata all’accertamento di due requisiti (ciascuno dei quali di per sé sufficiente a negare l’autorizzazione): la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o il perseguimento di un preminente interesse pubblico», spiega Salvini. «Il Senato non è chiamato a giudicare se esista il fumus persecutionis nei miei confronti dal momento che in questa decisione non vi è nulla di personale». Infatti, prosegue il vicepremier, «i giudici mi accusano di aver violato la legge imponendo lo stop allo sbarco, in virtù del mio ruolo di ministro dell’Interno». «Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata. E in questo non c’entra la mia persona. Innanzitutto il contrasto all’immigrazione clandestina corrisponde a un preminente interesse pubblico, posto a fondamento di precise disposizioni», sottolinea il leader della Lega. «In secondo luogo, ci sono precise considerazioni politiche. Il governo italiano, quindi non Matteo Salvini personalmente, ha agito al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti. Questo obiettivo – conclude – emerge con chiarezza dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno del 2018».

Processatemi, anzi no. Salvini sarà sott’esame per due mesi al massimo. Entro la fine di marzo sarà giudicato dal Senato, che deciderà se dare o meno l’autorizzazione a procedere contro di lui per il sequestro di persona a scopo di coazione, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale. Reati che avrebbe commesso “nell’esercizio delle funzioni di ministro” lo scorso agosto, quando Salvini ordinò alla Diciotti, pattugliatore della Guardia Costiera, di rimanere nel porto di Catania senza far sbarcare nessuna delle 190 persone partite dalla Libia che si trovavano a bordo. L’iter ha contemplato un primo passaggio al Tribunale dei ministri e dovrà passare ora attraverso l’autorizzazione a procedere della camera di appartenenza del ministro, il Senato. Il Tribunale dei ministri esiste in ogni distretto di Corte d’appello ed è composto da tre magistrati sorteggiati ogni due anni. Ha poteri di indagine, può ascoltare testimoni e ha 90 giorni di tempo per svolgere le sue indagini, prolungabili di altri 60. Al termine può archiviare, decisione definitiva e non appellabile, oppure trasmettere gli atti alla camera di appartenenza dell’indagato per chiedere un’autorizzazione a procedere contro di lui. Nel caso di Salvini il reato è stato commesso in Sicilia ed è quindi competente il Tribunale dei ministri presso la Corte d’appello di Palermo, formato al momento dal gip Fabio Pilato; Filippo Serio, del Tribunale del riesame; Giuseppe Sidoti, della sezione fallimentare.

Dal 30 gennaio la partita si giocherà a Palazzo Madama e coinvolge la maggioranza. Se il M5s preannuncia che voterà sì, la Lega minaccia che processare il vicepremier leghista significa «processare il governo». A favore dovrebbero schierarsi anche Pd e Leu mentre fedeli al garantismo berlusconiano, e quindi per il no, i senatori di Forza Italia. L’iter partirà mercoledì alle 11 quando si riunirà la Giunta delle elezioni e delle immunità. Il presidente (che è il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, in tutto sono 23 i componenti) leggerà la sua relazione, sulla base delle quasi 50 pagine scritte dal Tribunale di Catania, sezione reati ministeriali, sul caso Diciotti. Documenti arrivati al Senato giovedì scorso. Entro 30 giorni da allora la Giunta dovrà votare. Prima, si chiederà al ministro se intende replicare, di persona o per iscritto. «Voglio precisare che finora non è arrivata nessuna relazione di Salvini, anche perché non gliel’abbiamo chiesta», rimarcava ieri sera Gasparri (prima di trovare il Corsera nella mazzetta di stamane) aggiungendo che in genere si concedono dai 3 ai 7 giorni per la replica. Subito dopo il presidente della Giunta farà una proposta, dando così un primo orientamento sulla questione. Poi – ed entro fine febbraio – si passa al voto della Giunta (palese e a cui potrebbe partecipare il presidente). Step successivo, ed entro 60 giorni da quando il Senato ha ricevuto le carte processuali, cioè entro fine marzo, voterà l’Aula (voto palese e a maggioranza assoluta). Caso precedente al Senato fu quello dell’ex ministro dell’Ambiente Altero Matteoli coinvolto nell’inchiesta Mose e che finì con l’autorizzazione a procedere. Sul caso Salvini è per il «sì» non solo gran parte delle opposizioni ma anche il suo stesso alleato a Palazzo Chigi. Una scelta per coerenza, è l’argomentazione ufficiale.

E intanto l’Italia entra nelle attenzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo per la vicenda Sea Watch, una recidiva di sequestro di persona. Proprio oggi Palazzo Chigi depositerà a Strasburgo la sua memoria difensiva sostenendo che la giurisdizione «appartiene all’Olanda», Paese di bandiera della nave. Una volta riconosciuto ciò, l’Italia è pronta ad offrire un corridoio umanitario per trasferire i 47 migranti in territorio olandese. Intanto, la Sea watch 3 è isolata come una nave in quarantena. Vietato avvicinarsi per un raggio di mezzo miglio, ordina la Capitaneria di porto di Siracusa. E per il quarto giorno i naufraghi soccorsi il 19 gennaio scorso davanti alla Libia sono prigionieri a bordo. Non si scende.

Il Pd, come annunciato dal presidente Matteo Orfini e dal segretario Maurizio Martina, presenterà un esposto in procura contro la «detenzione illegale» dei naufraghi. I due, dopo essere saliti a bordo della Sea watch per una visita, sono finiti però tra gli indagati. «Ci contestano la violazione di un dispositivo di polizia, noi riteniamo di non aver violato alcuna legge e che quello che abbiamo fatto è nelle nostre prerogative parlamentari». La prefettura ribatte sostenendo di non aver autorizzato «alcun accesso alla nave, né ha il potere di farlo» ai parlamentari, aggiungendo che questi «sono stati informati del divieto e delle eventuali conseguenze di legge». Il ministro dell’Interno Matteo Salvini mantiene la linea dura e ironizza: a chi «vuole portarmi in tribunale, rispondiamo col sorriso. A sinistra non hanno niente di meglio da fare che affittare gommoni per solidarizzare con i clandestini e denunciarmi. Io non mollo».

Intanto, si prospetta un’emergenza umanitaria: il comandante della nave comunica che i tre bagni stanno per raggiungere la saturazione: li usano i 47 passeggeri più i 22 membri dell’equipaggio. Potrebbe essere lo spiraglio per un possibile ok allo sbarco. L’Italia, dunque, è pronta a difendersi davanti alla Corte Ue sostenendo le responsabilità dell’Olanda e quelle della Sea Watch che, con una «temeraria condotta», in condizioni di mare mosso, rileva Palazzo Chigi, «anziché trovare riparo sulla costa tunisina distante circa 40 miglia, universalmente considerata porto sicuro, si è avventurata in una traversata di centinaia di miglia mettendo a rischio l’incolumità dei migranti a bordo». Il Governo chiede poi se «l’obiettivo della Sea watch era salvare i naufraghi oppure creare un caso internazionale richiamando l’attenzione dei massi media?».

«Lo scorso 23 gennaio Sea watch – replica così la ong tedesca – a causa dell’arrivo di una forte perturbazione da nord-ovest, definita ciclone mediterraneo, abbiamo avuto diverse comunicazioni con il Jrcc olandese e con la capitaneria di porto di Lampedusa. Il centro di coordinamento marittimo olandese, dopo aver preso atto dell’impossibilità di entrare nel porto di Lampedusa, ha informato la nave che l’opzione di trovare riparo in Tunisia poteva essere percorribile. Il governo olandese ha quindi contattato il governo tunisino, senza però ricevere alcuna risposta». Già a novembre alla Sea watch era stato negato l’approdo in Tunisia per fare rifornimento e per ripararsi durante una tempesta, spiega l’ong: la nave si era ritrova per oltre 5 giorni al largo delle coste di Zarzis senza poter entrare in porto. Per questo, il comandante della Sea watch 3 ha fatto rotta verso Nord, verso l’Italia.

Nel frattempo, il governo, bontà sua, sottolinea la «totale disponibilità per assistenza in caso di richiesta» attraverso motovedette di Guarda costiera e Guardia di finanza. Pronti generi di conforto e assistenza sanitaria. C’è una bandiera gialla issata sulla Sea Watch: nel codice nautico comunica che è in corso la procedura per il rilascio della libera pratica sanitaria, sono cioè in corso accertamenti per verificare che non vi siano problemi sanitari a bordo. «47 persone in cerca di protezione sono davvero un rischio per la sicurezza nazionale?», chiede la ong tedesca. Ma, dopo il blitz di Stefania Prestigiacomo, Riccardo Magi e Nicola Fratoianni, la Capitaneria ha interdetto alla navigazione le acque intorno all’imbarcazione umanitaria per evitare «problemi riguardanti l’ordine pubblico e la sanità pubblica». Il procuratore siracusano Fabio Scavone, da parte sua, per ora non si muove. Non c’è nessun indagato, assicura. E smonta anche le «prove» ipotizzate da Salvini contro il comandante che avrebbe messo a rischio la vita dei migranti soccorsi per essersi diretto verso l’Italia invece che in Tunisia durante una tempesta: nessun reato, spiega il pm, ha scelto la rotta che riteneva più sicura. Quanto all’altro reato suggerito dal titolare del Viminale, favoreggiamento all’immigrazione clandestina, il pm non lo ravvisa. Scavone conferma invece i dubbi espressi dal ministro sull’età dei minorenni (sarebbero 13 secondo la ong). «Non hanno nessun documento con sé – rileva – e quindi è riportato soltanto l’anno di nascita senza neanche giorno e mese. Quindi è un profilo da verificare». E la situazione di stallo preoccupa il Quirinale. Il presidente Sergio Mattarella – che è in contatto con il premier Conte – segue da vicino la vicenda e, senza interferire, esprime l’auspicio che venga trovata una via d’uscita dallo stallo individuando una pronta soluzione.

Secondo i dati diffusi dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), nel 2018, oltre 2.800 rifugiati e migranti sono morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia dalla Libia su imbarcazioni inadatte alla navigazione e sovraffollate. «L’incidente della Diciotti ha rappresentato il culmine della politica dei “porti chiusi”, che il governo ha attuato senza averla deliberata né formalmente comunicata alle autorità competenti e senza riguardo né per la salute e la sicurezza delle persone coinvolte, né per i propri obblighi internazionali», scrivono Elisa De Pieri e Matteo De Bellis, ricercatori di Amnesty International, su La situazione dei diritti umani nel mondo. Il 2018 e le prospettive per il 2019. Il diritto internazionale del mare impone agli Stati l’obbligo di garantire l’approdo di persone in difficoltà in un luogo sicuro nel più breve tempo possibile. Lo sbarco negato alla nave olandese Sea Watch, da giorni ancorata a un miglio da Siracusa, è un’ulteriore prova della violazione di questi principi. Persone vulnerabili, in fuga dalla fame e dalla guerra, continuano a essere ostaggi dell’ennesima disputa tra Stati.

Denunciamoci tutti

Allora, partiamo dall’inizio. Dicono che i porti sono chiusi. Qualcuno dice “allora fateci vedere le carte, spiegateci secondo quali regole o circostanze”. Le carte non esistono. Ovvio. Non si possono chiudere i porti senza rendere carta straccia decenni di trattati internazionali. Se si potessero chiudere i porti a piacimento l’Occidente non sarebbe l’Occidente. Anche se serve qualche nozione di storia per capirlo.

Poi. Ieri Il Fatto Quotidiano ha scovato Pietro Gallo, guardia privata (piuttosto ambiziosa) che racconta di un accordo con Salvini nel 2016 per infiltrarsi a bordo di una nave di una Ong per fotografare elementi utili (parla proprio così, come uno 007 in salsa padana) e gli avevano promesso un lavoro, se quello lo avesse perso. Avete capito bene. Come le scarpe spaiate della campagna elettorale di Achille Lauro nel 1956. Ovviamente Salvini non ha mantenuto la promessa. Anche la notizia, a pensarci bene, sembra avere fatto poco rumore.

Poi. Salvini si appunta sul petto un’indagine contro di lui (un ministro dell’Interno indagato che irride la giustizia sembra l’incipit di una tragicommedia, lo so) e l’amichetto Di Maio dice che vuole essere indagato anche lui perché la decisione di Salvini di lasciare soffriggere quei disperati sulla nave Diciotti era avallata anche dal Movimento 5 Stelle. Del resto il Movimento vincerà il premio dell’avallare del secolo, se continua così.

Ora la novità: dei parlamentari italiani (Martina e Orfini) tentano di avvicinarsi alla Sea Watch (che, ricordiamolo, è in acque italiane, anche se Salvini la sogna in una bolla di vetro con la neve finta) e vengono denunciati pure loro.

E allora davvero denunciamoci tutti. Smettiamo di litigare, di affidarci ai dogmi dell’università della vita e affidiamoci alla legge. Scopriremo che non esiste una norma che assegna diverso valore ai morti di fame in base al fatto che siano donne, uomini o bambini. Scopriremo che gli sbarchi non sono finiti. Scopriremo che la politica non si fa con gli annunci sui social ma con gli atti di governo. Scopriremo tanto. Ci accultureremo. Saremo felici. Che ci fa bene.

Buon martedì.

La memoria stracciata

La memoria è delicata. Ha radici forti, piantate dentro le vittime e i sopravvissuti, ma partorisce foglie giovani che qualche belva si diverte a masticare, sputandole al contrario, facendone fertilizzante per l’odio, capovolgendo la Storia. Non so se anche voi abbiate la sensazione che questo Giorno della Memoria sia stato il peggior Giorno della Memoria, personalmente lo è, per gli anni che ho: divisivo, incarognito, sporcato, tirato come uno straccio a rubabandiera sulla spiaggia, stracciato. Senza misura.

In fondo, la memoria, come tutto ciò che ci richiede il coraggio di andare a fondo, è fuori tempo proprio per i modi: niente spremiture dentro un tweet, non ha nulla a che vedere con le parole usate come lame, ha bisogno di orecchie pulite.

E allora perché aggiungere retorica quando, a memoria, potremmo mandare la prefazione di Primo Levi al suo Se questo è un uomo che è la cosa più moderna, appuntita, vera e forte che mi sia mai capitato l’onore di leggere. Eccola qua:

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.

Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.

Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno: in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano, ed è posteriore.

Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.

Buon lunedì.

Leopardi, poeta in lotta contro l’oppressione

A distanza di duecento anni da quando Leopardi scrisse la poesia “L’infinito”, i critici letterari sono concordi nel ritenere che questi versi siano unici e insuperabili per la loro bellezza e per un linguaggio universale capace di arrivare a chiunque. Ma se la potenza lirica dell’autore viene condivisa da tutti, rimane aperto l’interrogativo se il poeta fosse affetto o no da una depressione. Sarebbe impossibile e oltretutto scorretto formulare alcuna diagnosi su una persona in assenza di un rapporto psicoterapeutico, tanto più se parliamo di un uomo che ha vissuto due secoli fa e con una personalità complessa e con una mente geniale. Invece ci sembra importante cercare di superare l’immagine dell’uomo depresso e sfortunato perché afflitto da una malattia fisica invalidante. Pochi giorni fa è stato pubblicato un interessante articolo sul Corriere della Sera in cui il dottor Erik Sganzerla, direttore del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale di Monza esaminando le migliaia di lettere di Leopardi, ha ipotizzato, partendo dai sintomi che lui stesso descriveva, che Giacomo non soffrisse di una malattia tubercolare ossea, il morbo di Pott, come si è sempre creduto, ma di una spondilite anchilosante, una forma di artrite autoimmune di origine genetica. Secondo il medico i sette anni di studio «matto e disperatissimo» contribuirono ad aggravare la sua deformazione alla quale si aggiunsero problemi della vista a fasi alterne, disturbi intestinali, complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni. Con questa indagine Sganzerla escluderebbe la diagnosi di “depressione psicotica”, come riportano alcuni studi recenti, giustificando la sua morte precoce a causa di una malattia genetica e allo stress indotto dallo studio. Il neurochirurgo dichiara infatti che sebbene questa malattia fisica possa avere influenzato alcuni tratti caratteriali, «non si può certo parlare di depressione in un uomo che come Leopardi viaggiò molto e, fino alla fine dei suoi giorni, continuò a creare moltissimo: aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli». Non ci interessa ora disquisire sulla malattia fisica di Leopardi, né tanto meno, come dicevamo prima, arrivare ad alcuna diagnosi psichiatrica, quanto riprendere il pensiero espresso in questa intervista, cioè che l’autore de “L’infinito” fosse non solo una persona vitale, un’opinione che gli stessi studiosi di Leopardi condividono pienamente, ma capace di ribellarsi ad un ambiente bigotto e opprimente e di esprimere la propria creatività ai massimi livelli. Riportiamo, per esempio, qualche commento tratto dalle interviste ai massimi esperti del poeta (raccolte in alcuni dvd pubblicati da La Repubblica intitolati Giacomo Leopardi, il poeta infinito). La professoressa Fabiana Cacciapuoti, presidente del Centro mondiale della poesia “Giacomo Leopardi” lo definisce «un uomo sensibilissimo, affettivo, con una vitalità capace di “reggere” un corpo che non poteva essere ignorato. Una vitalità prorompente e una voglia di vivere che gli permette di andare avanti, che gli permette di penetrare nell’animo umano». Franco D’Intino professore dell’Università “la Sapienza” di Roma conferma che Leopardi è un poeta pieno di energia, è soprattutto una mente geniale come ce ne sono pochissime. Il poeta possedeva una creatività che non si è mai interrotta, un’autostima, una certezza di sé, una voglia di contare, anche di essere famoso. Tutti tratti che non appartengono al quadro clinico di un depresso. Giacomo si è sempre ribellato: nato nel 1798 sotto lo Stato pontificio, a vent’anni, nel 1818 abbandona la religione e diventa ateo. Critica aspramente la madre Adelaide Antìci, fervente cattolica, affermando in una lettera che sebbene prima avesse una grande sensibilità, è ridotta così a causa della religione e della ragione. Non tollera più il padre Monaldo, uomo bigotto e reazionario che rifiuta i valori della Rivoluzione francese, iperprotettivo verso Giacomo, comportamento che il figlio diventato adulto, rifiuta. Quando a ventuno anni tenta invano di fuggire da Recanati, scrive una lettera (mai inviata) al padre in cui afferma che lui «non è fatto per vivere come i suoi antenati». Rifiuta di identificarsi con il padre e lo accusa aspramente di non aver mai avuto fiducia nei figli. «Ella non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande» scrive Giacomo. A Napoli si scontra con gli intellettuali hegeliani e con i cattolici che censurano le sue Operette morali perché fortemente intrise di ateismo. Questi sono solo alcuni dei tanti esempi in cui emerge l’immagine di un uomo capace di opporsi ad ogni sopruso. Ma come si concilia questa vitalità prorompente con il pessimismo che lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni? Per rispondere a questa domanda non è sufficiente dire che Leopardi appartiene a quella corrente degli scrittori romantici della prima metà dell’800 nei quali prevale lo stato malinconico, uno struggimento che ha in sé però una vitalità che non li rende mai passivi. Infatti, anche quando pensa che la natura non sia più buona, ma la definisce una matrigna cattiva, Leopardi lotta contro di essa. Questo contesto storico-culturale non spiega del tutto i momenti in cui Giacomo cade in una desolazione senza fine. Una disperazione che manifesta in molti suoi versi, come nella poesia “A Silvia”in cui scrive: «Anche peria tra poco/ la speranza mia dolce: agli anni miei /anche negaro i fati/ la giovinezza». Dai suoi scritti potrebbe emergere a prima vista un quadro depressivo. L’ipotesi che possiamo fare è che la sua visione cupa della vita non fosse dovuta a una depressione, patologia mentale che implica una lesione dell’immagine interna, ma ad una oppressione esterna cui Leopardi si oppone, mantenendo la sua integrità. In entrambi i casi il tono dell’umore è basso, ma c’è una differenza sostanziale.
Nella depressione la persona presenta, per le molte delusioni, ferite dell’Io che lo hanno reso poco resistente a quei rapporti che negano o annullano la sua identità. Il mancato riconoscimento da parte dell’altro lo fa cadere nell’odio, un sentimento che poi viene rivolto verso se stesso, aumentando sempre più la propria disistima.
Invece, qualora sia presente un’oppressione, come pensiamo nel caso di Leopardi, di fronte all’elemento patogeno esterno che lo fa soffrire, l’individuo non si ammala perché non va incontro né al vuoto mentale né a quello affettivo. Pertanto in questa circostanza, non possiamo parlare di patologia, ma di una dolorosa lotta per preservare la creatività e gli affetti. Giacomo era consapevole di essere circondato da un ambiente opprimente e mortifero. Nel novembre del 1819, non essendo riuscito a fuggire dal “borgo natio” scrive a Pietro Giordani: «Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua…». Leopardi, caduto in uno stato di desolazione, avverte il vuoto dell’ambiente intorno a sé, ma non ha la conoscenza delle dinamiche della realtà interna, conoscenza che lo renderebbe più resistente agli attacchi. Non ha compreso che la natura matrigna che dà la vita e poi la distrugge, è la rappresentazione della madre anaffettiva, come suggerisce la professoressa Cacciapuoti.
Ho potuto studiare e approfondire la personalità di Leopardi in occasione di un convegno dal titolo “Profondissima Quiete” promosso dall’associazione Ipazia ImmaginePensiero nel settembre del 2017. Gli spunti per quella ricerca li avevo trovati negli scritti e nei seminari di Analisi collettiva condotti dallo psichiatra Massimo Fagioli per più di quaranta anni. Per Fagioli gli artisti possiedono un grande intuito perché conservano la sensibilità di quel periodo della vita in cui la parola ancora non c’è. Lui scrive: «I poeti riescono a urlare, lamentarsi, ridere e cantare proprio come neonati». E a proposito de “L’infinito”, in Left del 23 aprile 2016 si legge: «La fantasia di Leopardi, realizzando la solitudine, crea parole nuove che parlano del misterioso silenzio della nascita».
Se si ricrea la “nascita”con parole nuove, allora non c’è alcuna malattia mentale.

L’articolo di Maria Sneider è stato pubblicato su Left del 25 gennaio 2019


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Un padre, la Shoah e l’energia della memoria

Qual è il peso della memoria? È una domanda che spesso ci rivolgiamo, che il mondo ci chiede di porre a noi stessi. Eppure oggi, a ottant’anni (quasi ottantuno) dalla nefasta promulgazione delle leggi razziali fasciste dell’altrettanto nefasto governo di Mussolini, questo interrogativo appare opaco, raggrinzito, relegato in un angolo dalla dilagante eccitazione delle masse arringate da oratori improvvisati che sbarrano i porti e dichiarano di aver abolito la povertà. La memoria stessa è sopita, o meglio, narcotizzata, legata a un lettino con la camicia di forza e chiusa a chiave in una stanzetta di un manicomio; sia mai che tenti di uscire e di risvegliare la coscienza di gran parte della gente, troppo occupata a scuotere le tasche e far cadere qualche nichelino per pensare a costruire un progetto collettivo, solidale, che possa accogliere e non respingere, donare e non prendere.
A breve giungerà il 27 gennaio, il Giorno della memoria, appunto. Una ricorrenza, qualcosa che “corre di nuovo”, che è fissata per far tornare a un determinato tempo, luogo, evento. Ma se la memoria è rinchiusa, a qualcuno bisognerà pure appellarsi per risvegliarla. Sì, tocca sempre a loro: i testimoni. Testimoni, però, che il naturale scorrere degli anni ci sta purtroppo portando via, uno a uno, e l’unica speranza rimane aggrappata alle loro parole tramandate ai figli, ai nipoti, e attraverso quest’ultimi all’umanità intera. Tuttavia, di frequente accade che i padri siano reticenti a raccontare ai posteri il loro vissuto, soprattutto se al centro del passato si staglia il nero monolite della tragedia, un fardello troppo grande e pesante da trascinare per una persona e che talvolta i genitori preferiscono portare nella tomba invece che addossarlo sulle spalle dei discendenti. Sta quindi alle più giovani generazioni carpire ogni singolo barlume di ricordo, essere abili nell’afferrare il non detto – dove il più delle volte risiede la vera essenza delle tracce dell’esperienza – e a lasciare tutto questo in forma scritta, affinché rimanga scolpito nella storia comune. E di recente qualcuno è riuscito in questo difficile compito.
Il suo nome è Daniel Vogelmann, classe 1948, editore di professione e poeta di vocazione, che ha dato alle stampe un libricino intitolato Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina). E se è vero che…

L’articolo del Kollektiv Ulyanov prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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