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Binario 21: Milano non dimentica la violenza nazifascista

L’atrio di ingresso “muro dell’indifferenza” del Memoriale della Shoah di Milano alla stazione di Milano

Dal binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943, cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso Auschwitz-Birkenau e altri lager (Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli e Bolzano). I vagoni piombati, con il loro carico umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale, poi ripristinata nel dopoguerra e funzionante fino a non moltissimi anni fa.

I convogli, nascosti alla vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori. Furono oltre 1.500 le persone caricate a forza dai repubblichini al servizio dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più. Prima ancora, questo agghiacciante trasporto era stato assicurato da un’azienda di autolinee di Pavia che faceva la spola con il campo di concentramento di Bolzano e l’Austria. Una foto del tempo ritrae il conducente sorridente davanti la corriera. Per i suoi “meriti” sotto il fascismo fu anche insignito di una “benemerenza”. In origine il binario 21, prima dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi visibile tra i mosaici. Dal 27 gennaio 2013 l’originario binario 21, posto nei sotterranei, è parte del Memoriale della Shoah, visitabile.

La prima strage di ebrei
La lunga notte di Milano iniziò con…

L’articolo di Saverio Ferrari prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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Il legame invisibile tra Neruda e Joyce

Non molti sanno che nel 1933 Pablo Neruda tradusse e pubblicò, in una rivista cilena, due poesie giovanili di James Joyce. I motivi di questo connubio appartengono tuttora all’imponderabile e all’ignoto. Due scrittori apparentemente più distanti sarebbe difficile reperirli nell’arco del Novecento. Eppure, quando un poeta traduce un altro poeta, il legame tra i due è sempre profondo, ed è dunque nascosto, velato, quasi indefinibile.

Se un artista si dedica a un altro artista le ragioni sono intime e invisibili; appartengono alla materia oscura del letterario, una materia non buia o nera, ma trasparente, che non emette luce. Ma la critica da sempre rincorre l’idea impalpabile che si possa rintracciare una qualche influenza tra scrittori, per poter poi identificare corrispondenze e affinità, e utilizzarle con l’intento di spiegare, analizzare e razionalizzare le loro opere. Eppure, nell’arte il non visto ha la priorità su quel che si può provare, e quanto è possibile toccare e soppesare è certo meno importante dell’immateriale su cui tutto si fonda.

E allora, il rapporto tra questi due artisti rimane, forse non a torto, scarsamente indagato e ancora meno compreso. Ma comprendere a volte può apparire rischioso, in letteratura, perché significa in un certo senso racchiudere e delimitare; e il vento dell’arte, quello che accarezza le parole come fossero erba, non lo si può in alcun modo intrappolare.

Di questa storia in particolare, quel che conosciamo grazie agli studiosi è che…

L’articolo di Enrico Terrinoni prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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Contrordine, al-Assad non è più il nemico

Syrian youths walk past a billboard showing a picture of Syrian President Bashar al-Assad wearing sunglasses while dressed in a Field Marshal's camouflage fatigues, on display in the centre of the capital Damascus on July 9, 2018, with a caption below reading in Arabic: "If the country's dust speaks, it will say Bashar al-Assad." (Photo by LOUAI BESHARA / AFP) (Photo credit should read LOUAI BESHARA/AFP/Getty Images)

Nel suo palazzo presidenziale a Damasco il presidente siriano Bashar al-Assad si starà sfregando le mani vedendo che sempre più suoi nemici sono pronti nuovamente a riconoscerne l’autorità in Siria. L’ultimo Paese arabo in ordine di tempo ad annunciare la ripresa dei rapporti diplomatici è stato il Bahrain. A dicembre un comunicato del ministro degli Esteri bahranita certificava quello che un tempo, soprattutto nel biennio 2012-2013, sembrava impossibile: la vittoria del leader baathista nella guerra civile siriana. Nella nota, Manama affermava di essere «ansiosa di continuare le relazioni» con Damasco e di agire «in modo da preservare l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale della Siria prevenendo così il rischio di interferenze regionali nei suoi affari». Le parole erano accompagnate da una promessa: la riapertura dell’ambasciata del Bahrain in Siria. Pura formalità per i due Stati arabi che già da un po’ di tempo collaborano alla luce del sole: l’ambasciata siriana è già operativa nel piccolo arcipelago del Golfo e i voli tra i due Paesi sono ripresi. La mossa di Manama ha fatto seguito a quella simile degli Emirati Arabi Uniti ed è emblematica della sconfitta dell’asse sunnita (Paesi del Golfo e Turchia) che aveva puntato tutto sui “ribelli” siriani (per lo più islamisti quando non qaedisti) nel tentativo di infliggere un duro colpo al blocco sciita guidato dall’Iran, alleato di Damasco.
La retromarcia su al-Assad del Bahrain e degli Emirati certifica che gli Stati arabi si stanno preparando a…

L’articolo di Salvatore Prinzi prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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C’è un’altra Italia, che tifa Riace

Una sorta di “mitica congiunzione astrale”, ci pone oggi di fronte a quattro fatti: la chiusura della campagna a sostegno della candidatura di Riace a Nobel per la Pace, che registra uno strepitoso successo (i cui risultati saranno resi noti alla conferenza stampa del 30 gennaio); la respinta, per tecnicalità dell’ordinamento, dell’istanza di revoca delle misure giudiziarie che tengono, incomprensibilmente, fuori dalla sua casa e dal suo paese per il reato di “solidarietà umana” il sindaco di Riace Domenico Lucano; il riemergere ancora dal cuore del Mediterraneo delle urla disperate di centinaia di bambini, donne, uomini in fuga dall’orrore ed in cerca di una speranza di vita e di futuro; il cinismo agghiacciante dell’Unione europea e dei governi nazionali che la compongono e ne determinano le politiche. Ne esce un quadro dai contorni tetri dal quale si staccano le stesse leggi di solidarietà e soccorso della civiltà del mare. Ma, all’opposto, si intravedono barlumi di speranza e possibilità di cambiamento. Per definire gli aspetti cinici ed agghiaccianti di questa situazione parole non ce ne sono più. E quelle che escono dalle bocche dei governanti di oggi suonano oscure, o menzognere, o ipocrite. E ripropongono nella sua condizione un’Europa intergovernativa, politicamente inconsistente, incapace, per il prevalere in essa degli egoismi nazionali e di politiche insostenibili, di dare risposte sia di ordinaria umanità, sia di valenza geopolitica, che siano commisurate alla sua dimensione economica, civile e storica. Come si legano – dirà qualcuno – i fatti sopra richiamati, considerata la loro diversità per dimensioni, logiche e funzioni? Sembrerebbe….

L’articolo di Mimmo Rizzuti prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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Processo Cucchi, l’avvocato Anselmo: «Proseguono i depistaggi»

ROME, ITALY - OCTOBER 24: Ilaria Cucchi and lawyer Fabio Anselmo during the trial against five military police officers for the death of Stefano Cucchi, oon October 24, 2018 in Rome, Italy. The trial Cucchi bis, in which five Carabinieri are accused in the beating and death of Stefano Cucchi, a 32-year-old who died on October 22, 2009 at the Sandro Pertini hospital in Rome, six days after being arrested for possession of drugs., (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images) *** ILocal Caption *** laria Cucchi;Fabio Anselmo

«Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Testimoni che vengono avvicinati, depistaggi che si stanno protraendo nel tempo e continuano mentre è in corso questo procedimento», dice Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, in apertura di udienza. Il processo sulla morte di Stefano Cucchi, e quello che gli è accaduto intorno, e ancora gli accade, restituisce uno spaccato inquietante sul contegno dell’Arma, dalle stazioni in cui s’è svolta la tragedia del giovane geometra romano, nei sei giorni dell’ottobre del 2009 in cui è stato in balìa di chi avrebbe dovuto garantirne l’incolumità, dall’arresto fino alla morte, lontano dagli occhi di tutti, nel repartino penitenziario del Pertini. Anselmo, legale di questa e altre parti civili in processi di malapolizia, si riferisce al filone dell’indagine sui falsi e sulle presunte pressioni dei vertici dei carabinieri seguiti al pestaggio e alla morte di Cucchi. «Possiamo anche voltarci dall’altra parte e dire che saranno oggetto di altri procedimenti – ha detto ancora – ma esprimo tutto il mio rammarico rispetto alla reiterazione di questi episodi in queste forme illecite e inaccettabili in uno Stato di diritto».

Il 12 novembre 2009, ci fu una riunione, venti giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, che si svolse alla Cecchignola, convocata dall’allora comandante provinciale dei carabinieri di Roma per fare il punto sulla vicenda e in quella occasione si parlò anche del caso Marrazzo, scoppiato il 23 ottobre, per un’estorsione di cui fu vittima pochi mesi prima l’ex governatore e per la quale lo scorso novembre sono stati condannati quattro carabinieri. Emilio Bucceri, all’epoca comandante della stazione Appia (ma non in servizio in quel periodo) è stato sollecitato proprio su quella riunione in questo processo bis davanti alla I Corte d’assise del Tribunale di Roma.

«L’unica riunione alla quale ho partecipato fu un briefing indetto dall’allora comandante provinciale in una nostra caserma alla Cecchignola – ha detto Bucceri – c’erano il comandante provinciale e, scendendo la scala gerarchica, i comandanti di gruppo, quelli di compagnia e quelli delle stazioni. Da poco c’era stato anche l’accadimento Marrazzo, dove erano coinvolti dei carabinieri per una vicenda estorsiva e fu fatto riferimento dal generale Tomasone a questi due fatti e alla gestione del personale». Questa riunione si svolse una decina di giorni dopo quella nella sede del comando a Piazza San Lorenzo in Lucina alla quale però il maresciallo Bucceri non partecipò. Nel corso del suo esame, ha ricordato quanto gli disse il maresciallo Roberto Mandolini, suo vice e imputato in questo processo, poco dopo la morte di Cucchi: «Riferendosi alla Polizia penitenziaria, mi disse “glielo l’abbiamo consegnato che era sano…Ci vogliono tirare dentro”».

Una delle molle ad innescare i depistaggi sulla vicenda potrebbe essere stata proprio la concomitanza con i due scandali – Marrazzo e Cucchi – che coinvolsero la compagnia Trionfale e quella di Montesacro della Benemerita, il terrore per la loro risonanza mediatica e le ripercussioni sulle carriere di grandi e piccoli gradi.

In aula oggi ha parlato anche Giuliana Tedesco, la sorella di uno degli imputati, Francesco Tedesco, il carabiniere che, nove anni dopo ha deciso di smarcarsi dai suoi colleghi: «Fu un’azione combinata – aveva dichiarato il militare -. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra. Gli dissi “basta, che cazzo fate, non vi permettete”. […] “colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto” e l’altro “gli dava un forte calcio con la punta del piede”». Questo si legge nei verbali e sua sorella ha aggiunto qualche tassello.

Dopo l’apertura dell’inchiesta bis, non appena seppe di essere indagato, Tedesco le chiese di custodire un computer. Da lì avrebbe scritto la relazione di servizio subito dopo la morte di Stefano. Che fine ha fatto quella carta? È stato accompagnando suo fratello negli incontri col suo legale che Giuliana Tedesco ha appreso, pezzo per pezzo, la vicenda in cui è coinvolto il fratello minore. Per esempio sentì che «Cucchi venne picchiato da due carabinieri che non stavano nei verbali». Inoltre scoprì la tensione che correva tra suo fratello e i suoi colleghi coimputati e l’inconsueto comportamento «paternalistico» del maresciallo Mandolini, il loro comandante di stazione che, in genere «era uno che faceva pesare il grado». Sarebbe molto cambiato suo fratello dopo la sospensione: «Da lì ha iniziato a staccarsi da questo ambiente e ad essere libero mentalmente. È cambiato tantissimo, forse si è rassegnato».

Il ruolo di Mandolini, comandante dei carabinieri che secondo l’accusa arrestarono e pestarono Cucchi, sta emergendo piano piano, mentre i giorni prima di questa udienza sono stati costellati da altre scoperte (una radiografia taroccata delle vertebre di Cucchi, gli appelli allo “spirito di corpo” rivolti da un ufficiale a un maresciallo che doveva venire a testimoniare) dell’inchiesta parallela, quella che scaturisce dalle rivelazioni in aula e di cui ha fornito un saggio il capo della squadra mobile di Roma che sta conducendo le indagini per conto del pm Musarò.

Il suo esame continuerà l’8 febbraio alla ripresa del processo ma già oggi Luigi Silipo ha illustrato in aula le intercettazioni che chiariscono la vicenda delle annotazioni di servizio dei due piantoni in servizio nella caserma di Tor Sapienza dove Cucchi passò la notte dopo l’arresto. Quelle dichiarazioni furono “aggiustate” dal tenente colonnello Cavallo, vice comandante di gruppo a Roma all’epoca dei fatti. Uno dei due carabinieri rifiutò di metterci la faccia, l’altro accettò le pressioni dall’alto e ora è indagato a sua volta. In un’altro file Di Sano, il carabiniere che ha firmato l’annotazione taroccata parla con suo cugino, che è avvocato e gli consiglia di conservare lo screenshot delle mail «per ricattare l’Arma» (altra ipotesi di reato). Anche un maresciallo, comandante a quei tempi a Tor Sapienza, chiese a sua figlia di insegnargli come si fa a fotografare le schermate del computer. Il suo comandante di compagnia, da quanto sta emergendo dall’analisi delle intercettazioni, gli consigliò di non farsi troppe domande.

Chiunque, in questa storia, teme perquisizioni, intercettazioni, teme o esercita ritorsioni, prova a fare qualche mossa per pararsi, spesso commette altri reati magari perché per tre mesi, come il carabiniere che firmò l’annotazione fasulla, non riusciva a tornare a casa. Tutti si erano resi conto delle condizioni di Stefano che, invece, nelle annotazioni di servizio furono minimizzate. E, invece di una seria inchiesta interna, il governo di allora dichiarò l’estraneità a prescindere della Benemerita (ministro della Difesa era La Russa) e i vertici dell’Arma convocarono quella che un maresciallo, intercettato, chiamò «la riunione degli alcolisti anonimi» coinvolgendo tutti quelli che ebbero a che fare con Stefano nelle primissime ore del suo calvario.

Il Memoriale della Shoah, un simbolo contro l’indifferenza che oggi va sempre più combattuta

Alcuni vagoni usati durante la Seconda Guerra Mondiale per il trasporto degli ebrei nei campi di concentramento e sterminio, sul binario 21 della stazione Centrale di Milano, 26 gennaio 2012. Il luogo e' rimasto intatto e sono in corso lavori per trasformarlo in Memoriale. MATTEO BAZZI / ANSA

Non ci si pensa mai quando si sale su un treno alla stazione centrale di Milano che per molti quei binari grigi e freddi siano state le ultime cose viste da persone libere, ancora in possesso di un’identità e in alcuni casi vive. Non ci si pensa affatto mentre si corre verso un convoglio che sta partendo senza aspettarci, sul quale poi saliremo per lamentarci delle condizioni igieniche o dei ritardi, di come alla fine il nostro, per lavoro o per diletto, sia comunque un buon viaggio. Dovremmo invece rifletterci, soprattutto quando ci troviamo a camminare sulle banchine degli ultimi binari, quelli che portano sotto di loro il vuoto di un tempo diverso. Un tempo in cui i biglietti erano di sola andata.
Già perché dal livello sottostante durante la seconda guerra mondiale partirono diversi treni stipati di persone verso il campo di concentramento di Auschwitz e proprio lì alcuni anni fa è sorto il Memoriale della Shoah, accessibile dal lato esterno dell’edificio.
Entrandoci, il senso di vuoto e inadeguatezza è immediato e arriva dritto allo stomaco. E al cuore. Una sensazione voluta, come conferma Talia Bidussa, responsabile eventi del Memoriale. «Tutto qui è pensato per spingere il visitatore a sentirsi scomodo e a disagio con se stesso. La struttura è quella originale, non sono state neanche ridipinte le pareti e chi la visita può entrare nei vagoni, sentendo sulla propria testa il rumore dei treni che partono, esattamente come succedeva tra il 1943 e il 1945 in modo da connettersi ancora di più con ciò che è stato».
E ciò che è stato è una narrazione fredda come lo è quel sotterraneo, all’epoca adibito al carico-scarico merci prima di trasformarsi nel punto di partenza delle deportazioni. Un particolare non trascurabile visto che proprio il fatto che si trattasse di un luogo abitualmente frequentato contribuì a non destare alcun sospetto nei milanesi. «Nemmeno gli abitanti del quartiere, essendo soliti vedere piccoli furgoni entrare e uscire, fecero caso ai movimenti delle SS, senza contare che l’arrivo dei deportati avveniva quasi sempre durante il coprifuoco».
L’approdo in stazione non era che l’atto conclusivo di un agghiacciante iter che aveva inizio ben prima, con l’incarcerazione delle persone che si era deciso di eliminare a San Vittore, a quel tempo unico carcere milanese. Da lì, raggiunto un numero sufficiente per giustificare un viaggio le si spostava in stazione, su vagoni che altro non erano se non veri e propri carri bestiame muniti solo di un po’ di paglia a terra e un secchio per urine e feci. Potevano ospitare otto cavalli, contennero fino a ottanta persone per volta. Una volta riempiti non restava che porli su un montacarichi diretto al piano superiore in corrispondenza dei binari 18 e 19, attaccarli alla locomotiva e farli partire.
Non al 21, dunque, come erroneamente si pensa. «Un’inesattezza che risale a quando iniziando la riscoperta di questo luogo si credette che il binario fosse esattamente quello corrispondente al sottostante. Quando si scoprì che non era così, il nome Binario 21 era già entrato nella mente di tutti e anche se a contare è la storia e non questo dettaglio è giusto specificare l’inesattezza per evitare di prestare il fianco ai negazionisti che cercano ogni minima falla nelle informazioni per contestare l’incontestabile».
A quel punto l’ultimo viaggio poteva avere inizio, almeno sette giorni ininterrotti, affrontati senza cibo né acqua o con solo pochissime razioni a disposizione. «La durata stessa del tragitto, molto superiore al tempo realmente necessario per raggiungere il campo di concentramento, chiarisce come esso stesso fosse già pensato come mezzo di sterminio visto che molte persone non arrivarono nemmeno a destinazione», continua Talia.
Furono venti i treni a partire dalla stazione centrale, cinque carichi di oppositori politici, tre di oppositori ed ebrei e dodici di soli ebrei. Tra di loro anche la senatrice a vita Liliana Segre, tra le pochissime persone ad avere la fortuna di tornare nella sua Milano, che oggi abbraccia un luogo che vuole accendere un faro sul passato ma anche suscitare una riflessione sul presente.
All’ingresso una scritta fortemente voluta dalla stessa Segre inchioda tutti alle proprie responsabilità: indifferenza. Quella di allora e quella di oggi, che non si deve temere di mettere sullo stesso piano perché l’indifferenza verso l’altro è unica e percorre fatalmente binari di sola andata. Ed è appunto attraverso l’analisi di un fenomeno mai sopito e oggi tornato dirompente più che mai sia nel quotidiano di ognuno che nel dibattito politico, che dovrebbe scatenarsi una profonda riflessione sull’io, su cosa facciamo a volte consapevolmente altre meno, per rendere un altro essere umano vittima della nostra indifferenza. E al contrario cosa invece facciamo per impedire il ripetersi di certe mostruosità o il fiorire di nuove, non meno pericolose forme di esse.

Giulio Regeni, una scomoda verità per lo Stato italiano

Italian Prime Minister Giuseppe Conte (R) with Egypt President Al Sisi at the "Conference on Libya" in Palermo, Sicily island, Italy, 13 November 2018. ANSA/FILIPPO ATTILI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Un irritante. Nel gergo dei diplomatici un caso come quello di Giulio Regeni è definito proprio così, irritante. Per capirci, anche l’omicidio di alcuni pescatori poverissimi da parte dei famosi due marò fu un irritante caso tra India e Italia. Le relazioni tra due Paesi sono un affare complesso e le vite delle persone in carne e ossa suscitano tutt’al più risentimento, stizza, fastidio; così recitano i dizionari alla voce irritante. Ma non possono rallentare più di tanto gli affari.
Questo succede tra Italia ed Egitto: i dossier minori – ad esempio la cooperazione interuniversitaria, Regeni era lì per questo – sono rallentati, a volte congelati. Il dialogo politico continua e vanno avanti gli scambi commerciali. Ancora per usare il gergo delle feluche, questo processo si chiama “ambiguità costruttiva”.
«Rompendo i rapporti non hai più leve – spiega a Left una fonte esperta di Farnesina – e se quegli affari non li fai tu, è pronto a farli qualcun altro. Al Cairo c’è la fila: gli emirati del Golfo, Russia, Cina, Gran Bretagna». Oppure Macron: «L’Italia è il primo partner commerciale dell’Egitto – ricorda Maaty Elsandoubi, giornalista egiziano impegnato nella lotta per la verità sul caso Regeni e per i diritti umani sulle due sponde del Mediterraneo – ma è insidiato da Macron che sta vendendo armi ad al-Sisi e si conferma un concorrente politico e commerciale in quello scacchiere». Il generale Haftar, l’uomo che controlla la Cirenaica e che sta bloccando la riconciliazione in Libia, è legatissimo al dittatore egiziano (entrambi erano alla conferenza di Palermo convocata dal governo giallonero) che, a sua volta…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 25 gennaio 2019


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Riace Nobel per la pace 2019, conferenza stampa con Mimmo Lucano

Roma, 30 gennaio 2019 ore 12.00 presso la sede del settimanale Left in via Ludovico di Savoia 2/b

Sarà presente Mimmo Lucano

Riace è l’impegno per la Pace coronato dal successo. L’esperienza di accoglienza del piccolo Comune calabrese ha attivato un processo virtuoso di integrazione e buone pratiche che ha fatto scuola in tutta Europa.

L’Organizzazione per le Migrazioni dell’ONU – OIM stima che solo nella pericolosa rotta Libia-Italia, negli ultimi 5 anni, le vittime sono state 17.644, più della metà di tutti i migranti morti nel mondo.

Con la guida coraggiosa di Mimmo Lucano, Riace e la sua comunità hanno accolto oltre 6.000 immigrati che hanno, a loro volta, insieme con gli abitanti rimasti, cambiato il volto del paese della Locride in via di inarrestabile spopolamento.

Tutto comincia nel 1998 quando sulla spiaggia di Riace approda un veliero con a bordo 220 curdi, incrociato da Domenico Lucano e dai suoi amici che istintivamente, aprono porte e case. Dal 2005, con il costante, impegnato supporto della Rete dei Comuni Solidali, si attivano botteghe artigiane e si dà il via ad un fiorente turismo sociale e solidale. Riaprono le scuole e un asilo multietnico, si crea un ambulatorio medico, si rimettono in moto attività produttive.

Un Paese rivive, accogliendo, rinnovandosi, sbarrando la strada alle attività criminali, in nome dell’Umanità. Due realtà completamente diverse, un territorio estremamente complesso, in tanta parte svuotato dall’emigrazione e una comunità di persone in fuga dalla guerra e dalla povertà, danno vita ad un’esperienza unica di pace praticata che ha contribuito al progresso della Pace e dei Diritti Umani e al rafforzamento della Democrazia in tutta Europa.

Riace ha difeso e ha restituito prospettive ai riacesi rimasti e dignità ai migranti che sono costantemente ricattati dai trafficanti di esseri umani, alla mercé dei capi banda libici, oppressi dalla guerra, vittime dell’indifferenza e del cinismo dell’Occidente che alza muri, chiude porti e criminalizza la solidarietà.

Riace e Domenico Lucano sono sotto accusa. Ma Riace, espressione concreta di “fraternità tra i popoli”, va avanti perché soccorrere è un dovere e chiudere i porti un crimine.

 

Il Comitato promotore:
Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, ANPI, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, Solidarietà e Cooperazione Cipsi, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano

Il logo dell’iniziativa è disegnato da Gianluca Costantini

Il bomber senza rete

Ansou ha anche un profilo Instagram. Gli hanno insegnato che il primo passo per diventare un calciatore è crederci, del tutto, anche se giochi in un campo in cui le righe se le sono mangiate le erbacce e il fondo è duro come un dente. Allora eccolo lì, Ansouneymar che sorride nello spogliatoio, abbracciato ai compagni che lo chiamano fratello. Mercoledì è tornato in campo per l’allenamento: corse, torello e la partitella finale su un campo di granita di fango. Ma Ansou la stanchezza non la sente, no: gioca il sabato con la squadra Juniores e la domenica con la prima squadra. Non ha paura di correre: a 19 anni è partito dal Senegal, ha corso per terra e per mare fino al primo stop a Lampedusa. Poi Castelnuovo di Porto. Ansou gioca nella Castelnuovese, la squadra di Castelnuovo di Porto. Sì, quel Castelnuovo di Porto che è il primo esperimento di deportazione senza meta deciso dal ministro dell’inferno con il suo decreto Sicurezza.

E per sapere esattamente cosa sia questo decreto che dovrebbe renderci più sicuri basta chiederlo a Ansou Cissè che nell’innocenza dei suoi 19 anni ti racconta che era arrivato due anni fa e ora gli sembra un miracolo che tutti gli vogliano bene.

Poi, nei giorni scorsi, i suoi amici del Cara di Castelnuovo di Porto hanno iniziato a fare le valigie. Destinazione: sconosciuta. Conta solo andarsene. Dove? Non si sa. È un po’ come correre sulla fascia senza crossare e senza accentrarsi verso la porta, finendo di corsa tra alla linea di fondo con la palla in mezzo ai piedi. Senza senso, dice lui.

In termini calcistici si direbbe che è stato ceduto a nessuno. Gli mancano otto mesi per sapere se è stato accolto il suo ricorso per la richiesta di asilo politico. Otto mesi sono un campionato intero. La sua storia però ha solleticato la stampa locale, quella che ha bisogno di un po’ di commozione facile per condire la cronaca che di questi tempi è terribile già così.

Eppure, a Castelnuovo di Porto, se si avesse la voglia di ascoltare, hanno tutti una loro storia, anche quelli che non giocano a calcio e che non segnano gol, anche quelli che semplicemente sono finiti per essere solo le ferite che hanno addosso e che a differenza di Ansou non sono capaci di produrre speranza, quelli a cui si è rotta la ghiandola del futuro.

Ma la storia di Ansou serve, come servirebbe conoscere tutte le loro storie, perché se la smettessero di essere niente sarebbe molto più difficile farcirli solo dei nostri pregiudizi. E sentirci assolti.

Buon venerdì.

Riace Premio Nobel per la pace 2019, le motivazioni della candidatura

È in corso una guerra con migliaia di morti contro i migranti che fuggono da conflitti e povertà e contro le Ong. Riace è un simbolo e la dimostrazione che l’inclusione è possibile. Il suo modello è stato imitato da alcune centinaia di comuni italiani sostenuti dalla Rete dei Comuni Solidali e Virtuosi e da numerosi altri municipi in Germania e in altre Nazioni. Per questo proponiamo la candidatura di Riace. Il premio, se consegnato all’attuale sindaco Lucano, potrà essere gestito per sostenere quest’esperienza che sta chiudendo per mancanza di fondi.

Riace è l’impegno per la Pace coronato dal successo. L’esperienza di accoglienza del piccolo Comune calabrese ha attivato un processo virtuoso di integrazione e buone pratiche che ha fatto scuola in tutta Europa.

L’Organizzazione per le Migrazioni dell’ONU – OIM stima che solo nella pericolosa rotta Libia-Italia, negli ultimi 5 anni, le vittime sono state 17.644, più della metà di tutti i migranti morti nel mondo.

Con la guida coraggiosa di Mimmo Lucano, Riace e la sua comunità hanno accolto oltre 6.000 immigrati che hanno, a loro volta, insieme con gli abitanti rimasti, cambiato il volto del paese della Locride in via di inarrestabile spopolamento.

Tutto comincia nel 1998 quando sulla spiaggia di Riace approda un veliero con a bordo 220 curdi, incrociato da Domenico Lucano e dai suoi amici che istintivamente, aprono porte e case. Dal 2005, con il costante, impegnato supporto della Rete dei Comuni Solidali, si attivano botteghe artigiane e si dà il via ad un fiorente turismo sociale e solidale. Riaprono le scuole e un asilo multietnico, si crea un ambulatorio medico, si rimettono in moto attività produttive.

Un Paese rivive, accogliendo, rinnovandosi, sbarrando la strada alle attività criminali, in nome dell’Umanità. Due realtà completamente diverse, un territorio estremamente complesso, in tanta parte svuotato dall’emigrazione e una comunità di persone in fuga dalla guerra e dalla povertà, danno vita ad un’esperienza unica di pace praticata che ha contribuito al progresso della Pace e dei Diritti Umani e al rafforzamento della Democrazia in tutta Europa.

Riace ha difeso e ha restituito prospettive ai riacesi rimasti e dignità ai migranti che sono costantemente ricattati dai trafficanti di esseri umani, alla mercé dei capi banda libici, oppressi dalla guerra, vittime dell’indifferenza e del cinismo dell’Occidente che alza muri, chiude porti e criminalizza la solidarietà.

Riace e Domenico Lucano sono sotto accusa. Ma Riace, espressione concreta di “fraternità tra i popoli”, va avanti perché soccorrere è un dovere e chiudere i porti un crimine.

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Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

Link al Modulo online per le aderire come organizzazione

Link al Modulo online per aderire come privato cittadino

Link al Modulo online per aderire come parlamentare o ex parlamentare

Grazie!

Il Comitato promotore:
Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, ANPI, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, Solidarietà e Cooperazione Cipsi, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano

Il logo dell’iniziativa è disegnato da Gianluca Costantini

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Leggi anche CANDIDIAMO MIMMO LUCANO AL NOBEL PER LA PACE  un articolo di David Armando e Natascia Di Vito

Per approfondire, Left del 12 ottobre 2018


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