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Il terremoto dei beni culturali nelle Marche

L’elmo piceno di tipo corizio appartenente alla collezione archeologica alla Pinacoteca “Scipione Gentili” di San Ginesio? Al Palazzo Campana di Osimo. La “Madonna del Carmine con Bambino e Santi” del XVII secolo nella Chiesa S. Sebastiano a Castelfantellino di Ussita? Nel deposito “V. Pennesi” di Camerino. Come la “Crocefissione con Santi” del 1724 di Baldassare Alvarez dalla Chiesa di Santa Croce al Sorbo di Ussita. La scultura lignea policroma del XVI secolo raffigurante il Gesù Ecce Homo, nella Collegiata di San Salvatore, a Sant’Angelo in Pontano? Nel Palazzo arcivescovile di Villa Nazareth a Fermo. Ancora, la “Madonna in trono con santi” di Eusubio da San Giorgio, del 1512, dalla Chiesa di San Francesco a Matelica? Nell’annesso convento.
Il post terremoto dei beni culturali continua a segnalare criticita. Non solo per il vasto patrimonio immobiliare. Ma anche per quello dei beni mobili. Insomma libri, documenti archivistici, materiali archeologici, dipinti, arredi ecclesistici e affreschi. Recuperati, in parte e messi in sicurezza, anche in spazi “di fortuna”. Non di rado geograficamente lontani dai luoghi di provenienza. Nelle Marche, più che nel Lazio e in Abruzzo.
“Nella regione é in corso una vera e propria emergenza sullo stato di conservazione dei beni sottratti alle macerie. Aspettiamo ancora un piano concreto di messa in sicurezza, di gestione dei beni recuperati e una prospettiva per la loro fruibilità … Ciò significherebbe dare una prospettiva concreta per piani di promozione turistica e punti di riferimento per la cittadinanza”. Francesca Pulcini, presidente di Legambiente Marche, é preoccupata. Il 24 agosto l’Unità di crisi e coordinamento Marche ha pubblicato un report sintetico, per cui per avere un’analisi è necessario fare riferimento alla Relazione sull’Unità di crisi e coordinamento Regionale Marche, pubblicata a luglio 2018. I dati che vengono riportati inequivocabili, con l’elenco degli immobili su cui sono stati effettuati interventi di messa in sicurezza, sia quelli “a diretta gestione del Mibact”, che quelli “gestiti da altri Enti” e l’elenco degli immobili sui quali é stato effettuato il rilievo del danno. Ci sono gli elenchi dei beni mobili, dei beni archivistici, dei beni archivistici e librari. Sia quelli nei depositi a diretta gestione Mibact, sia quelli in luoghi non gestiti dal Mibact.
Ad oggi sono stati recuperati ben 13.211 (13.308 ad agosto) beni mobili, dei quali 1563 si trovano nei depositi del Mibact. Presso la Mole di Ancona, 1423 (1433 ad agosto), prevalentemente opere a carattere ecclesistico appartenenti a diocesi o ordini religiosi diversi danneggiate in modo diretto dal sisma o la cui permanenza in edifici a rischio avrebbe comportato la loro perdita. Presso il Forte Malatesta di Ascoli, 140, prevalentemente opere provenienti dal Comune di Arquata del Tronto.
I restanti 11.648 pezzi sono collocati in altri depositi o luoghi di ricovero. Come il Palazzo Vescovile di San Severino, i Sotterranei del Palazzo apostolico e il deposito “V. Pennesi” presso l’attuale Arcivescovado di Camerino. Come lo stabilimento “Ex Carbon”, ad Ascoli Piceno, alcuni spazi presso l’Arcivescovado della Curia di Ascoli, e Villa Nazareth, a Fermo, per le opere grandi e in generale per gli arredi liturgici. Come l’Istituto Campana ad Osimo, che ospita i beni provenienti dai comuni della Rete Museale dei Sibillini e la ex Chiesa Collegiata di Amandola. A questi vanno aggiunti altri luoghi di ricovero temporanei, individuati nelle vicinanze degli immobili di provenienza.
Nella relazione sull’Unità di crisi e coordinamento Regionale Marche si fa riferimento anche “ai 3535 metri lineari circa di beni archivistici e circa 5487 volumi di beni librari che sono stati prontamente messi in sicurezza”. Certo è che la lista degli archivi locali sui quali è necessario intervenire è ancora lunga. Non diversamente dai fondi librari.
“Oggi ho potuto constatare di persona l’ingente lavoro svolto, fondamentale e necessario per procedere al recupero di questo patrimonio e alla restituzione alle comunità di appartenenza delle opere custodite nei depositi temporanei”. Il ministro dei beni e delle attività culturali Alberto Bonisoli, lo scorso 26 giugno in una visita a Norcia e Visso, ha parlato quindi di “restituzione”. Con finalità evidentemente connesse anche alla riattivazione del turismo. Peccato che la fruibilità dei beni mobili continui ad essere ancora lontanissima. Che si tratti di una operazione monstre, é evidente. Ma, altrettanto chiaro, che non sembra che l’intera macchina statale abbia, nella sua totalità profuso, sforzi. Un esempio per tutti. “Questo ufficio seguendo quanto richiesto dalla direttiva Franceschini 2015 si è attivato già dal 2015 nel cercare un luogo da destinare a deposito dei beni recuperati cercando in prima istanza di individuare luioghi di proprietà statale-demaniale. Ultimo sollecito fatto da questo istituto é stato il 14 marzo 2018 … all’Agenzia del Demanio con oggetto “Richiesta assegnazione deposito a diretta gestione Mibact per ricovero beni recuperati dal sisma”. All’oggi non è pervenuta nessuna risposta ufficiale”. Insomma il Demanio non risponde. Dal 2015.
Così ci si è dovuti attrezzare come possibile, Facendo ricorso a spazi d’emergenza, che non possono consentire di certo la fruibilità. Considerato che per il ritorno nei luoghi di origine, quando possibile, non sono previsti tempi brevi, sarebbe stato auspicabile fare di più. Già, perchè lo stato provvisorio rischia davvero di diventare definitivo.
“Tutte le opere torneranno nei luoghi da dove sono state salvate. Come per le opere che recuperiamo con i carabinieri dai furti, la direttiva che ho dato è che ognuna torni nel luogo di provenienza”. Franceschini, visitando il deposito alla Mole vanvitelliana ad Ancona, a febbraio 2017, era sembrato categorico. Lo stato decritto nella relazione di luglio sembra contraddirlo. A Giugno scorso il ministro Bonisoli ha “promesso assunzioni per opere d’arte ferite”. Non rimane che aspettare. Ancora.

La politica di dividersi il pane

Qualche giorno fa su queste pagine avevo raccontato della moderna segregazione razziale di cui scodinzola fiera la sindaca leghista di Lodi Sara Casanova. Per sintetizzare: la giunta comunale ha deciso che per usufruire di alcuni servizi scolastici (tra cui la mensa) i cittadini stranieri (sia chiaro: regolari) che abitano a Lodi devono presentare documenti aggiuntivi rispetto agli italici lodigiani che attestino di non avere proprietà immobiliari (o presunti depositi di lingotti d’oro) nei Paesi di provenienza. Che le stesse ambasciate dichiarino praticamente impossibile ottenere quei documenti da Paesi in cui il demanio e la burocrazia siano praticamente inesistenti perché affossati dalle guerra sembra non interessare alla sindaca. E così, da qualche giorno, nelle scuole lodigiane ci sono alcuni bambini che mangiano separati dagli altri, con ciò che portano da casa.

I dirigenti scolastici e gli insegnanti ancora una volta attutiscono come possono le miopie della politica (anche questo è un classico, ormai) ma la città si è rivelata migliore della sua amministrazione. Riccardo Cavallero (lodigiano ex manager della Mondadori) ha rinunciato all’onorificenza cittadina ricevuta nel 2014 spiegando in una bella lettera alla sindaca che «in un momento di particolare difficoltà e di crescenti tensioni sociali, questa misura ha il solo effetto di esacerbare ulteriormente gli animi e di vessare ancora, casomai ce ne fosse bisogno, i più disagiati» e sottolineando come «la cosa ancora più grave è che a farne le spese sono dei bambini che, inevitabilmente, si ritroveranno a vivere un’ulteriore esperienza di emarginazione senza capirne il motivo»,

Un coordinamento dal nome bellissimo (“Uguali doveri”) sta raccogliendo fondi e preparando il ricorso alla determina del sindaco. Molti genitori hanno sottoscritto una lettera che si conclude così: «Chiediamo quindi che a tutti i bambini sia garantito l’accesso alla mensa e, se non è possibile dare loro un pasto, chiediamo che siano condivisi con loro i pasti dei nostri figli».

Il gesto di dividere il pane con chi ne ha bisogno è l’evento politico più profumato (e più d’opposizione) di questi giorni persi a discutere di biglietti aerei, di bullismo di strapagati portaborse e dei soliti strafalcioni incompetenti. Dividere il pane significa mettere in atto la compassione nel suo senso più rotondo: superare le difficoltà insieme. È quel comune sentire che nei suoi incastri più riusciti accende l’amore, addirittura, tra le persone.

A una pessima decisione si contrappone l’emersione (e la congiunzione) di chi pensa che sia un dovere uscire insieme dalla tribolazione. Ed è politica, questa. La politica.

Buon lunedì.

A Verona, nel laboratorio dell’intolleranza dove si è formato il ministro Fontana

Il ministro Fontana e la sua partecipazione al "Verona family pride" organizzata da Forza Nuova e dal circolo Christus Rex gestito

All’estrema destra del padre. A Verona è così: cerchi i fascisti e trovi i cristiani tradizionalisti. Il veronese ministro della famiglia Lorenzo Fontana, classe 1980, a volte si sente perseguitato «perché – dice – sono cristiano». Quel tipo di cristianità che si impasta con l’aria della Curva Sud del Bentegodi (quelli della “squadra a forma di svastica”, dei manichini impiccati contro i calciatori neri) dove nemmeno un esorcista saprebbe dire dove finisce l’”ira di dio” e dove inizia lo squadrismo. Antirisorgimentali, anticonciliari, sentinelle in piedi o naziskin, gente che crede che i giganti siano esistiti davvero, che i terremoti siano castighi di dio, che non esiste il buco nell’ozono, che rivorrebbe l’imperatore così che non si votasse più ma intanto vota Lega. Ma, più di tutto, gente che crede che «gli dei pagani sono demoni». Basta pescare nei loro siti, Traditio, Agerecontro o Christus Rex, per leggere i consigli di Franco Freda: «È clamorosamente il momento delle destre (…) stringere la cinghia, e i denti, e marciare. Uniti, spavaldi, decisi!». I locali di Traditio sono stati benedetti dal benedettino Romualdo Maria Lafitte per il quale la messa in italiano «non ha validità sacramentale». Matteo Castagna, ex tosiano, è l’articolista di punta: ci spiega che l’immigrazionismo non è cristiano, che il buonismo fa male, che da quando la Chiesa ha sposato la dottrina dei diritti umani (Pacem in Terris di Giovanni XXIII, 1963) «il risultato è il caos». Bergoglio «il luterano che protestantizza la Chiesa», la Caritas e le Ong sono tra i suoi bersagli: «Può Dio volere che l’Europa di Lepanto possa soccombere davanti al Saraceno, sempre più spesso braccio armato e violento di quel sistema mondialista e globalizzato che ha la sua regia nell’alta finanza internazionale in mano a dei poteri sovranazionali? Possiamo dirci dei buoni samaritani se accogliamo chi minaccia di distruggerci e non vogliamo difendere la nostra tradizione in nome di un cosmopolitismo suicida?». L’ossessione per la tradizione accomuna questi cristiani e i fascisti. Razzismo, intolleranza, omofobia vengono giustificati da citazioni bibliche. Dai lugubri argomenti del vecchio testamento alla “guerra santa” è un attimo: a Verona sono avvenute le prime gesta di Ludwig, l’omicidio a martellate di due frati firmato Gott über alles, ma passava da qui anche la “rotta dei topi” che conduceva in Sudamerica i criminali nazisti con logistica di marca pontificia. Dalla rivista Carattere che tentava di “evangelizzare” il Msi alle prime ronde padane, dai concerti nazirock alle messe di purificazione dopo il gay pride o il ramadan, dalle carnevalate antigiacobine (la rievocazione delle Pasque veronesi è foraggiata con i soldi dei contribuenti) fino allo squadrismo omofobo e xenofobo – come documentano la cronaca recente e i dossier degli antifascisti: aggressioni, pedinamenti, atti vandalici, fari delle auto puntati contro le finestre degli appartamenti che accoglievano i rifugiati. A Verona puoi incontrare un bus con la scritta “Non confondete l’identità sessuale dei bambini”; imbatterti in giovani nazisti di Fortezza Europa che assediano una scuola perché gli insegnanti non instillerebbero abbastanza il senso della Nazione, puoi andare al Festival per la Vita nella prestigiosa Gran Guardia e trovarci il sindaco Sboarina e il suo vice di allora Fontana, entrambi «rigorosamente e da sempre in curva sud», insieme a gente di Fn. Se passi in consiglio comunale magari un tale Bacciga, avvocato rampante, eletto nella lista civica del sindaco e vicino a Fortezza Europa, ti saluta romanamente come ha fatto a fine luglio contro le attiviste di Non una di meno. Racconta Federica Panizzo che le attiviste erano in silenzio sul loggione, vestite come le fattrici-schiave immaginate da Margaret Atwood nel Racconto dell’Ancella, per contestare due delibere: una per finanziare associazioni antiabortiste nei consultori, l’altra per creare il cimitero dei feti senza il consenso delle donne. Bacciga è stato denunciato «perché quel gesto è ancora reato. E le mozioni, per ora, sono state ritirate», dice a Left Panizzo che è l’avvocata di quelle donne e fu legale di parte civile nel processo che condannò Tosi per violazione della legge Mancino. «Verona sembra un laboratorio delle tristezze», dice. E «l’Italia si sta veronesizzando», sottolinea a Left Emanuele Del Medico, attivista e autore di una ricerca sul campo, All’estrema destra del padre (La Fiaccola, 2004), confermando la vocazione a laboratorio delle destre estreme dai tempi di Tosi: è stato lui a sdoganare skinhead, preti che pregavano per Priebke, nostalgici di Salò, sentinelle in piedi – ai suoi comizi si cantava “Chi non salta tunisino è” – fino a Sboarina. A Verona la Chiesa sembra schizofrenica. Da una parte ci sono i Comboniani (Alex Zanotelli è uno di loro). Dall’altra i gruppi tradizionalisti per i quali gli altri sono «mondialisti» e «pretaglia conciliare». In mezzo la «Chiesa che non ha bisogno di apparire, la Chiesa di potere e legata al potere. Ci sono personaggi molto potenti che vanno a messa ogni mattina e lì stringono patti», continua Del Medico, che rivela proprio l’intreccio fra tradizionalismo cattolico e destra radicale in riva all’Adige dove il vescovo in carica si sente libero di suggerire candidati leghisti ai suoi fedeli. Nella rettoria tradizionalista di S. Toscana, don Vilmar Pavesi celebrava in abiti preconciliari e benediceva la spada per la crociata definitiva contro l’islam. Qui fu invitato nel 2008 Juan Rodolfo Laise, vescovo che consegnava ai golpisti argentini liste di studenti poi desaparecidos. Per questo il Vaticano lo nascondeva da occhi indiscreti alla tomba di padre Pio. Sulla sua porta era scritto: “Non si ricevono familiari di sovversivi”. Tra i fedeli l’ex colonnello Amos Piazzi e, non si sa se in costume asburgico, il capetto di Fn e i Tosi boys, giovani padani che sopravviveranno al declino di quel sindaco. Come quel Fontana che vorrebbe cancellare la legge Mancino. La resistenza civile, a Verona, è affidata anche a un giornale satirico come L’Ombroso che dedica il prossimo numero proprio all’ex leader dei giovani padani ora ministro delle proprie ossessioni: la famiglia e il proibizionismo dentro un governo dal limpido impianto sovranista. Identitario, Fontana preferisce chiamarlo con un termine che pesca nel lessico della destra estrema. Ora Fontana si sta preparando all’alleanza «identitaria», appunto, per le europee.

L’inchiesta di Checchino Antonini è stata pubblicata su Left del 21 settembre 2018


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Nel buco nero dell’ultranazionalismo slavo

A woman walks past a mural depicting many famous Serbs and the Serbian national flag in Belgrade on April 22, 2016. Serbian Prime Minister Aleksandar Vucic, who is bidding for another four years in power in Sunday's general election, is a former ultra-nationalist and close ally of Slobodan Milosevic remade as a pro-European liberal. In a political transformation viewed by critics as pragmatic rather than ideological, the tall 46-year-old Vucic now leads Serbia's efforts to join the European Union. / AFP / ANDREJ ISAKOVIC (Photo credit should read ANDREJ ISAKOVIC/AFP/Getty Images)

l paesaggio scorre monotono fuori dal finestrino del pulmino. Dentro l’aria è viziata. Il caldo estivo continentale prende alla gola e il tutto è reso più complicato dalla colazione salata che i miei compagni di viaggio consumano ora avidamente, dopo aver sonnecchiato per un po’.

Abbiamo lasciato Belgrado da oltre un paio d’ore e ci dirigiamo verso il confine bosniaco-erzegovese dopo aver superato la Sava. Sono ormai quasi le otto del mattino. La monotonia è interrotta giusto dal susseguirsi di campi di mais. Ben piantati, davanti a ogni appezzamento, cartelli con il nome di una nota multinazionale con sede negli Stati Uniti. Le colture transgeniche sono ormai diffuse in Serbia, simbolo strisciante di un capitalismo sempre più presente in quello che qualche illuso continua a ritenere l’ultimo baluardo contro l’imperialismo a stelle e strisce. La Serbia da anni è parte attiva e consapevole del circuito capitalistico e si barcamena con sapienza da almeno tre lustri tra due “imperi”, quello statunitense e quello russo, strizzando di tanto in tanto l’occhiolino all’Unione europea.

A bordo girano di mano in mano vassoi colmi di pita al formaggio, burek grondanti grassi e qualsiasi altro manicaretto che creerebbe il panico nelle certezze di ogni assennato medico occidentale. Gli odori di carne e cipolla si mischiano nell’aria già viziata del combi e solo la visione del posto di confine mi rende la speranza di potercela fare.

Il viaggio fin qui è andato liscio: due pulmini sfrecciano per la…

Il reportage di Luca Leone prosegue su Left in edicola dal 21 settembre 2018


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Riace, il paese salvato dai migranti

Nella fotogallery, alcune immagini delle famiglie di migranti che vivono a Riace in Calabria, nell’ambito del sistema di accoglienza Sprar, insieme al sindaco Domenico Lucano. Le foto di Stefano Giorgi sono esposte nella mostra allestita durante la manifestazione Per Appiam 2018 “Entra l’invisibile”, aperta fino al 23 settembre nell’ex Cartiera latina di Roma

 «Oggi più che mai è necessario costruire reti di umanità. Non si può rimanere neutrali, ma se manca l’ umanità nella politica, niente ha significato». Parole semplici, “normali” quelle di Domenico Lucano, sindaco di Riace, pronunciate durante la festa di Emergency. Come “normale” dovrebbe essere l’accoglienza di rifugiati e la convivenza tra stranieri e italiani. Tutta la storia di Riace del resto lo dimostra. Il paese della Calabria, che fa parte del sistema Sprar, dal 1998 ha ospitato circa 6mila persone di oltre venti nazionalità.

«Un luogo dove c’era un profonda rassegnazione sociale è rinato grazie a quella nave che è arrivata una ventina di anni fa», racconta Lucano. Laboratori artigianali, la scuola, l’ambulatorio medico, il turismo. Tutte attività che hanno salvato il paese a rischio spopolamento e hanno impresso una nuova spinta alle politiche dell’integrazione.

Adesso, però, il blocco dei finanziamenti, nonostante due relazioni della prefettura di Reggio Calabria attestino l’importanza dell’esperienza di Riace, mette in crisi tutto il lavoro fatto da Domenico Lucano. Che tiene a specificare come «fare il sindaco non significa solo occuparsi delle opere pubbliche», ma anche creare occasioni di incontro per «maturare la propria coscienza». Di tutti, italiani e stranieri.

 

Il fotoreportage di Stefano Giorgi è tratto da Left in edicola dal 21 settembre 2018


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Piero Calamandrei: In difesa dei diritti di libertà

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Il testo è un estratto dal libro di Piero Calamandrei L’avvenire dei diritti di libertà, che uscirà in libreria per Galaad edizioni il 27 settembre. Come spiega Enzo Di Salvatore nell’approfondita introduzione, si tratta di un saggio scritto nel 1946 dal giurista per la riedizione del libro Diritti di libertà di Francesco Ruffini, a sua volta nome celebre del diritto, tra i pochi docenti universitari a non prestare giuramento al fascismo, scomparso nel 1934.

«Non possiamo terminare questo troppo lungo discorso sui diritti di libertà senza ricordare l’avvertenza del Ruffini: «quello che più importa, in fatto di diritti di libertà, non è tanto la loro solenne proclamazione teorica, al modo dei famosi testi francesi, quanto la concreta determinazione dei mezzi pratici più adatti ad assicurarne l’osservanza».
Questo è il punto che, anche nella prossima costituente italiana, richiederà la maggiore attenzione.
Si è già osservato che l’inclusione dei diritti di libertà nella costituzione, in conseguenza della quale essi assumono il carattere di diritti costituzionali, importa un impegno dello Stato a non servirsi del potere legislativo per sopprimerli o per restringerli. Difesa dei diritti di libertà significa sopra tutto difesa contro il potere legislativo; ma perché questa difesa sia effettiva, occorrerà che le norme concernenti i diritti di libertà, al pari di tutte le altre norme costituzionali, siano sottratte alla disposizione degli organi legislativi ordinari, e siano salvaguardate da un sistema «rigido» nel quale l’esercizio del potere costituente, solo competente a modificarle, sia affidato a speciali organi e a speciali maggioranze.
Eppure neanche questo potrebbe esser sufficiente a difenderli da ogni attentato: e si potrebbe pensare che di tutte le norme costituzionali, la cui modificazione fosse riservata alla competenza di speciali organi costituenti, i diritti di libertà, come quelli che rappresentano la base intangibile d’ogni democrazia, siano considerati come diritti supercostituzionali, e come tali debbano essere»…

 

 

L’estratto del libro di Piero Calamandrei prosegue su Left in edicola dal 21 settembre 2018


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Gianfranco Viesti: La politica economica della Lega? Eversiva e miope

GIANFRANCO VIESTI DOCENTE

La petizione è stata lanciata da un gruppo di docenti e studiosi, primo firmatario Gianfranco Viesti, professore di economia dell’Università di Bari. Al momento in cui scriviamo ha raggiunto le diecimila firme. Si rivolge al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai parlamentari e a tutti i cittadini italiani. Ed è piuttosto allarmata. Perché, è scritto: «Il Veneto, la Lombardia e sulla loro scia altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse. Su maggiori poteri alle Regioni si possono avere le opinioni più diverse. Ma nei giorni scorsi è stata formalizzata dal Veneto (e in misura più sfumata dalla Lombardia) una richiesta che non è estremo definire eversiva, secessionista». Un tentativo di secessione silenziosa, da contrastare.
Perché, professor Viesti?
Vede, la Costituzione italiana si fonda sull’uguaglianza dei cittadini. E su un principio di solidarietà fra i cittadini che prende forma con la tassazione progressiva. La fiscalità generale serve ad assicurare alcuni servizi fondamentali – la difesa, la sicurezza, la sanità, l’istruzione – a tutti, a prescindere dal loro reddito e dal luogo di residenza. Ebbene, l’iniziativa del Veneto e della Lombardia mette in discussione l’eguaglianza nei diritti di cittadinanza. Contro lo spirito della Costituzione. Un grande tema politico.
Non è una sorpresa.
Io non sono sorpreso dall’atteggiamento della Lega, che guida quelle due regioni ed è nella maggioranza di governo. La Lega si muove con coerenza. La sua è una politica miope ma coerente: per una parte del Paese contro l’altra. Quello che mi sorprende è…

L’intervista di Pietro Greco a Gianfranco Viesti prosegue su Left in edicola dal 21 settembre 2018


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Se la sinistra fosse bella

Siamo in un’epoca che si dice essere post ideologica. I populisti e i sovranismi avrebbero preso il posto delle ideologie e della storia che ha dato luogo alla formazione di quello che ancora oggi si chiamano destra e sinistra. In realtà, come avete più volte letto su Left, noi sosteniamo che i populismi e i sovranismi sono sempre ideologie e politiche di destra. La destra e la sinistra, gli opposti contrari, come se fossero le due polarità che può avere la carica elettrica, e il centro a porsi come mediazione, come la scelta per chi pensa di non scegliere. Destra e sinistra derivano il loro nome dalla posizione che assunsero i gruppi politici nell’assemblea degli Stati Generali del maggio 1789 in Francia quando i radicali presero il posto a sinistra del presidente. La cosa poi si ripropose dopo la Rivoluzione francese nell’Assemblea nazionale dove le componenti più rivoluzionarie sedevano a sinistra e a destra erano le componenti conservatrici e monarchiche.
La differenza di fondo tra destra e sinistra è la differente concezione della realtà degli esseri umani. Da questo evidentemente poi discende una differente politica che ne è l’ovvia conseguenza. La politica in altre parole non è amministrazione ma è pensiero sulla realtà umana che si fa azione. Allora se un partito di destra pensa che l’essere umano nasca come creta da plasmare tenderà a stabilire che la scuola debba fare “educazione” perché è necessario formare un’identità che altrimenti non ci sarebbe. Una forza politica di sinistra invece pensa (dovrebbe pensare) che l’essere umano nasca con una propria identità che va accompagnata e stimolata nella sua crescita, nel senso di dare strumenti con cui l’individuo possa confermare e sviluppare la propria identità. La prima forza politica penserà che essendo il bambino tavoletta di cera e quindi sostanzialmente materia inanimata o nella migliore delle ipotesi uno strano animale, sia permesso e consigliato usare la costrizione e la violenza per educarlo. Se poi egli diventerà violento a sua volta questo non farà altro che confermare la natura originariamente violenta dell’essere umano. La seconda forza politica potrebbe invece pensare che il bambino ha un’identità dalla nascita e quell’identità si deve sviluppare nel rapporto con gli altri. Altri che gli confermeranno la sua certezza dell’esistenza degli altri e dell’idea del rapporto con gli altri. Gliela confermeranno con un rapporto che è gioco d’amore e di realizzazione senza alcun fine materiale. Egli certamente non diventerà violento anche se forse diventerà un ingenuo che non comprenderà il perché alcuni esseri umani sono violenti con gli altri.
La sinistra purtroppo non ha idee chiare su ciò che la distingue, o la dovrebbe distinguere, dalla destra. E quando questa differenza c’è non si ha nessuna idea del perché, o si hanno idee molto deboli, facilmente attaccabili. È utile pensare a due parole che si legano da sempre alle vicende politiche della destra e della sinistra. Sono le parole libertà e uguaglianza. Entrambi gli schieramenti dicono che la politica ha lo scopo di realizzare le condizioni per la libertà. La differenza sta nel concetto di uguaglianza e nel significato che viene di conseguenza attribuito alla parola libertà. Per la destra, la libertà è un valore assoluto, non discutibile. L’unico limite è razionale, per cui la libertà di ognuno finisce dove inizia quella dell’altro. È un limite razionale imposto dalla legge. Per la destra, se non ci fosse la legge varrebbe la legge del più forte. Non esiste un concetto quindi di libertà giusta o sbagliata ma un concetto di libertà assoluta, senza limiti. I limiti si pongono solo per convenienza razionale nell’azione fisica che non dovrebbe travalicare il confine del benessere fisico degli altri. Ma non c’è alcun limite alla libertà di esercitare altro tipo di costrizione e violenza verso gli altri.
Per la sinistra, invece, il concetto cardine è l’uguaglianza. Questa però viene intesa essenzialmente come uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni e nell’affermazione dei diritti, siano essi civili o umani. Non è stato mai pensato e ipotizzato a sinistra che essa uguaglianza sia invece una caratteristica legata alla nascita, come teorizzato da Fagioli in Istinto di morte e conoscenza. Non è una questione di “uguali condizioni di partenza” perché questa idea può nascondere l’idea del bambino come tavoletta di cera. È un’idea di pensiero umano che si forma per tutti con la stessa dinamica. Alla nascita cioè il Dna scompare, non ha più nessuna importanza per la realizzazione dell’essere umano che è nato.
La cosa che potrebbe essere bella da proporre ad una sinistra nuova è l’idea che la libertà sia figlia dell’uguaglianza. Senza la rivendicazione dell’uguaglianza originaria non ci può essere libertà. L’uguaglianza non può essere però pensata solo come uguaglianza dei bisogni, ossia uguaglianza materiale. Deve essere uguaglianza delle esigenze, ossia di quella realtà non-fisica che è caratteristica di ogni essere umano, sia esso ricco o povero, nero o bianco, alto o basso, donna o uomo, bambino o adulto. La vita umana ha un inizio e una fine. Accettarne la fine significa accettarne l’origine materiale del suo inizio. Accettarne l’inizio significa liberarsi di ogni idea di razza e di superiorità di nascita o di stirpe. La libertà che ne deriva è una libertà che non ha bisogno di definirsi come ciò che finisce dove inizia la libertà altrui. È più semplicemente un pensiero e una realizzazione di proprie possibilità, ognuno nel suo modo unico e particolare, che ha rapporto con gli altri esseri umani e quindi non ha nessuna possibilità di essere violenta. È una libertà piena perché non c’è necessità di obblighi morali.
Così come non c’è bisogno di stabilire per legge che la terra gira intorno al sole non c’è bisogno di stabilire per legge l’uguaglianza. È una realtà. Pensarlo è la realtà. Pensare che non sia vero è delirio e non è libertà. Perché la libertà è prima di tutto libertà del pensiero, fantasia, che ha rapporto con la realtà umana. La destra ha solo un’idea di essere umano come realtà materiale. Questo la rende stupida e violenta. Se la sinistra fosse bella avrebbe un’idea di esseri umani che nascono uguali e si realizzano diversi e liberi. Purtroppo la sinistra è spesso brutta…
Dimentica se stessa e le lotte di liberazione ne hanno fatto la storia. E allora diventa stupida e rischia di perdere se stessa e diventare anch’essa destra. La frase di Fagioli «La libertà è l’obbligo di essere esseri umani» è il manifesto per la sinistra bella che verrà.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 21 settembre 2018


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Contro donne e migranti, con l’arma della religione

Hungarian Prime Minister Viktor Orban is welcomed by Prefect of the Pontifical household Georg Gänswein as he arrives at the Vatican for a meeting with Pope Francis, Friday, March 24, 2017. Leaders of EU and heads of EU institutions were received by Pope Francis ahead of an EU anniversary summit. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Tusnádfürdő, minuscolo paesino della Transilvania, piena estate. Da qui, come ogni anno, il presidente ungherese Viktor Orbán interviene «all’università aperta» organizzata dal suo partito, Fidesz. Un meeting culturale dove il leader di estrema destra è solito rilanciare gli indirizzi politici del suo operato. E quest’anno ha deciso di farlo approfondendo il concetto – di cui è padre e teorico – di «democrazia illiberale».

«La democrazia liberale – ha spiegato – è pro-immigrazione, mentre quella cristiana è contro. Questo è un concetto genuinamente illiberale. La democrazia liberale sostiene modelli adattabili di famiglia, mentre quella cristiana poggia sulle fondamenta del modello cristiano di famiglia. Ancora una volta, questo è un concetto illiberale».

Una definizione lucida, una riproposizione spudorata del dogma fascista del Ventennio «dio, patria, famiglia». Con la quale, malcelatamente, lo xenofobo Orbán rilancia la guerra senza quartiere del suo esecutivo nei confronti di donne e migranti. Le prime ogni giorno più discriminate nel Paese penultimo in Europa per parità di genere, secondo l’European institute for gender equality; i secondi respinti alle frontiere e privati del sostegno dei cittadini, per i quali dare cibo o solamente informazioni ai migranti è di recente diventato illegale. Una guerra, dicevamo, portata avanti con l’arma principale della religione. Inquietante, se a perpetrarla fosse un semplice leader; un vero segnale d’allarme se a farlo è invece il capofila del fronte sovranista europeo. Il rassemblement che si prepara alla bagarre elettorale per prendere in mano le redini dell’Europarlamento nel 2019.

Orbán infatti – che si dice pronto a presentare ricorso al Tribunale di giustizia dell’Ue contro le sanzioni di Bruxelles ricevute per «gravi minacce allo Stato di diritto» – non solo ha stretto un patto col ministro dell’Interno italiano Salvini (definendolo «il mio eroe», un «compagno di destino») ma si prepara a…

 

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Quei giochi di guerra in Centrafrica tra Russia, Cina e Francia (con Trump alla finestra) – terza parte

Segue dalla Prima e seconda parte

Forse qualcuno ricorderà ancora una vicenda internazionale che ha visto coinvolta l’Italia cinque anni orsono. Quella del banchiere dissidente politico kazako Mukhtar Ablyazov, della moglie Alma Shalabayeva e della figlioletta Alua. Ablyazov era riparato in Italia, a Roma, dall’Inghilterra, dove si era rifugiato nel 2009, anno della sua fuga dal Kazakistan, dove era inviso al presidente padrone Noursultan Nazarbaev per aver sostenuto dei movimenti di opposizione, e accusato di aver portato al fallimento la Bta Bank, la principale banca del Paese. Ablyazov era stato sottoposto a procedimenti giudiziari in Inghilterra, su denuncia dalla sua ex-banca, e condannato a risarcimenti miliardari. Da ultimo temeva per la sua stessa incolumità e quella dei suoi familiari. Ma anche a Roma era seguito costantemente da più occhi indiscreti, dato che nel frattempo era stato emesso nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale dall’Interpol. Fece in tempo a fuggire in Francia, mentre la polizia italiana arrestava la moglie e la figlia per immigrazione illegale e le rimpatriava in Kazakistan con decreto di espulsione, sull’aereo privato dell’ambasciatore kazako a Roma. Una decisione di cui il nostro governo si sarebbe “pentito” nelle settimane successive, arrivando a chiedere la restituzione delle due donne, e su cui la magistratura ha aperto un’inchiesta che ha coinvolto l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano e i più alti dirigenti della Questura di Roma.

Poi Ablyazov venne arrestato in Francia – l’Interpol arriva anche lì -, dove, all’inizio del 2014, fu raggiunto da due diverse richieste di estradizione dalla Russia e dall’Ucraina, dove esistevano filiali della Bta, ma da dove sarebbe quasi certamente ripartito per il Kazakistan. Ne è nato un iter giudiziario di quasi tre anni, che alla fine ha visto l’ex-banchiere restituito alla piena libertà il 10 dicembre del 2016, con sentenza del Consiglio di Stato francese, che ha definitivamente bollato come motivate politicamente tutte le accuse nei suoi confronti.
Ebbene, i più attenti ricorderanno forse che Ablyazov e la moglie avevano, al momento dell’arresto, un passaporto diplomatico centrafricano. Quello dei passaporti diplomatici della Repubblica Centrafricana, concessi con disinvoltura a centinaia di personalità non esattamente centrafricane, è stato anche un non piccolo scandalo, tra la miriade di problemi infinitamente più grandi che il Paese si trova ad affrontare, ma, a chi cerca di decifrare qualcosa del suo groviglio politico, dice piuttosto che, almeno per un certo periodo di tempo, Ablyazov deve aver sostenuto il governo centrafricano, in particolare quello di Francois Bozizé, ossia il governo sotto il quale erano stati rilasciati i due passaporti. Si potrebbe pensare che ciò debba aver fruttato ad Ablyazov parecchi buoni uffici in Francia, ma probabilmente è così solo in parte.

Ablyazov, e con lui Viktor Khrapounov, ex-sindaco di Alma Ata, fuggito lui pure dal Kazakistan nel 2007 con un passaporto centrafricano e una fortuna personale di 300 milioni di euro, è stato certamente vicino all’uomo d’affari francese Laurent Foucher, a sua volta vicino a Claude Guèant, ex-ministro dell’Interno di Sarkozy. Foucher è attivo nel settore minerario, nel petrolio e nelle telecomunicazioni, con interessi nella Repubblica Centrafricana, dove Catherine Samba Panza (presidente ad interim della Repubblica Centrafricana dal 2014 al 2016, ndr) lo ha anche nominato a capo della missione diplomatica centrafricana a Ginevra. Lo stesso faccendiere francese, dunque, sotto due presidenze diverse – Sarkozy e Hollande – era attivo in Centrafrica, anche qui sotto due governi diversi – Bozizé e Samba Panza. Tra Bozizé e Samba Panza c’è stato l’interregno di Djotodia, salito al potere nel 2013 con il colpo di Stato dei ribelli musulmani Séléka. Dopo il putsch, la Francia ha assecondato l’ondata di violenza cristiano-animista delle milizie Anti-Balaka, fino a portare al potere Samba Panza, certamente non di estrazione Anti-Balaka, ma di educazione cristiana, come Bozizé e l’attuale presidente Touadéra. Pare però che la Francia non abbia fatto nulla per salvare Bozizé dal golpe di Djotodia, non essendo mancati i motivi di contrasto col primo, nel corso della sua lunga permanenza al potere.

Insomma, ci si potrebbe chiedere: se la Francia si è eventualmente servita di Ablyazov per i suoi giochi di potere centrafricani, e se non sempre il parere sulla linea da seguire nel Paese è stato univoco, questo può aver avuto delle ripercussioni sulle decisioni da adottare nei confronti del banchiere dissidente politico?
Più in generale, e non solo per quel che riguarda la Francia, quanto certe decisioni politiche possono essere influenzate dai rapporti del momento dei vari Paesi europei con la Russia e con tutta l’area ex-sovietica, dove il Kazakistan, per esempio, conta tantissimo, per le risorse e per le strategie geo-politiche?
Nel corso dell’ultimo anno dalla sua liberazione, Ablyazov è stato coinvolto, come testimone, nell’indagine di una commissione parlamentare d’inchiesta belga sul possibile voto di scambio che, nel 2011, aveva portato all’approvazione della legge sulla transazione penale, la possibilità cioè di evitare un processo per reati punibili fino a cinque anni di reclusione pagando somme di denaro.

Una legge, in pratica, accusata di essere stata fatta apposta per gli imprenditori del settore diamantifero di Anversa, che volevano così risolvere le loro frequenti controversie fiscali. Secondo altre accuse, inoltre, la legge sarebbe stata il frutto delle indebite pressioni dell’allora ministro dell’Interno francese Claude Guèant sul capo del senato belga Armand De Decker; Guèant spingeva sull’adozione della legge affinché avessero potuto usufruirne tre kazaki sotto processo in Belgio, che effettivamente furono poi i primi ad avvalersi della norma: Patokh Chodiev, Alijan Ibragimov e Alexander Mashkevitch. In ballo per la Francia c’era una preziosa fornitura d’armi – elicotteri da guerra – al Kazakistan.

I tre kazaki erano accusati di aver pagato tangenti a un politico del Frontnational, Mark Rozenberg, e ad un controverso faccendiere, Eric Van de Weghe, in cambio di documenti di identità belgi. Nell’indagine della commissione è così finita una lunga lista di imprenditori russi, ucraini, kazaki, tutti in odore di rapporti con la mafia russa, precisamente col clan moscovita “Soltneskaya”, che si dice il più potente, tutti bisognosi di documenti belgi, come Chodiev, Ibragimov e Mashkevitch. Ablyazov ha testimoniato contro i tre kazaki a settembre del 2017. Poi i lavori della commissione si sono chiusi ad aprile di quest’anno, in un nulla di fatto sostanziale, e con molte polemiche nei confronti del presidente della commissione Dirk Van der Maelen, che, in disaccordo col documento votato a maggioranza, ha provato ad anticiparne la pubblicazione con dichiarazioni alla stampa.

È già abbastanza significativo che Ablyazov, vicino a Foucher che era vicino a Guèant, compaia in questa storia dall’altra parte della barricata rispetto all’ex-ministro di Sarkozy. È ancora più istruttiva una breve rassegna di siti internet francesi e belgi, dove viene descritto come uomo poco raccomandabile, bancarottiere fraudolento che occulta a tutt’oggi parte del suo patrimonio, uomo di estrema destra e quasi-fascista – si noti la bellezza del quasi – per avere accusato le compagnie petrolifere straniere di saccheggiare il suo Paese, pagando una miseria i lavoratori, e infine, dulcis in fundo, razzista e antisemita, che nutrirebbe dei pregiudizi contro Chodiev e Ibragimov perché uzbeki, e contro Mashkevitch perché di origine israeliana.

Naturalmente si può discutere di tutto, anche di Ablyazov e dei fondi della Bta che è accusato di aver sottratto – si dice per un totale di 6,5 miliardi di dollari -, come pure delle presunte politiche spregiudicate attuate per un decennio dalla banca kazaka, tese più all’accumulo di credito – comprando debito altrui – che non alla tutela della liquidità. Ablyazov è tra l’altro laureato in fisica teorica, per cui dovrebbe intendersi bene di titoli derivati. Ma di qui ad accettare senza discussione le accuse di fascismo ed antisemitismo di improvvisati difensori d’ufficio di affaristi dell’area ex-sovietica, accusati a loro volta di prossimità con la mafia russa, ce ne corre.

Bisogna ricordare che, a parte tutti i problemi, reali o fatti apparire ad arte, la Bta era comunque ancora, alla fine del decennio scorso quando venne nazionalizzata, il principale creditore dello stato kazako, ed è proprio per non lasciare un simile privilegio ad un suo oppositore che Nazarbaev ha voluto nazionalizzarla ad ogni costo. Nelle sentenze britanniche che hanno condannato Ablyazov a risarcimenti miliardari nei confronti di soci della Bta, i giudici hanno (curiosamente) precisato che la nazionalizzazione non ha nulla a che vedere con i motivi per cui il banchiere era imputato, anche se la stessa nazionalizzazione è stata realizzata in spregio dei più elementari diritti delle controparti. Il fatto è che se non ci fosse stata la nazionalizzazione, non ci sarebbero mai state cause contro Ablyazov.

Tutto quanto ruota intorno alle vicissitudini di Ablyazov rimanda alla debolezza politica attuale con cui l’occidente si confronta col mondo ex-sovietico: si va dalla galassia di ex-politici di prestigio, spesso di sinistra, pagata con stipendi milionari da Nazarbaev, in qualità di consulenti, come Blair, Prodi o Schroeder, alla eccessiva facilità con cui l’Interpol da seguito alle richieste internazionali di arresto, anche quando arrivano da Paesi in cui non sono garantiti i diritti democratici. L’ambiguità dei rapporti con la Russia – e di riflesso anche con la Cina – è un segno distintivo della politica francese, forse non solo dell’ultimo periodo. Può essere che i margini di manovra si stiano restringendo, con gli Stati Uniti impegnati su molti tavoli, e Cina e Russia che spesso fanno blocco. Così la Francia può invocare l’intervento contro la Russia in Siria, cercando di trasformare l’organismo Onu per la messa al bando delle armi chimiche in una sorta di circolo anti-russo, e allo stesso tempo agire in Iran da alleata di Russia e Cina; oppure sostenere, sempre insieme alla Russia, la fazione di Haftar nella guerra civile libica, in questo caso a diretto detrimento di interessi del governo italiano.

Questa strategia sembra aver deciso anche l’apparente epilogo delle vicende centrafricane. A settembre del 2017, quindi rispettivamente un mese e due mesi prima dei colloqui tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il presidente della Repubblica Centrafricana Touadéra, e tra il ministro della Difesa di Mosca Shoigu ed il presidente sudanese al Bashir, Touadéra aveva incontrato il presidente francese Macron, chiedendogli accoratamente di fare qualcosa per aggirare l’embargo sulle armi alla Repubblica Centrafricana, che praticamente non aveva più né uomini, né armi da contrapporre ai vari ribelli. Macron avrebbe voluto dirottare in centrafrica un carico d’armi sequestrato in quel periodo in Somalia, e destinato ad al Shebaab, ma la Russia pose il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sostenendo – affermazione inattaccabile – che le armi illegali sequestrate vanno distrutte, non fatte ricircolare per calcoli occasionali di questa o quella potenza. Macron avrebbe allora indirizzato Touadéra da Putin, il quale si è praticamente offerto di adoperarsi perché l’embargo potesse essere aggirato, direttamente con aiuti militari russi, che sarebbero così andati, almeno in parte, a sostenere il contrasto a milizie che la stessa Russia aveva contribuito ad armare. Chissà se Macron si è pentito del consiglio dato a Touadéra. Di certo non poteva essere così ingenuo da non pensare che Putin ne avrebbe in qualche modo approfittato.

Il 5 giugno 2018, solo pochi giorni dopo il forum economico di S. Pietroburgo, in cui c’era stato un nuovo incontro tra Touadéra e Putin, il ministro della Difesa centrafricano Marie Noelle Koyara ha chiesto pubblicamente che l’embargo fosse aggirato una seconda volta, per permettere adesso l’arrivo di un carico d’armi cinesi, cui sarebbero dovuti seguire esperti militari, sempre cinesi. Questa volta, il 15 giugno, sono stati Francia, Regno Unito e Stati Uniti a porre il veto al Consiglio di Sicurezza: i britannici hanno motivato il veto esprimendo preoccupazione per il fatto che il carico si trovasse già al confine col Camerun, per di più senza scorta adeguata; francesi e americani si sono concentrati soprattutto sul fatto che, tra le armi fornite, c’erano anche alcune costosissime batterie contraeree, quando certamente la Repubblica Centrafricana non rischia di subire attacchi aerei. Le armi sarebbero state fornite completamente gratis dai cinesi.

Il 21 agosto, solo tre settimane dopo l’uccisione dei tre giornalisti, i ministri della difesa Shoigu e Koyara, a margine di una expò militare russa, hanno siglato un’intesa tra Russia e Repubblica Centrafricana, che prevede l’addestramento dell’esercito centrafricano da parte di quello russo, l’invio di armi, la garanzia della sicurezza personale di Touadéra, il cui consigliere per la sicurezza è del resto già un russo, Valery Zakharov.
Così, mentre la Russia, con l’alleato Assad, si appresta alla decisiva marcia su Idlib, e alla riconquista di tutto il territorio siriano, intimando guai all’occidente se oserà interferire; e mentre Israele recrimina sul fatto che tutti dicono che l’Iran deve lasciare la Siria meridionale, senza che nessuno abbia un’idea del come; e si tornano a respirare venti di guerra nel Mediterraneo, con minacciose grandi manovre delle flotte russa e statunitense; mentre la Libia va definitivamente in fiamme; mentre tutto un pezzo di mondo sembra sempre sull’orlo dell’esplosione, per poi restare congelato in uno stallo perenne, congelata resta anche la Repubblica Centrafricana nel nuovo abbraccio russo-cinese, in attesa magari di un altro giro di giostra in cui il nemico di ieri possa tornare a diventare l’amico di oggi.