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Quel decreto è una sicurezza. Per le mafie, i trafficanti di uomini e i mercanti d’armi

Il presidente del Consiglio, Guseppe Conte (S), e il il vice premier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, durante una conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri a palazzo Chigi, Roma, 24 settembre 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Certo, sarà forse più difficile noleggiare un furgone – come hanno fatto gli attentatori di Nizza, Londra, Münster o Barcellona – ma, prima del dl sicurezza o immigrazione, Salvini ha rispettato i suoi obblighi verso la lobby delle armi, per cui ora è un gioco da ragazzi comprarsi un kalashnikov. Il governo “del cambiamento” ha scelto il tipo di stragi da promuovere, quelle tipiche degli Usa dove i supermarket traboccano di armi. Non solo, ha promulgato un pacchetto che mescola leggi razziali, inasprimenti del codice Rocco e, probabilmente, concessioni alle mafie. L’emergenza permanente è una condizione chiave per garantire la continuazione della compressione dei salari e dei diritti sociali in una società sgretolata e impoverita.

Una delle parole chiave nell’analisi del dl sicurezza è unanimità: il consiglio dei ministri ha votato come un sol uomo il pacchetto di norme facendo registrare l’egemonia del socio di minoranza, Salvini (che ha preso la metà dei voti grillini), in una compagine che non trova affatto disdicevole caratterizzarsi sul razzismo e l’autoritarismo. Chi fa il palo ha la stessa responsabilità di chi ruba. Nella fattispecie, ruba diritti. Secondo la suddivisione dei ministeri, Di Maio e Salvini dovevano essere, rispettivamente, il poliziotto buono (per le misure sociali) e il poliziotto cattivo (per le politiche sicuritarie). Ma quella caratterizzazione è saltata da tempo. Ammesso e non concesso che il vertice M5s fosse davvero più progressista dei suoi omologhi leghisti, adesso è in affanno nella rincorsa della Lega in continua ascesa nei sondaggi. Anche annunciando il sussidio che viene pomposamente declamato come “reddito di cittadinanza” il ministro Di Maio ha voluto sottolineare la propria adesione alla linea del “primato nazionale”. In questa gara a chi è più razzista prende corpo un decreto legge spacciato come misura necessaria «per rafforzare i dispositivi a garanzia della sicurezza pubblica, con particolare riferimento alla minaccia del terrorismo e della criminalità organizzata di tipo mafioso, al miglioramento del circuito informativo tra le forze di polizia e l’Autorità giudiziaria e alla prevenzione e al contrasto delle infiltrazioni criminali negli enti locali».

In realtà è una misura per fare pressioni sulla popolazione migrante, fabbricare ulteriore marginalità e clandestinità, per criminalizzare pratiche di conflitto, per “restituire” a prestanome delle mafie i beni confiscati. Uno stato d’emergenza fondato su una miscela di emarginazione e repressione. Vediamo come.
La restrizione del sistema di accoglienza è sicuramente l’aspetto più evidente delle nuove misure: i richiedenti asilo verranno esclusi dal sistema Sprar che sarà limitato solo a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori stranieri non accompagnati. Si ridimensiona un sistema che ha provato, pur dentro mille contraddizioni, percorsi virtuosi di accoglienza e integrazione puntando su centri di accoglienza emergenziali (i Cas) con servizi inadeguati e spesso gestioni opache. Fuori dall’accoglienza Sprar tutte le categorie vulnerabili di richiedenti asilo come ad esempio le vittime di tratta o di tortura o le persone con problemi di salute mentale.

Una norma incostituzionale, per i giuristi del Coordinamento per la difesa della Costituzione, quella che prevede la sospensione della procedura d’asilo ed il rimpatrio del richiedente asilo che abbia subito una condanna in primo grado «perché palesemente contraria alla presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) ed al principio che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.)».
Il sostanziale smantellamento del sistema di protezione su base comunale (Sprar) rende più problematica la convivenza. Secondo i dati raccolti su migliaia di migranti da Medu, medici per i diritti umani negli ultimi quattro anni (si veda la webmap Esodi) il 90% di coloro che sbarcano in Italia dalle coste del Nord Africa è sopravvissuto a traumi estremi nel Paese di origine e lungo la rotta migratoria (in particolare in Libia): torture, lavori forzati e abusi gravissimi. Nei centri emergenziali sarà sempre più difficile una tempestiva individuazione di persone con problemi fisici e psichici, con ricadute negative dal punto di vista della salute individuale e pubblica, della spesa sanitaria e dell’integrazione.

L’articolo 13 del dl prevede che i richiedenti asilo non si possano iscrivere all’anagrafe e non possano quindi accedere alla residenza. Un ulteriore provvedimento punitivo che sembra avere un’esclusiva matrice ideologica da dare in pasto a un’opinione publica intossicata. Scompaiono i “motivi umanitari” sostituiti dalla concessione del permesso di soggiorno per alcuni “casi speciali” come ad esempio “condizioni di salute di eccezionale gravità” o “situazione di contingente o eccezionale calamità del Paese dove lo straniero dovrebbe fare ritorno”. «La nuova disciplina dell’immigrazione e della cittadinanza presenta aspetti allarmanti di incostituzionalità – denunciano in un documento congiunto i giuristi del Cdc (Massimo Villone, Alfiero Grandi, Silvia Manderino, Mauro Beschi, Domenico Gallo) – l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari è mirata specificamente a sgonfiare il volume dei permessi di soggiorno, creando una serie di drammi personali e aprendo la strada ad un’esplosione del contenzioso».

L’effetto sarà il medesimo di qualunque proibizionismo: alimentare le mafie con la dilatazione dell’area della clandestinità, di una popolazione di senza diritti, facile preda della criminalità e del lavoro schiavistico. Tutto ciò inciderà sulla sicurezza e renderà più spietata la competizione tra nativi e migranti nei settori più opachi del mercato del lavoro. Anche il raddoppio del trattenimento degli stranieri all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ex Cie, da 90 giorni a 180 giorni, non serve allo scopo dichiarato ma è solo un provvedimento punitivo. Quando fu dilatato addirittura a 18 mesi, dal 2011 al 2014 (si veda il rapporto Arcipelago Cie di Medu) non ha prodotto alcun miglioramento significativo della percentuale dei rimpatri né ha garantito per le persone internate il livello di dei loro diritti fondamentali. Anche se consentito dalla Direttiva europea sui rimpatri 2008/115/CE, il raddoppio della permanenza «presenta marcati aspetti di irragionevolezza – dicono al Cdc – perché si risolve in una pena senza delitto data l’impossibilità di procedere al rimpatrio nella stragrande maggioranza dei casi».

Raddoppierà la popolazione di stranieri in detenzione amministrativa con incremento esponenziale dei costi per i contribuenti. «In questo contesto è inaccettabile la possibilità di trattenere le persone da rimpatriare in strutture idonee e nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. In questo modo viene creato un circuito carcerario (le prigioni del Ministero dell’Interno) al di fuori dell’ordinamento nel quale non sarà possibile monitorare il rispetto dei diritti umani fondamentali», spiegano i quattro giuristi. Caserme, commissariati e carceri, come testimonia il lavoro di denuncia di associazioni come Antigone o Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, sono luoghi in cui si moltiplicano gli abusi in divisa. «I Comuni con popolazione superiore ai centomila abitanti – si legge nel testo del dl – possono dotarsi di armi comuni ad impulso elettrico, quale dotazione di reparto, in via sperimentale, per il periodo di sei mesi, due unità di personale, munito della qualifica di agente di pubblica sicurezza, individuato fra gli appartenenti ai dipendenti Corpi e Servizi di polizia municipale». Dopo sei mesi «possono deliberare di assegnare in dotazione effettiva di reparto l’arma comune ad impulsi elettrici positivamente sperimentata».

L’armamento dei vigili urbani è un passaggio necessario per la trasformazione in problematiche di ordine pubblico di qualsiasi questione legata ai conflitti sociali, anche quelli “orizzontali” (residenti contro studenti nei quartieri della movida, stranieri contro nativi nelle periferie ecc…) e, più in generale, nella fabbricazione della guerra ai poveri. La pistola taser, considerata strumento di tortura, è appena stata fornita alle questure di undici città e ha già debuttato con l’utilizzo a Firenze contro una persona malata di mente rivelandosi in tutta la sua inumanità. Un dossier di Amnesty international fornisce dettagli sulla lunga catena di morti legate all’utilizzo di queste armi “non letali”.

Anche l’estensione del Daspo «a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato» serve solo a “nutrire la bestia”, alimentando lo stato di emergenza perenne: non è fissando cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai terroristi” alle porte di un palazzetto dello sport che si intimoriscono “fascisti barbuti” dell’Isis.
Si dilata il Daspo urbano, stavolta in nome del “decoro”, estendosi «ai presidi sanitari e alle aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli nell’elenco dei luoghi che possono essere individuati dai regolamenti di polizia urbana». Pura guerra ai poveri, o tradotto in “salvinese”, guerra «ai soggetti che pongono in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione dei suddetti presidi dei citati eventi».

Anche il potenziamento del reato di blocco stradale (articolo 25), esteso contro chiunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, e l’inasprimento di pene contro chiunque invade «arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto» non hanno alcuna giustificazione se non quella di criminalizzare le pratiche di conflitto sociale, vero obiettivo di ogni governo antipopolare. Promemoria per i “progressisti” scandalizzati: queste norme sono la prosecuzione dei decreti Minniti-Orlando e del decreto Lupi prima di quelli.

Chi occupa sarà punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da 103 a 1032 euro. Pena che si raddoppia «nei confronti dei promotori e organizzatori dell’invasione, nonché di coloro che hanno compiuto il fatto armati». «Problematiche e di scarsa utilità, oltre ad essere prive di ogni requisito d’urgenza sono le norme in materia di sicurezza – commentano i giuristi – la sperimentazione delle c.d. armi ad impulsi elettrici da parte delle polizie municipali, crea una situazione pericolosa per la pubblica incolumità, trattandosi di dispositivi che possono avere effetti letali. Raddoppiare le pene previste dal codice Rocco per le occupazioni abusive è scelta palesemente irragionevole in quanto l’emergenza non è rappresentata dalle occupazioni di edifici abbandonati da parte dei senza casa, ma dall’esistenza di fasce di popolazione prive del diritto all’abitazione, così come non c’è nessuna necessità di mettere in vendita i patrimoni sequestrati alle mafie, aprendo alla possibilità che la criminalità organizzata riprenda possesso dei beni che le sono stati sottratti».

L’articolo 38, infatti, prevede l’«ampliamento della platea dei possibili acquirenti, ora circoscritti a determinati enti pubblici, associazioni di categoria e fondazioni bancarie. Viene invece prevista la possibilità di aggiudicazione, semplicemente, al miglior offerente, con il bilanciamento di rigorose preclusioni e dei conseguenti controlli, allo scopo di assicurare che comunque il bene non torni, all’esito dell’asta, nella disponibilità di ambienti mafiosi, anche attraverso prestanome. A tal fine viene anche previsto il rilascio dell’informazione antimafia».

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Per approfondire leggi anche l’editoriale di Simona Maggiorelli su Left in edicola dal 28 settembre POLITICI CHE ODIANO LE DONNE, I BAMBINI E I MIGRANTI

 

In edicola dal 28 settembre 2018


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Abolire il Jobs act si deve ma soprattutto si può

La Corte costituzionale ha stabilito che quanto sostenuto dalla Cgil rispetto al caposaldo delle controriforme del lavoro agite da Matteo Renzi, dal suo partito, il Pd, ed il suo governo – ovvero il famigerato Jobs act con la definitiva abolizione dell’articolo 18 con l’introduzione del contratto “ad indennizzo crescente” – non solo erano politicamente e socialmente regressive ed esplicitamente motivate da rendere difficile se non impraticabile la possibilità dei lavoratori di essere protagonisti del controllo sul ciclo produttivo e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma violavano il principio costituzionale del valore e della dignità del lavoro.

Definendo illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento legato esclusivamente al computo degli anni di servizio, non solo viene messo in evidenza il venir meno da parte del giudice della possibilità di stabilire l’effettivo danno subito dal lavoratore, o dalla lavoratrice, licenziato senza giusta causa e giustificato motivo, ma viene ribadito con forza che un sistema di calcolo che rimane troppo rigido e troppo basso nelle possibilità sanzionatorie, seppur solo nella forma monetaria, non costituendo un valido deterrente contro l’arbitrarietà dei licenziamenti, non ottempera alla tutela del ruolo costituzionale del lavoro identificato come strumento di emancipazione e di crescita personale e professionale.

Lo stesso innalzamento degli indennizzi previsto dal cosiddetto Decreto dignità non risolve né dal punto di vista politico che costituzionale lo strappo del diritto del lavoro perpetrata dal Jobs Act, come ha argomentato la Corte rispetto alla posizione dell’Avvocatura di Stato, che riteneva – su mandato del Governo gialloblu – ormai superata la controversia.

Come Cgil abbiamo ritenuto e riteniamo la battaglia contro il Jobs act un asse centrale della nostra iniziativa, che abbiamo e stiamo perseguendo su tre fronti: i ricorsi alla Corte per illegittimità costituzionale ed in sede europea, l’attività contrattuale, per disapplicare il Jobs act mantenendo le tutele pre-contratto ad indennizzo crescente, l’iniziativa referendaria e di iniziativa popolare a favore e sostegno della Carta dei diritti universali del lavoro che estende l’articolo 18 nella sua pienezza ante Monti-Fornero alle aziende fino ai 5 dipendenti, riscrivendo il diritto del lavoro adeguandolo ad una società che vede la compresenza di lavoro semi schiavistico, fordista classico e post fordista, ivi compreso il capitalismo delle piattaforme.

Più tutele e diritti individuali in capo al lavoratore indipendentemente dal numero di addetti dell’azienda e dalla tipologia contrattuale, in una dimensione collettiva di riconoscimento del valore e ruolo dei corpi intermedi come le organizzazioni sindacali.

Il Pd, Renzi ed i governi del Pd sono in odio ai lavoratori ed alle lavoratrici per le misure contro il lavoro che hanno assunto, consegnando una pistola nelle mani delle imprese puntata contro ogni lavoratore e lavoratrice che per qualunque motivo, pur facendo bene il suo lavoro, fosse inviso alla direzione aziendale: motivi di opinioni politiche, attivismo sindacale, orientamenti religiosi o sessuali, non volendo citare ricatti di varia natura che i lavoratori e troppo spesso le lavoratrici sono costretti a subire.

È un primo risultato di straordinaria importanza che ci conferma come Cgil nelle nostre scelte: abolire il Jobs act si deve ma soprattutto si può.

Con la mobilitazione, con la proposta della Carta dei diritti universali del lavoro, col divenire punto di riferimento del mondo culturale ed intellettuale che innerva il diritto del lavoro, con la incrollabile certezza che se non c’è libertà e democrazia dentro i posti di lavoro non ci potrà essere nella stessa società.

Perché come ci ha insegnato il compagno Giuseppe Di Vittorio, un lavoratore libero è quello che non è costretto a levarsi il cappello di fronte al padrone.

Ddl Pillon, dove Stato fa rima con patriarcato

Il senatore Simone Pillon in occasione del sit in dei senatori della Lega fuori dal Senato, in segno di solidarietà a Matteo Salvini, al termine della informativa di Giuseppe Conte sulla vicenda Diciotti. I senatori hanno indossato una maglietta bianca con la foto del segretario leghista e con su scritto #iostoconSalvini e #nessunotocchiSalvini, Roma 12 Settembre 2018 ANSA / LUIGI MISTRULLI

Quando nel nostro ordinamento è stato introdotto il principio della bigenitorialità, si era inteso sostenere che il progetto educativo del minore dovesse essere condiviso da entrambi i genitori i quali avrebbero dovuto mantenere entrambi un rapporto equilibrato con la prole, pur nella disgregazione del rapporto matrimoniale o di convivenza.

Il principio della bigenitorialità avrebbe dovuto declinarsi nella consapevolezza, da parte di entrambi i genitori, di dover sostenere una eguale responsabilità nella crescita dei figli.

Molti padri, ma anche molte madri, hanno invece interpretato il principio di bigenitorialità come una nuova spranga da usare contro l’altro genitore, una nuova arma per strumentalizzare i figli ad uso delle proprie frustrazioni.

Il modello patriarcale di famiglia, già fallimentare di per sé, attraverso il consumismo capitalistico è esploso in tutta la sua pericolosità.

La famiglia tradizionale, veicolata dalla favolistica religiosa, ha avuto una corrispondenza nei modelli consumistici pubblicitari, i quali hanno contribuito ad introdurre nell’immaginario collettivo, una idea di modello familiare inesistente e utopico.

Le famiglie perfette sono aspirazioni illusorie, la realtà è fatta in gran parte di genitori che non si sopportano, che si tradiscono, che si odiano.

I figli, anche se amati, sono spesso vissuti come l’ostacolo alla propria affermazione e alla propria “felicità”.

Separazioni e divorzi sono la soluzione agli incubi permanenti.

I politici italiani, spalmati su tutto l’arco parlamentare, hanno sempre ostentato il proprio impegno a dare “sostegni alle famiglie”, ma poi è sempre prevalsa una riserva mentale di fondo che relegava il problema al femminile e dunque, un bonus, un contributo assistenziale, una mancetta governativa potevano ritenersi sufficienti, senza impegnarsi più di tanto per elaborare politiche di ampie prospettive rivolte alla genitorialità.

La deriva pentafascioleghista, nella incapacità di cogliere gli aspetti più delicati delle dinamiche familiari, si è diretta ora verso il diritto di famiglia con il preciso scopo di devastare quelle tutele, spesso inattuate e solo teoriche, che tuttavia le leggi consentivano.

Attraverso il senatore Pillon è approdato in Parlamento un disegno di legge ispirato al fondamentalismo religioso, nel quale si prevede che i coniugi che intendono separarsi debbano passare attraverso un procedimento a pagamento di mediazione obbligatoria.

La obbligatorietà della mediazione è un altro tassello verso la privatizzazione del sistema giudiziario, ma ciò che rileva in questo contesto è che la disparità di reddito tra uomini e donne, diventerà ostacolo alla scelta di separarsi da parte del soggetto economicamente più debole, che generalmente è la donna.

Se è vero che molti femminicidi si verificano dopo che le mogli sono scappate da mariti e compagni violenti, il senatore Pillon ha trovato una soluzione per impedir loro di scappare, ed ha ideato una moltitudine di ostacoli pratici ed economici per paralizzare la via di fuga alle donne malmenate, compresa una valutazione sulla capacità reddituale al fine di consentire l’affidamento dei figli.

Le madri, pur di non essere separate dai figli a causa del basso reddito, accetteranno di restare con i mariti violenti.

La centralità del progetto educativo, quale presupposto della bigenitorialità, viene sostituito dalla divisione identica dei tempi di permanenza presso entrambi i genitori.

I figli diventano palline da ping pong, rimbalzati da una casa all’altra, senza continuità abitativa, in una condizione di destabilizzazione permanente.

A queste condizioni, una donna sana di mente può solo decidere di farsi sterilizzare.

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Carla Corsetti, avvocato, è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo

 

Per approfondire, suggeriamo la storia di copertina di Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Una domanda, una sola, per Foa

Marcello Foa durante l'audizione in Commissione di Vigilanza RAI a Palazzo San Macuto, Camera dei Deputati, Roma, 26 settembre 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

«Il retweet di qualcuno, che magari non sai neanche chi è, non è significativo di un’adesione incondizionata di quello che c’è scritto nel tweet. Ma solo che quel tweet ti è sembrato interessante».

Lo ha detto ieri il futuro presidente della Rai Marcello Foa rispondendo in audizione in Commissione Vigilanza a chi gli chiedeva di un suo retweet contro il Presidente della Repubblica riproposto direttamente dal profilo di Simone Di Stefano, leader di CasaPound.

È una frase breve ma significativa perché davvero Foa è l’ennesimo modello di quelli che sono come noi che vanno così forte sul mercato del consenso, della propaganda e della politica. La giornata sociale (che avvenga sui social, leggendo notizie in internet, cambiando stazione radio in auto o commentando ad alta voce il telegiornale della sera) è un incessante zapping alla ricerca di conferme di ciò che pensiamo. Sempre quello. Solo quello. La credibilità, l’autorevolezza o peggio ancora lo studio sono solo beghe da radical chic, sono freni alla frenesia del fare, roba da allontanare con disgusto.

Così accade che tutto si divida in due macro tifoserie: chi è d’accordo con me e chi discorda da me. Chi è d’accordo con me è un genio, gli altri sono tutti venduti o coglioni. E se il più putrido assassino o il più feroce mafioso o il peggiore corruttore dicono una frase, una frase sola, che fortifica la mia tesi allora io la capitalizzo e la diffondo. Gli altri non esistono come entità con una loro storia e con un loro profilo: gli altri mi servono solo se (e quando) sono utili a mostrare che ho ragione io.

Se il leader di CasaPound attacca Mattarella, il presidente della Rai Foa (del governo che aveva promesso di dare alla Rai una presidenza al di sopra di ogni sospetto di appartenenza politica) trova utile retwittarlo per una «scelta impulsiva» (ha detto così). Se poi gliene chiedono conto lui ci spiega che magari lui non sa nemmeno chi è, quello lì che ha piazzato sul suo profilo social. Il presidente della Rai.

Ma non vorrei correre lo stesso rischio e invischiarmi nello stesso pregiudizio. In Rai del resto abbiamo avuto pessimi dirigenti e sempre tanta politica, nulla di nuovo. A Foa (e ai suoi sostenitori, di governo e non) chiedo, poiché è al di sopra di ogni sospetto di scendere un secondo qui sotto a spiegarci (lui che sull’informazione asservita al potere ha scritto spesso) cosa abbia fatto cambiare idea a Silvio Berlusconi che ora appoggia la sua nomina. Se c’è stato uno scambio, un’illuminazione, una qualche promessa. Sarebbe un inizio di trasparenza con il botto. No?

Buon giovedì.

Lo sminamento del Voltone. Una bella pagina di storia antifascista

Capraia e Limite, Castello

Nell’estate del ’44, quando i tedeschi in ritirata facevano saltare dietro di loro ponti e viadotti, il Voltone dell’Erta a Montelupo rimase miracolosamente intatto. Il “Voltone” viene chiamata quella galleria ferroviaria che attraversa la collina dell’Erta, sopra la quale passa la strada statale 67. Ma perché non fu distrutto un tale obbiettivo strategico? Tanti vecchi montelupini sanno il perché; ma non è scritto da nessuna parte come mai e per merito di chi ciò non avvenne. E’ stata la discrezione e la semplicità dei protagonisti, insieme alla loro modesta capacità culturale, a non far conoscere tale esperienza. Ora, purtroppo, è venuta a mancare anche la loro testimonianza diretta.
È su proposta dell’Auser, che promuove la pubblicazione di racconti su fatti vissuti dalle generazioni passate, che mi sono deciso a scrivere questo avvenimento.

 

Questa storia si basa sul racconto dei protagonisti ormai deceduti e sulla memoria dei figli e dei parenti. Sono state fatte ricerche per verificare le date di questo avvenimento e raccolto testimonianze e documenti.
I principali protagonisti sono due: Lucchesi Lorenzo, detto “Tabarino” e Prosperi Rizieri, mio padre, soprannominato “Ruzzolo”. Due uomini semplici, con pregi e difetti, ma da ricordare tra quelli che, lottando, ci hanno regalato il bene più prezioso: la libertà.
“Tabarino” era un uomo di tendenze anarchiche. Nel ’44 aveva 57 anni, tutti i capelli bianchi e un fisico ancora agile e svelto. Era un ottimo fabbro, estroso e preciso, ma un po’ svogliato. Aveva un difetto: rubava. Piccole cose: polli e conigli il più delle volte. Però gli era costato qualche anno di carcere ed i familiari ne avevano sofferto anche moralmente.
Ma era un uomo generoso, sempre pronto ad aiutare gli altri, tant’è vero che molti alla Torre, il suo paese, lo ricordano con simpatia.
Rizieri era più giovane, aveva 36 anni, simpatico ed allegro. Era un gran lavoratore. Maestro vetraio molto abile e forte fisicamente: uno dei migliori soffiatori della zona. Questa sua capacità gli faceva guadagnare diversi soldi, ma come si dice a Montelupo li “sciupava” tutti. Gli piacevano troppo la spensierata compagnia degli amici e le carte da gioco.
Era nato a Capraia, ma, rimasto orfano di babbo e di mamma a 10 anni, era andato dagli zii a S.Quirico e a lavorare alla “Nardi?” della Torre. Gli aveva fatto da padre lo zio Giannino, comunista, perseguitato dai fascisti anche con il carcere.
In comune con “Tabarino” aveva il coraggio e l’altruismo. Furono queste le doti che li indussero a rischiare la vita per salvare il “Voltone” dell’Erta dalla distruzione. Dopo non cercarono né onori né ricompense, proprio perché considerarono quell’impresa semplicemente come la restituzione di un favore: le armi avute dal Manicomio.

Questi furono i fatti.

Era l’estate del 44 e i bombardamenti degli Alleati si facevano di giorno in giorno più frequenti. La gente dei paesi aveva lasciato le proprie case per sfollare nelle campagne: luoghi più sicuri ed aperti. Le fabbriche avevano chiuso. Alla vetreria Taddei ed in alcune frazioni di Empoli c’erano stati i rastrellamenti e le deportazioni in Germania già a marzo. A Montelupo 22 antifascisti furono prelevati dalle loro case e mandati nei campi di concentramento.
In quella situazione, con i tedeschi in fuga, il pericolo di essere deportati aumentava. Per sfuggire questa eventualità alcuni uomini del posto si riunirono e decisero che insieme meglio avrebbero potuto sfuggire ai rastrellamenti e vivere alla macchia. A Montelupo c’erano già alcuni antifascisti segretamente organizzati e in contatto con il C.N.T.L. di Empoli e a questi si affiancarono i nuovi clandestini, per lo più giovani renitenti alla leva o ex militari rientrati l’8 settembre.
Intanto si andava intensificando l’attività partigiana in tutta la zona e l’eventualità di scontri con i tedeschi si faceva sempre più probabile. Occorrevano quindi altre armi per questi nuovi arrivati. Ci fu chi pensò alle guardie del Manicomio Giudiziario. I secondini erano armati e certamente nel carcere c’era un arsenale. Come fare per avere quelle armi? Fu deciso per la maniera più semplice: chiederle; facendo valere per la richiesta la drammaticità della situazione.
Il 12 luglio, a sera inoltrata, un gruppetto di quattro o cinque uomini, tra cui Rizieri, “Tabarino”, “Gigino di Sofia” e Guido Guidi, si presentò all’ingresso del manicomio chiedendo del direttore. Ci fu qualche difficoltà, ma poi furono ammessi a parlare con il dott. Generoso Quadrino, direttore del carcere. La richiesta delle armi venne esposta da “Tabarino” che meglio di tutti si sapeva esprimere.
A sua volta, il direttore cercò di spiegare che lui non poteva disporre di ciò che era proprietà dello Stato. Ci sarebbe voluta un’autorizzazione ministeriale. Figuriamoci! Ma era un uomo intelligente e disponibile al dialogo. Parlò della situazione in cui si trovava il Manicomio in quell’estate del ’44.
Più di cinquecento persone: detenuti, agenti di custodia con i familiari, funzionari e sfollati, stavano ammassati all’interno della Villa Medicea perché si ritenevano al riparo dai bombardamenti alleati e dalle rappresaglie tedesche. Infatti il carcere, come ospedale psichiatrico aveva i tetti dei padiglioni contrassegnati con grandi croci rosse, in modo che gli aerei non vi sganciassero le loro bombe.
Tutta questa gente all’interno dell’ospedale, aveva bisogno di cibo e di acqua. Che sarebbe successo se fossero venuti a mancare? Il cibo già scarseggiava e l’acqua poteva mancare da un momento all’altro se, come prevedeva il direttore, i tedeschi in ritirata avessero minato e fatto saltare il “Voltone” dell’Erta. L’acquedotto, che alimentava il Manicomio, passava proprio di lì e facendo saltare la galleria i tedeschi avrebbero distrutto anche l’acquedotto. In previsione di ciò aveva tentato di ripristinare un vecchio pozzo all’interno della Villa, ma con scarsi risultati.
Il dottor Generoso Quadrino era un uomo di circa cinquant’anni che sempre aveva applicato la legge ed i regolamenti burocratici, ma in quell’eccezionale situazione volle comportarsi come il suo intuito gli suggeriva. Confidò in quegli uomini che si trovava davanti e che a lui, psicologo, sembrarono coraggiosi e leali.
Acconsentì alla loro richiesta a patto che facessero di tutto per non far distruggere l’acquedotto.
La sottrazione delle armi sarebbe stata denunciata come un furto per giustificarne la mancanza alle autorità superiori.
Non ci furono patti scritti o rilascio di ricevute. Si strinsero la mano guardandosi negli occhi, il direttore da una parte ed i partigiani dall’altra.
Il prelievo avvenne in due o tre sere, a piccoli gruppi, e la quantità di armi fu tale che servì a rifornire anche una formazione di partigiani empolesi che precedentemente aveva armato i montelupini.
***
“Tomba di Berto” è un grosso burrone tra Sammontana e San Donato. In fondo scorre un rio e c’è sempre acqua potabile nei tonfettini in qua e la verso la parte alta tra la fitta vegetazione. Le pareti del burrone sono ciglioni impervi, scoscesi e in qualche punto franosi. Il luogo, per chi non è pratico, risulta inaccessibile. Per questo era stato scelto dai partigiani come rifugio, ma scherzando veniva chiamato “Il quartier generale”. Avevano allargato e approfondito, puntellandola bene, una grotta naturale e qui potevano dormirci riparandosi in caso di pioggia.
Vicino al rio di Tomba ci sono le due grandi fattorie di Sammontana nelle cui cantine e magazzini erano sfollate varie famiglie di S.Quirico, Montelupo e della Torre, tra queste anche quelle di “Ruzzolo” e di “Tabarino”.
Ma nei locali padronali della “Fattoria di Sopra” c’era anche il comando tedesco del Genio Guastatori, proprio quelli che poi avrebbero minato il “Voltone”. Fortunatamente per i clandestini i genieri non effettuavano rastrellamenti, ma facevano solo attività operative. Tuttavia, sia gli uomini che di notte tornavano ogni tanto alle famiglie, sia le donne che di giorno portavano loro, nel bosco, qualcosa da mangiare, dovevano usare la massima cautela per non farsi notare.
Fu in quella boscaglia che, il giorno dopo il prelievo delle armi, si tenne la riunione per decidere come fare a mantenere l’impegno preso: salvare il “Voltone”. Il direttore aveva visto giusto: quelli erano uomini che avrebbero fatto di tutto per tener fede alla parola data.
La discussione cominciò in modo un po’ caotico, ma piano piano tutti si resero conto di non dover fare un attacco armato ai tedeschi. Bisognava evitare le rappresaglie. Anzi, sull’uso delle armi fu raccomandata la massima cautela e mai iniziative personali.
Fu deciso il sabotaggio, cioè disinnescare di nascosto l’esplosivo che i tedeschi avrebbero deposto e renderlo inefficace.
Stabilirono di fare dei turni di sentinella per intervenire tempestivamente quando i tedeschi avrebbero iniziato a collocare le mine. Si appostarono, due per turno, sulla scarpata sopra la ferrovia, tra le casce. Ad una cinquantina di metri dal “Voltone”. Di lì si poteva vedere sopra e sotto la galleria, bastava salire o scendere la scarpata e, attraverso viottoli predisposti tra la fitta vegetazione, avvicinarsi ulteriormente alla galleria senza esser visti.
Erano già due settimane che stavano di guardia sia di giorno che di notte. Infatti i tedeschi, per non esser bersaglio degli aerei inglesi e americani, si muovevano, con i camion ed i carri, quasi sempre di notte.
Una mattina presto, stava appena albeggiando, arrivò una camionetta e un camion tedesco. Quelli del camion entrarono subito nel casceto e tagliarono alcune piccole piante da appoggiare ai due veicoli per mimetizzarli.
Quelli della camionetta, con dei fogli scesero la scarpata fin sulla ferrovia e con un metro a nastro presero delle misure. Parlottavano e osservavano il “Voltone”, poi risalirono. Evidentemente erano dei tecnici del Genio.
Intanto quelli del camion avevano preparato pale e picconi. Furono segnati i punti dove aprire le buche per le mine. Quattro in tutto, due da un lato e due dall’altro della strada, in fila diritta sopra la galleria. La collocazione delle mine avveniva come previsto: dalla parte di sopra. Furono mandati a chiamare “Tabarino” e “Beppe di Cortenuova” che più degli altri si intendevano di esplosivo.
Ma i tedeschi si limitarono a fare solo i “fornelli”, poi se ne andarono. Erano quattro buche della profondità di circa 60-70 centimetri, larghe altrettanto alla base. Con una avevano incontrato proprio l’acquedotto del Manicomio ed avevano dovuto spostarla di circa un metro.
“Tabarino” disse che probabilmente avrebbero messo del tritolo. Intanto si sentiva picchiare più in giù verso Montelupo. I tedeschi stavano minando anche i due ponti sulla Pesa e quello sull’Arno.
Ormai c’era poco da aspettare, quasi certamente la sera i tedeschi avrebbero messo l’esplosivo e al massimo un paio di giorni dopo se ne sarebbero andati facendo saltare tutto dietro di loro.
Già si poteva immaginare l’orrenda voragine che si sarebbe creata dopo l’esplosione. Tutta la collina dell’Erta divisa in due da un enorme baratro, la ferrovia ricoperta dalle macerie e l’acquedotto del Manicomio che, spezzato, versava ininterrottamente.
Le conseguenze di ciò: il Manicomio, stracolmo di gente, senz’acqua e al collasso igienico sanitario; l’inseguimento degli “Alleati” ai tedeschi in fuga bloccato e una grande opera pubblica scomparsa.
Nel covo di “Rio di Tomba” ci fu la solita riunione per decidere come intervenire. C’era tensione, ma anche speranza che presto la guerra sarebbe finita. L’esercito “alleato” avanzava da sud. Era giunta notizia che pattuglie di avanguardie inglesi erano state viste nei pressi di Montespertoli.
Bisognava prendere contatti per collaborare alla liberazione della zona.
Ma intanto c’era da salvare il “Voltone”. Se i tedeschi lo avessero minato, come si poteva prevedere dalle buche, il sabotaggio sarebbe consistito nel tagliare le micce e rimetterle a posto con il contatto all’esplosivo interrotto.
Si proposero “Ruzzolo” e “Tabarino” accompagnati da due o tre compagni per proteggerli alle spalle. Nessuno si oppose. In pratica, del gruppo di “Rio di Tomba”, erano loro i capi.
Probabilmente avrebbero avuto più di una nottata a disposizione, ma, per sicurezza, decisero di intervenire subito, al momento della posa dell’esplosivo. Se per caso ci fosse stato un attacco “alleato” e i tedeschi avessero anticipato la fuga …. non si sa mai. Meglio agire subito.
La sera venne un temporale; durò poco, ma il cielo non si rasserenò e pieno di nuvoli prometteva ancora pioggia. Meglio così, ci sarebbe stato ancora più scuro.
Andarono via dal rifugio a buio, quando già dalla Fattoria di Sammontana si sentivano i rumori dei camion tedeschi che facevano le operazioni di carico. Il deposito degli esplosivi era nella fornace di calce lì vicino.
Passando lungo il rio, poi attraversando i campi, facevano, in parallelo, lo stesso percorso della strada dove transitavano i camion tedeschi, piano, piano e a fari spenti. Fortunatamente quella sera, forse per il maltempo, non volava il ricognitore “alleato” che ogni tanto lanciava bengala per illuminare il territorio.
Giunsero sul posto prima dei tedeschi e stettero tutti insieme dalla parte della bottega del Gheri. Erano in cinque, tre sarebbero rimasti nascosti nel casceto come punto di appoggio, mentre “Ruzzolo” e “Tabarino” avrebbero effettuato il sabotaggio.
Arrivarono i tedeschi e scaricarono diverse casse di esplosivo. Lo deposero nelle buche e lo ricoprirono con dei cumuli di detriti dai quali uscivano i cordoni delle micce avvolti a spirale per srotolarli, poi, al momento dell’accensione. Lavoravano nell’oscurità con solo un paio di torce elettriche. Si udivano le loro voci gutturali e i secchi ordini dei capi. In un’ora avevano finito il lavoro. Era verso le ventitré. Restarono di guardia in due, armati di mitra. Il camion, con tutti gli altri, se ne andò verso Montelupo giù per la discesa.
Le case dell’Erta erano disabitate, tutti erano sfollati: non c’era segno di vita intorno.
Le sentinelle camminarono in su e in giù sulla strada, fermandosi ogni tanto ad ascoltare eventuali rumori sospetti. Poi cominciò a piovere e parlottando si ripararono sotto il terrazzo della casa più vicina: il palazzotto della Verzani, anch’esso disabitato. Evidentemente si erano persuasi che intorno era tutto calmo, non sospettavano sabotaggi e continuavano a parlare.
I partigiani invece quasi trattenevano il respiro per non farsi sentire. Lungo la scarpata, sul ciglione tra l’Appalto del Gheri e la ferrovia, c’era un pallaio dove tante volte avevano passato qualche ora al gioco delle bocce. Un cancelletto di fianco dava proprio sulla strada, vicinissimo ad una delle mine.
“Tabarino” prese lungo il muro dell’Appalto” e arrivato in fondo alla “Rivestizione Pietro Rigatti” attraversò la strada lontano dalle sentinelle per poi ritornare indietro. Dall’altra parte, dove ora c’è la vetreria VAE, c’erano solo macchie a confine dei campi. Strisciando lungo di esse la sua sagoma si confondeva con lo scuro delle siepi. Arrivò alla seconda mina; “Ruzzolo” era già sulla prima. Si guardarono e cominciarono con le mani a scavare il cumulo intorno alla miccia. Pioveva ancora e la terra bagnata gli si appiccicava alle mani. Alla profondità di una trentina di centimetri, col coltello, tagliarono la miccia e la fermarono con una pietra. Ricoprirono come prima e si guardarono con approvazione reciproca, uno di qua e uno di là della strada.
Sempre strisciando fecero il percorso a ritroso e con il cuore in gola per l’emozione si ritrovarono alla postazione di partenza: al pallaio del Gheri, fradici e fangosi.
I due tedeschi stavano sempre sotto il terrazzo. C’era un gran silenzio intorno. Solo il brontolio dei tuoni del leggero temporale si mescolava al latrare di un cane in lontananza. Rimanevano da disinnescare le due mine più lontane. Decisero di scendere sulla ferrovia e di risalire poi dall’altra parte del Voltone. Si sarebbero trovati in un orticello proprio sopra la volta, ma davanti ai tedeschi dalla parte opposta della strada statale e di quella che da lì porta al Manicomio e che veniva chiamata lo “Stradoncino”. C’era nell’orto molta vegetazione tra cui nascondersi, ma la vicinanza ai tedeschi era di pochi metri.
Decise “Ruzzolo” di andarci. Lui era il più giovane e, anche se di corporatura robusta, il più agile. “Tabarino e gli altri con i fucili avrebbero tenuto di mira i tedeschi nel caso il sabotaggio fosse stato
scoperto.
Scese giù tra le casce, attraversò, senza far rumore, camminando sui binari, tutta la galleria e risalì il ciglione dalla parte opposta. Da un viottolo entrò nell’orto. I due tedeschi erano proprio di fronte dall’altra parte della strada. Si vedeva, ad intervalli, il puntino rosso di una sigaretta che si ravvivava ad ogni tirata di fumo. I tedeschi fumavano e parlottavano tranquilli al riparo dalla pioggiarella sotto il terrazzo, ma sarebbe bastato un passo falso per scatenare la loro reazione a raffiche di mitra.
“Ruzzolo” tagliò la miccia della mina facilmente: la buca era stata fatta nella terra morbida dell’orto. Fermò la miccia ad un fuscello e lo risotterrò nel punto di prima, ricoprendo il tutto. Quest’operazione di fermare la miccia interrotta veniva fatta per precauzione, nel caso i tedeschi, tirandola, ne avessero voluto verificare l’integrità.
Rimaneva l’ultima mina, ma era quella più vicina alle sentinelle. Intanto aveva smesso di piovere ed i due tedeschi ritornarono sulla strada. “Ruzzolo”, nascosto tra le piante di pomodori, non si muoveva e tratteneva il respiro. Restò così per una mezz’ora. Oltre alla paura di essere scoperto aveva anche timore che i compagni, dal nascondiglio dall’altra parte, prendessero qualche iniziativa pericolosa.
Intanto si udiva avvicinarsi il rombo di un motore su per la salita dell’Erta.
Era il camion tedesco che ritornava. Si udirono delle voci concitate e i tedeschi di guardia che rispondevano. Poi il camion ripartì con a bordo anche le due sentinelle. Evidentemente, o ritenevano che non ci fosse più bisogno della guardia, oppure i due servivano da un’altra parte.
“Ruzzolo” rimase ancora immobile, non aveva piena visibilità della strada. Poi si sentì chiamare e si rese conto che i tedeschi se ne erano andati davvero. Si alzò e vide “Tabarino” che uscito allo scoperto stava tagliando l’ultima miccia. Verificarono che non si notassero impronte di manomissione intorno alla terra bagnata sopra le mine; poi, svelti, ritornarono al riparo. $i abbracciarono contenti della missione compiuta, ma un po’ delusi per il rischio che avevano corso quasi inutilmente visto che i tedeschi se ne erano andati.
Il giorno dopo, 27 luglio 1944, i tedeschi in ritirata fecero brillare tutte le mine che avevano piazzato.
Saltò in aria il ponte sulla Pesa e le case vicine, il ponte sulla ferrovia e il ponte sull’Arno tra Montelupo e Capraia.
Solo il Voltone dell’Erta rimase intatto.

Per la stesura di questo racconto mi sono avvalso di varie testimonianze. Particolarmente utili mi sono state quelle di: Billeri Prosperi Ofelia, Lucchesi Raffaello, Lucchesi Martini Comunarda, Gianni Silvano e Prosperi Giancarlo.
Ringrazio sentitamente, per la cortesia dimostrata nel fornire la documentazione, la direzione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo F.no ed in particolare l’Ispettore Rigatti Adriano.

 

IL FESTIVAL
Dal 7 ottobre al 16 dicembre, il Palazzo Podestarile di Montelupo Fiorentino (Fi) ospita J.O.B.S. Join Our Blanded Stories. Storie di lavoratori in mostra, a cura di Andrea Zanetti, che inaugura la prima edizione di Ci sono sempre parole ( non) Festival delle narrazioni popolari (e impopolari), primo Festival ‘diffuso’ sulle narrazioni e lo storytelling che mette al centro le persone e i loro racconti di vita quotidiana e che si svolgerà fino al 30 novembre 2018 oltre a Montelupo Fiorentino, in altri due comuni dell’Empolese Valdelsa, Capraia e Limite e Montepertoli. La mostra è realizzata con la collaborazione e il contributo di Cgil, cisl, Uil,  Firenze; è organizzata da Sistema museale Museo diffuso Empolese Valdelsa e l’associazione Yab. Il mondo del lavoro oggi. La precarietà, l’incertezza, il silenzio, il futuro che non arriva. La realizzazione di sé. Le famiglie contemporanee, il mutuo, la pensione, i nipoti. Le non famiglie, le solitudini. Le relazioni. Quanto si potrebbe scrivere e raccontare sul mondo, meglio, i mondi, del lavoro oggi! Quante storie di difficoltà, successi o privazioni, potremmo descrivere sulla base delle cronache quotidiane che leggiamo. Il mercato, la globalità, le reti, l’innovazione, la manualità; gli operai che resistono e quelli che non esistono. Gli occhi disillusi dei pensionati e quelli rassegnati dei figli. Ma anche gli occhi di chi ci è riuscito, con o senza lotte. Le mani di chi si impolvera ogni giorno o quelle veloci di chi digita su qualche tasto.

Capraia e Limite, Lungarno, sede omaggio all’Empaty Museum

Alexandria Ocasio-Cortez ha aperto la strada: sono le donne Dem la vera sorpresa delle primarie Usa

NEW YORK, NY - SEPTEMBER 08: Congressional candidate Alexandria Ocasio-Cortez lends her support to the New York progressive ticket at a get out the vote rally for Cynthia Nixon on September 8, 2018 in the Williamsburg neighborhood of Brooklyn in New York City.Left wing challengers are running against established Democratic candidates who they claim are not committed to changing economic and racial inequalities in New York state. (Photo by Andrew Lichtenstein/Corbis via Getty Images)

Quasi due anni fa, Donald Trump veniva eletto presidente degli Stati Uniti d’America, con non poca sorpresa e grazie al complesso meccanismo elettorale per il quale a contare non sono i voti popolari ma quelli dei “grandi elettori”. Il prossimo 6 novembre una nuova sfida attende gli Usa: quella delle elezioni di midterm, con cui si rinnoverà gran parte del Congresso. La fase delle primarie, durante la quale si scelgono i candidati di ogni partito che si presenteranno alla votazione finale per ogni distretto, si è da poco conclusa con risultati molto interessanti, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione femminile.

Queste elezioni primarie, infatti, sono state quelle con il numero più alto di sempre di donne a partecipare: 589 tra Camera, Senato e elezioni statali dei governatori. Di queste, 273 hanno vinto, circa metà delle quali sfidando un candidato che si presentava per la rielezione in quel distretto. Una grossa differenza con il passato, visto che attualmente solo il 20% dei 435 seggi della Camera è occupato da una donna. Un dato che non sorprende invece, nell’America dell’era Trump, è che solo 45 di queste candidate sono repubblicane, lasciando i restanti tre quarti ai Democratici. Un’ondata di cambiamento che ha visto il suo propulsore, lo scorso giugno, nella vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez nel XIV Distretto Congressuale di New York.

Ocasio-Cortez è diventata un’icona per un certo tipo di elettorato, principalmente giovane e progressista, il quale ha scelto prevalentemente candidati che rispecchiavano questa descrizione. Un esempio può essere Alessandra Biaggi, giovane italo-americana candidata per le elezioni del Senato statale nel distretto del Bronx, la quale ha vinto la nomination battendo membri ben più consolidati di lei nell’ambiente politico. Un aspetto curioso, visto che lei stessa proviene da una famiglia con un passato in questo senso (suo padre era un amatissimo deputato del Bronx la cui carriera è stata stroncata da un’accusa di corruzione) e non sia tra i sostenitori di Bernie Sanders della prima ora come Alexandria, ma abbia invece militato nella campagna di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016. La vittoria di Ocasio-Cortez sembra aver creato un modello vincente, almeno nell’area di New York, seguito anche da chi altrimenti avrebbe faticato a trovare un posto nel panorama politico.

Un caso più affine al suo è quello di Julia Salazar, attivista ventisettenne che nel XVIII distretto ha vinto la candidatura al Senato statale contro il rappresentante uscente. Figlia di un’americana e di un colombiano, si definisce “femminista, sindacalista e socialista-democratica”. La sua candidatura è stata appoggiata da Our Revolution, l’organizzazione di Bernie Sanders che rappresenta una sorta di “bollino di qualità” quando si parla di socialismo negli Stati Uniti. Tra gli endorsement ci sono anche quelli a due donne musulmane, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, le quali potrebbero diventare le prime donne di religione islamica a entrare nel Congresso statunitense. Le due sono candidate rispettivamente per il V distretto del Minnesota e per il XIII del Michigan ed hanno già dei record nelle loro carriere, avendo abbattuto i muri che tenevano fuori le donne islamiche dai posti di potere politico nei loro Stati. A rendere ancora più particolare la vittoria di Omar è il suo essere, a tutti gli effetti, una rifugiata somala che ha ottenuto la cittadinanza statunitense. Nata nel 1982 a Mogadiscio, si è trasferita negli Usa nel 1995 insieme a suo padre e a suo nonno, grazie al quale si è avvicinata alla politica all’età di quattordici anni, quando gli faceva da interprete agli incontri del Democratic Farmer Labor (una sorta di sindacato degli agricoltori Democratici).

Un dato sembra emergere chiaramente da queste primarie: a vincere contro i membri dell’establishment democratico sono le nuove “americane col trattino”. Essere una donna progressista, infatti, sembra non essere sufficiente: è il caso delle elezioni per la carica di governatore a New York, dove a trionfare è stato l’uscente Andrew Cuomo battendo Cynthia Nixon, resa nota dalla sua carriera di attrice, con una percentuale di 66 a 34%. Un risultato che dovrebbe far riflettere: l’America di Trump risponde alla stretta ben poco democratica del suo presidente dando la propria fiducia alla categoria più disprezzata di questi ultimi tempi, quella dei migranti e degli stranieri in generale. È indubbio che la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez abbia aperto la strada a queste vittorie, grazie alla visibilità mediatica che ha raggiunto ma anche e soprattutto grazie al suo impegno nell’appoggiare i suoi colleghi, come ha fatto ad esempio nel caso di Alessandra Biaggi accompagnandola per le strade del Bronx e presenziando ai suoi comizi. Non resta che aspettare gli esiti della votazione di novembre per confermare o smentire questa analisi.

La libertà non deve morire in mare. La verità sulle stragi nel Mediterraneo

La libertà non deve morire in mare

«Il signor Ministro ringrazia per l’invito, ma non potrà intervenire». È con queste parole che si apre la conferenza stampa dopo la proiezione di La libertà non deve morire in mare, documentario prodotto e diretto da Alfredo Lo Piero appena presentato alla Casa del Cinema di Roma e realizzato in collaborazione con Guardia costiera, Medici senza frontiere e Guardia di finanza, e con il patrocinio di Amnesty international Italia. A leggere lo scarno comunicato del ministero degli Interni è Giovanni Costantino di Distribuzione Indipendente, che avrà il non facile compito di far circolare questo bel film nel paese in cui la Tv di Stato ha interrotto la fiction sul modello di accoglienza realizzato a Riace dal sindaco Mimmo Lucano.

Che la nota ufficiale di un dicastero, in una simile occasione, possa suonare così ironica è evenienza rara. Quasi quanto avere un ministro che ha sdoganato “neo-linguismi” come “pacchia” e “taxi del mare” per liquidare e denigrare il fenomeno epocale e drammatico descritto anche da questo film. Un documentario girato in opposizione, fin dal titolo, a quell’ondata mediatica mainstream che asseconda, quando non la agisce consapevolmente, l’operazione di stravolgimento della realtà che in questi anni ha visto i disperati protagonisti in fuga da guerre e carestie, e che spesso considerano l’Italia un puro luogo di transito, trasformarsi in delinquenti, portatori di violenza e malattia e perfino terroristi. Nel Mediterraneo, insieme alla libertà del titolo e a centinaia di bambini, donne e uomini che anche mentre scriviamo continuano quasi ogni giorno a morire, sta affogando anche la verità. «L’ho fatto per mia figlia», dice il regista. «Perché aveva paura di fare il bagno con l’uomo nero».

Il film è stato girato in un 2016 che oggi sembra lontanissimo. C’erano ancora le navi delle Ong libere di circolare per salvare vite, non c’era ancora il decreto Minniti che ha cambiato per sempre la politica italiana in tema di migrazione, trasformando il filtro dell’accoglienza in barriera per il respingimento. Il regista Lo Piero e il direttore della fotografia Giuseppe Bennica si trovano a Lampedusa come “luogo di ispirazione” e all’improvviso s’imbattono in un’operazione in corso, ovvero il recupero di centinaia di naufraghi dispersi in mare dopo il ribaltamento, a poche centinaia di metri dalla costa, un’imbarcazione con più di cinquecento persone a bordo. Nasce così una testimonianza preziosa, girata con le poche attrezzature disponibili in quel momento e con l’ostacolo delle «nostre lacrime e dei singhiozzi, che rendevano tutto più difficile». Lacrime e singhiozzi che si aggiungono a quelle dei soccorritori, militari e civili. Decine di donne con bambini, pianti e urla fanno da colonna sonora a un tappeto di lenzuola bianche che ricoprono file e file di corpi riversi in terra.

Nel film le testimonianze degli scampati si alternano a quelle dei residenti, fra i pochi italiani ai quali la verità, nella sua banale ferocia, non ha bisogno di essere portata, perché la vedono con i propri occhi, senza doversi preoccupare se credere ad altro, a quei veleni circolanti nel vecchio e nel nuovo etere che intossicano la percezione. «Queste persone che arrivano sono noi» esclama nel film puntandosi l’indice sul petto Pietro Bartolo, l’ormai celebre medico dell’isola (già apparso in Fuocoammare di Gianfranco Rosi), che poi non risparmia la lettura della lettera di un “hater” che lo riempie di insulti per il semplice fatto di fare il suo mestiere. Ennesimo segno di quell’odio pilotato che mira a seminare cecità propagandosi come un virus del pensiero.

«Non ci sono dubbi sul fatto che operare il soccorso in mare, sempre e comunque, sia un dovere». Ad aver preso la parola in conferenza stampa non è una persona qualsiasi, ma un alto ufficiale della Guardia di finanza. Il colonnello Paolo Emilio Recchia. Nel film sono incluse anche le testimonianze di giovani ufficiali sia della GdF che della Guardia costiera, che però a questa proiezione non ha mandato nessun rappresentante. «In quei momenti emerge la nostra parte umana», dice uno di loro fra le numerose scene di salvataggio in mare. Anche il barcone della disperazione è presente nel film.  Mentre scorrono le immagini subacquee, un testimone riferisce la sua ispezione del relitto ancora pieno di cadaveri, e la sua impotenza nel fare la sola cosa pensabile: portarli in superficie. «Guardavano tutti verso l’alto. Erano morti». Questo è il momento in cui, da spettatori, insieme al dolore si prova un indicibile vergogna.

«L’operazione Mare nostrum è stata abbandonata. Il dispositivo che noi delle Ong avevamo predisposto dal 2015 è stato completamente smantellato» dichiara il Direttore generale di Medici senza frontiere Gabriele Eminente. E, presagendo un’ulteriore fase acuta del conflitto nella regione siriana, aggiunge «pensare di poter arginare le partenze nei prossimi tempi è un’illusione». A quest’illusione, poter fermare un fenomeno epocale come la migrazione in corso dal Sud del mondo, si somma la disumanità con cui gli ultimi governi in carica hanno tentato di farlo, con l’intenzione di risolvere non una crisi umanitaria senza precedenti ma “il problema” dell’impatto economico e sociale sull’Italia. La storia insegna cosa può succedere quando le persone si inizia a guadarle come “un problema”.

Le barche della disperazione sono sempre lì, in mare. Ma anziché diverse centinaia di migranti ciascuna ne portano a decine. Facendosi sempre più piccole, diventano sempre più invisibili. Annullare il problema si fa più facile. Gli accordi con la Libia e le misure conseguenti, le inchieste sulle Ong (che a nulla di giuridicamente rilevante hanno portato) e la chiusura dei porti hanno fatto il resto, attirandoci il richiamo dell’Onu per le “inadempienze italiane in materia di rispetto dei diritti umani dei migranti”.

È la «fabbrica della paura», la definisce il portavoce nazionale di Amnesty international Italia Riccardo Noury, che appare anche nel film. E sta operando a pieno regime. Una carenza cronica d’informazione che si può curare soltanto facendo luce sui fatti. «Il mio non è un film politico» dichiara il regista Alfredo Lo Piero. Oggi, in Italia, è difficile pensare che un film del genere non abbia suo malgrado un significato e un impatto politico nel senso più elevato, quello dell’informazione, della demistificazione e della partecipazione. Ecco perché, al di là della drammatica bellezza dell’opera cinematografica di Lo Piero, bisogna andare a vederlo.

«La libertà non deve morire in mare» uscirà in circa novanta sale italiane giovedì 27 settembre con Distribuzione Indipendente. Qui il trailer

Riempire il vuoto con un colpevole al giorno

epa05454980 The shadow cast of one of the sculptures belonging to the travelling exhibition 'Die Woelfe sind zurueck?' (lit. 'The wolfs are back?') displayed at the central station in Berlin, Germany, 04 August 2016. With his exhibition, German artist Rainer Opolka wants to educate on xenophobia, hate and right-wing extremism. EPA/SOPHIA KEMBOWSKI

Gli ultimi sono i tecnici della ragioneria dello Stato, colpevoli, a dar retta al leghista Rixi, del ritardo del decreto per la ricostruzione del ponte Morandi, che aspettano tutti da quarantadue giorni ma in compenso ha avuto più annunci della Salerno-Reggio Calabria. Colpa dei tecnici che non trovano i soldi per declinare la propaganda in reale azione di governo.

Ieri (ma anche domani) è colpa dei negri: i negri che stuprano, i negri che spacciano, i negri che devono perdere i diritti se condannati in primo grado. L’ha deciso un condannato in via definitiva (per oltraggio a pubblico ufficiale) e indagato per reati gravissimi a cui ha risposto perculando i magistrati. L’ha deciso lui che giusto qualche giorno fa ha reso omaggio con una bella cenetta al pluricondannato numero uno d’Italia, Silvio Berlusconi, con cui ha deciso le prossime nomine Rai.

È colpa dell’Europa se siamo poveri. È colpa del Pd. È colpa di Renzi. È colpa della Boldrini. È colpa di Macron. È colpa della Ong. È colpa della Bonino. È colpa di Soros. È colpa dei gay. È colpa delle donne che vogliono abortire. È colpa dei giovani rammolliti che non vogliono il servizio militare. È colpa della scuola. È colpa del gender. È colpa delle femministe.

Ma attenzione, non è una pratica di questi ultimi mesi, no: prima era colpa dell’Anpi, colpe dei professoroni, colpa di bandiera rossa, colpa di Bersani, colpa dei sindacati, colpa del telefono a gettoni, colpa delle minoranze, colpa dei partitini, colpa di chi si opponeva al cambiamento, colpa della rete.

E, pensateci, prima ancora: colpa dei giudici, colpa dei comunisti, colpa della Rai, colpa dei pentiti, colpa dei sedicenti antimafiosi, colpa di D’Alema, colpa di Prodi, colpa di De Benedetti, colpa dei terroni.

Decenni passati, ogni giorno, a partorire colpevoli. Ogni giorno un colpevole da buttare in pasto alla folla. Ogni giorno qualcosa o qualcuno o una categoria da additare come causa dello sfacelo. E da decenni, intanto, sfaceli.

Poi ci si stupisce della rabbia che c’è in giro. Hanno impiantato una catena di montaggio di colpevoli pronti all’uso e ci danno lezioni di Nazione (se non addirittura di Patria) e di coesione sociale.

Merito loro.

Buon mercoledì.

La memoria è un muscolo

Se avete la sensazione che non serva ripetere ciò che è accaduto, raccontare le vostre preoccupazioni, sottolineare le similitudini con i tempi più bui costringetevi a non cadere nell’inedia: sulle ripetizioni delle bugie e delle falsità questi hanno costruito una diga che ha bisogno di resistenza con la stessa intensità di martellate, lo stesso ritmo se non di più, con l’etica di ciò che è stato e che dobbiamo ricordarci di ricordare.

Se vi capita di ottundere o limare un vostro pensiero per non doversi sorbire il letame degli odiatori seriali o dei topi sdoganati da questo tempo non cedete. Insistete. Scrivetelo e ditelo più forte che potete. La loro forza è la stanchezza degli altri, le loro idee sono coprenti ma vuote. Il loro spessore è la nostra stanchezza, il loro volume è il silenzio tutto intorno.

Se vi capita di pensare che ormai anche quest’ultima notizia sia solo l’ennesima non cadete nel tranello dell’abitudine: perseverare significa tenere dritta la barra che separa il giusto dall’ingiusto, l’infamia dalla legge, riconoscere l’odio spacciato per diritto. C’è da separare il grano dal sale tutti i giorni, ogni ora, colpo su colpo. Abituarsi all’orrore è l’inizio della legittimazione. Il silenzio è la culla degli orrori. Solo dopo vengono i loro seguaci.

La memoria è un muscolo. E ha bisogno di esercizio, faticoso e quotidiano, per rimanere lungo e allenato. La memoria funziona se è una lente sempre accesa sul presente, mica se diventa una cerimonia del passato. Ed è tempo di memoria. Tanta, forte, appassionata. E dura. Sì, dura. Perché la memoria è un muro che non si sbriciola sotto i colpi della propaganda.

Buon martedì.

Caccia alle microplastiche, nessun alimento si salva dalla contaminazione

Viviamo immersi nella plastica. La ritroviamo ovunque, la vediamo nei mari, trascinata dalle acque dei fiumi, sparsa perfino sulle cime delle montagne o nelle campagne che ci ostiniamo a considerare incontaminate… Ora ci stiamo accorgendo che la mangiamo e la beviamo. E ci possiamo fare davvero poco, se non cambiano le cose. Difatti quella che arriva dagli alimenti, dalle spezie, dall’acqua e, come testimonia la prima analisi fatta dal Salvagente su 18 bevande industriali, dalle cole alle aranciate, dalle gassose al tè freddo, non possiamo scorgerla a occhio nudo e non siamo in grado di scansarla.
Il pericolo, in questo caso, ha un nome e una definizione scientifica precisa, anche se è solo da poco tempo che ricercatori e analisti se ne occupano, e un grado di rischio ancora in gran parte sconosciuto.
Si chiama microplastica, questa la definizione delle particelle solide insolubili in acqua di dimensioni anche di molto inferiori ai 5 millimetri. Tanto piccola da non essere distinguibile e forse proprio per questo altrettanto, se non più insidiosa dei frammenti più grandi da cui deriva. Che, neppure a dirlo, sono i polimeri di maggior uso, come polietilene, polipropilene, polistirene, poliammide, polietilene tereftalato, polivinilcloruro, acrilico, polimetilacrilato.
Da qualche anno chi la cerca, a prescindere da cosa analizza, la trova. Se ne trova nella carne dei pesci che consumiamo e che ne accumulano anche quantità che fanno impressione, nei frutti di mare, nel sale marino, nelle acque (di fiumi, di rubinetto, perfino nelle minerali). Non risparmia neppure prodotti come il miele.
Inevitabile, dunque, che fosse rilevabile anche nei soft drink che il mensile dei consumatori ha mandato nei laboratori del Gruppo Maurizi e che ha presentato oggi in una conferenza stampa assieme al nostro editore, Matteo Fago e al direttore generale del Wwf, Gaetano Benedetto. Semmai stupisce che nessuno dei tè, delle cole, delle gassose, delle aranciate o delle acque toniche sottoposti ad analisi si sia salvato. Da dove viene e che pericolo c’è da aspettarsi da questa invisibile ma costante invasione di frammenti che finiscono nella nostra alimentazione?
Non ci sono risposte facili, né univoche. Se sulla provenienza delle microplastiche, tanto per fare un esempio, un ruolo fondamentale lo hanno avuto e lo hanno i cosmetici che le inseriscono di proposito (magari, ma non solo, per assicurare l’effetto scrub), oggi la catena di questa contaminazione appare molto più lunga e complessa. Come appare sempre più probabile la catena degli effetti, almeno a giudicare dai primi studi, per quanto controversi.
Vista da Bruxelles, per esempio, la questione delle particelle di plastica che ingeriamo o beviamo non fa tanta paura: «Secondo le attuali conoscenze, è improbabile che l’ingestione di microplastiche ‘di per sé’ sia un rischio oggettivo per la salute umana», scrive l’Unione europea.
Vista da Helsinki, dal quartier generale dell’European Chemical Agency (l’Eca), la prospettiva è diversa. «Alcuni degli additivi o contaminanti organici, addizionati alle plastiche, possono essere tossici», mette nero su bianco l’Agenzia in un documento di pochi mesi fa. E non si tratta di una preoccupazione venuta solo agli scienziati finlandesi. Sono diversi gli studi – tutti molto recenti dato che il tema è relativamente nuovo – che mostrano come le microplastiche possano diventare un comodo “autobus” per sostanze tossiche, concentrando e trasportando inquinanti come il bisfenolo, alcuni ftalati, pesticidi e altre molecole ad azione tanto cancerogena quanto di interferenza endocrina.
E non si tratta solo del pericolo delle sostanze aggiunte nella lavorazione della plastica, ma anche di quelle che raccoglie per strada, nella sua lunga vita. Secondo l’Agenzia francese Centre national de la recherche scientifique queste particelle inferiori ai 5 millimetri hanno la capacità di «fissare inquinanti organici nell’ambiente come Pcb, diossina o Ipa» e microrganismi patogeni. Non ci sono studi sufficienti per quantificare l’impatto sugli esseri umani, ma il rischio è già più che evidente: assumere particelle invisibili a occhio nudo che poi, una volta nel nostro organismo, rilascino il loro carico di veleni.
«Non vorremmo ritrovarci nella stessa, drammatica condizione dell’amianto – ha spiegato Matteo Fago -, un materiale considerato sano e inerte per troppi anni tranne scoprire, troppo tardi, quanti e quali danni aveva prodotto sugli organismi dell’essere umano».