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Il panorama messo in luce da Tadao Ando

In Giappone, nella città di Osaka rinata dalle ceneri della guerra senza neanche un albero, un uomo si dirige verso il municipio con il progetto di un edificio sottobraccio; il suo nome è Tadao Ando, non ha molta esperienza lavorativa nelle costruzioni, non è un architetto e non ha mai frequentato una scuola tecnica. Per essere più precisi ha interrotto gli studi a diciassette anni senza conseguire il diploma, e ciò gli ha precluso l’ingresso all’università. Nel suo bagaglio personale ha un tentativo di carriera come pugile professionista e un breve periodo come camionista. Ma dimostra una profonda passione per l’architettura, emersa a quindici anni osservando il lavoro di alcuni carpentieri impegnati nella ristrutturazione di una casa; questi erano talmente dediti alla propria opera che uno di loro rinunciò persino al proprio pasto. Per nulla scoraggiato dalle avversità, Ando si procura i libri di testo e studia in un anno ciò che normalmente si apprende in molto più tempo. Grazie a un’attenta osservazione carpisce la tecnica dai manovali del quartiere di Asahi dove vive, e un passo alla volta lastrica la strada che lo condurrà infine in municipio. È il 1969, anno in cui fonda il suo studio, e il progetto che porta con sé è la ricostruzione dell’area della stazione di Osaka e consiste in tre edifici a torre sulla cui sommità svettano libere vere e proprie alberature, a portare ombra e natura in altrettanti giardini pensili. La candidatura di tale lavoro è totalmente spontanea e l’amministrazione si interroga stupita su quali siano i motivi che hanno spinto il giovane a presentare di propria iniziativa un progetto. Comincia così la carriera professionale dell’autodidatta giapponese Tadao Ando, classe 1941, uno dei maggiori architetti della nostra epoca, cui il Beaubourg parigino dedica una retrospettiva che si apre il 10 ottobre dal titolo eloquente, Tadao Ando, The Challenge. Alla sua ideazione ha contribuito…

L’articolo di Matteo Sintini prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Carlo Flamigni: «Questo governo è fuori dalla realtà»

«Nell’Italia fascista, il regime affrontò il duplice problema dell’emancipazione femminile e della politica demografica, e la dittatura giustificò le proprie battaglie demografiche in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti delle donne conseguenze immediate. Lo Stato si proclamava l’unico arbitro della salute pubblica e in linea di principio esse non avevano alcun potere decisionale riguardo alla procreazione dei figli. Mi sono occupato a lungo di questi temi ed è questo che mi torna in mente quando sento le esternazioni del governo attuale riguardo ai rapporti familiari e affettivi».

Carlo Flamigni ginecologo e pioniere  della fecondazione in vitro, nonché storico componente del Comitato nazionale per la bioetica, dopo qualche resistenza accetta di rispondere alle nostre domande. Vogliamo sapere per esempio cosa ne pensa dell’idea di quel ministro che intende intaccare un caposaldo della Legge 194, vale a dire la scelta libera e consapevole della donna che vuole interrompere la gravidanza, introducendo nei consultori i rappresentanti di associazioni religiose «per incentivare le nascite». Oppure del pensiero di quell’altro senatore convinto che esista una razza italiana e che dunque «se non si sostiene la maternità» noi italiani siamo destinati all’estinzione.

«Sentir parlare di questi personaggi mi fa innervosire, sono fuori dalla storia, fuori dalla realtà. Voliamo più alto! Ma prima voglio aggiungere qualcosa…».

Prego.
«L’attacco condotto dal regime contro la libertà di riproduzione è stato uno degli aspetti più importanti della politica repressiva fascista sulla sessualità. Mussolini pose gli interventi in “difesa della razza” al centro degli obiettivi nazionali. Voleva raggiungere entro la metà del secolo una popolazione di 60 milioni in una nazione che ne contava all’epoca 40. Per giustificare questa ambizione faceva riferimento a due argomenti dichiarati ed a uno sottointeso.

Vale a dire?
Il primo argomento era…

L’intervista di Federico Tulli a Carlo Flamigni prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Né di sinistra, né laico: spoiler sul Pd del futuro

Adesso Orfini dice «sciogliamolo e rifondiamolo». Come se il Pd fosse un tablet impallato: «Hai provato a spegnere e a riaccendere?». «Orfini si sveglia adesso? E che cosa ha fatto in quattro anni che è stato presidente del partito?», sbotta una giovane militante romana che chiede l’anonimato per non causare turbamenti alla vigilia del congresso. Anche dalla festa dei giovani di Ravenna il messaggio è stato, all’incirca, che è impensabile superare la crisi con i suoi responsabili. Ma nessuno si aspetti clamorose autocritiche da chi ha diretto l’ex partito di maggioranza relativa. «Il Pd ha bisogno di un processo rifondativo non tanto delle idee, ma del modello organizzativo», è la linea del politologo Mauro Calise (autore per Laterza de Il Partito personale) su democratica.org, il sito nato sulle ceneri de l’Unità.
L’ex giovane turco Orfini sarebbe “il poliziotto cattivo di Renzi”, mandato avanti (invano) per rinviare il congresso. Al Nazareno puntano tutti sul derby europeisti-sovranisti e anche gli appelli che circolano sono solo varianti su scala continentale del tormentone sul voto utile: votate noi altrimenti arrivano quelli più cattivi. Così, prima Martina (che non si sa se correrà per le primarie) e poi Renzi da Porta a Porta, lanciano una versione europea del Fronte repubblicano. Alle europee con un listone Macron (con cui vorrebbe allearsi anche il M5s), Verdi, liberali, Pse e Tsipras. Nessuna reazione visibile a occhio nudo da Atene dove la notizia è finita nelle brevi di un paio di giornali. «Ma stiamo scherzando?!», esclama Argyrios Argiris Panagopoulos del dipartimento politiche europee di Syriza: «Come si fa a candidarsi con chi ci ha massacrato fino a ieri? – dice a Left – certo, siamo molto preoccupati per l’ondata sovranista ma è stata possibile grazie alle politiche neoliberiste e a settori della socialdemocrazia. In Spagna e Portogallo quei partiti stanno cambiando ma Renzi non è cambiato. Noi andremo alle elezioni con la Sinistra europea».
Qualcuno giura che l’ex rottamatore fiorentino stia…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Le donne non stanno a guardare

Students march during a demonstration to protest against Italian government's school reforms on October 10, 2014 in Turin. AFP PHOTO / MARCO BERTORELLO (Photo credit should read MARCO BERTORELLO/AFP/Getty Images)

Oggi non ci sono le condizioni per cambiare la legge 194 sull’aborto. Ma anche noi ci arriveremo come l’Argentina». Questa dichiarazione di guerra da disputarsi per l’ennesima volta sul corpo delle donne, non è stata lanciata da un integralista cattolico al Family day. Bensì da un senatore della Repubblica, Simone Pillon, membro di uno dei due partiti di governo, la Lega. Chi impugnava i microfoni a quelle kermesse oscurantiste, come Pillon, ora ha in mano le redini di questo Paese. «Dobbiamo sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani», ha detto Pillon in un’intervista a La Stampa, non solo avvisando che il conflitto si giocherà sulla linea del genere, ma pure alludendo a un antiscientifico e xenofobo concetto di razza.

Ma non c’è solo la possibilità di decidere di interrompere la gravidanza nel mirino dei crociati del terzo millennio. Dopo che Salvini già durante l’estate si era premurato di far saltare la dicitura «genitore 1» e «genitore 2» dai moduli per la carta di identità elettronica, ripristinando le espressioni «padre» e «madre», ora “Vita famiglia e libertà” il neonato intergruppo di 150 parlamentari composto da elementi del centrodestra (e anche del M5s), non si fa problemi a manifestare la volontà di intervenire contro le leggi sul fine vita e che regolano le unioni civili. Intanto, il disegno di legge sugli affidi firmato da Pillon nega l’identità umana e i diritti di donne e bambini in nome di una «bigenitorialità perfetta».

Nel frattempo, mentre il governo del cambiamento punta a riportare il Paese negli anni bui del Medioevo, i fenomeni di violenza sulle donne non accennano a calare. Secondo gli ultimi dati del Viminale, tra agosto 2017 e luglio 2018 si sono consumati ben 120 femminicidi – esattamente quanti ne sono avvenuti nel 2016 -, il 75% dei quali «in ambito familiare affettivo». In Italia le donne vengono uccise in casa, dal marito, dall’ex marito, dal compagno. Dati che ribadiscono come il problema da affrontare vada ricercato all’interno di una persistente cultura patriarcale, su cui questo come i governi precedenti non si sofferma mai a riflettere.

Ad arginare tale vera emergenza, ormai strutturale, ci avrebbe dovuto pensare il Piano anti violenza 2017 – 2020, varato lo scorso novembre dall’…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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A Bari è stata un’aggressione squadrista, CasaPound va sciolto

Bari non si lega, si intitolava la manifestazione antirazzista che ha percorso pacificamente lo scorso 21 settembre le strade del quartiere Libertà di Bari. Il corteo ha attraversato le strade di questa centralissima periferia, mentre dal microfono gli interventi parlavano di antifascismo, di antirazzismo, di diritto all’abitare, di autodeterminazione e di quell’emergenza povertà accuratamente nascosta dall’invenzione dell’emergenza sicurezza da parte della comunicazione del governo pentaleghista.

Quanto accaduto quando il corteo era già terminato ha una sola definizione: aggressione fascista. Mentre tornavamo dalla manifestazione percorrendo via Crisanzio in direzione del centro, abbiamo incontrato una ragazza, con la sua bambina e il passeggino, in attesa di una amica. Ci siamo offerti di aspettare con lei l’amica e che la situazione si calmasse, perché lungo la strada in cui lei vive (via Eritrea) c’era un assembramento di 20-30 esponenti di CasaPound. La ragazza, cittadina italiana di origine etiope – in Italia, nel 2018 – ha paura di attraversare la strada perché ha la pelle scura. Perché davanti alla sede di CasaPound non c’è la minima presenza delle forze dell’ordine, che invece hanno presidiato massicciamente il corteo antifascista. Perché il clima di odio creato dalla retorica dell’invasione, la xenofobia e il razzismo propalato dalle azioni del governo, sono un implicito lasciapassare per i nuovi fascisti.

Ed infatti accade quanto era prevedibile e prevenibile. Accade che chi si sente legittimato ad aggredire, aggredisca. Accade che i fascisti di CasaPound lasciati liberi di agire agiscano. Che inizino a marciare verso di noi in cordone; che ci inseguano quando già avevamo ripreso il cammino lungo via Crisanzio per evitare ogni incidente (anche considerata la presenza delle bambine); che ci minaccino con mazze, tirapugni, catene intimandoci di andarcene, che ci spintonino urlando che quello è il loro territorio e lì comandano loro. Che picchino alla rinfusa, spacchino le teste di due compagni.

Continuiamo a chiedere con determinazione la chiusura immediata delle sedi di CasaPound e di tutti i covi fascisti. Ma sappiamo che non sarà il ministro dell’Interno a rispondere a questa (vera) “emergenza sicurezza”. Perché Matteo Salvini, invece, si fa fotografare a cena con Gianluca Iannone e  Simone Di Stefano, rispettivamente fondatore e segretario di CasaPound. Tocca allora a noi contrastare non solo il neofascismo, ma anche il razzismo che si spaccia per “buon senso” e diventa senso comune diffuso. Come provvedimento di buon senso è stato spacciato anche, da ultimo, il Decreto immigrazione, che cancella il permesso di soggiorno per  protezione umanitaria, distrugge il sistema Sprar di accoglienza secondaria, rende una variabile dipendente il diritto di asilo, garantito dalla Costituzione.

Tocca a noi continuare a ricordare che l’antifascismo non è un ferro vecchio del passato, ma una pratica politica militante sempre più necessaria per attuare la Costituzione in questo presente  ogni giorno più nero. Tocca a noi essere partigiane e partigiani sempre, contro l’indifferenza e la passività diffusa. Contro chi pretende di fare informazione mettendo sullo stesso piano fascismo e antifascismo, aggressori e aggrediti, riproponendo lo schema falsificante dello scontro tra estremismi. La risposta della Bari antifascista non si è fatta attendere, a partire dalla conferenza stampa in piazza la mattina successiva all’aggressione, dalla assemblea cittadina convocata il 25 settembre nella piazza dove fu ucciso da una squadraccia missina il giovane comunista Benedetto Petrone, al corteo convocato per il 29 settembre.

Ma occorre costruire una risposta forte in Italia e in Europa. Una risposta che metta in luce la connessione profondissima fra le politiche neoliberiste degli eurocrati e la crescita delle forze nazionaliste e dei populismi di destra. Una risposta che costruisca una alternativa per i popoli europei. Proprio di questo abbiamo discusso a Napoli negli Study days della Gue/Ngl. Ma la costruzione di questa alternativa è la responsabilità storica che ogni antifascista deve sentire su di sé, e che ci porta a sentirci partigiane sempre.

La testimonianza di Eleonora Forenza è tratta da Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Essere ateo, perché non è una questione di fede

L’editore Nessun Dogma ha pubblicato “Come se Dio fosse antani. Ateismo e filosofia senza supercazzole” di Giovanni Gaetani. Un libro che affronta con un linguaggio chiaro e veloce i temi cari alla filosofia dell’ateismo, dall’inesistenza di Dio all’etica umanista. Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda, anche in vista delle presentazioni che lo vedranno impegnato in Liguria il 28 e 29 settembre, al Book Pride di Genova, a Savona e a Sarzana.

“Come se Dio fosse antani” è un libro che, come da sottotitolo, parla di “ateismo e filosofia senza supercazzole”. Una scelta doppiamente controcorrente per un Paese che si sta riscoprendo sempre più tradizionalista, populista e “anti-filosofico”, per così dire. Perché questa scelta? Quanto di politico e quanto di personale c’è in essa?

Uno degli slogan del femminismo di seconda ondata era: “Il personale è politico”. Confesso dunque senza timore che le motivazioni nascoste dietro questo libro sono prima di tutto personali. Ho studiato filosofia per nove anni a Roma, in un’università alquanto cattolica. Salvo rare eccezioni, l’ateismo veniva considerato da professori e studenti una sorta di “errore del pensiero”. Come se, appunto, la “vera filosofia” – infarcita di misticismo e oscurità – conducesse sempre a Dio in un modo o nell’altro. Nel tempo io invece mi sono convinto del contrario: più ci sforziamo di parlare chiaramente, più l’idea di Dio è destinata a scomparire. È stato un percorso faticoso e solitario, senza guide né appoggi esterni – l’Uaar stessa l’ho conosciuta molto tardi, soltanto nel 2013. Ma è proprio qui che il personale si unisce al politico.

Ho scritto questo libro proprio per “far apparire normale” e “legittimare” l’ateismo agli occhi di un ragazzo o di una ragazza di quindici anni, come nessuno ha fatto all’inizio della mia deconversione. Perché, quando a quell’età si cominciano ad avere i primi dubbi su Dio e la religione, ci si ritrova da soli e senza guide, e l’ateismo è un’opzione che mette un certo timore. Ecco, l’obiettivo era far capire ad un adolescente che non credere in Dio può essere una scelta filosoficamente coerente, ragionata, positiva – “normale” appunto, con buona pace di quanto possano pensare i loro genitori, professori, parenti e la società tutta.

Ricordo infatti che, durante la presentazione di Bologna, il commento di un lettore fu proprio questo: “Se avessi letto il tuo libro a quindici anni, forse avrei apprezzato di più la filosofia durante il liceo…”

Sì, questa frase me l’ha detta più di una persona e non può che farmi piacere. L’obiettivo principale era proprio questo: riuscire a parlare di una cosa seria e complicata come la filosofia, ma con un linguaggio chiaro e ironico, accessibile anche ai cosiddetti “non addetti ai lavori” – o, più in generale, a chiunque guardi con sospetto ai tecnicismi della filosofia accademica.

Questo doppio registro comunicativo, serio e ironico al tempo stesso, traspare già dal titolo. “Come se Dio fosse antani” nasce infatti dall’unione di due citazioni, giusto?

Esatto. La scelta di questo titolo è a modo suo un azzardo, ne abbiamo discusso a lungo con l’editore. Il problema è infatti che, se non si coglie almeno una delle due citazioni, il lettore rischia di non capirci nulla e di passare oltre…

Da una parte, la citazione più pop ed evidente è il “come se fosse antani”, supercazzola per eccellenza tratta dal film Amici miei di Mario Monicelli. L’altra citazione è invece molto più nascosta ed erudita. Si tratta dell’etsi Deus non daretur (“come se Dio non fosse”) di Ugo Grozio, filosofo e teologo olandese del diciassettesimo secolo. Sin dal titolo ho voluto mettere insieme questi due registri linguistici così diversi fra loro, proprio per far capire al lettore che si tratta di un libro serio e ironico al tempo stesso.

Il libro è pubblicato dall’editore Nessun Dogma, il progetto editoriale dell’Uaar, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Facendo entrambi parte di questa organizzazione, dobbiamo spesso confrontarci con lo scetticismo di chi pensa che non abbia senso battersi per la laicità e i diritti dei non-credenti in Italia. Come rispondi a questa critica?

L’egemonia culturale e politica del Cattolicesimo è profondamente radicata nella nostra mentalità, cosa che porta ogni italiano a considerare normali istituzioni e abitudini altrimenti inammissibili – pensa soltanto ai 6 miliardi pagati ogni anno dallo Stato alla Chiesa, senza che questo desti più di tanto clamore in un paese così attento alla spesa pubblica su altri fronti.

Il nostro attivismo è quindi doppiamente difficile. Perché non basta soltanto combattere contro quelle istituzioni e abitudini. No, bisogna prima di tutto sforzarsi di decostruire la mentalità che le legittima. Si tratta di smantellare quella narrazione (silenziosa ma onnipervasiva) che ogni italiano porta con sé sin dai tempi dell’infanzia e del catechismo. Ma per far ciò bisogna cambiar metodo. Non basta ripetere a spada tratta le ormai consolidate critiche alla religione. Bisogna piuttosto emanciparsi dalla religione stessa e costruire un’alternativa indipendente. Questa alternativa per me si chiama umanismo, ma in Italia purtroppo questa filosofia fatica a farsi conoscere.

Nel tuo libro parli anche di questo, precisamente nella postfazione, la Lettera a un’aspirante filosofa. Come spiegheresti in breve l’umanismo a chi non ne ha mai sentito parlare? E perché lo reputi così importante?

Riassumendo all’estremo, si tratta di una visione del mondo senza Dio che mette al centro del proprio universo gli esseri umani con le loro capacità empatiche e razionali. Tra i valori umanisti troviamo l’autonomia individuale, l’universalità dei diritti umani, la difesa della democrazia, la promozione del metodo scientifico, e molto altro ancora. Si tratta dunque di una posizione di vita indipendente e positiva che, a mio modo di vedere le cose, è la migliore evoluzione dell’ateismo. Mettiamola così: se l’ateismo costituisce l’universo di ciò in cui non credo, la pars destruens insomma, l’umanismo rappresenta tutto ciò in cui invece credo.

Ma c’è di più. Per me l’umanismo è così importante perché, a livello politico, ha una visione “intersezionale” – termine preso in prestito dal movimento femminista contemporaneo. Le associazioni umaniste, specialmente in Nord Europa, hanno compreso la necessità di un’azione politica a 360 gradi, che affianchi alle battaglie classiche del movimento ateo – laicità, ragione, libertà di pensiero, etc. – le rivendicazioni degli altri movimenti – quello Lgbt+, il femminismo, il fronte anti-razzista, etc. Per questo spero che anche in Italia l’umanismo prenda piede. Perché, se è vero che le oppressioni sono tutte interconnesse, di conseguenza devono esserlo anche le lotte.

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Andrea Ruggeri è coordinatore del circolo UAAR di Bologna

Processo Cucchi: «Era evidente che lo avessero pestato»

Un momento del sit in organizzato all'esterno del tribunale di piazzale Clodio in occasione del processo Cucchi bis, Roma, 27 settembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Stefano Cucchi, quella mattina a piazzale Clodio, diceva di avere dolori in fondo alla schiena e alle gambe. Camminava curvo, anzi storto, appoggiandosi al muro per scaricate parte del peso sul muro, non reggeva il passo degli altri, chiese un farmaco che prendeva abitualmente, per andare in carcere nemmeno lo ammanettarono, così stabilì il caposcorta, perché non si sarebbe potuto tenere al sedile del pullman, arrivato a Regina Coeli non ce la faceva a salire le scale. Aveva gli occhi gonfi, quello di destra più marcatamente e anche la mandibola dalla stessa parte. Nemmeno che la fece a spogliarsi per la perquisizione di rito, né a chinarsi, eppure ci provava. Tutti gli chiesero cosa gli fosse successo, meno la giudice che lo spedì in galera anche con le carte sbagliate (risultava essere un albanese di sei anni più grande e senza fissa dimora), meno l’avvocato d’ufficio ché i carabinieri non vollero avvisare quello che aveva indicato lui. Scivolato dalle scale, la risposta secca. «Che scale strane», gli rispose Giovanni Battista Ferri, responsabile dell’ambulatorio medico della Città giudiziaria di Roma, sentito oggi nel processo per la morte di Cucchi lo visitò intorno alle 14 del 16 ottobre 2009 (il giorno dopo l’arresto per droga). «Andai nelle celle, mi presentai e gli chiesi cosa potevo fare per lui; la risposta fu che non aveva bisogno di nulla. Lo vidi solo in viso. Nel referto scrissi che aveva lesioni ecchimotiche su entrambi gli occhi e che aveva riferito dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori. Secondo me erano lesioni da evento traumatico, e dal dolore sembravano lesioni recenti, ma lui rifiutò di farsi visitare». E alla richiesta sul come si fosse procurato quel dolore, la risposta fu «che era caduto dalle scale il giorno precedente, anche se quella risposta non mi convinse. Comunque, le sue condizioni di salute consentivano di andare in carcere; era idoneo per il carcere».

«Ha parlato con l’espressione in volto apparentemente priva di qualsiasi emozione – scriverà dopo l’udienza Ilaria Cucchi – quasi con un mezzo sorriso, non di compiacimento per il dolore di mio fratello ma per il proprio ruolo. Quando però il mio avvocato (Fabio Anselmo, ndr) gli ha chiesto cosa avrebbe fatto se si fosse trattato di un suo paziente del suo ambulatorio privato lui ha risposto che “tra gli altri avrebbe ordinato accertamenti radiologici”. Ma Stefano Cucchi evidentemente non era un suo paziente perché lo ha mandato in carcere. Allora mi chiedo: ma cos’era per lui?».

Strane scale e strana storia quella di Stefano Cucchi che morirà sei giorni dopo lontano dagli occhi di tutti eccetto quelli dei sanitari del Pertini, repartino penintenziario. Per quei medici è in corso il terzo processo d’appello. L’udienza di oggi, la prima dopo la ripresa estiva, conferma quanto fosse malconcio dopo poche ore in balìa di alcuni carabinieri i cui difensori sembrano puntare tutto sulla magrezza dell’arrestato che, invece, anche quella sera era stato ad allenarsi, era un pugile, come rivela la strisciata della carta magnetica della palestra. Tutti i testimoni, anche se qualcuno ha una memoria più reticente di altri, confermano la gravità delle sue condizioni smentendo i periti del primo processo, quello che provò a incastrare alcune guardie penitenziarie, quello che aveva avvolto i carabinieri in un cono d’ombra che a molti sembrò essere stato disposto dall’allora ministro della difesa del governo Berlusconi: Ignazio La Russa. Proclamò che l’Arma era estranea ai fatti e ci sarebbero voluti altri nove anni per un Cucchi bis contro cinque carabinieri, tre imputati per omicidio preterintenzionale.

Prima del dottor Ferri è stato sentito anche un ex detenuto, portato nelle celle di piazzale Clodio lo stesso giorno di Cucchi dopo un arresto per spaccio: ha sentito Cucchi bussare alla porta della cella. «Chiedeva la terapia e il metadone, chiamava le guardie, ma non venivano. E allora qualcuno dalle celle disse di non chiamarle “guardie”, ma “agenti”. E quando comunicò a chiamarli così, loro arrivarono».

E, chissà perché in caserma rifiutò «di andare in ospedale dicendo di non aver bisogno di nulla»; in tribunale non «si reggeva in piedi e camminava male. Era evidente che era stato pestato», hanno ripetuto, dal banco dei testimoni, nove persone, tutte già sentite nel precedente processo. In aula si è partiti dalla presenza di Cucchi nella caserma dei carabinieri di Tor Sapienza dopo l’arresto, quando le sue condizioni di salute consigliarono l’intervento di un’ambulanza. «Trovai Cucchi dentro una cella poco illuminata. Era disteso sul letto, rivolto verso il muro e coperto fino alla testa. Lo salutai, e mi rispose “Non ho bisogno di niente”», ha detto in aula l’infermiere Francesco Ponzo. «Lo vidi in viso per pochi secondi, aveva pupille normali e una ecchimosi nella zona zigomale destra. Gli dissi “Vieni con me, andiamo in ospedale. Se hai qualche tipo di problema, poi magari ne parliamo in separata sede”. Per la mia insistenza, lui si irritò. Alla fine risalimmo, prendemmo i dati e andammo via». Ma per l’equipaggio del 118 sembra che quella notte fosse una notte come tante altre, risaliti in ambulanza, non avrebbero fatto alcun commento.

La parte finale dell’udienza è stata dedicata all’esame degli agenti della Penitenziaria incaricati di portare i detenuti dal tribunale in carcere. «Vidi per la prima volta Cucchi alle celle d’uscita. Non si reggeva in piedi, camminava male, in viso era parecchio rosso, aveva segni evidenti di occhiaie profonde – ha detto l’ispettore superiore Antonio La Rosa – secondo me quel ragazzo aveva avuto qualche problema, secondo la mia esperienza aveva preso qualche schiaffo, qualche pugno. Era evidente che era stato pestato». «Ma quale caduta dalle scale, lui ha avuto un incontro di boxe, solo che lui era il sacco», avrebbero scherzato quelli che tornavano con lui verso Regina Coeli.

Fuori dalla Città giudiziaria, trecento persone, tutte giovanissime, per un sit-in scaturito dopo il successo della proiezione del film “Sulla mia pelle” all’università, promossa da Sapienza clandestina con l’adesione di Alterego Fabbrica dei diritti e Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa. Riccardo Bucci, per conto di entrambe le associazioni, sta curando “Vlad”, il vademecum per intervenire tempestivamente in caso di abusi. È stato lui, intervenendo al sit-in, a spiegare come si sta mettendo il processo che riprenderà il prossimo 11 ottobre.

No, non sei il proprietario di tua moglie

“Qualunque disposizione che considera la donna in un livello di diseguaglianza non è costituzionale”.

E poi.

“È arrivato il momento di dire che il marito non è il proprietario della sua sposa. La superiorità legale di un sesso su un altro è sbagliata”.

Sono le parole con cui la Corte Suprema in India ha deciso di depenalizzare la legge per cui un uomo poteva andare a letto con una donna sposata solo chiedendo il permesso al marito. Una legge vecchia di 160 anni che sanciva come l’atto sessuale fosse un affare tra soli uomini: erano gli uomini a dover trovare l’accordo e solo gli uomini potevano eventualmente presentare denuncia.

È una di quelle notizie che compare nei media tra le novità esotiche e di folklore, quelle che quando le leggi pensi come sono retrogradi laggiù e che vengono confezionate con una certo senso di superiorità tipico del mondo occidentale.

A pochi centimetri c’è la notizia che arriva da Merano, dove Johannes Beutel ha deciso di accoltellare la moglie colpevole di volerlo lasciare. Uccidendola come accade tre volte su quattro, dicono le statistiche, quando il delitto avviene in famiglia.

E ho pensato che forse bisognerebbe ripeterlo anche qui da noi, scriverlo un po’ dappertutto, che il marito no, non è proprietario di sua moglie. Servirebbe una grande opera di alfabetizzazione sentimentale partendo dalle basi: insegnare che volere bene a qualcuno significa volere il suo bene e non c’entra nulla con il possederlo. E dire a tutti quelli che ciondolano facendo sì sì con la testa, che sono concetti ovvi e banali, che il rispetto è una di quelle pratiche che non vale nulla conoscere, va solo praticato.

E chissà, mi chiedevo, se qualcuno stamattina in India leggendo le inquietanti statistiche italiane non pensi come siamo retrogradi noi che le leggi barbare le abbiamo cancellate da un pezzo (anche se qualcuno ultimamente le ripropone) eppure non siamo riusciti ad arginare i barbari, oltre alle leggi.

Poi mi è capitato l’articolo di Libero, di ieri, in cui racconta della morte del famoso latin lover romagnolo. Titola Libero che «un infarto l’ha fregato mentre castigava una 23enne». E ho pensato ai barbari. Appunto.

Buon venerdì.

Politici che odiano le donne, i bambini e i migranti

Deputy Prime Minister Matteo Salvini (R) and Italys Minister of Family and Disability, Lorenzo Fontana are seen at the Lower House, ahead of a confidence vote on the government program, in Rome on June 6, 2018. - Conte is set to address the Lower House for a confidence vote on his government programme later today, after winning the confidence vote at the Senate yesterday. (Photo by FILIPPO MONTEFORTE / AFP) (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Fa carta straccia del permesso di soggiorno per la protezione umanitaria, nega il diritto d’asilo (previsto dalla Costituzione), raddoppia da tre a sei mesi la permanenza (una vera e propria reclusione) nei centri per il rimpatrio. Scendendo più in dettaglio: cancella il diritto al pubblico patrocinio per i richiedenti asilo, impone più daspo urbano e restrizioni della libertà in base a soli sospetti, revoca lo status di rifugiato ai profughi condannati in primo grado. Il decreto sicurezza-migranti che ha passato il vaglio del Consiglio dei ministri è lesivo dei trattati internazionali, incostituzionale (l’ordinamento prevede la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio), disumano. Ancora una volta Salvini alza il tiro nella lotta contro i migranti sebbene l’immigrazione sia ai minimi storici degli ultimi anni.

Fin dal titolo il decreto Salvini criminalizza l’immigrazione annunciandone una gestione securitaria. è un provvedimento manifesto, crudele e vigliacco nel prendersela con i più vulnerabili. Tanto feroce quanto avulso dalla realtà, dai problemi dell’Italia, dove l’emergenza riguarda la sicurezza delle infrastrutture e del territorio, dove l’emergenza è la disoccupazione, la dispersione scolastica, la sanità depotenziata e privatizzata… Invece di affrontare tutto questo, il Def annuncia nuovo indebitamento: sulle spalle degli italiani 120 miliardi di deficit, senza un piano per gli investimenti  e per il lavoro, annunciando solo prebende e condoni.

Si rischia di rimanere increduli e imbambolati di fronte a misure come questo decreto sicurezza dettato da pensieri deliranti, fantasticherie di complotti per la sostituzione etnica degli italiani. Ma la paranoia che alimenta politiche di chiusura dei porti (chiusi alle persone migranti non alle merci) produce ricadute molto concrete, pesantissime, su chi scappa dalla guerra, dalla tortura, dalla miseria, dalla mancanza di futuro. “Forte con i deboli” avevamo scritto in copertina del numero di Left in cui abbiamo anticipato i contenuti di fondo del decreto Salvini, lanciando l’allarme. Gli annunci choc di provvedimenti così agghiaccianti da superare ogni realtà producono l’effetto di tramortire l’opinione pubblica, che, irretita, rimane inerte, incapace di reagire e di proferire parola mentre il ministro dell’Interno minaccia di procedere con le ruspe contro i Rom. Come l’inaccettabile stretta sulla protezione umanitaria che ricaccia i profughi in una situazione di irregolarità, senza tutele, senza garanzie, anche le annunciate misure contro la minoranza rom è indotta dal pensiero delirante e violentissimo che chi ha un colore diverso di pelle o esprime un’altra cultura o stile di vita non abbia la stessa umanità e diritti.

La paura dell’altro, del diverso da sé ossessiona il governo giallonero che fa di tutto per restaurare un ordine patriarcale, da Stato teocratico e suprematista. Folgorato sulla via di Damasco da Steve Bannon, Salvini con Fontana e Pillon vuole cancellare i diritti conquistati dalle donne, rimandandole dietro i fornelli, a casa a fare figli per la patria. Sotto attacco sono la 194, le unioni civili, la legge sui consultori, ma anche la pur moderata legge sul fine vita, come raccontiamo in questa storia di copertina in cui a parlare sono sociologi come Chiara Saraceno giuristi, psicoterapeuti, ginecologi di chiara fama come Carlo Flamigni, attivisti, ma soprattutto sono le donne a prendere la parola in prima persona. Conte bacia i santini di padre Pio, Di Maio l’ampolla di San Gennaro e non è solo folclore, perché si traduce in disegni di legge, concepiti su dogmi, come l’idea scientificamente falsa che la vita umana cominci al concepimento. In nome della fede, i cattolici sono sordi anche alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo che ha condannato la Legge 40 perché confonde feto e bambino e fanno orecchie da mercante quando, come è avvenuto la settimana scorsa, la Corte di Strasburgo afferma che è giusto censurare chi dice che l’aborto è un omicidio. (Come sostiene papa Francesco).

In Parlamento, un intergruppo di crociati – che va dalla sempiterna Binetti, numeraria dell’Opus dei ed ex senatrice Pd, a Gasparri a Quagliarello – è pronto ad alzare gli scudi per imporre a tutti valori non negoziabili, per ridurre le donne al silenzio come voleva Paolo di Tarso, per riportare indietro le lancette della storia a quando i bambini erano considerati una mera tavoletta di cera. Questo è il pensiero agghiacciante che traspare dietro il ddl Pillon, che opera una controriforma degli affidi, negando ai bambini il diritto di rifiutare il genitore maltrattante (anche durante un eventuale processo) e rende alle donne più difficile denunciare. Lasciandovi all’approfondimento che offrono gli articoli di questa storia di copertina, vorrei concludere ricordando al collega Damilano, a Genna e ai colleghi dell’Espresso che i Pillon o i Fontana non sono espressione di una Chiesa “cattiva” che combatterebbe la Chiesa “buona” di Bergoglio. Non c’è una Chiesa cattiva e una buona. Il pensiero di negazione e di annullamento dell’identità delle donne è il medesimo. Medesima è la scandalosa copertura dei preti pedofili che violentano i bambini. Medesima è la dottrina spacciata per antropologia.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Nel nome del padre

AVV SIMONE PILLON

La co-genitorialità è un processo complesso, che inizia nelle aspettative dei genitori prima ancora che la figlia o il figlio nasca, e poi si forma, consolida, cambia nelle negoziazioni quotidiane tra genitori e tra genitori e figli, man mano che questi crescono. Gli equilibri che si raggiungono tra genitori sono spesso asimmetrici, come documentano anche ricerche recenti sulla transizione alla genitorialità, che mostrano come aspettative e intenzioni egualitarie poi si ridefiniscano spesso lungo linee tradizionali dopo la nascita di un figlio, seguendo copioni di genere più o meno modernizzati. Ma anche là dove c’è maggiore uguaglianza e i ruoli genitoriali sono più interscambiabili, non tutto è diviso esattamente a metà, ma si cerca un equilibrio tra le esigenze, capacità, disponibilità dell’uno e dell’altra rispetto ai bisogni – mutevoli – dei figli. Quando i genitori si separano questi equilibri per forza si rompono e occorre trovarne di nuovi, e prima ancora sviluppare nuovi modi, nuove disponibilità, per negoziarli.

Di fronte a questa complessità, il disegno di  legge “in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, che vede primo firmatario il senatore leghista Pillon, propone una ricetta basata su un’idea di parità insieme perfetta e semplificata delle responsabilità genitoriali, con la divisione esattamente a metà di tutto: tempo, spese, attività. 

Come se fare il genitore potesse essere disarticolato in una serie di mansioni precise, non ci fossero imprevisti, ma nemmeno spazio per l’immaginazione, per cogliere le opportunità e tenere conto dei cambiamenti. Il tutto a prescindere non solo dall’età dei figli, dai loro ritmi ed esigenze specificamente individuali, ma anche dalla storia pregressa di quella famiglia, dai rapporti tra genitori e figli, dalla divisione delle responsabilità consolidata nel tempo e così via. Così, l’opportunità, tutta da incoraggiare, che i figli abbiano uno spazio – fisico e relazionale – di quotidianità sia presso la madre sia presso il padre diventa un obbligo, per i figli, a dividersi “paritariamente” tra due case.

Senza considerare cosa ciò comporti per… 

L’articolo di Chiara Saraceno prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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