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Con il modello Riace nel mirino

Forse si può discutere il fiuto per i delinquenti ma non certo l’ironia da vendere di chi ha imbastito, chiamandola Xenia, l’inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari Mimmo Lucano, sindaco di Riace, con la surreale accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina: avrebbe organizzato un “matrimonio di comodo” tra una migrante e un calabrese per consentire alla donna di restare in Italia. L’assaggio di intercettazioni regalato dalla procura di Locri ai giornali non sembra schiacciare Lucano e, a meno che non ci sia una regìa a centellinare nuove rivelazioni, l’impresa ha tutta l’aria di un processo politico a un modello virtuoso di accoglienza e integrazione. Così l’hanno chiamata operazione Xenia come il concetto dell’ospitalità nel mondo greco antico. Era un dovere a quel tempo accogliere coloro che chiedevano ospitalità. L’Italia di Minniti, prima, e di Salvini, poi, sequestra le navi alle Ong, sgombera con violenza la povera gente dagli alloggi di fortuna e da stabili occupati, perseguita chi sperimenta accoglienza con un modello che viene studiato in mezzo mondo.

Succede nella Locride, terra di ‘ndrangheta, traffici d’armi, droga, rifiuti, rapimenti ed estorsioni, che alle ultime elezioni ha incoronato Salvini. Nessuno come i giudici pare sensibile allo Zeitgeist, allo spirito del tempo, all’aria che tira. Così spiega un penalista, Francesco Romeo, in un articolo che uscirà venerdì prossimo sul nostro settimanale a proposito dei bersagli del dl sicurezza. E l’indipendenza della magistratura rischia di essere una chimera in un paese in cui si moltiplicano impunite le aggressioni razziste, le spedizioni squadristiche e un decreto sicurezza punta a mettere fuorilegge le pratiche sindacali e dei movimenti sociali che si battono per il diritto all’abitare, per la riappropriazione dei territori contro grandi opere inutili e dannose e per condizioni di vita dignitose.

L’arresto stamattina presto, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Locri su richiesta della Procura della Repubblica.

Dichiarazioni choc quelle di Carlo Sibilla, sottosegretario agli Interni per conto di M5S: «È finita l’era del business dell’immigrazione. Nessuno vuole scappare da un Paese in cui si trova bene. Bisogna fare di tutto per stringere accordi con i paesi di provenienza dei migranti e rendere le vite delle persone più sicure e degne di essere vissute». «Accidenti, chissà cosa diranno Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati! #Riace», twitta il ministro dell’Interno Matteo Salvini: già piovono comunicati di solidarietà da tutto l’arcipelago delle sinistre, dell’associazionismo, della società civile allergica al razzismo. «Riace era disabitata, oggi vive in un incontro di culture e persone di diversa provenienza. Riace ha dato uno schiaffo a chi ha dipinto il fenomeno migratorio come un problema, come una paura. Riace, nel suo piccolo borgo, ha dimostrato a tutt@ che la realtà è in mano nostra e che non c’è nulla di già scritto. L’accusa avanzata contro il sindaco è quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato legato alla condizione di esseri umani dichiarati fuori legge solo per la mancanza di un foglio, di un timbro. Lo stato, oggi, fa la guerra al sindaco di un piccolo paese calabro perché ha cercato di aiutare degli esseri umani, perché ha deciso di rimboccarsi le maniche e lavorare davvero per costruire un mondo diverso», scrive una rete di associazioni che dà appuntamento per il 2 ottobre alle 17.30 in piazza dell’Esquilino di Roma, e sabato Riace verrà pacificamente invasa per una prima manifestazione di solidarietà col sindaco.

Con l’ordinanza di custodia cautelare a Lucano viene disposto anche il divieto di dimora nei confronti della sua compagna, Tesfahun Lemlem, accusata degli stessi reati contestati al sindaco. La prefettura di Reggio Calabria, lo scorso anno, ha disposto un’ispezione nel Comune di Riace dalla quale a caccia di irregolarità nell’utilizzo dei finanziamenti governativi per la gestione dei migranti. Sul punto, tuttavia, il gip, nella sua ordinanza, ha affermato che «ferme restando le valutazioni già espresse in ordine alla tutt’altro che trasparente gestione, da parte del Comune di Riace e dei vari enti attuatori, delle risorse erogate per l’esecuzione dei progetti Sprar e Cas, ed acclarato quindi che tutti i protagonisti dell’attività investigativa conformavano i propri comportamenti ad estrema superficialità, il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose ipotizzate».

Spiega il procuratore di Locri Luigi D’Alessio che «gli elementi di prova raccolti hanno permesso di dimostrare infatti come il sindaco Lucano, unitamente alla sua compagna Tesfahun Lemlem, avessero architettato degli espedienti criminosi, tanto semplici quanto efficaci, volti ad aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso in Italia». Lucano, in buona sostanza, avrebbe dimostrato una «spigliatezza disarmante, nonostante il ruolo istituzionale rivestito», nell’ammettere «pacificamente più volte, ed in termini che non potevano in alcun modo essere equivocati, di essersi reso materialmente protagonista ed in prima persona adoperato, ai fini dell’organizzazione di matrimoni di comodo», scrive ancora D’Alessio, in una nota. Al riguardo viene riportato un dialogo intercettato dalla Guardia di finanza sul matrimonio di una cittadina straniera cui era già stato negato per tre volte il permesso di soggiorno. «Lei – dice Lucano – ha solo la possibilità di tornare in Nigeria. Secondo me l’unica strada percorribile, che lei si sposa! Io sono responsabile dell’ufficio anagrafe, il matrimonio te lo faccio immediatamente con un italiano. Mi fa un atto notorio dove dice che è libera e siccome è richiedente asilo non vado ad esaminare i suoi documenti perché uno che è in fuga dalle guerre non ha documenti. Se succede questo in un giorno li sposiamo». «Poi – prosegue Lucano – dopo mi chiede al comune il certificato di matrimonio, va alla questura di Siderno e chiede un permesso di soggiorno per motivi familiari perché si è sposata in Italia con cittadino italiano e non gli deve portare niente, solo il certificato di matrimonio. In quel modo, dopo che lei ha il permesso di soggiorno per motivi familiari, i tre dinieghi non hanno nessun valore è subentrata un’altra situazione civile. Non solo, dopo un po’ di tempo prende anche la cittadinanza italiana». Tutto qui?

Lucano è anche accusato di avere fraudolentemente affidato in forma diretta il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti a due cooperative sociali, la Ecoriace e L’Aquilone che dà lavoro anche a migranti – impedendo così, secondo l’accusa, l’effettuazione delle necessarie procedure di gara previste dal Codice dei contratti pubblici. Le due coop, secondo l’accusa, non possedevano i requisiti di legge richiesti per l’ottenimento del servizio pubblico, perché non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Dalle indagini, secondo l’accusa, sarebbe emerso che Lucano, dopo vani e diretti tentativi di far ottenere l’iscrizione, avrebbe deciso di istituire un albo comunale delle cooperative sociali cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici. Perché le due coop furono escluse dall’albo regionale? Il servizio è stato svolto dall’ottobre 2012 fino all’aprile 2016. In tal modo, secondo la Procura di Locri, sono stati artificiosamente riconosciuti alle due coop i presupposti necessari. In particolare, secondo l’accusa, Lucano avrebbe fatto approvare alla Giunta comunale da lui presieduta un albo comunale simile a quello previsto dalle norme; poi avrebbe suggerito con successo al Consiglio comunale di procedere all’assegnazione diretta; infine avrebbe proposto più volte, alla Giunta comunale, la proroga dell’affidamento. In tal modo alle due cooperative sarebbe stato procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale, quantificato in circa un milione di euro.

Un Paese che non produce cultura è un Paese morto, per questo il 6 ottobre scendo in piazza

Girotondo dei 'lavoratori fantasma' di fronte a Palazzo Vecchio a Firenze, in occasione della partecipazione del ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a un convegno sulle normative Art Bonus nel palazzo comunale, 6 marzo 2015. Al presidio di protesta partecipano alcune decine di dipendenti dei musei statali fiorentini, con indosso costumi e maschere bianche. Sugli abiti è scritto 'lavoratori fantasma' e in tanti espongono cartelli con indicato il museo per cui lavorano. ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI

Mi chiamo Barbara e faccio l’attrice. Faccio l’attrice, non lo sono. Certo ci sono delle predisposizioni, delle passioni, un talento ma non si nasce già dottori così come non si nasce già attori. Ecco questo è il punto; noi attori per diventare tali, abbiamo fatto una lunga formazione e come per tutte le professioni sviluppiamo le nostre abilità e ci aggiorniamo continuamente. Alla formazione accademica abbiamo affiancato la gavetta. E quanta gavetta! Io la prima esperienza l’ho vissuta sul set; avevo 19 anni e condividevo pausa e cestino (il pasto per troupe e attori, ndr) con Vittorio Gassman. Accanto a quel mostro che pochi giorni prima avevo visto in teatro con la faccia tutta nera mentre interpretava Otello, mi sentivo minuscola.

Credo che fu quello il giorno in cui pensai che questo lavoro non si poteva fare senza una vera e propria preparazione. Quindi finii l’università e me ne partii alla volta di Londra per andare a studiare teatro, quello di Shakespeare. Gli anni sono passati e le cose sono cambiate ma in peggio. Cosa che Vittorio Gassman si rivolterebbe nella tomba se sapesse che ora i suoi colleghi vengono trattati letteralmente come carne da macello. Il nostro non è più considerato un lavoro ma un hobby e quindi non meritiamo né diritti né welfare. La nostra vita professionale è totalmente precaria e subiamo conseguenze di una crisi culturale senza precedenti nel totale disinteresse delle istituzioni e dei soggetti politici.

Il discorso infatti è tutto culturale. L’intento è proprio quello di dare un segnale che tutto il comparto, dallo spettacolo alla lirica, ai beni culturali (non a caso cito questi per primi, perché sono i promotori della Manifestazione del 6 ottobre) torni a poter offrire una visione culturale, che dia speranza, che racconti di possibilità, di talenti che diventano opere riconosciute in tutto il mondo, che stimoli gli ingegni e che renda fieri essere dei professionisti nel proprio campo. È un sogno? No, affatto. È ciò che accade in molti Paesi stranieri e che accadeva in Italia fino a 25 anni fa. E solo una visione culturale nuova o rinnovata è lo strumento che può portare a sentirsi finalmente fieri di essere cittadini di un Paese.

Noi attori siamo stremati, non riconosciuti, impoveriti ma soprattutto messi gli uni contro gli altri. Alla stragrande maggioranza degli attori è negato l’accesso al lavoro: infatti, per fare cassa, a causa dei tagli indiscriminati al Fus, le produzioni si affidano ai quei pochi nomi di richiamo che hanno garantiti lavoro e cifre fuori mercato escludendo tutti gli altri professionisti o riducendoli a paghe vergognose. Insieme poi si condividerà non solo lo stesso palcoscenico ma anche ahimé, la divisione della benzina per le trasferte in macchina. Alla pari. Si è perso il senso della comunità, del gruppo. Del rispetto di un tutto.

I produttori accettano o facilitano questo modus operandi, così invece di sostenere la professionalità e la qualità si risponde ad un mercato cieco che non fa differenza tra uno spettacolo un altro, basta ci sia “il nome”. È aberrante. No peggio, è triste. La ricerca Vita d’artisti, ha dimostrato che il numero medio annuo di giornate retribuite per quanto riguarda gli artisti impegnati nello spettacolo è 34. Poco più della metà dei lavoratori percepisce fino a 5 mila euro l’anno. In compenso ci sono barman e camerieri che recitano benissimo. Si deve pur campare.

Il 6 ottobre si scende in piazza. Tutti. Artisti, archeologi, musicisti, autori, lavoratori dei beni culturali e ambientali, della lirica, bibliotecari. Tutti. Stanchi ma non vinti. La cultura fa anche questo: ti brucia continuamente dentro, non ti lascia addormentare, ti rende incazzato o depresso magari ma poi si ricomincia. Il 6 si parte da Piramide in corteo, con striscioni, slogan e rivendicazioni e a piazza Mastai, punto di arrivo, saremo in tanti, per farci vedere, per far veder alla gente, che con la cultura non ci lavora ma ci convive, che non si può lasciar senza forze economiche un comparto così essenziale al bene del Paese, lasciarlo senza programmi lungimiranti. Lasciarlo languire, fino a morire.

Lo sa la gente che tutto il settore culturale nazionale produce il 17% del Pil? Non lo sa. E noi saremo lì per dirglielo, per dire che chiediamo lavoro con diritti equi e rispetto di una professionalità sudata. Che si accorga il Paese che ha bisogno di noi, perché un Paese che non produce cultura è un Paese morto.

Il buono, il brutto e il Casalino

Il portavoce del premier Giuseppe Conte, Rocco Casalino, entra a palazzo Chigi, Roma, 24 settembre 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Dunque la notizia del giorno è lo sfogo maleducato e incazzoso (oltre che inopportuno) di un portavoce del potente di turno nei confronti dei giornalisti. Chiaro: che Rocco Casalino sia l’ennesimo bullo che sfoggia un raro senso di impunità per la posizione che si ritrova ad occupare è al di fuori di qualsiasi possibile dubbio. Se ci pensate, in fondo, è una perfetta rappresentazione della casta: occupa un posto ottenuto per nomina (quando Casalino tentò di candidarsi per le elezioni regionali in Lombardia dovette ritirarsi per il malpancismo all’interno del Movimento 5 Stelle, il che è tutto dire), guadagna uno sproposito (meritato, dice lui, ma la meritocrazia certificata dal beneficiario fa ridere già solo a scriverla) e soprattutto gode di un’autorevolezza data dall’incarico, mica dalla propria storia. Casalino sarebbe il nemico giurato dei partiti di governo, se non ne facesse parte. E vabbè. Tra l’altro, se ci pensate, Casalino è costretto agli straordinari: fare il portavoce di un premier pressoché invisibile è qualcosa che ha a che fare con la creazione piuttosto che con il semplice lavoro da bottega.

Però, fatemelo scrivere, questa levata d’indignazione da parte di tutti ha anche qualche sfumatura patetica, da parte di certuni. Casalino non ha inventato un metodo: Casalino interpreta (maluccio) la parte che molti prima di lui hanno tenuto con la stessa arroganza, consapevoli che il giornalismo (certo giornalismo) ha ottimi rapporti con il potere solo se accetta di esserne il megafono e il cameriere. I portavoce dei potenti (mica solo in politica) conoscono molto bene le platee a cui si rivolgono e sanno perfettamente con chi osare e con chi no: sono molti i giornalisti che ritengono la propria mansueta vicinanza al potere una garanzia sul futuro. Non vuole essere una giustificazione ma credo che i bulli in fondo li abbiamo creati anche noi, elemosinando diritti come se fossero favori non solo nel campo del giornalismo ma in diversi settori. I Casalini (e i tanti bulli prima e intorno a lui) fioriscono concimati dalle teste chine, dalle schiene curve, dalla propensione alla gratificazione sottomessa.

Per questo al di là del (giusto) sdegno per gli audio in cui il portavoce del premier si lamenta del suo ferragosto rovinato dai morti seppelliti dal ponte mi piacerebbe sapere quanti articoli invece siano inquinati da indirizzamenti calati dall’alto eppure rivenduti come giornalismo. Mi piacerebbe sapere quanti retroscena non siano altro che bisbiglii riportati in pagine per fare contento qualcuno. Mi piacerebbe sapere se non fosse opportuno avere uno slancio per dirci, guardandoci negli occhi, che sarebbe il caso di liberarsi sì dei bulli ma anche dei loro camerieri.

Ma è il tempo in cui bisogna restare sempre in superficie e quindi tutti addosso a Casalino. Aspettando il prossimo. E illudendosi che l’opposizione stia nell’individuare un tipo che questa volta appartenga alla fazione avversa.

Buon martedì.

Il Garante dei detenuti: «Quei rimpatri violano i diritti dei migranti»

Continuano i rimpatri di migranti dall'aereoporto di Lampedusa (Agrigento) oggi 14 Aprile 2011. E' il primo volo previsto odierno con a bordo una trentina di tunisini rimpatriati nell'ambito dell'accordo tra Roma e Tunisi. Con la partenza di questa mattina sull'isola restano circa 160 migranti, di cui 36 minori, che saranno trasferiti sulla terraferma appena individuate le strutture di accoglienza. ANSA/ CARLO FERRARO

Un volo charter diretto a Lagos per rimpatriare forzatamente quarantasei cittadini nigeriani, espulsi dall’Italia. Il nostro Paese, in collaborazione con l’agenzia europea Frontex, ha organizzato l’operazione di allontanamento, avvenuta lo scorso 19 gennaio, trascurando l’applicazione di non poche misure a tutela dei diritti umani. Che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha messo in evidenza in un Rapporto di monitoraggio dell’operazione congiunta per il rimpatrio forzato di cittadini nigeriani organizzata dall’Italia e coordinata da Frontex – diffuso qualche giorno fa – e sulla cui violazione chiede risposte puntuali alle autorità competenti.

La prima, e più significativa, ha riguardato la mancanza di informazioni circa la destinazione del viaggio, contravvenendo, così, ai principi di correttezza e trasparenza, e calcando, piuttosto, quello di arbitrarietà di una misura restrittiva della libertà personale della cui applicazione non era stata data alcuna comunicazione preventiva, impedendo loro di organizzarsi per tempo, anche relativamente alla conoscenza delle posizioni giuridiche personali. E men che meno erano stati edotti di tutte le varie fasi del viaggio, inclusi orari e scali. Cosicché l’inaspettata comunicazione ha sorpreso alcuni di loro mentre dormivano ignari nei Cpr di Roma e Bari, generando preoccupazioni e paura che hanno sortito l’effetto di tacere sulla propria identità. Spesso soggetta a essere scambiata, per la presenza di un elenco dei rimpatriandi, in mano agli operatori, senza foto e con pochi dettagli. Nemmeno quelli relativi alle posizioni giuridiche dei richiedenti asilo da (non) rimpatriare: è il caso di M.P., per la quale il provvedimento di rigetto, da parte dell’autorità giudiziaria, della richiesta di asilo poteva ancora essere sospeso.

Già in via preliminare, dunque, le infrazioni hanno avuto il loro peso, gravato, poi, dalle modalità operative tenute a bordo dell’aeromobile sul quale, sebbene il personale impiegato indossasse un fratino riconoscibile, non aveva esposto alcun elemento identificativo, trasgredendo l’orientamento 18.4 delle Venti linee guida sul rimpatrio forzato, adottate, nel 2015, dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che prevede l’esposizione del nome dell’operatore.

Di più, nel corso dei voli, era del tutto assente la figura del mediatore culturale, in grado di interloquire in una lingua comprensibile che, non solo costituisce «il necessario presupposto dell’effettività di tutti i diritti di cui il cittadino straniero è titolare, ma è fondamentale per la messa in atto di tecniche verbali di descalation indispensabili per smorzare i momenti di tensione evitando l’uso della forza e dei mezzi di contenimento», scrive il Garante. Il quale ha potuto rilevare, anche, come un carente coordinamento fra gli attori coinvolti nelle diverse fasi del rimpatrio forzato ha avuto come conseguenza diretta la non somministrazione del pasto per più di quindici ore (tamponato, solo, dalla spontanea generosità di qualche operatore).

Carenti sono state, pure, le garanzie relative alla tutela degli effetti personali: imbustati in sacchi di plastica, deputati generalmente all’immondizia, sono stati etichettati con un foglietto scritto a mano, fermato con un nastro adesivo, e perciò senza la possibilità di rilascio di alcuna ricevuta di consegna. L’assenza di un riscontro documentato, all’arrivo in Nigeria – un Paese che, per inciso, non ha ancora adottato il reato di tortura – è stato motivo di particolare agitazione tra i rimpatriati, mossi dal timore della non restituzione dei propri beni, oltre che di vedersi violata la tutela del diritto alla proprietà privata. Uno di quei diritti fondamentali, sfregiati nel corso del rimpatrio, per i quali sarebbe possibile rivolgere reclamo – previsto dall’articolo 72 del Regolamento Ue 2016/1624 – a Frontex, ché in questa operazione (monitorata a campione) non ha predisposto le misure per l’accesso alle procedure e il materiale divulgativo da parte dell’agenzia. A lamentarlo, non i rimpatriati (a forza) ma i responsabili della scorta italiana.

Senza soccorsi nel Mediterraneo, a settembre il 19% dei migranti sono morti o dispersi

A settembre circa due persone su dieci (19%) che hanno tentato la traversata dalla Libia sono morte annegate o risultano disperse. È questo uno dei “risultati” delle politiche di deterrenza nei confronti del soccorso in mare attuate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, analizzate nel nuovo rapporto dell’Ispi-Istituto per gli studi di politica internazionale.

Da quando si è insediato, si legge nello studio, c’è stata una «riduzione relativamente modesta» degli sbarchi in Italia che è coincisa «con un forte aumento del numero di morti e dispersi». In questi quattro mesi, il tasso medio di mortalità è stato del 6,8%. Più che triplo rispetto al tasso di morte medio nel Mediterraneo centrale nel 2014-2017 (2,1%).

Il rapporto confronta tre periodi: 16 luglio 2016-15 luglio 2017; 16 luglio 2017- maggio 2018; giugno-settembre 2018. Nel primo periodo, quello dei 12 mesi precedenti al calo degli sbarchi (quando partivano 17mila persone al mese contro le attuali 3mila), si stima siano annegate poco meno di 12 persone al giorno. L’anno che coincide con le politiche Minniti è stato accompagnato da una netta diminuzione del numero dei morti, sceso a circa 3 persone al giorno. Ai quattro mesi di politiche Salvini corrisponde invece un nuovo aumento del numero di morti e dispersi (8 persone al giorno).

Sbarchi in Italia_ il costo delle politiche di deterrenza _ ISPI

Il bluff della democrazia diretta

Alla fine tutti i nodi vengono al pettine. Con l’organizzazione del “Global Forum on modern direct democracy 2018”, tenutosi a Roma la settimana scorsa (dal 26 al 29 Settembre), si può finalmente capire cosa il M5S intende per “democrazia diretta”. Questo incontro internazionale, infatti, è stato, allo stesso tempo, un’occasione mancata per approfondire realmente il tema e un grande spot elettorale per il partito di Grillo-Casaleggio.

Non si sono trattati temi centrali per la qualità della democrazia contemporanea, come le conseguenze su quanto consideriamo democratico dell’enorme diseguaglianza economica e della relativa concentrazione di potere nelle mani di pochi, neanche la dimensione globale e macroregionale della democrazia diretta, o la sua traduzione sul posto di lavoro. Neppure sono state prese in considerazione le richieste democratiche di diversi soggetti attivi (le Ong, i movimenti per la giustizia sociale o le associazioni per i diritti umani), né approfonditi alcuni casi decisivi per la democratizzazione dell’apparato statale in diverse parti del mondo (come la Svizzera o la città brasiliana di Porto Alegre).

D’altro canto, invece, è emerso come il partito di Grillo stia modificando la categoria politica di “democrazia diretta”, per rafforzare la retorica ideologica e conservare il potere ottenuto. Come già successo con altre parole d’ordine (distinzione destra/sinistra, reddito di cittadinanza, movimento vs partito, cittadinanza vs sistema corrotto), anche in questo caso siamo in presenza di una risignificazione puramente strumentale del termine, ampliato a dismisura per poterlo usare in qualsiasi circostanza per delegittimare l’avversario.
Il Forum, ormai alla sua settima edizione, è arrivato a Roma su proposta dei 5S, che ne fanno parte da qualche anno. Forse per ingenuità o superficialità, ma l’inconsistenza del Forum ha finito per essere un volano alla propaganda grillina, che si è scatenata all’inaugurazione e alla chiusura di una manifestazione che non ha visto la partecipazione dei cittadini romani.

I “big” grillini hanno preso la scena in queste occasioni, monopolizzando l’attenzione dei media, altrimenti poco interessati a questa sorta di Social Forum di nicchia (per composizione sociale e riferimenti culturali), nerd (per l’ossessione dell’uso del web) e quasi folklorico, perché pensato come una rapidissima kermesse di esperienze istituzionali, incontratesi per elaborare la “Magna Charta per la nuova era della democrazia”.

«Quanto ereditato con la rivoluzione illuminista del ‘700 è stato un passo in avanti per l’umanità, ma oggi tutto ciò ha bisogno di una revisione, dell’inserimento di sistemi di controllo dei rappresentanti da parte dei cittadini», ha dichiarato il ministro per la Democrazia diretta Fraccaro, mentre rivendicava di aver depositato in Parlamento la proposta di legge sul referendum propositivo senza quorum. Come se questa servisse per controllare qualcuno. Della sovrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa ha parlato anche Virginia Raggi, facendo riferimento al «dovere dei governanti di raccogliere la voce dei cittadini», e, in particolare, ai progetti municipali che il comune di Roma porta avanti. Peccato che questi siano simili, però, a forme di democrazia partecipata, e non diretta. Non a caso, anche il capo dei 5Stelle, Luigi Di Maio, ha fatto riferimento a un “Forum globale per la democrazia diretta e partecipata”, reinventandosi così il titolo dell’incontro.

«La prima grande forma di democrazia diretta è una forza politica e un governo che mantengono le promesse che hanno fatto durante la campagna elettorale», ha affermato, prima di rispondere a chi durante il Forum ha messo in dubbio la democraticità della piattaforma Rousseau, ammettendo inoltre che: «Sarà anche così, però è una forma con cui in questi anni non solo abbiamo votato il capo politico, ma abbiamo creato un programma elettorale, con un milione di click». Come se fosse una risposta valida.

A margine di un incontro, Giovanni Allegretti, tra i maggiori studiosi italiani della democrazia deliberativa, ci ha confessato: «Politicamente si può evitare di distinguere tra democrazia deliberativa, diretta o partecipata, ma sovrapporre queste esperienze è un approccio caotico…superficiale. La democrazia diretta, semmai, è un passaggio di un percorso più ampio di formazione delle idee e di qualità della deliberazione. Il ministro per la democrazia diretta potrebbe essere un buon investimento, perché c’è una richiesta di maggiore democrazia pubblica, ma non sa da dove cominciare».

La tianxia, l’agenda estera di Pechino e il sogno imperiale di Xi Jinping

epa07012215 Chinese President Xi Jinping attends a round table on inter-regional cooperation during their meeting at the Eastern Economic Forum in Vladivostok, Russia, 11 September 2018. Russian President Vladimir Putin and Chinese President Xi Jinping are taking part in the Eastern Economic Forum, which runs in Vladivostok from 11 to 13 September. EPA/SERGEI CHIRIKOV / POOL

«La Belt and Road è in linea con l’attenzione riposta dal popolo cinese nei confronti delle civiltà lontane e il concetto di tianxia, basato sull’armonia tra tutti i popoli». Sono parole cariche di suggestioni remote quelle con cui, alla fine di agosto, il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping ha celebrato il quinto anniversario del progetto Nuova via della seta (ufficialmente Belt and Road), la cintura economica tra Asia, Europa e Africa, mirata a restituire alla Cina l’antico protagonismo nella gestione dei flussi commerciali globali.

 Pensata principalmente per creare sinergie strategiche fra i tre continenti, portare sviluppo nelle regioni più occidentali del Paese e delocalizzare oltreconfine la sovracapacità che affligge l’industria cinese, all’estero la Belt and Road è stata presto tinteggiata di sfumature neocolonialiste. Colpa dell’esposizione debitoria accumulata dagli Stati coinvolti, a cui negli ultimi anni Pechino ha elargito finanziamenti agevolati per miliardi di dollari. Tanto che nel mese di luglio il segretario alla Difesa americano Jim Mattis ha parlato di una nuova minaccia per «l’ordine globale esistente». Il dito punta contro una “versione muscolare” del sistema tributario di epoca Ming (1368 – 1644) per mezzo del quale gli Stati periferici pagavano una sorta di omaggio formale di sottomissione al Celeste Impero con l’invio di doni e l’istituzione di un sistema commerciale regolato in cambio della pace e del riconoscimento della propria legittimità. Il paragone è particolarmente calzante se si considera che furono proprio i Ming ad avviare le prime spedizioni navali verso le coste africane, che oggi Pechino vuole rispolverare.

 Sebbene le insinuazioni statunitensi siano state bollate dalla stampa statale come “infantili” e “semplicistiche”, l’ingresso del termine “tianxia” in un discorso ufficiale conferma il tentativo teso ad accreditare l’agenda estera cinese tracciando un filo diretto con il passato. Al partito comunista non basta riannodare le proprie radici al glorioso interludio maoista. Vuole rievocare quel ritmo ciclico della storia che, di dinastia in dinastia, ha visto la Cina rimanere per secoli una delle civiltà più avanzate al mondo, salvo poi finire vittima dell’imperialismo occidentale nella seconda metà dell’800.

Innanzitutto, cosa si intende per “tianxia”? Letteralmente «tutto ciò che è sotto il Cielo», è il principio nebuloso per il quale un impero raggiunge portata potenzialmente universale grazie alla superiorità dei suoi valori culturali, estendibili oltre i confini fisici, linguistici, etnici e religiosi. Negli ultimi anni, la nozione di “tianxia” è diventata oggetto di dibattito all’interno dei circoli intellettuali d’oltre Muraglia. Nel 1981, la Chinese Association of Sociology of Ethnicity e la Chinese Academy of Social Sciences tennero – invano – una conferenza su scala nazionale con l’intento di raggiungere una definizione unanimemente condivisa del termine. Ma con l’ascesa politica ed economica del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale, il concetto sinocentrico di “tianxia” ha varcato le frontiere nazionali diventando – seppur ufficiosamente – uno dei principi trainanti della politica estera cinese. Soprattutto con “l’incoronazione” di Xi Jinping a presidente e segretario del partito.

 «Può la filosofia dell’antica Cina salvare il mondo dal caos?» si chiede in un articolo comparso lo scorso febbraio sul Washington Post Zhao Tingyang, illustre accademico dell’Istituto di filosofia presso l’Accademia cinese delle Scienze sociali. Consolidata la propria statura intellettuale nel 2005 con Tianxia Tixi (The Tianxia System), Zhao ha riadattato la saggezza degli antichi alle nuove responsabilità della Cina come stakeholder mondiale. Lo ha fatto cancellando la natura verticale e gerarchica delle relazioni confuciane sottointese originariamente nel concetto di “tianxia”. Secondo l’esperto, in tempi di sovranismo, gli evidenti limiti del modello occidentale – basato sulla nozione restrittiva di “stato-nazione” – spianano la strada all’affermazione di una dottrina cinese, dichiaratamente inclusiva, che valorizza il concetto di “mondo” come massima unità politica. Facendo proprio il principio confuciano di “armonia tra le diversità”, il tianxia di Zhao presuppone l’attribuzione di pari dignità e legittimità a qualsiasi popolo su base egualitaria, a prescindere dalla sua estensione o statura economica. Un punto su cui è tornato nel 2014 lo stesso Xi durante una visita alle Fiji, la prima di un leader cinese nel remoto arcipelago del Sud Pacifico: «I Paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono tutti membri uguali della comunità internazionale». Da qui l’espressione “comunità del destino condiviso”, riproposta con insistenza martellante al termine di ogni vertice multilaterale.

 I primi cinque anni di amministrazione Xi Jinping sono stati marchiati da un evidente revival imperiale, e non soltanto per via di una recente riforma costituzionale che potenzialmente conferisce al capo di Stato un mandato sine die.

Come ricorda su Il Manifesto Maurizio Scarpari, ex docente di Lingua cinese classica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, «grazie a lui il confucianesimo, bandito da Mao come retaggio feudale del passato, è tornato attuale e i suoi valori sono promossi e insegnati fin dalle scuole materne. Per questo volersi accreditare come leader illuminato, per il suo forte carisma, per l’atteggiamento risoluto e per l’immenso potere accumulato è stato paragonato a un imperatore con ambizioni egemoniche di stampo neocolonialista, dispotico ma al tempo stesso ammirato e stimato da una parte tutt’altro che insignificante della popolazione. Con lui si è chiusa un’era che ha visto la Cina prima umiliata dall’aggressione imperialista straniera e poi isolata dal resto del mondo». 

Certo, il ritorno alla grandeur implica anche critiche e rischi. Per la giornalista Didi Kirsten Tatlow, Pechino starebbe cercando di consolidare la propria base politica attraverso la riappropriazione di una concezione cosmologica e monistica che accomuna il Partito-Stato e l’assolutismo dinastico. Come scrive Tatlow per il Mercator Institute for China Studies, la nozione di tianxia presuppone un’estensione dell’influenza cinese oltre i confini nazionali in chiave coercitiva, come sottolinea l’esercizio della cosiddetta cybersovranità nel controllo della ricezione delle informazioni sgradite anche da parte dei cittadini cinesi all’estero. Ma forse è soprattutto il sistema del jimi (di amministrazione, ndr) a incarnare al meglio il potere esercitato al di là delle frontiere nazionali con lo scopo di proteggere gli interessi cinesi – sempre più globali – attraverso un sistema di punizioni e retribuzioni per gli stati “vassalli”. Basta pensare alle ritorsioni commerciali ultimamente messe in atto contro paesi e società straniere colpevoli di riconoscere implicitamente la statualità di Taiwan, l’isola democratica che Pechino vuole riannettere ai suoi territori. 

A distanza di sei secoli, il sistema del tianxia non implica più esclusivamente un’egemonia culturale. Soltanto tra il 2014 e il 2017, l’EximBank ha concesso finanziamenti per oltre 930 miliardi di yuan nell’ambito della Belt and Road. Come gli elevati costi portarono alla brusca sospensione delle ambizioni marittime della corte Ming, così oggi il rallentamento dell’economia e il malcontento popolare nei confronti della spesa estera di Pechino gettano tinte fosche sulla sostenibilità finanziaria della Nuova Via della Seta. E dei sogni imperiali di Xi Jinping.

Festeggiare i risultati, piuttosto che gli annunci

Il vicepremier Luigi Di Maio e i ministri del M5s si sono affacciati dalle finestre di palazzo Chigi per salutare il gruppo di manifestanti che stanno festeggiando davanti palazzo Chigi. "Ce l'abbiamo fatta", esultano. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Non sono un economista e non discetto di economia con la presunzione di essere la voce esatta di una scienza (che tra l’altro esatta non è) ma da osservatore, preferibilmente da sinistra, assisto con un certo sgomento alla ripetizione di una scena già vista che non mi pare abbia portato molta fortuna in tempi recenti: sfidare la manovra del governo facendo leva sugli scenari apocalittici declamati dai mercati (parola che si svuota e diventa feticcio ogni giorno di più) è il modo migliore per accelerare la distanza tra opposizione e persone e opposizione e realtà.

Per rapporto deficit-pil la manovra di questo governo rischia addirittura di essere austera: è superiore al 2,3% del governo Gentiloni ma è addirittura più bassa di quella dell’austerissimo Monti. Il tema non è l’indebitamento (e insistere su questo risulta piuttosto patetico, tristemente goffo) ma come si intende utilizzarlo per eliminare le disuguaglianze e rilanciare il Paese. Contrarre un debito per comprarsi una fuoriserie che non riuscirò mai nemmeno a mantenere o per acquistare una casa in cui invecchiare con tranquillità può essere uguale nei numeri ma profondamente diverso per senso di responsabilità.

Risulta poco credibile, sinceramente, assistere per l’ennesima volta alla gara di volume dei catastrofisti da una parte e dei salvatori della patria dall’altra: leggere i giornali in questi ultimi giorni ci riporta a un mondo che dovrebbe disintegrarsi nel prossimo futuro (ma ve le ricordate le invasioni di cavallette che avrebbero dovuto seppellirci per il referendum costituzionale?) oppure che addirittura ha cancellato la povertà senza che ce ne accorgessimo (e chissà quando ricominceremo a parlare responsabilmente, tra la classe dirigente).

Così accade che quelli festeggino gli annunci dal balcone e questi altri chiedono di fidarsi delle loro valutazioni del disastro prossimo venturo dopo averne sbagliate parecchie negli ultimi mesi. Una guerra tutta sugli annunci: lì si festeggia o si dispera. I risultati sono un particolare che sembra non interessare a nessuno. Il fallimento (o il successo) è solo una questione di narrazione. E così perfino i numeri finiscono per diventare solo un altro campo su cui sgolarsi.

Avanti così.

Buon lunedì.

Il governo Sánchez alla prova dei fatti

epa07031561 Spanish Prime Minister Pedro Sanchez (L) leaves after Question Time at the Lower House in Madrid, Spain, 19 September 2018. EPA/MARISCAL

Cento giorni. Di solito è il periodo che si concede a un governo prima di criticarlo. Tre mesi di grazia. O qualcosa di simile. Cento giorni, in realtà, per capire dove tira il vento. Almeno questa è la consuetudine dai tempi di Franklin Delano Roosevelt. Arrivato al governo degli States nel mezzo della Grande recessione, il presidente democratico diede prova di un’attività frenetica nella primavera del 1933. Cento giorni per dimostrare che il New deal non era solo una promessa da campagna elettorale. Nel caso della Spagna di Pedro Sánchez le cose ovviamente sono molto diverse. A partire dal fatto che il leader socialista è diventato presidente a metà legislatura grazie a un’inattesa mozione di sfiducia. Ma i cento giorni sono comunque sempre un simbolo.
Ebbene, che ha fatto in questi primi tre mesi e mezzo il nuovo esecutivo del Psoe? Ci sono stati indubbiamente degli importanti passi in avanti rispetto all’epoca di Mariano Rajoy, anche se, forse, non tanti come qualcuno si sarebbe potuto aspettare. La situazione, è bene ricordarlo, non è quella di António Costa in Portogallo, dove al governo socialista bastano i voti del Bloco de esquerda e del Partido comunista portugues per avere la maggioranza assoluta in Parlamento. A Madrid le cose sono molto più complesse: oltre a Unidos podemos, a Sánchez, con soli 84 deputati, servono anche i voti dei nazionalisti baschi e degli indipendentisti catalani per arrivare alla maggioranza assoluta. Mettere tutti d’accordo non è dunque cosa facile, tenendo poi conto della crisi cronica che si vive in Catalogna e che influisce direttamente sulle possibilità di durare del governo. Ma nessuno è stupito al riguardo. Lo si sapeva bene. Sánchez ha dunque…

L’articolo di Steven Forti prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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Damiano Coletta: «La destra si vince con la cultura della partecipazione»

«Si va avanti e si resiste». È il primo commento di Damiano Coletta, sindaco da oltre due anni di Latina, dopo aver strappato la città con il movimento civico Latina bene comune allo strapotere della destra. Una città e un territorio che sono stati attraversati da intrecci di politica e criminalità, un Comune in cui amministrare è un’impresa proprio per «i guasti del passato che pesano come macigni», dice Coletta, medico cardiologo adesso in aspettativa.
Oltre due anni dall’elezione a sindaco. Come sta andando Damiano Coletta?
Questi due anni trascorsi hanno costituito, l’ho sempre detto, una fase di bonifica, tanto per restare in tema rispetto alle origini della città. Qui, ricordo, c’è stata una politica che purtroppo ha devastato Latina. Abbiamo ereditato scheletri frutto di inganni perpetrati dalle precedenti amministrazioni sulla testa dei cittadini. Una per tutte è il bluff della metro dell’ex sindaco Zaccheo, un’opera mai partita a causa di un contratto insostenibile. Ora c’è un contenzioso con richiesta di risarcimenti e indagini per danno erariale: non possono e non devono pagare i cittadini queste scelte sbagliate.
Quali obiettivi vi siete posti lei e la sua giunta?
Il processo che si è dovuto e si dovrà fare è culturale: ricostruire l’identità di una città che deve partire dall’identità delle persone. Quindi riaffermare il diritto delle pari opportunità, che purtroppo non sono facilmente percepibili, e anche stabilire la cultura della partecipazione fornendo strumenti come il regolamento della gestione condivisa dei beni comuni. Il che significa che cittadini, associazioni e comitati possono partecipare alla gestione della cosa pubblica. Io credo che…

L’intervista di Donatella Coccoli a Damiano Coletta prosegue su Left in edicola dal 28 settembre 2018


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