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Un criminale ribaltamento della realtà

Manifesti di solidarieta' per Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, esposti durante il corteo di protesta dei centri sociali e dei movimenti per l'arrivo in citta' del ministro Matteo Salvini, Napoli, 2 ottobre 2018. ANSA/ CIRO FUSCO

Ordine, sicurezza, bavaglio al dissenso. Proibito favorire l’integrazione, proibito solidarizzare. Così è l’Italia ai tempi del governo giallonero dove le forze dell’ordine a Roma intervengono per eseguire lo sgombero coatto di una pensionata che non era in grado di pagare l’aumento di affitto. Ma a Bari osservano da lontano l’assalto squadrista di CasaPound a pacifici manifestanti antirazzisti. L’Italia ai tempi di Salvini e Di Maio è il Paese che si è inventato il reato di solidarietà per bloccare un’esperienza di integrazione felice come quella realizzata dal sindaco Mimmo Lucano a Riace. Così accade che un ministro indagato per sequestro di persona plauda per l’arresto di un sindaco colpevole di aver trasformato un paesino spopolato e architettonicamente malmesso in una cittadina operosa, restaurata, pulita, in grado di dar lavoro a immigrati e non.

La realtà capovolta. Mentre la Lega che ha frodato soldi degli italiani è al governo, Mimmo Lucano è accusato di aver favorito l’immigrazione clandestina non avendo un centesimo, anzi avendo lavorato con successo per far ripartire la depressa economia locale. Per questo è stato attaccato dalla ’ndrangheta e dai fascisti che nei suoi confronti hanno messo in moto una orchestrata macchina del fango. Invece di mettere la lotta alla mafia al primo punto del proprio programma, il ministro Salvini rende i beni sequestrati dalla mafia acquistabili all’asta da privati e dà la caccia ai migranti con il decreto sicurezza. E ora, per lui ciliegina sulla torta, porta a termine l’operazione anti Riace, iniziata dal suo predecessore Minniti. Ovvero da quel centrosinistra che, quando era al governo, avrebbe potuto cambiare la legge Bossi-Fini, ma si è guardato bene dal farlo. (Facendo poi naufragare anche lo Ius soli e la riforma della giustizia penale).

L’operazione di criminalizzazione delle Ong, gli accordi con la Libia, la cancellazione del secondo grado di appello per i richiedenti asilo portano la firma del ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd). Salvini è andato ancora oltre con questo decreto sicurezza-immigrazione che abroga la protezione umanitaria e addirittura pretenderebbe di revocare la cittadinanza in base a soli sospetti o a condanne in primo grado. L’abbiamo scritto e lo ripetiamo, è un provvedimento ingiusto, incostituzionale e disumano. Ed è fuori da ogni realtà mettere Mimmo Lucano in stato di arresto e disporre per la compagna Tesfahun Lemlem il divieto di dimora, dopo aver cercato di mettere in ginocchio la sua buona amministrazione bloccando i fondi pubblici che utilizzava non solo per fare assistenza ma per ricostruire, restaurare, creare lavoro.

Per questo il 6 ottobre saremo a Riace in suo sostegno. Sabato è una giornata importante non solo per dire no al razzismo e alla xenofobia oggi al governo in Italia. Ma anche per dire no a un governo che continua a umiliare le competenze e il lavoro proponendo l’elemosina del reddito di cittadinanza condizionato invece di combattere la disoccupazione, un governo che come quello precedente nega il valore della formazione, della conoscenza, delle competenze, preferendo sfruttare il volontariato, promuovendo occasioni di lavoro gratuito (che altro è il reddito di cittadinanza, ribattezzato da più parti reddito di sudditanza?). Il governo giallonero annuncia di aver abolito la povertà, quando in realtà ha criminalizzato i poveri negando il diritto all’abitazione, inasprendo il Daspo urbano (inaugurato da Minniti), imbrigliando la lotta sociale.

Un reddito universale come quello che molti Paesi europei hanno attivato sarebbe stato una misura equa, per cominciare. Invece il governo premia i più ricchi con la flat tax e regala qualche briciola a chi non ce la fa con spregio di quei giovani che non avendo alternativa studiano e cercano di costruirsi un futuro dovendo intanto appoggiarsi al divano di casa. La realtà alla rovescia: un ministro che non ha mai lavorato davvero se la prende con quelli che a suo dire sarebbero bamboccioni. Concedendo l’elemosina per soddisfare i bisogni primari e negando le loro esigenze di realizzazione personale, sociale e professionale. Gli archeologi, gli storici dell’arte, i musicisti, gli attori e i professionisti della cultura che scendono in piazza a Roma il 6 ottobre hanno investito moltissimo nella propria formazione, hanno talento, capacità. Left è con loro. È una battaglia decisiva, che riguarda tutti.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 5 ottobre 2015


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Il lavoro gratuito è un furto

Esistono cambiamenti che apparentemente sembrano coglierci di sorpresa, stravolgendo le nostre quotidianità, ma che arrivano in un batter d’occhio a farne parte con naturalezza. Il lavoro gratuito è uno di questi cambiamenti, lentamente insediatosi tra i tanti volti del mondo del lavoro. A guardarlo oggi, il lavoro gratuito appare davvero come una novità perché caratterizza completamente alcune fattispecie di rapporti di lavoro. Eppure, mettendo insieme le varie sfumature con cui si presenta più o meno limpidamente ai nostri occhi, è possibile ritrovare la radice comune e mai invecchiata del lavoro gratuito, come furto salariale, insito in ogni rapporto di lavoro. Perché cos’è il lavoro gratuito, se non quella parte di valore creata dai lavoratori che rimane all’impresa? Quel valore a cui senza alcun imbarazzo è possibile rivolgersi chiamandolo per nome, “plusvalore”.

Se è vero, com’è vero, che ogni rapporto di lavoro nel sistema capitalistico si basa (anche) su quel furto salariale, versioni più rapaci si verificano in contesti ad alta vulnerabilità e ricattabilità dei lavoratori che si ritrovano ad allungare la giornata lavorativa senza vedersi corrispondere nulla in cambio degli straordinari, della reperibilità. Ma è anche vero che si può rimanere stupiti di fronte al dilagare di fenomeni di lavoro gratuito tout court, cioè senza nessun tipo di remunerazione. Ma anche questo fenomeno non si configura storicamente come una novità, è sempre esistito e ha nel tempo assunto nuove forme. Quel che appare come una novità degli ultimi anni è l’istituzionalizzazione del lavoro gratuito obbligatorio per segmenti crescenti della forza lavoro, spesso quelli già strutturalmente più vulnerabili: giovani, immigrati, disoccupati.

La progressiva istituzionalizzazione di queste forme di lavoro si ritrova nei provvedimenti adottati dai governi che si sono succeduti e in quelli di alcune amministrazioni che li hanno utilizzati. Hanno natura tra loro diversa, leggi, protocolli, circolari, ma sono legati da un’unica ideologia e interpretazione dei fenomeni economici e sociali: la disoccupazione è una condizione volontaria, una scelta del soggetto che…

L’articolo di Marta Fana prosegue su Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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Atelier Riace al Macro: un presidio artistico per Mimmo Lucano

«Siccome l’accusa che si muove a Mimmo Lucano è quella di aver organizzato e combinato matrimoni, abbiamo deciso di fare qualcosa, perché qui c’è un problema culturale prima ancora che legale: perché il matrimonio non può essere una scelta tra due persone che vogliono essere una possibilità l’uno per l’altro? Vogliamo rendere visibile per quanto possiamo l’esperienza di Riace e celebrare questo matrimonio, che è combinazione d’amore, un amore verso la possibilità di un mondo nuovo». Lorenzo Romito si infervora. Davanti a quello che lui stesso reputa un’ingiustizia, la migliore risposta è fare in modo che tutti possano celebrare ed essere protagonisti di un «matrimonio combinato» se questo vuol dire assolvere ad un principio di umanità.

È con questo spirito che nasce l’iniziativa «Vuoi sposarmi? Nozze miste, combinate ad arte e con amore», che si terrà al MacroAsilo (via Nizza 138, Roma) domenica 7 ottobre dalle ore 12 per festeggiare un matrimonio diverso e già per questo speciale: «quello con il futuro che, a dispetto della propaganda, è già nomade e meticcio». Ad organizzarlo Atelier Riace, presidio artistico in solidarietà con il sindaco di Riace, promosso dal collettivo Stalker, «un’esperienza – racconta ancora Romito, che ne è il coordinatore – che nasce dopo la Pantera della Facoltà di Architettura e che si fonda, da oltre 20 anni, sulla pratica di camminare attraverso spazi abbandonati». La cultura e la ricerca prima di tutto, dunque. Perché «anche i margini di una città sono ricchi: se bene interrogati ci danno indizi di futuro molto più interessanti di quello che ci si aspetta». Partendo da qui, i ragazzi di Stalker portano avanti da anni esperienze di integrazione con rifugiati, a cominciare dai curdi, con i quali è nato il progetto Ararat.

E nel 2000 proprio con Ararat è stato realizzato il Tappeto Volante, una rielaborazione in corda e rame del soffitto ligneo della Cappella Palatina di Palermo, accompagnata da un viaggio sonoro alla ricerca delle origini iraniche del manufatto. Un progetto incredibile, composto da 41.472 corde di canapa con terminali in rame. E, simbolicamente, i matrimoni combinati si terranno proprio sotto il Tappeto Volante, spazio simbolo degli incroci tra culture. «Saranno matrimoni d’amore, intesi come desiderio di futuro, di risanamento di ferite, di ritorno a casa, di nostalgia, di curiosità, di ascolto, di coraggio, d’avventura». Un’iniziativa che mira, dicono ancora da Stalker, a «festeggiare l’incontro e svelare nel visibile il fantasma oscuro della paura dell’alterità, scatenando una bomba di amori matrimoniali misti». Da qui l’invito di Romito: «Invitiamo tutti a venire e proporsi per un matrimonio e unirsi per le ragioni più diverse, non necessariamente per trovare l’anima gemella, ma per sfruttare l’occasione come un’esplorazione dell’incontro con l’altro». Le idee, almeno quelle, non si possono arrestare.

La verità per noi. Mica per Giulio

Ieri sera avrei dovuto essere a Roma, al Teatro India, a ricordare Giulio Regeni insieme a tanti colleghi, amici e testimoni importanti di una battaglia che per fortuna non si assopisce come avrebbe voluto qualcuno. Non ci sono potuto passare, per stagionali problemi di salute (la serata è stata bella e importante) e non ho potuto leggere il testo che avevo preparato per l’occasione. Stamattina mi sono svegliato e ho pensato di metterlo qui, in questo buongiorno che è seguito con tanta attenzione (grazie!)o e poi ho pensato che non ci sia niente di peggio che riciclare un pezzo scaduto.

Mi spiego. Le occasioni per ricordare per chiedere la verità non esistono. Meglio: ci sono momenti organizzati in cui ci si unisce in coro per rafforzare la richiesta di giustizia ma ricordare (e soprattutto, come nel caso di Giulio Regeni, quando il ricordare fa rima con la richiesta di una verità che quelli debbano sentirsi in dovere di spiegarci) è un lavoro minimo, quotidiano, una di quelle cose come la goccia che scava la pietra, un gesto abituale di cui non si può fare a meno, uno di quei tic sani che ci tiene in piedi in un tempo di sdraiati, un dolore (perché è un dolore, benché ci si impegni nell’indossarlo con ottimismo) usurante e continuo.

Ciò che mi spaventa della storia di Giulio (e di tutte le storie come questa) è il momento in cui gli appelli, gli articoli, le domande e gli editoriali diventano una cosa vecchiauna vecchia storia. Quel momento in cui la rabbia (quella sana, che esige giustizia) si smorza, come se le si fosse strappato un tendine e diventa malinconia. Oh, sì, ma quella è una storia vecchia: la sconfitta ha più o meno il suono di una frase pronunciata più o meno così.

E come si può fare invecchiare una storia perché possa essere seppellita dall’incuria e dalla ricerca di impunità? Togliendole umanità, innanzitutto: per questo la sofferenza dei genitori di Giulio andrebbe stampata e tenuta nel portafoglio insieme al viso di sbrindellato di Giulio. Questa non è solo politica internazionale, no: sono affetti sopraffatti dalla violenza. È più facile provare empatia, uscendo dalla burocrazia narrativa, no? Poi una storia si può rendere inoffensiva parlando d’altro: i rapporti che non possiamo permetterci di guastare con l’Egitto, il se l’è cercata che sta bene su tutto, il lasciamo fare agli inquirenti anche se in Egitto di inquirenti con la schiena dritta su questa vicenda sembra non esserci nemmeno l’ombra. E infine una storia si smussa lasciando passare il tempo: ogni settimana Giulio è un po’ più morto e i suoi assassini un po’ più vivi. Il tempo è il miglior viatico verso l’impunità.

Allora si potrebbe, nei nostri piccoli vizi giornalieri, aggiungere anche quello di Giulio Regeni, e insieme a lui delle storie che non possiamo permetterci di dimenticare. Perché, pensateci, commemorare una storia senza che nessuno ci abbia ancora raccontato come va a finire è qualcosa di goffo, a guardarlo da fuori. E perché la verità è un bene prezioso, e proprio per questo qualcuno tenta sempre di risparmiarla.

Buon giovedì.

A Macerata fu strage razzista. L’attentatore Luca Traini condannato a 12 anni con rito abbreviato

Luca Traini, l'autore del raid a colpi di pistola contro i migranti, lascia il Palazzo di Giustizia di Macerata dove si apre il processo a suo carico per strage aggravata dall'odio razziale, tentato omicidio, porto abusivo d'arma e danneggiamento a Macerata, 9 maggio 2018. ANSA/Fabio Falcioni

Dodici anni di carcere per strage, tre anni di libertà vigilata che dovrà eventualmente scontare dopo il periodo di reclusione, riconosciuta l’aggravante dell’odio razziale e del porto abusivo d’armi, la pena tiene tuttavia conto della riduzione di un terzo prevista dal rito abbreviato e delle attenuanti generiche visto che, in apertura di udienza, Luca Traini, aveva letto una dichiarazione spontanea in cui ha dichiarato di non essere razzista e di essere pentito. «Non provo nessun odio razziale – ha riferito – volevo fare giustizia contro i pusher per il bombardamento di notizie sullo spaccio diffuso anche a causa dell’immigrazione». Successivamente ha chiesto scusa alle vittime a cui dovrà comunque un risarcimento con somme da quantificare in sede civile. La Corte di Assise di Macerata ha sentenziato, dunque, nel pomeriggio che Luca Traini è uno stragista razzista, capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Il 29enne è l’autore, lo scorso 3 febbraio, del tiro a segno, a Macerata, contro diversi migranti in cui rimasero ferite sei persone.

Gli spari di Traini, a Macerata, risuonarono per ore in un sabato di febbraio, all’inizio della campagna elettorale per le politiche che, da Minniti a Salvini, in troppi vollero giocare sulla criminalizzazione dei migranti. Da subito il dilemma fu: ordinaria follia oppure ordinario fascismo? Quando lo catturarono si fece portar via avvolto in un tricolore, ostentando il saluto romano. Nel 2017, Luca Traini, è stato candidato della Lega Nord alle amministrative. È armato, con regolare licenza, e tatuato con un simbolo nazista teoricamente illegale. Il Comune, dai social network, invitò a rimanere chiusi in casa, nei luoghi di lavoro e nelle scuole, i mezzi pubblici fermati fino a nuovo ordine. Salvini – coda di paglia – provò a smarcarsi puntando l’indice su chi avrebbe riempito l’Italia di clandestini. Forza nuova, in evidente affanno rispetto all’aggressività di Salvini, si offrì di pagare le spese legali al razzista avvolto nella bandiera italiana che dice di aver voluto vendicare la giovane uccisa da un pusher nigeriano. No, non fu ordinaria follia: per il Procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio, si tratta di «crimini d’odio commessi da persone schierate per le loro scelte ideologiche di estrema destra e di orientamento razzista». «Comunque – ha aggiunto il pm – le dichiarazioni spontanee dell’imputato dimostrano che è in corso un processo di ravvedimento». Quanto al verdetto, ha osservato: «Non si può essere soddisfatti quando si eroga una pena comunque la Corte ha accolto tutte le richieste del nostro ufficio». Il magistrato ha poi espresso soddisfazione invece per «una sentenza emessa in un tempo ragionevole in presenza di un fatto grave» e cioè otto mesi dagli eventi oggetto del processo.

Troppo poco 12 anni di carcere è stato il filo conduttore di alcune arringhe difensive delle 13 parti civili (sei le persone ferite) al processo in Corte d’assise: le richieste di risarcimento danni avanzate nei suoi confronti vanno dai 20mila ai 750mila euro chiesti da Jennipher Otiotio, nigeriana, una delle persone rimaste ferite più gravemente. Il suo legale, l’avvocato Raffaele Delle Fave, ha contestato l’entità della richiesta di condanna e il parere favorevole dell’accusa alla concessione delle attenuanti generiche: «L’imputato merita il massimo della pena» ha detto l’avvocato che ha ricordato poi una pronuncia del presidente di Corte d’assise Claudio Bonifazi, innescando un dibattito e il richiamo dallo stesso giudice. Anni fa inflisse dieci anni di carcere per possesso di 75 grammi di droga, ha affermato, rimarcando per Traini la necessità di una pena molto più alta. Ricordando i vari sconti di pena previsti nel corso della detenzione, calcolati per ogni sei mesi in carcere e la successiva semidetenzione, secondo Delle Fave, «si rischia che entro cinque anni l’imputato torni in libertà». «La pena deve servire come espiazione ma anche come opportunità di ravvedimento – ha affermato Gianfranco Borgani (per due parti civili) chiedendo una “pena equilibrata” – in modo che il condannato capisca la gravità del reato commesso».

Luca Traini «non ha avuto una particolare reazione ed è rimasto tranquillo» alla lettura del verdetto in quanto «avevamo valutato anche tra le altre cose una sentenza di questo tipo», dice il suo legale, Giancarlo Giulianelli, dopo la decisione dei giudici che depositeranno la motivazione entro 90 giorni. Già da ora la difesa annuncia il ricorso in appello la cui impostazione dipenderà da come l’Assise motiverà la condanna. «La sentenza – ammette il legale che contesta però la configurazione giuridica di tutti gli addebiti, a patire dall’accusa di strage aggravata dall’odio razziale – ci sta per questo tipo di reati». «La cosa più importante – ha proseguito – sono le sue dichiarazioni (di Traini; ndr): ha espresso idee con le quali conferma di avere sbagliato. Quello che ha scritto – ha aggiunto Giulianelli sui fogli letti in aula dal suo assistito -, lo ha fatto per se stesso e per i suoi cari». Anche per le parti civili sarà importante leggere le motivazioni per tirare le conclusioni.

«Ci auguriamo che si arrivi a una sentenza equa, giusta come in qualsiasi processo. Non ci interessa e non sappiamo nulla di questo processo, lo seguiamo come ne seguiamo altri sui giornali e qualsiasi accostamento con Pamela, fin dall’inizio, non ci piace», aveva detto all’Adnkronos Marco Valerio Verni, zio e legale della famiglia di Pamela Mastropietro, la 18enne romana che dopo essersi allontanata da una comunità di recupero fu uccisa e fatta a pezzi a Macerata. «Riteniamo che l’accostamento con la vicenda di Pamela – ha proseguito l’avvocato – all’inizio sia servito a qualcuno per far parlare di meno di quanto accaduto a Pamela». «Noi siamo concentrati sulle indagini» sull’omicidio di Pamela, ha continuato l’avvocato spiegando di non avere aggiornamenti ufficiali dalla procura. «Confidiamo nel lavoro della procura – ha concluso Verni – e speriamo che abbia fatto indagini a 360 gradi e che continui a svolgerle perché crediamo che Oseghale non possa aver fatto tutto da solo».

Prima e dopo Traini, il tirassegno al migrante, gli episodi di discriminazione e violenza razzista sono continuati. Il sindaco Pd di Macerata provò a far vietare la quantomai opportuna manifestazione antifascista convocata per il sabato successivo, il 10 febbraio. Invece, nonostante la città blindata, alcune migliaia di persone manifestarono, fuori dalle mura medievali perché quel sindaco pavido aveva ordinato negozi, teatri, musei e scuole chiusi, niente autobus, c’erano posti di blocco, elicotteri fare da rumore di fondo, i preti hanno interrotto anche messe e catechismo. Il corteo dai giardini di piazza Diaz, farà il giro delle mura e tornerà ai giardini, senza entrare in centro storico. Una manifestazione (fiancheggiata da decine di appuntamenti del genere in città lontane) che non s’è fermata nemmeno di fronte alle feroci minacce del ministro Pd dell’Interno, Minniti, di vietare i cortei e alla sconcertante “scioglievolezza” di Anpi, Arci, Libera e Cgil, di fronte all’equiparazione tra razzisti e antirazzisti, tra fascisti e antifascisti compiuta dal primo cittadino della città marchigiana. Dentro le organizzazioni coinvolte i dissensi furono evidenti, molti circoli e attivisti dell’Anpi e dell’Arci hanno aderito al corteo.

Chiesa e pedofilia, denunciato lo Stato italiano per omesso controllo sui vescovi

Per giorni ha tenuto banco la notizia che papa Bergoglio sapesse delle accuse contro l’ex arcivescovo McCarrick, e che non sia intervenuto. In Italia ci sono quattro casi di insabbiamento identici a quello sollevato da mons. Viganò. Ma la stampa e le istituzioni fanno finta di niente. Per questo motivo Rete L’Abuso onlus – che fa parte della Ending clergy abuse, una associazione internazionale che si occupa di tutela dei diritti delle vittime di preti pedofili – durante una conferenza stampa che si è tenuta presso la sede del Partito radicale a Roma ha annunciato questa mattina un esposto-denuncia nei confronti del governo italiano per omesso controllo nei confronti delle autorità ecclesiastiche responsabili di insabbiamento dei casi suddetti, in violazione delle norme di attuazione della Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori dagli abusi sessuali.

Il nostro settimanale è l’unica testata giornalistica italiana che ha seguito sin dall’inizio questa vicenda. In particolare, la battaglia di civiltà condotta da Rete L’Abuso insieme all’associazione Sordi del Provolo affinché le 67 vittime dell’istituto veronese per sordomuti ottenessero giustizia. Sull’esposto – che sarà depositato contestualmente presso le procure di Roma, Milano, Pavia Napoli e Savona – ci sono anche le loro firme.

Per approfondire: bit.ly/2IB5yx1bit.ly/2IBaNN1

«Cara senatrice Merlin, sono una prostituta, mi salvi». Lettere dalle case chiuse, sessant’anni dopo la legge

20080216 - ROMA - POL - PROSTITUZIONE: MERLIN, UNA LEGGE DI MEZZ'ETA'- Una foto della senatrice Lina Merlin datata 12 marzo 1956. E' a questa senatrice socialista, ex partigiana, che si deve l'abolizione delle case di tolleranza, cinquant'anni fa. La legge, che porta il suo nome, fu approvata, dopo dieci anni di burrascosa discussione parlamentare, il 20 febbraio 1958. Le nuove norme misero fine alla prostituzione di stato, ai controlli sanitari obbligatori e introdussero sanzioni per chi sfruttava le prostitute. Mentre la vendita del proprio corpo non era considerata reato. Con la legge Merlin, che costo' addirittura alla sua firmataria minacce di morte, comincio' una rivoluzione nei costumi sessuali nazionali. La notte che entro' in vigore la legge (settembre '58) furono chiusi oltre 560 bordelli. Si chiamavano 'case chiuse' per via delle finestre sempre sbarrate per motivi di ordine pubblico e di privacy. ANSA ARCHIVIO / KLD

Sessant’anni fa, il 20 febbraio 1958, veniva approvata la legge 75, più nota come legge Merlin. Ovvero «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui». Addio “case chiuse, quindi. Sessant’anni dopo, la questione dello sfruttamento nei confronti delle donne rimane ancora un nodo da risolvere, se teniamo presente la tratta degli esseri umani e la rete criminale che la gestisce. Ma la violenza contro le donne deriva, anche, e soprattutto, da una visione medievale e conservatrice che attraversa ancora oggi la società e che considera la donna come essere inferiore.
Di violenze disumane, fisiche e psicologiche, parlano le donne che durante i lavori parlamentari scrissero alla senatrice Merlin, ex partigiana. Cameriere, ragazze poverissime, tradite da un fidanzato e dal padrone, spesso con un figlio a carico: ecco il ritratto di una generazione femminile che usciva dalla guerra e che finivano in un altro dramma. Sono raccolte nel libro che esce oggi, 3 ottobre, per la collana Le Staffette di Edizioni Gruppo Abele, Cara senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse. Ragioni e sfide di una legge attuale, a cura di Mirta Da Pra Pocchiesa. Da segnalare che una prima edizione venne pubblicata nel 1955 a cura della stessa senatrice Lina Merlin e di Carla Barberis (ovvero Carla Voltolina che poi diventerà la moglie di Sandro Pertini).
Ne pubblichiamo alcune per concessione dell’editore.

 

B., 27 Gennaio 1951
Signora Deputatessa Merlin
Io ò saputo dalle mie compagne della legge che fà per noi prostitute. Io
non me ne intendo; sono una povera donna che faceva la serva e sono delle
campagne di C. e vorrei tornarci a fare la serva o la contadina non questo
mestiere che mi fa schifo. Ero a M. e M. mi faceva terrore e io uscivo poco,
avevo paura dei trammi e delle macchine, ma un giorno uscivo e incontrai
uno che mi si mise dietro a camminare dietro. I miei padroni tutte le
sere facevano cene, ballavano e poi si baciavano e anche con le mani non
stavano fermi bene e io pensai che fare all’amore non era peccato e mi ci
misi con un giovanotto che non parlava come noi di C. Ma un giorno mi
portò nella sua camera perché disse «ò male allo stomaco». Ma altroché
male, lui mi prese e mi cosò anche mentre io piangevo e dissi «ò paura ò
paura». Poi non mi à sposato e mi a fatto fare il figliolo. Io sono prostituta
perché i padroni non mi rivolevano e loro erano come me e pegio e si
facevano sempre cornuti fra elli.
ò paura di venire via per la fame e per chiedere perdono alla famiglia
che sono onesti fratelli e sorelle. Però a C. sarei felice, ci sono nata, c’è l’aria
sana, gli olivi e la vendemmia e anche i contadini mi volevano bene.
M’aiuti Signora Deputatrice io voglio salvare mio figlio.
[seguono cognome, nome e indirizzo]

 

[s. l. n. d.]
Gentile Senatore,
dicono che mi metteranno in galera appena chiudono le case ma io
non ho mai fatto del male a nessuno e in galera non ci voglio andare,
ci vadano i padroni che ci sfruttano il sangue a tutti noi; sono una di
quelle ma non ero così e volevo crescere onesta, invece a 15 anni in una
baracca mio cognato mi prese per forza e poi mi minacciò sempre di
dirlo a mia sorella che ero stata io; appena mi accorsi di essere grossa
scappai di casa e andai a fare la serva in una osteria. Appena si accorsero
che dovevo fare il bambino mi dissero che ero una p. e che se volevo
rimanere ancora lì dovevo lavorare senza paga perché già il mangiare
e il dormire era troppo per quello che facevo. Invece lavoravo come una
soma e quando alla maternità feci il bambino non avevo latte e lo portai
a balia e mi dissero che se non pagavo prima non me lo prendevano.
Incontrai un soldato che mi disse sei una brava ragazza e i soldi per il
bambino te li trovo io che ho la terra al paese e poi ti sposo. Allora i miei
padroni dell’osteria glielo dissero che lo avevo avuto da mio cognato e
che ero una p. e che anche lì facevo la p., invece non era vero e lavoravo
sempre come una soma e mi davano da mangiare quello che avanzavano
gli altri e dormivo sul pianerottolo con un materasso per terra. Allora
lui disse mi hai detto delle bugie o io non ti guardo più e non l’ho più
visto. Allora uno che veniva all’osteria mi ha detto se sei brava te li trovo
io i soldi basta che qualche volta vieni con me, se no niente soldi per
il tuo bambino e mi avrebbe fatto licenziare dove lavoravo; mi portava
sempre fuori e diceva che dovevo andare anche con i suoi amici se no
niente soldi per il bambino e mi avrebbe fatto arrestare perché ero una
p. Un giorno una come me mi disse va là stupida perché ti fai sfruttare
c è un posto che guadagni bene e poi vai in America con il tuo bambino
e nessuno ti vede più. Invece era d’accordo con lui e sono finita in una
Casa e non le dico cosa ho passato e tutti i soldi me li portano via i
padroni e lui che è d’accordo. Quando voglio scappare mi dice che il mio
bambino me lo portano via e se esco mi mettono in galera e in galera e
senza il mio bambino non ci voglio stare. Non sono vecchia, sono frusta,
ho 24 anni, il mio bambino le monache non lo vogliono perché dicono
che è bastardo e dove me lo tengono costa tanti soldi ma lui non deve
sapere che sua mamma è una p. Sono sempre malata che non ho la forza
quasi di alzarmi dal letto e sono in una Casa bassa e allora posso stare.
Tanti mi dicono perché io che sono brava sono finita lì e la padrona che
è d’acordo con lui mi dice adesso la Senatore chiude le Case e se non
sei d’acordo con noi ti mettono in galera con tuo bambino. È vero che
mi metteranno dentro se chiudono i casini? Senatore, invece di farmi
mettere dentro mi potrebbe mandare all’ospedale con il mio bambino e
a farci curare perché il bambino ha sempre qualcosa e il dottore dice che
è il sangue non buono, invece io il sangue buono prima l’avevo, invece è
che non li hanno mai dato tanto da mangiare perché si approfittano che
io non ci sono e dicono che il denaro non basta e lui patisce la fame e ci
ha sempre qualcosa. Non mi faccia mettere dentro me lo ha detto uno
che è venuto che lei Senatore è una brava persona e allora io ho detto
ci scrivo e se è una brava persona mi aiuta. Non ho mai fatto male a
nessuno e sono una povera ragazza sfruttata sempre, sono una di quelle
ma per mio bambino farei tutto. Non dica a nessuno il mio nome perché
se lo sanno che le scrivo mi fanno ancora del male e al mio bambino che
non sa che sua mamma è una p. e mi crede brava. Il mio bambino lo
faccio pregare per lei se mi fa ritirare con il mio bambino all’ospedale in
un posto che nessuno sappia chi sono e se mi stracciano il libretto perché
è meglio morire tutti e due piuttosto che questa vita. Ce ne sono tante
altre povere signorine come me che non ci hanno colpa e che hanno
paura, hanno bambini da aiutare e gente cattiva le sfrutta, ma se invece
di metterci in galera ci aiutano tutte allora sarà una gran bella cosa. I
meglio saluti e mi aiuti che il mio bambino pregherà per lei.
[seguono cognome, nome e indirizzo]

Senatrice
Lina Merlin – Senato della Repubblica – Roma
Sono una povera disgraziata (non ancora trentenne abbandonata dal
marito espatriato in A.) con un bambino che appena conosce il volto della
sua mamma, perché obbligata lasciarlo vivere dai nonni lontani, non
sapendo come provvedere al suo mantenimento. Invano sto cercando da
oltre due anni un qualsiasi modesto impiego (avendo frequentato un pò di
scuole magistrali) passando a vari uffici e Ditte private, non disdegnando
le più amare umiliazioni, ricevendo in cambio inviti a trascorrere… allegre
serate.
Le mie ripetute sofferenze di vita stentata, mi hanno condotta ad una
malattia che lo Stato da anni combatte e solo la Divina Provvidenza mi
ha salvata dalla tomba, guarendo, sia pure in parte, miracolosamente. La
legge per l’avviamento al lavoro degli ex tubercolotici c’è ma anche questo,
per motivo di precedenza, per me, tutto è stato precluso. Purtroppo la
fame non ammette altre alternative ed io disillusa di questa inumana
società, dopo aver lottato con tutti i mezzi leciti ed illeciti per mantenermi
nei buoni principi di donna onesta e di madre cristiana, mi vedo costretta
ad intraprendere quella strada per cui la legge sopraindicata ne combatte
i suoi fini.
Ora mi chiedo: se lo stato ha già in programma la riabilitazione di queste
povere disgraziate perché non prevenirne una anzitempo?
A Loro mi rivolgo Onorevole Presidente ed Onorevole Senatrice, affinché
questa mia supplica possa dare un esito positivo offrendomi la possibilità
di un sia pur modesto impiego.
Doverosamente
[seguono cognome, nome e indirizzo]

 

M., 7 novembre 1950
On. Senatrice,
sono stata una di quelle ragazze. Ora da circa sei mesi sono tornata
definitivamente a casa mia col fermo proposito di farmi una vita nuova,
di entrare a far parte della società, ma purtroppo ancora molti ostacoli
mi chiudono ogni strada, anche perché non mi posso azzardare dato
il mio precedente nella mia città dove abito e sono nata. Nessuno sa e
oggi più che mai vorrei fosse segreto. Ma come faccio a trovare un onesto
lavoro? Vivo qui a M. con mia madre che ha 70 anni, a mio carico da
tredici anni, poiché da tal epoca sono orfana di padre e fu questo uno
dei motivi per cui mi rassegnai a quella vita senza pensare al male che mi
sarei sottoposta.
È inutile dire le mie sofferenze passate, non tanto materiali quanto
morali: il mio io che si logorava di attimo in attimo, ma non voglio
prolungarmi in questo triste e sporco ricordo. È l’oggi, il domani che
desidero concretare. Mi sento tanta forza di volontà e so che potrò far
molto, ma per incominciare ho bisogno di una mano amica che mi aiuti a
rialzarmi. È a Voi On. Senatrice che mi appello perché siete l’unica persona
a cui posso confidare ed avere la di Voi comprensione e aiuto. Come sopra
accennavo, da sei mesi circa sono a casa, aspetto un lavoro: nonostante
quasi giornalmente vado a presentarmi alla Camera del Lavoro munita
del mio cartellino con relativo libretto di lavoro, non ancora riuscita a
trovare un’occupazione. Perciò quei miseri guadagni fatti in passato sono
serviti a sobbarcare le spese della mia modesta casa vivendo io e mia
madre, ed ora non mi rimane che il terrore della miseria, siamo alle porte
dell’inverno e le spese aumentano ancora con mia madre che dato l’età è
in condizioni di salute precarie. Ho bisogno assolutamente di lavorare.
Ora spero solo nel Vostro interessamento. Ho 31 anni, nonostante tutto o
avuto dai miei una buona educazione che non mi farà fare brutte figure
dove avrò la fortuna di un’occupazione: in quanto riguarda all’istruzione
ho fatto la I avviamento al lavoro e potrei occuparmi come commessa in
qualche azienda.
Nella speranza di una Vostra risposta in merito che vi prego sia fra l’altro
di massima segretezza riguardo il mio nome, chiedo scusa per il disturbo
che vi reco.
Obbligatissima
[seguono nome, cognome e indirizzo]

Lampedusa, 5 anni fa il naufragio in cui persero la vita 368 persone

Cinque anni fa un risveglio orrendo. E ancora avevamo capito poco. Il numero delle vittime dell’imbarcazione affondata a poche centinaia di metri dalla salvezza, al largo di Lampedusa sembrava crescere ad ogni minuto. Come non ricordare le immagini che irrompevano a dire, la morte non è lontana, è qui, ha bussato forte, ha i volti dei bambini, delle donne e degli uomini che sembravano pronti ad una nuova vita. I ricordi diventano frammenti: il pianto ipocrita dei proprietari delle frontiere di allora si mescolava al dolore autentico della gente di mare. Uomini della guardia costiera, pescatori, abitanti della piccola isola divenuta nella notte centro dell’inferno. Piangeva il pescatore che era riuscito a salvare da solo, 47 persone ma che ne aveva viste tante, troppe, scivolare nel mare e non riemergere. Ore di fatica per salvare almeno una vita in più. Il bilancio atroce 366 vittime, in maggioranza provenienti dall’Eritrea, in gran parte mai identificate. Ce le ricordiamo a riempire gli hangar, ci ricordiamo la fila di lenzuola e poi di bare con l’isola che chiedeva aiuto perché non riusciva neanche a trovare posto per le vittime.
E un pezzo forte di questo assurdo Paese, si mosse e si commosse, chiese giustizia, ricordò se stesso e non voltò le spalle. Pochi giorni dopo ne accadde un altro e ancora più grave di naufragio, al largo delle coste libiche, più vicino a Malta e ci si accorse, troppo tardi di quella fossa comune che era ormai diventata il Mediterraneo centrale. “Bisogna fare qualcosa” si disse in tante e tanti, ma sia chiaro, affermò chi comandava, la colpa non è nostra o delle nostre leggi ma dei trafficanti. Sono loro i veri assassini. Allora si ebbe la decenza di promuovere una operazione incompleta ma che produsse dei risultati come Mare Nostrum. Le imbarcazioni militari italiane si assunsero la responsabilità di scendere nei pressi delle coste libiche e, nonostante si continuò a morire, oltre 120 mila persone vennero tratte in salvo. Ma di cambiare le regole, di poter aprire canali di ingresso legali a chi fuggiva, di costruire un contesto di solidarietà europea nessuno volle parlare nonostante i tanto declamati “pugni sul tavolo”.
Mare Nostrum venne interrotta grazie al connubio fra la volgare arroganza sovranista rappresentata non solo dalla Lega e riassunta nel grido di allarme “ci stanno invadendo” e dai miseri egoismi europei che ne foraggiarono il potenziale. Alla fine del 2014 le coste libiche tornarono ad essere battute in lontananza solo dalle imbarcazioni di Frontex col compito di fermare le fughe mentre si dotava una sedicente guardia costiera libica, composta già allora da e trafficanti che avevano cambiato datore di lavoro e indossato una divisa, di nuovi strumenti per riprendere i fuggitivi, riportarli nei propri lager, pretendere nuovi riscatti e praticare nuove violenze. Dovettero intervenire le Ong a sfidare il mare e i fucili libici per salvare la gente che scappava sui gommoni. Ong che presto si ritrovarono contro una classe politica nostrane, l’odio diffuso a piene mani da molti organi di stampa, inchieste giudiziarie fondate sul nulla e alla fine, anche illegali Codici di condotta per impedire a chi salva vite di svolgere la propria missione.
Cinque anni dopo sembra passata un’era geologica. Prima Minniti e poi Salvini hanno contribuito ad aumentare la desertificazione del principio di umanità. Vanno fermati, costi quel che costi, anche bloccando i porti, anche subendo condanne internazionali. E questo avviene con un consenso diffuso e popolare. I barconi sono il nemico, non le miserie provocate da politiche economiche scellerate che favoriscono unicamente il profitto di pochi. L’arresto ieri di Domenico (Mimmo) Lucano, sindaco di Riace ed emblema dell’accoglienza è un colpo inferto a chi disobbedisce, le misure contenute nel prossimo “Decreto Salvini” ne sono il corollario, tale da definire un vero e proprio Stato di polizia.
Cinque anni dopo, le piazze piene di ieri in solidarietà con Mimmo, hanno dato qualche flebile speranza ma per il resto è giusto dirlo. Questo paese, fa più schifo di allora, si crogiola ancora per la sofferenza dell’altro, del nero, del diverso. Quanti anni passeranno prima di capire che i prossimi saremo noi?

«Non si può fare la guerra a chi fugge dalla guerra». Così Lampedusa ricorda le vittime del naufragio del 2013

«Attraversando la Libia di notte, non hanno visto niente. Chilometri e chilometri di nulla. Lo sfascio del dopoguerra, le distruzioni ai bordi delle strade, le divisioni del conflitto sono stati allontanati dal loro sguardo e dai loro ricordi. Si sono ritrovati sulla costa, raccolti in massa per essere imbarcati alla prima occasione buona, come dopo aver attraversato una bolla. Un tunnel buio, privo di spettri. Quando, molto tempo dopo la grande strage, qualcuno chiede loro com’era la Libia, quali fossero gli effetti del conflitto, nessuno dei sopravvissuti sa rispondere con esattezza. Quando proprio devono dir qualcosa si limitano ad accennare: l’abbiamo vista solo di notte. Il viaggio culminato nel terribile naufragio del 3 ottobre 2013 ha avuto inizio molto prima. Non giorni, ma mesi prima. Eppure ogni istante che lo precede sembra essere stato risucchiato nelle viscere del mare, assieme al relitto in secca sul fondale».

Il viaggio è quello intrapreso da più di 500 persone verso l’Europa. Per la maggior parte di loro culminato, come ricorda Alessandro Leogrande in questo passaggio de La frontiera nel «terribile naufragio del 3 ottobre 2013», dove nelle viscere del mare di Lampedusa ci finirono 368 persone. Perlopiù eritree, in fuga dalla dittatura di Afewerki. Un naufragio che, per dirla sempre con le parole di Leogrande, «ha lacerato le coscienze di molti», senza però risolvere molto. Perché i morti in mare continuano ad esserci. E perché, se sulla spinta di quella tragedia nacque l’operazione Mare Nostrum, che pur con tutti i suoi limiti qualche vita in mare la salvava, da lì in poi non si è andati a migliorare, tutt’altro. L’escalation negativa ha visto la meno efficace missione Triton e poi il nulla, salvo la criminalizzazione delle Ong rimaste in mare a salvare persone. Accompagnata dai decreti Minniti-Orlando prima e Salvini poi.

Tenere viva la memoria di quella tragedia, e partire da lì per riflettere sul tema delle migrazioni è un’operazione essenziale, che il Comitato 3 Ottobre porta avanti ormai da 5 anni con la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”, in programma anche quest’anno con una 3 giorni (1-3 ottobre) di eventi a Lampedusa, nella quale, come ricorda Tareke Brhane, presidente del Comitato, «non basta piangere quei morti, c’è bisogno di sensibilizzare società civile e istituzioni sul tema della migrazione». E Tareke non è una voce neutra in materia. Eritreo, rifugiato in Italia dal 2005 («sono arrivato qui sui barconi anche io» ricorda), con esperienze da mediatore culturale per diverse associazioni (nonché medaglia per l’attivismo sociale 2014), assieme al Comitato ha realizzato un fitto programma di eventi per la 3 giorni, fatto di workshop tematici, tavole rotonde e una marcia in ricordo delle vittime. Coinvolgendo rifugiati, associazioni impegnate in prima linea sul tema delle migrazioni (Amnesty, Msf, Save the children, Unhcr, Dac – Diritti al cuore onlus, la lista è molto lunga) ma soprattutto le scuole, con studenti e insegnanti provenienti da tutt’Italia e non solo. Studenti e insegnanti che proprio il 2 ottobre saranno impegnati in incontri curati dalle Ong per approfondire i diversi aspetti del fenomeno migratorio.

«Abbiamo sempre cercato di investire nei giovani – racconta Tareke – anche perché, per quella che è la nostra esperienza, una parte di loro, parlando di migrazione, non sa bene di cosa si tratta. E dall’ignoranza può nascere l’indifferenza o peggio ancora il razzismo. I giovani sono il futuro. Per questo è importante dialogare con loro». E i loro in questione sono studenti di 16-18 anni, provenienti da scuole di tutt’Italia (14 istituti presenti) ma anche dalla Francia. Dialogare con i studenti quindi, ma anche coinvolgerli in tutto il programma della manifestazione, compresa quella tavola rotonda dove, oltre a rifugiati, esperti del settore delle varie associazioni e rappresentati istituzionali, ci saranno appunto anche insegnati e studenti. «Che avranno voce su tutto – prosegue Tareke – perché il nostro obiettivo è quello di metterli nella condizione di capire e approfondire i vari argomenti. E, da parte nostra, essere pronti ad ascoltarli e a rispondere alle loro domande».

Lavoro di coinvolgimento e ascolto dei giovani che, chiediamo, può essere considerato come un antidoto rispetto a episodi di razzismo sempre più frequenti? «Assolutamente si – risponde – e lo abbiamo visto anche dalle reazioni dei ragazzi. Quando ci fu la questione dell’Aquarius, tante di quelle scuole che erano state da noi tornarono a Lampedusa per protestare, conobbero alcuni rifugiati e rimasero in contatto con loro. Esperienza che, oltretutto, gli ha permesso di aprire gli occhi su una realtà che spesso non viene raccontata come si deve». Realtà che è ben conosciuta dalle tante associazioni che saranno presenti a Lampedusa per gli eventi della Giornata e che vedranno poi nella tavola rotonda un momento per fare rete tra loro.

«Noi affrontiamo il tema della migrazione a 360 gradi – spiega Tareke – coinvolgendo associazioni, studenti, rifugiati, giornalisti ma anche il governo, di cui negli anni passati c’è stata sempre una presenza durante la Giornata della Memoria. Quest’anno invece ancora non sappiamo se ci sarà qualcuno». Quello stesso governo, autore del Decreto sicurezza e immigrazione sul quale il parere di Tareke è chiaro: «Non si può fare la guerra a persone abituate a subire minacce o che provengono loro stesse da guerre. Ci vogliono soluzioni a lungo termine che coinvolgano anche i rifugiati stessi, per metterli nelle condizioni di dare il loro contributo, solo così riusciremo ad andare avanti. Un po’ come è successo a me. Arrivato anni fa sui barconi ora sono un attivista. Diversamente butteremo solo soldi e risorse senza produrre nessuna sicurezza, anzi, avremo l’esatto contrario». Per evitare il quale, il Comitato 3 Ottobre, oltre ad organizzare l’evento in ricordo della strage del 2013, porta avanti attività per favorire aperture di corridoi umanitari, ingressi legali e sicuri e garantire accoglienza. «Perché – come ricorda Tareke – bisogna mettere in condizione chi arriva di entrare regolarmente». Idee quanto mai attuali e da non dimenticare. Proprio come la strage del 3 ottobre 2013. Ancora (purtroppo) attuale e assolutamente da non dimenticare.

È che vi fa paura, la solidarietà

Un momento della manifestazione in piazza dell'Esquilino a Roma contro l'arresto di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, 2 ottobre 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Assistendo alla buriana sollevata per l’arresto di Mimmo Lucano ne sono ancora più convinto: questi in fondo si vergognano di ciò che sono, della solidarietà che non riescono ad esprimere, delle fobie che provano a rendere potabili trasformandole in strampalati programmi elettorali, della pietas che possono riversare impunemente solo sui gattini, della grettezza dei bassifondi che frequentano per non soffrire di vertigini, della malcelata soddisfazione che provano ogni volta che qualcuno sdogana i loro istinti, della banalizzazione del mondo che gli permette di non dovere elaborare e comprendere e così finiscono per odiare, odiare di cuore con ogni cellula del loro corpo quegli altri a cui viene così naturale essere ciò che per loro è praticamente impossibile.

Svergognati dai loro istinti bassi odiano la solidarietà perché in fondo, anche se non lo ammettono in pubblico, sanno bene la differenza di coraggio che passa tra chi apre le braccia rispetto e chi impugna il fucile: giocano a fare i centurioni ma sono solo sciacalli che escono allo scoperto quando si diffonde l’odore delle carogne. Rovesciano il reale illudendosi di rimanere in piedi: così in pochi giorni passano dal raccontare come medaglie le indagini per sequestro di persona di una nave di poveri diavoli al ritenere infamante vergogna le accuse di troppa disordinata solidarietà.

Frugano tutto il giorno nei cassonetti della cronaca per trovare uno straccio di buonista con qualche ombra da rivendere al mercato del sospetto: vorrebbero dirci che i buoni non sono migliori ma ci guadagnano di nascosto. Solo così riescono a vergognarsi (un po’ meno) di quello che sono.

Se il buono viene colto con le mani nel sacco (anche se, come nel caso di Lucano, è un sacco vuoto che finirà sgonfio) loro si illudono di poter essere quello che sono, condonati da una pace morale che hanno inventato per assolversi.

Vale la pena rileggere Calamandrei quando nel 1956 difese Danilo Dolci: «Questa è la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo».

Buon mercoledì.