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C’è scritto sicurezza, si legge repressione

Italian Interior Minister Matteo Salvini (R) arrives for an EU-Interior Ministers Conference on Security and Migration ?Promoting Partnership and Resilience in Vienna, September 14, 2018. (Photo by HANS PUNZ / APA / AFP) / Austria OUT (Photo credit should read HANS PUNZ/AFP/Getty Images)

Partiamo dalla Val di Susa dove più efficace è stato l’appello al voto utile per i Cinque stelle. Una volta al governo quel partito non solo è ambiguo sul Tav ma i suoi ministri hanno votato come un sol uomo il dl Salvini che, col pretesto della lotta al terrorismo e alle mafie, colpisce «barbari, marginali e ribelli, ossia stranieri, poveri, e quelli che occupano case e centri sociali, un’ossessione per Salvini e le destre», spiega a Left, Livio Pepino, ex magistrato e presidente del Controsservatorio Val Susa.
«Da anni l’alfiere degli Yes Tav, Stefano Esposito, ex senatore Pd, si batteva perché il blocco stradale diventasse reato uguale al sequestro di persona» ricorda Italo Di Sabato, coordinatore di Osservatorio repressione. Ora Salvini lo copia pari pari e, sul solco dei decreti Minniti-Orlando, prosegue la fuga del Paese «dallo Stato sociale allo Stato penale, si utilizza la fabbrica della paura per destrutturare lo Stato di diritto».
Il sedicente governo del “cambiamento” copia il Pd che a sua volta copiava il Pdl che peggiorava certe malefatte dell’Ulivo compiute “perché se no avrebbe vinto Berlusconi”. Così il dl Salvini, oltre a premere in generale sulla condizione migrante, criminalizza le occupazioni, arma di Taser le polizie municipali (nelle città con più di 100mila abitanti), estende il Daspo urbano di Minniti anche alle aree di fiere e presidi sanitari (per colpire senzatetto, tossici, trans e disagiati psichici) e ripenalizza…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola fino all’11 ottobre 2018


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«Comunque vada torneremo nella nostra terra»

TO GO WITH AFP STORY BY RANA MOUSSAOUI An elderly Palestinian refugee holds his old ID card in the Shatila refugee camp in the southern suburbs of Beirut on September 22, 2011 as some 300,000 refugees in Lebanon will be watching Palestinian president Mahmoud Abbas make a historic bid for statehood at the United Nations in New York, a move the United States has threatened to veto. AFP PHOTO/STR (Photo credit should read -/AFP/Getty Images)

«Il ricordo fa male, eppure non dimentico. Avevo 17 anni quando hanno ucciso mio padre e i miei fratelli». A distanza di 36 anni dal massacro avvenuto nel campo profughi palestinesi di Sabra e Shatila (Beirut), Nuhad ricorda ogni singolo dettaglio: «Di quelle pallottole sento ancora oggi il rumore. Sono viva solo perché ho finto di essere morta. Rimasi stesa per un po’ sul pavimento. Poi, quando tutto sembrò più calmo, uscii da casa e mi accorsi che avevano sparato anche ai vicini». Nuhad, oggi 53enne e madre orgogliosa di figli iscritti all’università, trema come un uccellino mentre racconta quei tragici momenti. Si prende delle piccole pause, la voce è di tanto in tanto distorta da un principio di pianto, ma niente può fermare la sua voglia di narrare. Raccontare vuol dire dare voce a chi, diversamente da lei, in quei giorni non ce l’ha fatta a sopravvivere. La pace nasce dalla giustizia, ma non c’è giustizia se non si ricorda, sembra dirci. Incontriamo Nuhad in un piazzale di Shatila dove una grossa lapide ricorda i tremila palestinesi massacrati tra il 16 e il 18 settembre dalla violenza cieca dei Falangisti di Elie Hobeika sostenuti dagli israeliani (secondo Tel Aviv e alcune fonti libanesi i morti sarebbero però tra i 300 e gli 800). Vicino a lei un uomo anziano vaga: «Mio figlio è ancora vivo – dice, indicando la foto di un giovane su un quadernone che ha in mano – solo che è scomparso quel giorno». Storie di ordinaria sofferenza di Shatila, un inferno in terra, emblema delle ingiustizie subite dal popolo palestinese da oltre 70 anni. Situato nella parte sud-occidentale di Beirut, il campo si estende su un fazzoletto di terra di un chilometro quadrato: una superficie che, come per tutti gli altri campi, deve rimanere tale seconda la legislazione libanese. Poco importa che…

Un paese di Calabria, visione gratuita per sostenere il modello di Riace

In un paese calabrese svuotato dall’emigrazione, è nata un’utopia. Riace ha deciso di accogliere i migranti che sbarcano sulle coste italiane. Oggi le case abbandonate sono di nuovo abitate e nel paese è tornata la vita.

In seguito all’arresto di Domenico Lucano, le registe e le produttrici di “Un paese di Calabria”, Shu Aiello, Catherine Catella, hanno deciso di condividere la loro visione di Riace per sostenere l’importanza del modello di accoglienza messo in atto dal sindaco e dai suoi concittadini, oltre che per proporre una riflessione sui cicli migratori. Denunciamo la criminalizzazione degli atti di solidarietà e accoglienza dei rifugiati in Italia, in Francia ed ovunque in Europa.

 

 

“Un Paese di Calabria” di Shu Aiello e Catherine Catella from BoFilm on Vimeo.

Yanis Varoufakis: «Ecco come il mio DiEM25 si prepara alle europee»

ATHENS, GREECE - MAY 1: Former Greek Finance Minister Yanis Varoufakis (C) takes part in a rally during May Day celebrations in Athens, Greece, on 01 May 2018. (Photo by Ayhan Mehmet/Anadolu Agency/Getty Images)

Di certo, ha le idee chiare: «Va costruita un’autentica unità sulla base di un programma paneuropeo comune scongiurando cartelli politicisti o coalizioni Frankenstein; abbiamo un dovere storico, dobbiamo realizzare un nuovo soggetto, credibile e maggioritario, in vista delle Europee 2019». Yanis Varoufakis si aggira per il vecchio continente per costruire quel che definisce un programma alternativo, transnazionale e progressista. Stringe accordi ed alleanze per allargare il fronte del cambiamento. Lo scorso 20 agosto ad Edimburgo ha incontrato il leader laburista, Jeremy Corbyn, dove ha illustrato il suo piano per non lasciare l’Europa nelle mani dei nazionalisti e delle nuove destre. Un terzo spazio: né con Maastricht, né con Visegrad.
Questa Europa ha imboccato un vicolo cieco, veramente si può ancora cambiare rotta?
L’austerità è uno strumento per condurre una guerra di classe contro la maggioranza dei cittadini. E questo discorso vale per ogni Paese europeo, compresa la Germania. Una guerra di classe che genera quel malcontento che, in assenza di un’alternativa programmatica coerente di sinistra, alimenta come reazione i mostri della destra xenofoba, come Salvini in Italia.
E in questa missione Corbyn è un suo alleato?
Sicuramente, Corbyn è un alleato chiave in questo progetto nel Regno Unito, mentre Bernie Sanders è un alleato chiave nelle Americhe.
Al momento, però, di fronte al crollo di questa Europa, gli unici a rafforzarsi sono i populisti xenofobi. Di recente lei ha detto che «Salvini… 

L’intervista di Giacomo Russo Spena a Yanis varoufakis prosegue su Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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Quei profughi in ostaggio della propaganda di governo

Migrants stand aboard the Italian Coast Guard ship Diciotti, moored at the Catania harbor, Tuesday, Aug. 21, 2018. One and seventy-seven migrants rescued at sea remained aboard the Italian Coast Guard ship Diciotti Tuesday morning as the Italian government refused to let them disembark in the port of Catania until other European countries agree to take them.The Diciotti arrived in the port of Catania late Monday night after spending days off the Italian coast as the Italian and Maltese government bickered over where they will be taken. (AP Photo/Salvatore Cavalli)

Amina non sapeva cosa le avrebbe riservato quel viaggio. In cerca di una possibilità, di una vita diversa, di un futuro, parte nel 2015 dall’Eritrea. Vuole raggiungere il nord Europa. E lasciarsi indietro il suo Paese, fatto di torture per chiunque osi opporsi al regime, povertà, leva obbligatoria anche per le donne, mancanza di prospettive. Amina (per tutelarne l’incolumità il nome è di fantasia, a differenza della triste e realissima vicenda) è una dei 150 migranti che il governo giallonero ha tenuto per dieci giorni in ostaggio a bordo della nave Diciotti della Guardia costiera, ad agosto. Centocinquanta esseri umani in gravi condizioni fisiche e psicologiche, ridotti a pedine nella scacchiera politica del ministro dell’Interno, manovrati per tentare di vincere la partita con l’Ue sulle ricollocazioni (partita rapidamente persa) e apparire vittoriosi di fronte al proprio elettorato. Incassare consensi sulla pelle delle persone.
«Sapete dove andranno? Alcuni degli immigrati, ed è un risultato miracoloso che non si è mai visto in venti anni, vanno in Albania» sbraitava Salvini di fronte ai fan in visibilio a Pinzolo. Nel frattempo il suo spin doctor, onnipresente sui social, Luca Morisi, twittava: «Caso Diciotti risolto da Salvini. Gli immigrati saranno portati in un centro a Messina, e poi cominceranno le operazioni di distribuzione che coinvolgeranno anche…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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Tu non lo sai ma lavori gratis

La questione del lavoro gratuito è una faccenda millenaria. Dall’antica sudditanza e subordinazione nel lavoro servile, alla novecentesca accumulazione capitalistica tramite una commistione di lavoro retribuito e gratuito, quasi naturalmente iscritta nel contratto di lavoro salariato, duratura eredità di quella condizione servile, riprendendo i classici studi di Yann Moulier-Boutang (Dalla schiavitù al lavoro salariato, manifestolibri, 2000).
Ma si dovrebbe chiedere alle donne e al millenario furto di lavoro non retribuito che continuano a subire. «Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato». Questo il motto che nel lontano 1975 apre la campagna femminista internazionale in favore del Salario per il lavoro domestico, ad opera di Silvia Federici. Per denunciare come il cuore oscuro del patto maschile tra “i produttori”, il capitale e il lavoro, fosse l’implicito e invisibile sfruttamento del lavoro femminile di cura e riproduzione sociale, all’interno dell’ordine familiare e di un sistema di welfare patriarcale e paternalista. Non a caso, proprio in quegli anni, Ivan Illich parla di “lavoro ombra” (Shadow work, 1981), una formula attuale, come vedremo.
La recente storia del post-fordismo all’italiana ci racconta come, nelle prestazioni lavorative della società della conoscenza, siano le…

L’articolo di Giuseppe Allegri prosegue su Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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L’articolo di Giuseppe Allegri prosegue su Left in edicola


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Il governo della solitudine

La propaganda governativa vuole che si parli del governo. Male o bene non importa. L’essenziale è di mantenere la mente del “popolo” concentrata su di sé e sul nemico da sconfiggere. Una propaganda che fa venire il mal di stomaco. Ogni giorno è peggiore del giorno precedente. Sembra che non ci sia limite all’assurdità di dichiarazioni sempre più stupide e violente a questa escalation senza fine di pensare e dire male degli altri. A leggere certe dichiarazioni e certi commenti viene lo sconforto. Sembra non ci sia più niente da fare per questo Paese. Sembra che la “gente” la pensi effettivamente come il governo. Perché la propaganda vuole farci pensare che tutti la pensano come il governo. Perché si vuole convincere chi legge a pensare di essere solo. Che chi non la pensa come il governo siano in pochi. Si vuole isolare ogni persona che la pensi in modo diverso. E non solo. Dopo la persuasione a pensare di essere soli si deve pensare che sia una colpa pensare diversamente dal governo. La colpa di non essere per il “cambiamento” che il governo sta portando nel Paese.

E forse è anche così. Il governo vuole un “popolo” di persone che evitino di pensare. Evitino di porsi domande perché tanto non serve. Non serve a nulla pensare che un’altra politica sull’immigrazione sia possibile, come dimostra l’esperienza di Mimmo Lucano a Riace. Una politica per la quale vengono prima le persone come peraltro è scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione.

Oggi, dopo l’arresto di Mimmo Lucano, mi chiedo perché non sia mai stata sollevata la questione di incostituzionalità per la legge Bossi-Fini e Turco-Napolitano. E ancora meno riesco a comprendere quale delitto possa aver commesso Lucano per aver favorito o suggerito il matrimonio di persone italiane con persone non italiane.

La cosa significherebbe favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma se questo è il reato allora chiunque aiuti una persona con nazionalità non comunitaria e non in regola con il permesso di soggiorno compie un reato. Chiunque dia da dormire o da mangiare a immigrati irregolari come per esempio l’associazione Baobab Experience, compirebbe un reato. Sono da arrestare anche loro?

Mimmo Lucano andrebbe insignito di una Medaglia al merito della Repubblica per aver fatto del tutto per far si che l’articolo 3 della Costituzione italiana sia applicato a tutte le persone in difficoltà che si trovano sul territorio della Repubblica. La propaganda del governo si nutre di nemici. E quando questi non ci sono vengono costruiti. Se ci sono interlocutori questi vengono accuratamente provocati per farli diventare nemici al più presto. Poi si screditano. E le loro proteste diventeranno la dimostrazione che si era nel giusto ad accusarli. Ma com’è possibile arrivare a pensare così male degli altri? Ogni essere umano ha rapporto con altri esseri umani. Ognuno di noi ha familiari, amici, conoscenti, magari persone che conosciamo tramite i media. Ognuno di noi ha decine o centinaia di conoscenze. Poi ci sono tutti gli altri. Tutti quelli che non conosciamo. Che rapporto abbiamo con chi non conosciamo? O forse è meglio dire, cosa pensiamo di loro?

Certamente sappiamo dell’esistenza di sconosciuti. Magari ci riferiamo a loro classificandoli per la nazionalità o per il colore della pelle o per la professione o per qualunque altra caratteristica. E allora parliamo degli italiani o dei francesi, delle donne o degli uomini, degli europei e dei cinesi, degli scienziati o degli artisti, degli operai e degli immigrati. Cosa pensiamo di tutte quelle persone che non abbiamo mai visto e che certamente non conosceremo mai nella vita? Quali certezze possiamo avere della realtà di quelle persone? Certamente Salvini e quelli come lui pensano che chi non è come loro è pericoloso. Perché pensano che al fondo tutti gli esseri umani siano naturalmente perversi e violenti. Ciò che ci impedirebbe di scannarci per strada è la repressione data dall’educazione e quando serve dalla costrizione degli impulsi violenti. La verità della realtà umana sarebbe la violenza e la sopraffazione dell’altro.

Noi occidentali “educati” dal logos controlliamo la bestialità che è in noi, che invece è sospetta di essere senza controllo in tutti quelli che non sono come noi. Qualunque diversità è pericolosa perché potrebbe significare che il male e la violenza originaria non sono state represse adeguatamente. Ecco perché fa notizia l’immigrato violento. Perché alimenta questa narrazione.

Quel è la “cura” di Salvini & co? È la sopraffazione fisica sull’altro perché rimane l’unica possibilità di rapporto con il “mostro”. Salvini non può vedere che la verità è esattamente l’opposto. Per capirlo basterebbe osservare i bambini. Il pensiero naturale, spontaneo di ogni essere umano è la certezza dell’esistenza di altri esseri umani simili a se stessi con cui avere rapporto. E questo perché c’è un’uguaglianza di fondo che non è per costruzione culturale ma è per nascita (M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza).

La violenza che alcuni esseri umani esprimono si sviluppa in conseguenza di rapporti negativi che si sono vissuti nell’infanzia dopo la nascita. Il bambino che subisce un genitore violento reagirà con un sentimento di odio e di colpa per quell’odio che sente. Si sentirà in colpa per aver perso l’amore per il proprio genitore. Avrà paura di perdere gli affetti e purtroppo, il più delle volte, annullerà se stesso nel tentativo di ritornare alla situazione precedente. Allora tutto passa. Ma la perdita degli affetti è la superficie immobile che nasconde la perdita dell’idea dell’uguaglianza originaria, la perdita della matrice del pensiero che sta alla nascita. Allora l’altro, il diverso, diventa estraneo, nemico, pericolo da tenere lontano da cui diffidare sempre. Perché in quell’individuo non c’è più l’idea di rapporto possibile con l’altro. E quindi il nemico è un’idea che è dentro di sé. Quelli come Salvini pensano degli altri ciò che essi stessi sono. Sono loro in primis le persone che non sanno avere rapporto con gli altri. È il loro pensiero che è violento e sono pericolosi e violenti per questo motivo. Il loro disegno è far sì che il mondo sia uguale a ciò che essi pensano che sia e fare così in modo che gli altri la pensino come loro.

Il motivo? Non sentirsi più soli come sono sempre stati nella loro vita.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 5 ottobre 2018


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Il Paese incivile che non riconosce gli artisti

ROME, ITALY - FEBRUARY 27: Musicians from the lyrics foundations and Italian symphonic demonstrate against the deconstruction of art departments, closure of dance groups and the casualization of all professions working in the musical theater on February 27, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati/Corbis via Getty Images)

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. La Costituzione della Repubblica italiana – Articolo 9

A tutti sono cari gli attori che ci raccontano storie inventate da farle sembrare vere e i musicisti che con il loro tocco o i cantanti che con la loro voce ci trasportano negli spazi emozionali della nostra coscienza. Chi non ha sognato da piccolo di fare grandi scoperte come archeologo o non è rimasto incantato davanti a un dipinto o un mosaico restituiti da un paziente restauro. Eppure è difficile per la maggior parte delle persone pensare che queste figure che migliorano così tanto la nostra vita abbiano studiato e appreso il mestiere che le rende capaci di farlo, che sia necessaria una costante preparazione e soprattutto che sia un vero e proprio lavoro. Il primo a non pensarlo è proprio lo Stato italiano, che non considera queste figure come dei lavoratori, evitando di tutelarli con leggi dedicate che garantiscano dignità, diritti e welfare proprio come per tutti gli altri lavoratori.

Il maggior riformista in questo ambito è stato il ministro Franceschini nel passato governo, che dopo decenni ha messo mano a una legge sul cinema e a un codice sullo spettacolo. Poteva essere l’occasione di colmare un vuoto giuridico e legislativo che perdura da sempre: gli attori in Italia non hanno neanche un Contratto nazionale per l’audiovisivo, lavorano alla mercé delle produzioni. Non è stato così. Non solo nelle leggi non è fatta parola su come tutelare questi lavoratori (attori, musicisti, cantanti) essenziali perché ci possa essere teatro, musica, cinema, ma si è sfasciato anche il già precario sistema teatrale costringendo i teatri, per rientrare nei parametri necessari a ricevere il contributo pubblico, a produrre di più con minori finanziamenti. Indovinate chi paga le conseguenze di tutto questo, conseguenze occupazionali, salariali, previdenziali? Gli artisti.

Come può una legge che regolamenta e promuove l’industria culturale non fare cenno ai suoi maggiori protagonisti, non preoccuparsi di come vivono e a quali condizioni sono costretti a prestare la loro opera questi lavoratori? Come può non parlare mai di noi?

Sì, siamo gli attori e le attrici che hanno smesso di subire in silenzio e lottano, perché uno Stato che non difende i suoi artisti non è un Paese civile. Siamo tutti professionisti, ci siamo uniti e ci siamo chiamati Facciamolaconta, 1.240 attori in controtendenza con un sistema che ci vuole spaventati, ricattati e individualisti poiché abituati a “cavarsela da soli”, che insieme ai lavoratori dei beni culturali Mi riconosci? e ai Comitati lirico sinfonici hanno indetto la prima grande “Manifestazione per la cultura e il lavoro – In difesa dell’articolo 9”. La cultura è un tessuto vivo e variegato, opera superspecializzata di alcune categorie di lavoratori che – è bene che tutti sappiano – lo Stato italiano non sempre riconosce come lavoratori e che quindi non hanno nessuna tutela e nessun diritto.

Per questo ci troveremo tutti in piazza il 6 ottobre a Roma. Non è mai successo. Questa è la novità. I lavoratori dei beni culturali e dello spettacolo marceranno insieme per il diritto alla cultura e al lavoro. E a noi si sono uniti anche realtà sindacali, politiche, e una moltitudine di associazioni di categoria. Tutti insieme. Finalmente. Ma è solo l’inizio.

 

*Facciamolaconta riunisce un gruppo di attori e attrici, che si è liberamente costituito per presentare alle istituzioni richieste di tutela che riconoscano la centralità della loro professione, i loro diritti e tutele. 

L’articolo di Facciamolaconta è tratto da Left in edicola dal 5 ototbre 2018


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L’eccidio nazifascista di Monte Sole, tra storia e attualità

Un momento delle celebrazioni per la ricorrenza del 25 aprile a San Martino di Monte Sole (Bologna), sulle colline di Marzabotto, 25 aprile 2014. ANSA/ GIORGIO BENVENUTI

«In realtà non ricordiamo nulla. Troppi edifici sono crollati, troppe macerie si sono accumulate, insormontabili sono i sedimenti e le morene». Il tedesco Winfried Georg Sebald è stato uno dei massimi scrittori contemporanei ad interrogarsi sull’identità culturale dell’Europa cercando, con il suo peregrinare fisico e ideale, il denominatore comune del Vecchio continente. La risposta non è affatto rassicurante: le radici europee affondano nella crudeltà e nel ripetersi di una violenza secolare, il cui culmine è stato raggiunto durante la Seconda guerra mondiale e della quale lo scrittore serberà per tutta la vita la ferita influenzandone l’opera.

Le macerie, gli edifici crollati e la violenza feroce sono da Sebald in parte immaginati ed evocati, diventando suggestioni sulla scia delle quali riflettere sulla natura umana. A Monte Sole, zona appenninica vicino a Bologna, furono ferocemente reali. Uccisioni, incendi, rastrellamenti, decapitazioni. Donne e bambini impalati. Sono i giorni che vanno dal 29 settembre al 5 ottobre del 1944, e la tremenda carneficina è quella comunemente conosciuta come la strage di Marzabotto.

A scavare nella memoria individuale e collettiva è ancora una volta la compagnia teatrale Archivio Zeta che organizza, al Parco storico di Monte Sole nell’anniversario della strage, una tre giorni – dal 5 al 7 ottobre – dedicata al recupero della dimensione storica, umana e letteraria del ricordo quale necessario strumento di educazione e coscienza civica.

«Della strage di Marzabotto si conosce quasi tutto, del massacro di Monte Sole relativamente poco. Sembra un paradosso, perché si parla della stessa cosa: la cosiddetta strage di Marzabotto non è che la somma di tanti massacri, in 115 luoghi distinti e per un totale di circa 770 civili uccisi nel territorio sotto Monte Sole in tre comuni a sud di Bologna, Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, commessi dai reparti tedeschi della XVI divisione granatieri» precisa Luca Baldissara, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e autore, con il collega Paolo Pezzino, del libro Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole (Edizioni Il Mulino, 2009). «Recuperare la memoria del luogo nel suo insieme è particolarmente importante per restituire la giusta dimensione all’evento stragista – spiega Baldissara – perché solo così è possibile comprenderne la natura, una scelta razionale finalizzata a punire e sterminare i civili e non una violenza senza senso». Non c’è dunque niente di disumano, la violenza a Monte Sole fu tragicamente umana. Cosciente e deliberata. Se il male è banale, la violenza è razionale.

Baldissara sottolinea l’aspetto deliberato della strage: «Monte Sole è stato il più feroce eccidio nazista, simile a Sant’Anna di Stazzema perché si ravvisa la stessa logica del terrore accompagnata dalla volontà di mettere in sicurezza un territorio vicino alla linea Gotica, ma la differenza è nella tipologia e nella dimensione della zona interessata: Monte Sole è un territorio molto più ampio, 115 località distinte nell’Appennino tosco-emiliano, e la filosofia dei reparti tedeschi era quella di distruggere e incendiare tutto per lasciarsi alle spalle una terra di nessuno. Furono uccisi anche gli animali da cortile». Una violenza razionale e antica, che affonda le radici nella storia dell’Europa: «Il nazismo non si è inventato alcunché, ha ereditato il codice culturale violento della nostra storia lungo un secolo e mezzo, da Napoleone alla Prima guerra mondiale fino alle guerre coloniali. I grandi eserciti hanno sempre cercato di vincere le guerre contrastando la guerriglia e le resistenze con la tecnica del terrore e della distruzione. Monte Sole è un esempio della storia europea».

La cifra letteraria di Sebald, la violenza quale elemento comune dell’Europa, è dunque non solo un’intuizione narrativa ma un fatto storico. «Monte Sole è una delle espressioni più cruente della nostra storia, – aggiunge il professore – ma il modus operandi utilizzato dall’esercito nazista, contrastare la resistenza dei civili con la distruzione sistematica, è stato replicato anche dopo la Seconda guerra mondiale: in Indocina e in Algeria dall’esercito francese, in Vietnam dagli americani, e in certe modalità anche dall’esercito israeliano nei territori occupati della Palestina». La storia, dunque, non insegna? «La storia ci può aiutare a comprendere, insegnando semmai quanto sia necessario e indispensabile un continuo lavoro di educazione in direzione opposta alla violenza, per la costruzione di una coscienza civica dei cittadini».

«Nella tre giorni del nostro seminario a Monte Sole – spiegano Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta – cercheremo di indagare il concetto di violenza, non solo quella perpetrata durante il periodo nazifascista ma anche successivamente, per far sì che Monte Sole possa essere un luogo che accoglie una riflessione di lungo periodo sulla storia coloniale dell’Europa tenendo come filo conduttore l’opera di Joseph Conrad Cuore di tenebra. Nel pomeriggio dell’ultimo giorno infine, domenica 7 ottobre, il seminario si aprirà ad un percorso sui luoghi degli eccidi, con una passeggiata alla maniera di Winfried Georg Sebald».

L’Europa smarrita dei nostri giorni dovrebbe, forse, ripartire da qui.

Che buio a Verona

Uno striscione con la scritta 194 (in riferimento alla Legge 194) durante una manifestazione a Napoli, in una immagine di archivio. La legge 194 sull'aborto arriva all'esame della Corte Costituzionale, che il 20 giugno esaminerà la legittimità dell'art.4 sulle circostanze che legittimano l'interruzione di gravidanza. Alla Consulta si è rivolto un giudice tutelare di Spoleto dopo la richiesta di una sedicenne di abortire senza coinvolgere i genitori. ANSA/CIRO FUSCO

Da ieri Verona è ufficialmente “città a favore della vita”: in consiglio comunale è passata la mozione 434 pensata per il quarantesimo anniversario della legge 194.

Un conato di oscurantismo e caccia alle streghe che in sostanza decide di finanziare con soldi pubblici alcune associazioni cattoliche (a scopo di lucro) che si battono contro l’aborto. Una mozione che segna di fatto un ritorno al medioevo, sia per come è stata pensata e scritta e sia per il suo senso politico: si basa su fonti più che discutibili (come quella sugli aborti clandestini che essendo clandestini viene difficile pensare che sia possibile quantificare) fino al riferimento all’interruzione di gravidanza come pratica contraccettiva passando per le “uccisioni nascoste prodotte dalle pillole abortive”.

Un testo immondo (lo trovate qui) che non vale nemmeno la pena citare troppo, rischiando di portarlo in superficie.

Non stupisce però che tutto questo accada a Verona: la patria di Tosi e dei fascismi di ritorno già da tempo ha inforcato la strada della negazione dei diritti come tratto distintivo. Chi non sa immaginarne di nuovi del resto non ha di meglio da fare che farsi notare togliendo i diritti esistenti.

Non stupisce nemmeno che la mozione sia passata: la destra anche a Verona va a gonfie vele.

Alla mozione si è opposta la declinazione locale del movimento Non una di meno. Hanno provato in tutti i modi (leciti) a parlarne e farne parlare.

Da fuori verrebbe da pensare che anche questa battaglia, seppur locale, possa essere un’occasione per l’opposizione.

L’opposizione. Già.

La capogruppo del partito democratico Carla Padovani (quella che nel 2012 era uscita dal Pd per andare nell’Udc perché in disaccordo con le unioni civili per poi tornarci) ha votato a favore.

Scrive Non Una di Meno Verona: “Inoltre la maggioranza ha cercato, senza successo, di far mettere all’ordine del giorno l’altra mozione che prevede la sepoltura automatica dei feti abortiti anche contro la volontà della donna coinvolta”.

Ma non preoccupatevi: c’è tempo per scivolare verso l’abisso.

Buon venerdì.