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La destra e la nostalgia del manicomio

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini durante la visita nell'azienda agricola confiscata nel 2007 alla mafia, a Suvignano (Siena), 3 luglio 2018. ANSA/FABIO DI PIETRO

L’Istat ha pubblicato il Rapporto sulla salute mentale relativo agli anni 2015-2017. Ciò che colpisce, alla luce del dibattito in corso sulla legge 180 nel quarantennale della sua entrata in vigore, è come in Italia esistano delle profonde differenze nei percorsi di cura della salute mentale da regione a regione. A variare è soprattutto sono i percorsi di cura che avvengono dopo le dimissioni da ricoveri per disturbi psichici. Nelle regioni del nord solo il 67,4% delle dimissioni avviene a domicilio contro 87,9% del centro e 87% del mezzogiorno. Questo perché nel nord il percorso residenziale alternativo al domicilio viene indirizzato maggiormente verso strutture residenziali rispetto al centro e al sud. Allo stesso modo esistono differenze significative a livello regionale nella distribuzione delle risorse destinate alla salute mentale. Vi sono regioni che utilizzano i fondi per potenziare maggiormente le strutture residenziali rispetto ad altre che invece privilegiano l’assistenza ambulatoriale e domiciliare.

Questi dati ripropongono quello che è stato uno dei problemi della legge 180/78 fin dall’inizio ovvero essere una legge quadro che lasciava alle Regioni discrezionalità sulla sua attuazione senza analizzare il problema delle risorse e dei finanziamenti creando, soprattutto all’inizio della sua attuazione, un enorme vuoto assistenziale. Uno degli argomenti più diffusi, a difesa della legge 180, è che i problemi non vengono dai contenuti ma dalla sua mancata applicazione. In realtà nella legge, nata da un compromesso storico fra Democrazia cristiana e sinistra, non è mai stato previsto quali fossero i modi e le risorse con cui si dovessero superare (giustamente) i manicomi proprio perché l’ideologia che vi era alla base stabiliva che bastasse de-istituzionalizzare per superare il problema della cronicità della malattia mentale. Non vi era nessuna ricerca sulla malattia mentale e sulla realtà psichica. Non solo le famiglie ma anche gli operatori vennero lasciati soli nel momento del passaggio dall’attività manicomiale a quella del territorio.

Questo vuoto di ricerca è quello che espone il fianco di coloro che da destra criticano l’impostazione della legge con il rischio di tornare così a una concezione custodialistica e basata sull’assunto della pericolosità sociale del malato. Storicamente tutte le rivoluzioni basate su presupposti ideologici e razionali sono state incapaci di proporre una trasformazione radicale della realtà umana e, conseguentemente hanno aperto la strada a restaurazioni violente come insegna la storia dell’Ottocento e del Novecento. Oggi la destra può governare senza idee riproponendo come nuovo la nostalgia e un paradossale ritorno al passato poiché la sinistra in Italia vive, ormai da decenni, una profondissima crisi di identità e sembra non aver più nulla da proporre neppure sul piano del riformismo.

Una politica che aspiri ad affrontare in modo radicale il problema della diseguaglianza e della giustizia sociale, drammaticamente riproposto dai fenomeni migratori in questo momento storico, è inevitabile che faccia riferimento ad una nuova antropologia che nasca dal superamento delle vecchie ideologie derivando da una ricerca sulla realtà umana considerata anche nei suoi aspetti irrazionali. È necessario in campo politico la proposizione di un nuovo paradigma culturale e scientifico che parta dall’affermazione dell’esistenza di una nuova psichiatria. Quest’ultima ha avuto inizio all’inizio degli anni Sessanta quando Massimo Fagioli si traferì nell’ospedale psichiatrico di Padova per lavorare sotto la direzione dello psicopatologo Ferdinando Barison: così facendo egli espresse un rifiuto nei confronti del manicomio lager di Venezia e del positivismo ottocentesco che ancora, in quella sede lagunare si basava sullo studio al microscopio di sezioni del tessuto cerebrale.

L’esperienza di Fagioli all’interno dell’ospedale padovano fu incentrata sulla psicoterapia di gruppo e su di un metodo terapeutico che permetteva di pensare che la segregazione manicomiale potesse essere superata, abbattendo recinti e reti di contenzione, facendo uscire all’esterno, senza incidenti, ancor prima di quanto avvenisse a Gorizia con Basaglia, interi gruppi di pazienti grazie alla fiducia e al rapporto che con loro si era stabilito. Fagioli non credeva comunque che la terapia fosse una semplice prassi di “liberazione” dall’oppressione istituzionale come suggerivano gli studi sociologici e la filosofia sartriana di quel tempo. Egli a Padova condusse una fondamentale ricerca sulla percezione delirante che gli apri la strada, anni dopo, alla comprensione della dinamica non cosciente, la pulsione di annullamento alla base della malattia mentale. Recatosi in Svizzera, a Kreuzlingen sul lago di Costanza a lavorare presso la famosa clinica Bellevue di Ludwig Binswanger, Fagioli scoprì che quest’ultimo era molto interessato a scrivere, a proporre elaborazioni filosofiche coltissime basate su Heidegger e Husserl anche se coscienti e astratte, e molto poco alla clinica. Invece la prassi del lavoro terapeutico di Fagioli con l’attenzione costantemente rivolta verso le dinamiche non coscienti lo portò a rifiutare l’idea ottocentesca, basata su di un razionalismo rozzo, che il manicomio inteso come spazio architettonico, come luogo potesse essere efficace per la cura. Giunse così a una messa in discussione radicale di quel pensiero che, più subdolamente delle camicie di forza, toglieva ogni speranza di comprensione della malattia mentale.

Fagioli aveva individuato il nucleo generatore non cosciente della patologia psichica che egli riconosceva nei vissuti dei pazienti ma le cui manifestazioni potevano essere individuate anche nella religione, nell’arte, nella filosofia e più in generale nella cultura. Con l’esperienza dell’Analisi collettiva, che ha coinvolto per più di quarant’anni decine di migliaia di persone in una prassi di terapia di formazione e di ricerca che si è svolta al di fuori dei quadri istituzionali conosciuti, lo psichiatra marchigiano ci ha lasciato un patrimonio di idee, di intuizioni, di analisi molte delle quali ancora tutte da sviluppare. Voler ridurre oggi il dibattito sulla psichiatria a un confronto sterile fra le ideologie dei basagliani e le critiche dei neocustodialisti, nostalgici del manicomio più o meno mascherati, che ripropongono un “luogo della cura” cavalcando il populismo di Salvini, sarebbe un drammatico regresso un tradimento dell’enorme ricchezza che la psichiatria grazie all’originale pratica dell’Analisi collettiva ha acquisito e ci mette a disposizione. Il “luogo della cura”, evocato dalla proposta di legge della senatrice leghista Marin, esplicitamente fa riferimento ad una frase di Ronald Laing, noto per aver utilizzato in ambito psicoterapico l’Lsd e l’ecstasy, ma implicitamente rimanda a Jean-Étienne Dominique Esquirol. Quest’ultimo progettò a Parigi, in collaborazione con l’architetto Émile Gilbert, la ristrutturazione a scopi terapeutici de l’asile de Charenton secondo uno stile razionalista neoclassico. Il luogo in se stesso, le mura, per l’imponenza della costruzione sarebbero state funzionali, secondo l’alienista francese, alla cura contribuendo a ricondurre la ragione dei malati nel giusto alveo. Le critiche di Massimo Fagioli a Franco Basaglia, che lui conosceva bene, affondavano le proprie radici nella sua esperienza quotidiana di confronto con la malattia mentale, nell’elaborazione continua attraverso la scrittura e la creazione di immagini artistiche alle quali l’autore di Istinto di morte e conoscenza non ha rinunciato fino agli ultimi giorni della sua vita. Egli rifiutava le contrapposizioni ideologiche le formule astratte, le scorciatoie dei saperi filosofici, le furbizie criminali dei politici che nascondono troppo spesso l’intenzionalità di accecare gli uomini piuttosto che proporre una effettiva conoscenza.

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Francesco Fargnoli è dirigente medico psichiatra presso il Servizio di Salute Mentale USL7 di Siena

L’articolo di Francesco Fargnoli è stato pubblicato su Left del 10 agosto 2018


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La salute mentale non ha colore

epa07077791 Some of the 97 migrants disembarking at the Armed Forces of Malta maritime base at Hay Wharf, in Floriana, Malta, 07 October 2018. The migrants were rescued at sea and brought to Malta after their inflatable dinghy took on water within Malta's Search and Rescue Region. EPA/DOMENIC AQUILINA

Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta, che lavora presso un Centro di salute mentale della Asl Roma 4, e collabora con il centro SaMiFo (Salute migranti forzati) della Asl Roma 1. Poiché da anni si occupa di salute mentale di richiedenti protezione internazionale e rifugiati, le abbiamo rivolto alcune domande, per capire in che modo un Paese ospite dovrebbe porsi nei confronti degli immigrati per garantir loro il diritto all’accoglienza e l’integrazione nel tessuto sociale.

Qual è il disturbo riscontrato più di frequente in un migrante nel momento in cui riesce ad arrivare a destinazione?

Gli studi sui disturbi mentali dei migranti sono poco affidabili, poiché la definizione di “migranti”, essendo molto vasta, è difficilmente indagabile. Fanno parte di tale categoria tutti coloro che si spostano dal proprio Paese per andare a vivere in un altro luogo, per qualsiasi motivo, dagli italiani che vanno a Londra a coloro che giungono in Europa su imbarcazioni di fortuna. E ciò con le più svariate motivazioni migratorie: lavoro, studio, o guerre, persecuzioni, fame. Tra coloro che migrano in Italia, provenendo da luoghi con culture molto diverse dalla nostra, sono frequenti disturbi dell’adattamento. Ciò può essere legato all’impatto con la nostra società, con costumi, usanze, ma anche modi diversi di vivere le relazioni sociali e gli scambi con gli altri esseri umani. Nell’esperienza clinica con richiedenti e titolari di protezione internazionale, categoria invece più definita, la patologia più frequentemente riscontrabile è senza dubbio il disturbo da stress post-traumatico, che in letteratura ha una prevalenza venti volte superiore rispetto alla popolazione generale. In passato questa patologia era considerata la conseguenza diretta di eventi traumatici importanti (ad esempio violenze subite, rischio di morte propria o altrui), invece nell’ultimo decennio è stato osservato che può essere causata anche da piccoli stressors ripetuti nel tempo. Tutto questo ci fa riflettere sulla responsabilità del Paese di arrivo nel mantenere, o persino causare, i problemi di salute mentale degli immigrati, già messi alla prova dall’esperienza migratoria.

Da cosa non dovrebbe prescindere l’“accoglienza” per potesi definire tale?

Queste persone arrivano da noi con aspettative più o meno realistiche: avere una vita migliore, un lavoro, un posto nella nostra società. Spesso queste aspettative vengono deluse. In Italia l’accoglienza è basata principalmente sui bisogni materiali (cibo, acqua, un tetto, vestiti) fondamentali da soddisfare, ma è molto carente per quanto riguarda la considerazione delle esigenze umane. Ognuno di noi si caratterizza per avere una tendenza naturale alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Questo rapporto non è basato sull’utile, come le formiche che si organizzano per accumulare cibo per l’inverno, bensì sull’inutile, ad esempio ascoltare un concerto, dipingere un quadro, fare tardi con un amico che è triste, anche se il giorno dopo ci si deve svegliare presto. Questa tendenza alla realizzazione di se stessi nel rapporto con gli altri, è anche alla base delle scelte irrazionali di chi giunge da Paesi lontani. Già prima di partire alcuni sono consapevoli che durante il viaggio rischiano di subire violenze o morire, ma non gli interessa. Cercano qualcosa che non sanno spiegare, e la tendenza a seguire questa spinta interna è troppo forte: è un’esigenza. Arrivando da noi, salvo rare eccellenze nell’accoglienza, si trovano sbarrata la possibilità di seguire questa spinta. Pensando solo alla soddisfazione dei bisogni, si arriva addirittura a mettere in discussione l’esistenza stessa delle loro esigenze. Così, considerandoli alla stregua di animali, che appunto non hanno esigenze, vengono privati della loro umanità. Quindi possiamo pensare che un Paese che vuole accogliere, non può prescindere dal riconoscere un’identità umana ai migranti. Cosa niente affatto scontata negli ultimi tempi.

Il razzismo, l’odio e la negazione del ruolo sociale degli stranieri possono essere cause patogene e perché?

I richiedenti protezione internazionale sono persone che hanno subìto violenze. Una donna irachena ha perso il fratello per aver denunciato i membri di un gruppo terroristico. Un ragazzo bengalese è stato ridotto in fin di vita, perché si è ribellato a un matrimonio combinato. In Libia tutti subiscono arresti e violenze di ogni genere. Inoltre, fino al 2016, chi arrivava in Libia e si imbarcava per l’Europa, in caso di naufragio aveva buone possibilità di essere salvato dalle navi delle Ong e trasportato in un porto sicuro, nel rispetto delle leggi internazionali che regolano il diritto alla protezione.

Questo non accade più, per via del Codice di condotta imposto alle Ong da Minniti nel 2017 e, più di recente, per la chiusura dei porti decisa da Salvini e Toninelli.

Quando sentiamo che una nave italiana soccorre 108 migranti e li porta nel porto di Tripoli, rimaniamo attoniti. Queste persone, dopo aver subìto quello che abbiamo detto, stanno per arrivare su una terra che immaginano sicura e accogliente, ma vengono riportati, dagli stessi cittadini di quella terra, nelle mani dei carnefici! Un’azione del genere, mettendo intenzionalmente e consapevolmente a rischio la sopravvivenza delle persone, costituisce una chiara violazione del diritto alla protezione internazionale. Dopo quanto detto sulle aspettative deluse, si comprenderà come questa condotta sia estremamente distruttiva, anche dal punto di vista della salute mentale. Tale atto è una violazione dei diritti umani a 360 gradi, compreso il diritto alla salute, definito dall’Oms come «uno stato complessivo di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattie o infermità». Le violenze, subite fin qui per mano di altri esseri umani, possono determinare nel migrante la perdita di quella fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri. Poi il confronto con episodi di violenza, psichica o fisica, di natura razzista, che accadono qui da noi, rende ancora più profondi la diffidenza e il distacco dagli altri, determinando un isolamento sempre maggiore e la sfiducia completa proprio verso quel Paese, il nostro, immaginato come salvifico. Per questo lo psichiatra che cura queste persone è messo alla prova nel dover dimostrare continuamente di meritare la loro fiducia.

In Italia vivono oltre 5 milioni di stranieri, tra questi ci sono anche circa 800mila “italiani senza cittadinanza”. Giovani figli di immigrati che qui sono cresciuti, hanno studiato, etc. Perché l’“altro”, in alcuni individui, provoca reazioni disumane?

Qui dobbiamo sottolineare che i media, così come i politici, che sarebbero tenuti a fare i dovuti distinguo, mescolano tutto, confondendo migranti, rifugiati, irregolari, braccianti, ex migranti che vivono qui da anni, persone nate qui da genitori stranieri, con o senza cittadinanza. Dando all’uno o all’altro, di volta in volta, l’appellativo più ad effetto sull’opinione pubblica. Questo calderone si basa su un’unica qualità in comune tra queste persone: l’essere stranieri. Questa parola può avere diversi significati. Ci sono persone che possono essere considerate straniere per lingua, cultura, usi e costumi. In questo senso, straniero può avere un valore positivo, portare elementi nuovi a una cultura come la nostra e contribuire a trasformarla, di solito in senso evolutivo. Ma questo non vale per gli “italiani senza cittadinanza”, che sono cresciuti nella nostra società, parlano la nostra lingua, hanno le nostre usanze. In questo caso la parola straniero non ha senso, allora viene usata con il significato, totalmente vuoto, di “colore della pelle diverso”. Gli episodi di razzismo a cui assistiamo ormai tutti i giorni da quando si è insediato questo governo (e da esso appoggiati, quando non causati in modo indiretto), sono basati proprio su questo livello di evidente stupidità. Quello che è successo a Daisy Osakue è l’emblema del contenitore vuoto su cui si fonda il razzismo. Cittadina italiana, atleta, quindi rappresentante dell’Italia nelle competizioni sportive, viene vista da tre “gusci vuoti” solo per il colore della sua pelle, e perciò aggredita.

Che tipo di “pensiero” c’è dietro queste dinamiche?

Qui servirebbe un discorso sulle origini storiche del razzismo, ma sarebbe troppo lungo (per approfondire vedi box a lato, ndr). Mi preme però dire che un pensiero che si basa sul colore degli occhi, dei capelli o della pelle è un discorso senza contenuto, che parla solo della realtà fisica, genetica dell’uomo. Questa è una realtà assodata, è così in ogni continente, abbiamo tutti 23 cromosomi, 2 braccia, 2 gambe e 20 dita (salvo malattie), ma non è la realtà materiale che fa l’identità umana. L’identità umana sta nella realtà non materiale che ci rende diversi dagli animali, che, come dicevo prima, non fanno cose inutili come suonare uno strumento, così come non si innamorano, ma hanno l’estro e si accoppiano al fine di riprodursi. Noi invece, indipendentemente dal colore della pelle, ci divertiamo, siamo tristi, ci arrabbiamo, amiamo e sogniamo. Questo perché abbiamo un’uguaglianza fondamentale nel pensiero non cosciente, irrazionale, diverso dal pensiero razionale che si muove solo per l’utile. Pensiero non cosciente che, come ha scoperto lo psichiatra Fagioli (vedi massimofagioli.com), si crea alla nascita con una dinamica specifica e uguale per tutti gli esseri umani, che porta il neonato ad avere la certezza che esistono altri esseri umani simili a lui con cui avere rapporto, la fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri, di cui dicevamo prima. Le manifestazioni di odio che vediamo ogni giorno, contrariamente a quanto sentiamo dire di solito, parlano della perdita totale di questa realtà irrazionale e del dominio esclusivo della ragione stupida, che vede solo la realtà fisica delle cose.

L’intervista alla psichiatra Rossella Carnevali è tratta da Left del 17 agosto 2018


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Indebitarsi e cercare un capro espiatorio. Incompetenza a 5Stelle

Italian Deputy Premier and Labour and Industry Minister Luigi Di Maio (R) with Italian Deputy Premier and Interior Minister, Matteo Salvini, talks with journalists prior the meeting for the DEF (Economic planning) at Chigi Palace in Rome, Italy, 09 October 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Il M5s è nato e vissuto sull’idea che tutti i mali dell’Italia dipendessero da una classe politica corrotta, autoreferenziale e incapace. Ne conseguiva che la soluzione fosse la sua sostituzione con donne e uomini nuovi, privi di connessione con la storia precedente ed estranei alle logiche tradizionali. L’alleanza con la Lega è figlia di questa impostazione, che prescinde completamente da qualsiasi ragionamento su obiettivi e percorsi condivisi, per concentrarsi esclusivamente sulla storia personale dei protagonisti. Salvini è nuovo, così come il gruppo dirigente che lo circonda, e come tale accettabile come alleato. È chiaro che si tratta di una logica del tutto superficiale, che omette in buona o cattiva fede i legami strutturali che all’interno di un partito di ormai antica fondazione determinano i passaggi da un gruppo dirigente all’altro. Tuttavia questa logica “facciale” funziona e quindi è accettata.

La seconda conseguenza della premessa da cui siamo partiti è che non esistano problemi legati alla scarsità delle risorse, ma solo al loro utilizzo inefficiente da parte della casta. Ricordate? Tutto si poteva realizzare a condizione di tagliare auto blu, vitalizi e stipendi dei parlamentari. Per anni abbiamo sentito ripetere come un mantra questo concetto, che è diventato quasi parte del senso comune. Peccato che fosse totalmente falso, al punto da confondere i milioni con i miliardi. Che succede quando la propaganda si fa senso comune, e il senso comune si scontra con una realtà opposta? Un grande casino.

Ora ci troviamo con un governo ricco di promesse e povero di soldi, in cui il socio di maggioranza ha l’assoluta necessità di ottenere risultati per stare in piedi. Non può imporre nuove tasse, perché ha giurato di abbassarle, non può tagliare la spesa, perché ha giurato di accrescerla. Restano solo due strade: indebitarsi e cercare un capro espiatorio. Il debito piace a tutti, perché rende più ricchi e allontana i problemi. Ha il solo difetto di aver bisogno di creditori, che vogliono essere trovati e poi pagati. Se sei già molto indebitato, questo può essere un problema serio, come sa chiunque sia entrato in una banca per chiedere l’ennesimo prestito. Peraltro alla lunga si finisce per non essere più padroni della propria attività, ma per lavorare al ritmo e alle condizioni imposte dai creditori. In Italia ne sappiamo qualcosa.

Ecco quindi che persino la soluzione apparentemente più semplice si rivela complicata e trova ostacoli importanti in tutti gli attori a qualunque titolo coinvolti: Mef, Bce, Bankitalia. Per non parlare dell’alleato di governo, che avrà anche tolto Nord dal nome, ma non ha nessuna intenzione di scaricare sui contribuenti settentrionali il costo del reddito minimo per i meridionali. Quindi rimane solo il capro espiatorio. La logica della politica imporrebbe che questo fosse il partner di maggioranza. Non riesco a mantenere le promesse perché l’alleato non desiderato me lo impedisce. Se non fosse che l’alleato in soli tre mesi di coabitazione ha ribaltato i rapporti di forza, e se si tornasse al voto continuerebbe a governare scaricandoti all’opposizione.

C’è peraltro quel fastidioso dettaglio del doppio mandato, che metterebbe tutti i boss a 5Stelle nelle mani di Grillo, che dovrebbe eventualmente autorizzarne la ricandidatura in violazione del non-statuto. Quindi? Quindi i burocrati del Mef sono vecchi e nascondono i soldi, esattamente come la casta. La logica formale del Movimento così è salva e si può andare avanti. Si tratta con tutta evidenza di un atteggiamento puerile, figlio della convinzione che gli italiani siano un popolo con l’anello al naso. Non è così, e se sapremo mettere in campo un’alternativa credibile se ne accorgeranno presto.

Il parere di Giovanni Paglia è tratto da Left n.39 del 28 settembre 2018


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L’acqua della Ferragni

Nella pesca pasturare consiste (non me ne vogliano i pescatori per la descrizione semplicistica) gettare del cibo in acqua per attirare i pesci e facilitare l’abboccamento. Pasturare costa poco (basta spargere un po’ di mangime) e garantisce effetti immediati: è un buon investimento, insomma.

La moderna pasturazione fuori dall’acqua, per chi è in cerca di fama, è sfruttare l’argomento del giorno (anche se si tratta di un’inezia, anzi soprattutto se si tratta di un’inezia) per spandere un po’ di moralismo a caso fingendo di trattare dei massimi sistemi. Ed è curioso che comunque non ci sia lo slancio (almeno da chi riveste un ruolo pubblico di responsabilità) di provare ad alzare la discussione insistendo piuttosto sullo schiacciamento, la banalizzazione, la soddisfazione degli istinti.

L’acqua della Ferragni ad esempio. Il tema forse non è la Ferragni ma l’acqua in bottiglia e l’anomalia tutta italiana: un business che in Italia muove qualcosa come 10 miliardi di euro (2,8 miliardi solo per quelli che imbottigliano) di fronte a canoni di prelievo alla fonte che portano alle casse pubbliche tariffe che arrivano al massimo a 2 millesimi al litro. L’Italia è prima in Europa e seconda nel mondo per consumo di acqua in bottiglia: una pacchia per i privati (che hanno un ricarico di 250 volte per ogni bottiglia) con un evidente impatto pubblico (di soldi persi, di danni per l’ambiente dovuti alla plastica e al trasporto su gomma e molto altro).

Per fare un piccolo esempio: stabilire un criterio nazionale che fissi a 2 centesimi al litro il prezzo dell’acqua prelevata alla sorgente (un canone che sarebbe comunque irrisorio) porterebbe alle casse dello Stato circa 280 milioni di euro all’anno che si potrebbero reinvestire sulla tutela della risorsa idrica e provando a incentivare il consumo dell’acqua del rubinetto, magari sistemando anche i nostri disastrati acquedotti. Tanto per schiodarsi da qual secondo posto nel mondo (dietro solo al Messico) che di fatto ci fotografa come Paese che ha regalato l’acqua al commercio dei privati.

Perché l’acqua della Ferragni, se volete, potete tranquillamente non comprarla ma il sistema di acque in bottiglia che incombe sul Paese invece lo paghiamo. Eccome.

Buon mercoledì.

Cgil, Camusso sceglie Landini ma Colla non ci sta. Si spacca la maggioranza a Corso Italia

Secretary General of CGIL (Italian General Confederation of Labour) Susanna Camusso (R) with former Secretary General of FIOM-CGIL (Metallurgical Workers Employees Federation), Maurizio Landini (L), take part at the ?March for Peace? from Perugia to Assisi, Italy, 07 October 2018. ANSA/MATTEO CROCCHIONI

E Camusso lanciò Landini come leader della Cgil nell’epoca del governo giallo-verde, o giallo-nero. Dopo mesi di attesa, in una riunione di segreteria lunga e dibattuta questa notte in Cgil la segretaria generale uscente, Susanna Camusso, il cui mandato scadrà il 3 novembre, ha illustrato l’esito delle consultazioni di queste settimane, preliminari all’apertura della stagione congressuale, e avanzato la proposta di candidatura di Maurizio Landini a prossimo leader a Corso Italia. Un esito che alcuni avevano già capito durante la recente festa nazionale del sindacato, a Lecce in settembre, una scelta che di fatto ha spaccato la segreteria. A quanto si apprende sarebbe stato lo stesso Vincenzo Colla, segretario confederale e candidato alternativo attualmente ancora in corsa, sostenuto da alcune categorie forti, come pensionati, edili, chimici, tessili e trasporti, a parlare infatti di «rottura politica della segreteria». Inoltre alcuni segretari confederali che ne avevano appoggiato la corsa avrebbero contestato il metodo adottato da Camusso, che avrebbe dovuto invece indicare solo i criteri e le caratteristiche del suo successore per lasciare poi all’assemblea generale, che sarà nominata dal prossimo congresso, il compito di eleggere il nuovo segretario generale. Il direttivo Cgil sarà convocato nei prossimi giorni, sabato o lunedì prossimo. In quella sede, probabilmente, Colla potrebbe ufficializzare l’intenzione di continuare la corsa o, addirittura, potrebbe essere chiesta la sfiducia della segretaria generale uscente. L’ufficializzazione della spaccatura della maggioranza potrebbe, a sua volta, rovinare la corsa di Susanna Camusso alla guida dell’Ituc, la confederazione sindacale internazionale il cui congresso si terrà ai primi di dicembre a Copenhagen.

È stata una discussione dura, avviata molto tardi, al termine delle segreterie unitarie con Cisl e Uil sulla manovra del governo che si è aperta con un «problema di metodo» posto dal leader Cgil, Susanna Camusso, relativo ad alcune interviste, a cominciare da quella del segretario confederale Colla che avrebbe violato regole interne al sindacato. Nessuna decisione su questo tema sarebbe stata adottata mentre, dicono ancora le indiscrezioni, sarebbe stata decisa solo «una presa formale di distanza» relativamente alle intenzioni manifestate dal segretario generale dello Spi, Ivan Pedretti, di disdire il patto di solidarietà che vige all’interno del sindacato per riequilibrare il “peso” di ciascuna categoria, in caso di proposta non gradita da parte del segretario generale o della maggioranza della segreteria.

Doveva essere il congresso dal basso e unitario e, invece, il primo giorno utile dopo la fine delle assemblee nei posti di lavoro, la corsa alla segreteria registra una spaccatura su temi che non c’erano nel documento di maggioranza, ossia su quello che hanno votato gli iscritti nei posti di lavoro. La battaglia potrebbe essere tra chi è più dialogante con i cinquestelle, Landini, e chi è legato alla cinghia di trasmissione con quello che resta del Pd e non sarebbe contrario, in prospettiva, a un’ipotesi di sindacato unificato. A favore dell’ex leader Fiom potrebbe giocare un’idea piuttosto diffusa a Corso Italia sulla necessità di un leader capace di bucare lo schermo.

La minoranza interna, l’area Il Sindacato è un’altra cosa, fa sapere che continuerà a rimanere estranea alla contesa tra pezzi di gruppi dirigenti. La commissione nazionale di garanzia non ha ancora ufficializzato i dati delle assemblee nei luoghi di lavoro ma un primo bilancio potrebbe registrare, oltre alla spaccatura interna, un diffuso calo della partecipazione in termini di voti assoluti. Il XVIII Congresso della Cgil si svolgerà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019. Dal 20 giugno al 5 ottobre si sono svolte le assemblee congressuali di base. A seguire e fino al 31 ottobre si terranno i congressi delle categorie territoriali, delle Camere del lavoro territoriali e metropolitane e delle categorie regionali mentre i congressi delle Cgil regionali avranno inizio il 5 novembre e si dovranno concludere entro il 24 dello stesso mese. Dal 26 novembre al 20 dicembre, si svolgeranno i congressi delle categorie nazionali dei lavoratori attivi e quello del sindacato dei pensionati della Cgil, che si terrà dal 9 all’11 gennaio del 2019. Il percorso congressuale si concluderà alla Fiera del Levante.

Intanto a Padova si evade più Iva che in tutta la Svezia

L'ingresso della nuova sede dell'Agenzia delle Entrate, Roma, 14 dicembre 2017. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Piccolo aggiornamento sui nemici che non vengono raccontati perché viene comodo discettare di attici inesistenti degli scrittori, di qualche immigrato che dà in escandescenze oppure della solita liturgia di insulti contro il Mimmo Lucano di turno: secondo uno studio della Commissione Europea in Italia ci sono 35,9 miliardi di euro di Iva evasi nel 2016. L’Italia da sola ha evaso un quarto dei 147,1 miliardi mancanti facendo la somma di tutti gli stati dell’Unione Europea.

Solo a Padova si stima che sia di 649 milioni di euro l’ammontare dell’evasione Iva. Per dare una proporzione: la Svezia ha un’evasione pari 465 milioni, la Lettonia 258. Sono i dati che ha elaborato Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, il cui presidente, Carlo Valerio, ha dichiarato (intervistato da Padova Oggi) che «se in Italia si evade così tanto è anche per via della troppa burocrazia che agevola coloro che non vogliono pagare le tasse, dell’eccessiva propensione all’uso del contante in confronto alle altre nazioni e del continuo ricorso da parte dei Governi che si sono succeduti negli anni di misure inquadrabili come condoni che sono, in un certo senso, una sorta di incentivo all’evasione.»

Sono cifre spaventose che da sole risolverebbero un bel pezzo dei problemi dei conti pubblici e della credibilità internazionale. Si potrebbe, ad esempio, anche parlare del fallimento dell’Ispettorato nazionale del lavoro che registra un calo dell’accertamento dell’evasione contributiva del con un calo (nel 2017) del 50% rispetto all’anno precedente e addirittura di più 60% rispetto al 2014. Oppure si potrebbe aggiungere il calo del 20% dei recuperi dell’Inail dal 2014 al 2016.

La pacchia degli italiani furbi, insomma, procede a gonfie vele. E il condono prossimo venturo così fortemente voluto da Salvini è un’ulteriore manna che piove dal cielo.

Intanto, ieri, quelli al governo ci hanno deliziato con Salvini e la Le Pen che hanno discettato di Europa (uno è stato l’assenteista numero uno e l’altra si è pagata le ostriche con i soldi di Bruxelles), il ministro Toninelli ci ha chiesto di non contestare il decreto su Genova (contestatissimo a Genova, altro che applausi da funerale) perché l’ha scritto con il cuore, il premier Conte ha smentito un’informazione che stava sul suo curriculum e un po’ tutti hanno discettato di spread e economia con lo spessore di un barbecue tra amici.

In Sicilia hanno minacciato Claudio Fava, anche. Ma anche questo sembra interessare quasi a nessuno.

Buon martedì.

Elezioni in Brasile: il volto “nuovo” del cesarismo e un vecchio mondo che cade in frantumi

This photo combo of Workers' Party Presidential candidate Fernando Haddad shot on Oct. 4, left, and an Oct. 7, 2018 photo of Jair Bolsonaro, of the Social Liberal Party, shows the two candidates that will face off in a second-round vote in Brazil. Official results of Sunday's Oct. 7 election showed that Haddad will face Bolsonaro, the far-right congressman, in a second-round vote. (ANSA/AP Photo/Silvia Izquierdo) [CopyrightNotice: Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved.]

Una svolta politica in tre atti: il primo è stato un Golpe istituzionale il secondo un Golpe giudiziario, ora siamo al terzo momento, quello elettorale, con il quale si è data parvenza di legittimità democratica ai primi due, dopo aver utilizzato ogni mezzo necessario a raggiungere questo scopo. La mobilitazione di tutti i gli organi di formazione dell’opinione pubblica funzionale a una sola narrazione possibile, dunque la lotta furibonda per garantirne il controllo monopolista, è paradigmatica. Nei Quaderni Gramsci ci ha spiegato che di fronte all’equilibrio di forze «a prospettiva catastrofica», il cesarismo è una soluzione arbitrale, la cui natura progressiva o regressiva può essere compresa con lo studio storico della realtà concreta e non con astratti schemi sociologici: è del primo tipo quando aiuta, seppur attraverso compromessi e temperamenti, la forza progressiva a trionfare; è di senso opposto quando il suo intervento aiuta a far trionfare la forza regressiva.

Se il Brasile del 1964-68 rientrava nelle forme classiche del “cesarismo tradizionale”, che necessità dei “colpi di Stato militare in grande stile”, quello di oggi fa parte a pieno titolo del cesarismo di tipo moderno, nel quale le complicazioni date dalla presenza di mezzi nuovi a disposizione e la maggior complessità della società civile, rendendo il fenomeno molto diverso da quello tradizionale. Lo sviluppo del parlamentarismo, l’affermarsi dell’associazionismo attraverso i partiti e i sindacati, con ampie burocrazie pubbliche e private trasformano la stessa funzione della polizia non più solo mobilitata dallo Stato nella repressione della delinquenza, ma posta a servizio della società politica e della società civile per garantire il dominio politico ed economico delle classi dirigenti.

Nel Quaderno 13 Gramsci rafforza ancora questo concetto, al punto da sostenere che gli stessi partiti politici e le organizzazioni economiche delle classi dominanti vanno considerati «organismi di polizia politica, di carattere preventivo e investigativo». Nel mondo moderno l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze in grado di fondersi e unificarsi, nemmeno dopo un processo «faticoso e sanguinoso», ma tra forze il cui contrasto risulta insanabile e destinato ad approfondirsi con le forme cesaree di controllo della società. Nonostante ciò, anche una forma sociale in crisi («il vecchio muore») ha margini di sviluppo e perfezionamento organizzativo potendo contare sulla debolezza relativa della «forza progressiva antagonistica» che ne rappresenterebbe la negazione. In tal senso il cesarismo moderno sarebbe più poliziesco che militare, proprio perché utilizza tutti quegli strumenti preventivi e investigativi necessari a mantenere le forze ostili in condizione di minorità.

Andando oltre le categorie analitiche, analizzando in controluce il voto, emergono alcuni segnali molto evidenti. Al di là di un contesto generale avverso e difficile da affrontare, il Pt ha sbagliato tattica e prospettiva, imponendo la candidatura di Lula pur sapendo che mai avrebbero reso possibile la sua competizione. Così Haddad ha fatto praticamente un mese di campagna elettorale, avendo tutti i media contro, mentre Bolsonaro è in corsa da anni. Questa scelta, che si spiega come atto di riconoscenza verso Lula contro un provvedimento illegittimo, ha però impedito alla sinistra di presentarsi unita al primo turno, annullando al contempo qualsiasi segnale di novità e rinnovamento, che pure era necessario.

Le uniche note positive sono due: 1) tutto il fronte progressista si è rapidamente posizionato ed è già mobilitato su una linea unica rispetto al secondo turno; 2) il Pt, nonostante la sconfitta di alcuni dirigenti storici, ottiene il gruppo parlamentare più consistente alla camera con 57 deputati. Ma nessuna illusione, la destra ha il vento in poppa. La peggior droga in questi casi è confondere i propri desideri con i rapporti di forza, ossia, credere che alla fine la realtà ti darà ragione.

In Brasile è già iniziata un’altra era politica nuova e totalmente imprevedibile, sia perché del tutto inedita, sia per la natura prepolitica delle nuove forze alla testa di questo processo. Una conferma viene dal risultato disastroso del partito della destra liberale tradizionale, che da sempre incarna lo spirito nazionale dell’antipetismo. Il Psdb (al ballottaggio alle precedenti presidenziali) partito di potere incredibilmente influente, capace di eleggere presidenti e governatori in tutto il Paese si è presentato con il suo uomo più forte, il governatore uscente dello Stato di São Paulo Geraldo Alckmin, prendendo appena il 5% dei voti. Bolsonaro ha saputo unificare e centralizzare il fronte della destra (da quella più estrema alla moderata), esattamente quel che invece non è riuscito (fino a ora) alla sinistra.

Il centrosinistra è in caduta libera, serve una vera sinistra in Europa

Nel Parlamento europeo uscente i gruppi dei Socialisti e democratici, Sinistra unita europea e Verdi hanno il 39,51%, una percentuale inferiore a quella raccolta in Italia dal solo membro del Pse, il Pd svettante solitario al 40,81%, superato soltanto dai laburisti maltesi con il 53,39%, ma appena 134.462 voti: un niente rispetto ai 11.203.231 voti di Renzi alle elezioni europee 2014, che supera persino gli 8.807.500 della Union della Merkel, il partito leader del Ppe. Pse e Ppe con 410 seggi su 751, cioè il 54,8% si spartiscono i posti più rilevanti. Il Pse con 40.202.068 voti è il primo partito europeo avendo due milioni di voti in più del Ppe. Preistoria, proiettando i risultati delle elezioni nazionali degli ultimi cinque anni il predominio Ppe-Pse è finito. Il primato in voti del Pse con la scomparsa del Psf e la Brexit, che si porta via 4.020.646 voti laburisti, è un ricordo di un passato che non tornerà tanto presto, forse mai. A sinistra, se Sparta piange, Atene non ride. La Sinistra unita europea, che era già un’alleanza, che nascondeva differenze e diffidenze, è ormai divisa da Mélenchon e dalla sua avversione per Tsipras. La stessa esperienza di Syriza simbolo di un’altra sinistra possibile ha due figure simboliche alternative in Tsipras e Varoufakis. Ma il fatto vero è che le perdite dei partiti del Pse non sono state recuperate a sinistra se non in Grecia e Spagna, ma anche in questi casi non totalmente e la somma di Pasok e Syriza o di Psoe e Podemos non raggiunge quella Pasok e comunisti e Psoe e Pce nei loro tempi migliori. In questo quadro la situazione dell’Italia appare la più desolante: una volta era composta da socialisti e comunisti che nel 1946 erano il 33,73%, e dovettero attendere il 1958 per avvicinarsi a quella percentuale stando all’opposizione. Ancora nel 1963 Pci e Psi su posizioni in contrapposizione avevano il 35,15%. Le vicende successive a partire dal 1992 cambiano politicamente la sinistra storica con la scomparsa dell’area socialista. La vittoria dell’Ulivo nel 1996 ha solo rinviato i problemi e l’ultima illusione è stata la vittoria del 2013, grazie ad una legge elettorale incostituzionale. In quella legislatura si è consumata la rottura tra la sinistra, in realtà geneticamente mutata in un ibrido di centro-sinistra, e la Costituzione e la democrazia parlamentare. La responsabilità non è solo del Pd renziano, a sua volta prodotto della conversione alle leggi elettorali maggioritarie: vincere senza avere la maggioranza era più importante di saper per cosa. Non si perseguiva un’alternativa politica al neoliberismo, ma neppure l’attuazione della Costituzione, dopo la vittoria al referendum del 4 dicembre. Dovrebbe essere evidente anche senza gli studi dei flussi dell’istituto Cattaneo, che nuovi elettori di M5s e Lega vengano da un deluso fronte del Noi. È credibile una sinistra che elegge suo esponente di punta chi – come presidente di una Camera – ha inferto un colpo senza precedenti alla centralità del Parlamento privilegiando l’esecutivo e proprio su una legge elettorale per di più incostituzionale? Non si riacquista affidabilità se non si riesce ad indicare un proposta che sia una chiara, comprensibile e realista a problemi importanti come le politiche migratorie o la lotta alla disoccupazione. Una sinistra capace soltanto di denunciare i futuri prevedibili attacchi alla Costituzione, ma non come darvi attuazione a cominciare da una propria riforma che anticipi una legge sui partiti politici come richiede l’articolo 49 della Carta, o invertire la tendenza alla privatizzazione a cominciare dalla gestione delle autostrade, non necessariamente con un intervento statale, ma pubblico in senso lato comprese le comunità di lavoratori o di utenti (art. 43 Cost.). Invece ci si divide tra sovranisti ed europeisti, come se la democrazia fosse solo nazionale e l’Europa ideale quest’Europa.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 21 settembre 2018


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Perché il potere odia la complessità (più che la stampa)

Il vice premier Luigi Di Maio durante il suo intervento nel comizio di stasera a Potenza, 7 ottobre 2018. ANSA/TONY VECE

Non è solo l’ultima uscita di Di Maio, che gongola per la chiusura del Gruppo Espresso (che già come definizione è una mezza bufala): certe interpretazioni del potere hanno sempre avuto di traverso certa stampa. Accade ora, è sempre accaduto e continuerà a succedere. Il vicepremier quindi se ne faccia una ragione: anche in questo non c’è nulla di nuovo sotto al sole, tutto visto, stravisto, nessun cenno di cambiamento.

Ma il potere non ha nel mirino la stampa: il potere odia la complessità, in tutte le sue forme, che sia un settimanale, una trasmissione video, un podcast, satira, un libro o addirittura un blog ben fatto perché sogna da sempre di dividere le persone in tifosi per tifosi contro, senza nessuna scala di grigi, due fazioni contrapposte: l’acritica venerazione dei seguaci (più che elettori) che si alzano ogni mattina per scontrarsi pregiudizialmente contro gli oppositori che molto spesso fanno della propria opposizione l’unico contenuto degno di nota. Sarebbe perfetto per i potenti se nessuno toccasse questo equilibrio; se davvero non intervenisse la narrazione dei fatti si potrebbe continuare così a lungo senza troppe complicazioni. I poteri aspirano all’immutabilità del contesto per riuscire a garantirsi l’auto preservazione.

E invece il mondo, fortunatamente, cambia: cambiano le persone, cambiano le sensibilità, cambiano le priorità, le paure e quindi inevitabilmente non reggono troppo a lungo le stesse soluzioni (o meglio: la stessa propaganda) e così il potere (come accade a tutti noi nei nostri diversi e più piccoli mondi sociali e lavorativi) deve reinventarsi, studiare, capire e sottoporsi ogni giorno alla verifica dei suoi elettori. E siccome il sogno dei governanti è quello di congelare per sempre l’apice del proprio successo temono ogni pur piccolo cambiamento temendo (o essendo consapevoli) di non riuscire ad esserne all’altezza.

Così ogni tanto se ne escono, ciclicamente che siano di destra o di sinistra, con questa lagna dei giornali  contro che sembra un atto di forza e invece è solo una paura fottuta. I fatti (e quelli che li raccontano) sopravviveranno a tutti, inevitabilmente. E ridono della banalità del potere già pochi anni dopo.

Buon lunedì.

Il Labour compatto con Corbyn

LIVERPOOL, ENGLAND - SEPTEMBER 26: Labour Party leader, Jeremy Corbyn stands by members of Liverpool People's Choir following his keynote speech on day four of the Labour Party conference at the Arena and Convention Centre on September 26, 2018 in Liverpool, England. In his closing speech to the conference the Labour leader promised to 'kickstart a green jobs revolution' and expand the provision of free childcare should Labour win power. (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)

Un appuntamento molto atteso la conference annuale del Partito laburista a Liverpool. Per due motivi. Il primo è che il Labour ha passato un’estate infernale in cui è stato vittima di una campagna mediatica ferocissima con accuse di antisemitismo che hanno raggiunto tanto Jeremy Corbyn quanto il partito stesso, dipinto come razzista e antisemita. Il secondo è che, in un partito che vota formalmente decine e decine di mozioni che vengono sottoposte alla conference dai partiti locali e dai sindacati affiliati, c’era molta preoccupazione per il voto circa la linea da tenere sulla Brexit. Molti temevano (altri speravano) che il Labour si sarebbe spaccato tra chi sostiene che la Brexit sia un processo inarrestabile che va gestito da sinistra e coloro che vogliono proporre un secondo referendum con l’obiettivo di interrompere l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Da Liverpool, però, il messaggio che è arrivato al Paese è stato incredibilmente forte e chiaro: vogliamo nuove elezioni anticipate. L’entusiasmo della base del partito era palpabile, così come lo era la determinazione della classe dirigente che si è susseguita sul palco della cinque giorni laburista. La sfida ai Tories è stata aperta e senza tentennamenti: non siete in grado di svolgere in maniera efficace le trattative per la Brexit, fate posto a noi, siamo pronti a farlo. Ciò che più ha colpito della conference laburista, tuttavia, è stata…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola fino all’11 ottobre 2018


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