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«Ancora tagli e niente diritto allo studio»: gli studenti in piazza contro la politica del governo

«È la prima manifestazione politica contro il governo». Dalla testa del corteo a Piramide, Roma, promosso da Rete della Conoscenza, Uds e Link (e il sostegno della Flc Cgil), si lancia una protesta che coinvolge più di 50 città, comunica la Rete della Conoscenza, con 70mila studenti in piazza. L’obiettivo, la politica dell’attuale governo. «Razzismo, repressione, quale cambiamento» si legge nello striscione che apre il corteo che porterà gli studenti, per la maggior parte giovanissimi, dei primi anni delle scuole superiori, fino al ministero dell’Istruzione in Viale Trastevere. «Non siete Stato voi», «Risparmi uguale tagli», «Bu-Bu Bussetti!! dove sono le idee del ministro?» i cartelli che i ragazzi sventolano nel corteo.
È stato annunciato lo stato di agitazione permanente, sia nelle scuole che nelle università. «In Italia il diritto allo studio non è garantito, nella manovra manca un cambiamento reale per i giovani», si legge nel comunicato della Rete della conoscenza.
«Oggi siamo in piazza perché subiamo l’ingiustizia quotidiana di costi economici  insostenibili per studiare», dice Giacomo Cossu, coordinatore nazionale della Rete della conoscenza. «La manovra finanziaria annunciata dal governo ignora i problemi degli studenti, non prevede maggiori risorse per il diritto allo studio né per la qualità della formazione o per la ricerca». E il taglio dei cento milioni alla scuola, dicono gli studenti, non è stato smentito. Quindi, scatta la protesta. Nel comunicato si dice anche che «ad oggi Bussetti rifiuta di incontrare le rappresentanze studentesche».

Con l’hashtag #agitiamoci e #Diamounascossa, la protesta scorre anche nelle strade del Sud. Per esempio, l’Uds di Polistena (Reggio Calabria) scrive: «Noi studenti e studentesse della Calabria, in particolare della piana di Gioia Tauro, vogliamo far sentire la nostra voce in quanto siamo e ci sentiamo parte della storia. I trasporti inefficienti, gli autobus sovraffollati, i lavoratori sottopagati ed indignati , le scuole che crollano, un’alternanza scuola lavoro inutile e improduttiva, i costi eccessivi dello studio e la dispersione scolastica che nella nostra terra ha raggiunto il 15,7%: ecco i motivi del nostro sciopero».

Anche il parziale dietrofront sull’alternanza scuola-lavoro non convince. Giulia Biazzo, coordinatrice nazionale di Unione degli studenti, dichiara: «Nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale verrà mantenuta: nessuna abolizione della legge 107 e nessun superamento dell’alternanza scuola-lavoro, solo provvedimenti che peggioreranno la condizione degli studenti. La riduzione delle ore obbligatorie di alternanza scuola-lavoro non risolve alla radice la necessità di una totale riforma del sistema didattico e crea ulteriore discriminazione tra licei, istituti tecnici ed istituti professionali». Il problema è garantire il diritto alla conoscenza e di questo sono molto consapevoli gli studenti che scendono in piazza.

«Negli ultimi vent’anni più di 3 milioni e mezzo di studenti sono stati costretti ad abbandonare gli studi: serve una scossa – continua Giulia Biazzo -. Esigiamo reali finanziamenti sull’edilizia scolastica, la garanzia del diritto allo studio con forme di reddito di formazione che abbattano le barriere economiche e le disuguaglianze, l’approvazione del Codice etico sull’alternanza scuola lavoro per impedire che gli enti privati lucrino sulla nostra formazione». «Ad oggi studiamo in edifici che sono fatiscenti, e non permettono in nessun modo di innovare una scuola che è vecchia ed escludente: in 150mila ogni anno abbandonano gli studi, non è un dato accettabile» dice Giammarco Manfreda, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi. Insieme agli studenti delle scuole superiori anche i rappresentanti degli universitari che lamentano ugualmente il non rispetto del diritto allo studio.

Alessio Bottalico, coordinatore di Link afferma che occorre «un forte aumento dei fondi statali per borse di studio e residenze universitarie, arrivando all’eliminazione della figura dell’idoneo non beneficiario e all’accorciamento dei tempi di erogazione delle borse di studio». E naturalmente distribuire il fondo tra le Regioni in modo che non ci siano diseguaglianza nel Paese come accade adesso. «Allo stesso tempo – afferma – è più che mai urgente aumentare la no tax area per permettere a quanti più studenti possibile di poter accedere all’Università». L’Italia è il Paese al penultimo posto in Europa per numero di laureati, secondo i dati Eurostat.

Ora tutti a bersi i propri sputi

Che dura che dev’essere, essere Salvini in questo 11 ottobre che è appena stato: nel giro di poche ore si assiste alla svolta nel processo Cucchi con la testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco che conferma il pestaggio avvenuto in caserma e poi alla condanna per il carabiniere Marco Camuffo, accusato di avere violentato insieme a un collega due studentesse americane a Firenze.

Tornano alla memoria le parole di questi anni, quel “se la sono andata a cercare”, “le americane sono sempre ubriache” (tenetevelo a mente, ci fu anche quel solito brillantone di Nardella che disse «È importante che gli studenti americani imparino, anche con l’aiuto delle università e delle nostre istituzioni, che Firenze non è la città dello sballo»). Torna alla memoria la frase di Matteo Salvini, parole feroci che gli andrebbero restituite urlandogliele incessantemente nelle orecchie tutti i giorni, come buongiorno: «La sorella di Cucchi si deve vergognare. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico, erano intellettuali sdegnati contro un commissario di polizia che poi fu assassinato».

Torna tutto perché i fatti, da sempre e come sempre, alla fine vengono a galla. Possono passare mesi, anni o decenni ma alla fine il depistaggio o il pestaggio trova una breccia da cui essere svelato. E i fatti se ne fregano dei bulli. Anzi, li sbriciolano velocemente.

Forse non servirà ma anche la giornata di ieri, ancora una volta, dovrebbe insegnarci ad avere cautela nell’additare le vittime, per eccesso di difesa di una categoria (meglio: di una corporazione) qualunque essa sia.

Eppure fanno sorridere questi che oggi sono costretti a bersi i propri sputi che hanno procurato voti e ora sono diventati cicuta. Sono goffi mentre simulano un po’ di senso istituzionale invitando la famiglia Cucchi al ministero dell’Interno: è la sguaiataggine dei randellatori abituali quando finiscono randellati dalle loro stesse scemenze ma sarebbe un errore sperare che questi possano imparare la lezione. Continueranno a menare, soprattutto i deboli e le vittime, perché è l’unica cosa che hanno imparato a fare, perché riempiono il vuoto delle idee con urlacci scimmieschi contro tutti e poi con quelle improbabili scuse che travestono un pensiero che si legge facilmente: «Mi è andata male», pensa Salvini. Il male degli altri, quello, non è proprio umanamente capace di comprenderlo.

Buon venerdì.

Storia di una rivolta gentile

Mimmo Lucano e Danilo Dolci: dopo l’odioso arresto del sindaco calabrese abbiamo sentito spesso questo paragone, senz’altro suggestivo e fondato. Il sociologo trentino attuava un progetto di educazione alla non violenza, lo organizzava secondo un’impalcatura intellettuale che gli è valsa il nome di Gandhi italiano. Il sindaco di Riace è un uomo del popolo che cerca di amministrare il suo territorio secondo criteri ispirati da una antica saggezza popolare: sperimenta accoglienza e integrazione, cerca spazi, rianima muri di case abbandonate, riapre piccole botteghe, organizza la raccolta differenziata con due muli, usati dalle due cooperative che si pretendono illegali perché hanno avuto l’incarico fuori gara. Con personalità e storie completamente diverse, entrambi hanno sfidato la legge. Danilo Dolci portando i giovani disoccupati nelle terre del sud, processato nel ’56 per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e invasione di terreni, l’altro per aver contrastato la legge sull’immigrazione clandestina. Entrambi, con la loro azione politica, hanno la forza di lanciare nel discorso pubblico la contraddizione della parola legalità, diventata una chimera in un Paese pieno di leggi dove non c’è rispetto per la legge. Anche perché, insegna Tacito, corruptissima re publica, plurimae leges – molte sono le leggi quando lo Stato è corrotto.

La democrazia italiana, snervata da corruttori di ogni tacca, mangiatori di soldi pubblici, furbetti del quartierino, aspira alla legalità, quasi un’utopia, una chimera. Con la perdita di controllo da parte dello Stato, e tanto più dopo lo snodo di Tangentopoli che agli inizi degli anni 90 del secolo scorso ha esaltato le funzioni purificatrici dell’azione penale, il senso comune della legalità è quello di giustizia, ancorché la legalità è anche ampiamente compatibile con l’ingiustizia. Laddove il principio di legalità si impone i diritti dei cittadini sono più tutelati nei confronti di abusi del potere. Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge (art.23) e nessuna persona può essere punita se non in forza di una legge (art. 25) dice la nostra Costituzione. In un Paese come il nostro, invaso dalle mafie, da gruppi para-massonici e poteri indiretti che si pongono come intermediari delle scelte del potere pubblico, il rispetto della legalità è una urgenza che dà fondamento allo Stato di diritto. Molte…

L’articolo di Stefania Limiti prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Processo Cucchi, uno dei carabinieri imputati racconta il pestaggio e denuncia i colleghi: «Provai a fermarli»

Giovanni Cucchi, padre di Stefano, durante il sit in organizzato all'esterno del tribunale di piazzale Clodio in occasione del processo Cucchi bis, Roma, 27 settembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Fu un’azione combinata. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fece perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra. Gli dissi “basta, che cazzo fate, non vi permettete” (…) “colpiva Cucchi con uno schiaffo violento in volto” e l’altro “gli dava un forte calcio con la punta del piede”». Ecco alcuni stralci del verbale di interrogatorio di Francesco Tedesco, nato a Brindisi meno di tre mesi prima di Stefano Cucchi, nel 1981. Nove anni dopo la morte di quest’ultimo Tedesco ha vuotato il sacco. «Processo Cucchi. Udienza odierna ore 11.21. Il muro è stato abbattuto. Ora sappiamo e saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano e alla famiglia Cucchi», commenta in un post Ilaria Cucchi.

Dice il suo avvocato, Francesco Petrelli, a Left che è l’esito di «un percorso molto faticoso», scaturito dall’idea di «ricostruire i fatti per com’erano andati… Lui ha interrotto un’azione aggressiva». Mentre gli stralci del verbale già facevano il giro del web, in aula, un agente della Penitenziaria, ispettore Bruno Mastrogiacomo (già sentito nel corso del primo processo, quello che vide sul banco degli imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti), ha confermato indirettamente la versione di Tedesco. Quando Cucchi, dopo la convalida del suo arresto, entrò in carcere gli disse «che lo avevano pestato per droga e che era stato menato all’atto dell’arresto. Gli chiesi il perché e lui mi disse “per un pò di roba”». La scena era quella di uno che, da pugile, prova a parare i primi colpi però poi cade e a terra fu oggetto di altra feroce violenza. Due anomalie furono notate: «Il volto era tumefatto, e aveva un segno rossastro all’altezza dell’osso sacro».

Per l’altro legale di Tedesco sarebbe addirittura il riscatto dell’Arma: «Gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini – ha detto Eugenio Pini – individuano nel mio assistito il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso. Ma soprattutto è il carabiniere che ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi costretto al silenzio contro la sua volontà. Come detto, è anche un riscatto per l’Arma dei Carabinieri perché è stato un suo appartenente a intervenire in soccorso di Stefano Cucchi, a denunciare il fatto nell’immediatezza e a aver fatto definitivamente luce nel processo».

In realtà nell’Arma non solo «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia», nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Cucchi. Il nominativo dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi». Infine l’inchiesta interna fu quanto mai blanda e, dai resoconti in aula dei carabinieri, sembrerebbe più funzionale alla strategia di cui sopra piuttosto che ad accertare i fatti: uno dei carabinieri testimoni, Riccardo Casamassima (quello che ha confermato che i verbali furono falsificati per minimizzare le condizioni di salute di Cucchi), ha riferito delle «pressioni del comando generale». Forse non bastano le tardive rivelazioni di Tedesco per riscattare l’Arma.

Ilaria, sconvolta, scriverà su Facebook: «Ci chieda scusa chi ci ha offesi in tutti questi anni. Ci chieda scusa chi in tutti questi anni ha affermato che Stefano è morto di suo, che era caduto. Ci chieda scusa chi ci ha denunciato. Sto leggendo con le lacrime agli occhi quello che hanno fatto a mio fratello. Non so dire altro. Chi ha fatto carriera politica offendendoci si deve vergognare. Lo Stato deve chiederci scusa. Deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi». Dovrebbe farlo Giovanardi, che sarà ricordato invece per una crimogena legge sulle droghe e per le sue dichiarazioni choc su Ustica e contro i familiari di vittime di abusi di polizia. L’ex carabiniere e ex ministro e parlamentare disse: «La sorella Ilaria dice che è morto per fratture? Io non credo agli asini che volano». Oppure Stefano Maccari (leader di un sindacatino di polizia noto solo per le parole forti contro le vittime dei suoi colleghi, fu quello che manifestò a due passi dalle finestre di Patrizia Aldrovandi): «Stefano Cucchi non è morto per un presunto pestaggio. È stata l’epilessia a causare la morte improvvisa ed inaspettata dell’uomo fermato per droga, che soffriva da anni di patologia epilettica ed era in trattamento con farmaci anti-epilettici». Indimenticabile Ignazio La Russa, all’epoca ministro della Difesa nel II governo Berlusconi: «Quindi non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Sembrò il segnale perché i carabinieri entrassero in un cono d’ombra che li avrebbe coperti nella prima inchiesta.

Ma soprattutto dovrebbe chiedere scusa il ministro degli interni Matteo Salvini: «Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. E’ un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi», tuonò il 5 gennaio del 2016 quando cominciava a prendere corpo l’inchiesta bis, quella che avrebbe portato a questo processo. «Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri – disse ancora il leader leghista nel contesto di una nota trasmissione serale di Radio24 – Se l’un per cento sbaglia deve pagare, anche il doppio. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo».

«Nove anni dopo abbiamo la conferma delle nostre accuse dalle parole di uno degli imputati, fu un pestaggio terribile», dice Ilaria Cucchi a Left uscendo dall’ennesima udienza. E Fabio Anselmo, legale della sua famiglia e parte civile in altri processi per malapolizia osserva con il cronista come sia «inquietante» la rivelazione di stamattina: «Tedesco parla di un contesto interno finalizzato a coprire, spero che emergano le responsabilità». Oggi, di fronte all’evidenza, il vicepremier non rinuncia ai luoghi comuni della nota teoria delle “poche mele marce”: «Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell’ordine».

Quando il pm Giovanni Musarò ha annunciato il colpo di scena presentando l’integrazione di indagine, le 18 pagine di interrogatorio di Tedesco, «in aula è calato il silenzio, sembrava che tutti sapessero», dice Rossella S., una delle attiviste di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che segue questo e altri processi.

Leggiamo ancora qualche stralcio: «Iniziai ad avere paura anche per un’altra ragione e cioè perché quando ero in ferie fui contattato da D’Alessandro e Di Bernardo i quali mi dissero che avrei dovuto farmi i c… miei». D’Alessandro e Di Bernardo sono i due carabinieri accusati da quest’ultimo di essere gli autori del pestaggio di Cucchi. «Il D’Alessandro, inoltre, mi aveva detto di aver cancellato quanto lui aveva scritto sul registro del fotosegnalamento». Tedesco ha anche parlato del suo rapporto con il maresciallo Mandolini, allora comandante della stazione Appia dove fu portato Cucchi che, secondo quanto sostiene Tedesco, sapeva di ciò che era accaduto. «Quando dovevo essere sentito dal Pm, il maresciallo Mandolini non mi minacciò esplicitamente ma aveva un modo di fare che non mi faceva stare sereno», mette a verbale Tedesco. E riferisce che prima di recarsi a Piazzale Clodio per il primo interrogatorio del Pm, Mandolini gli disse: «Tu gli devi dire che stava bene, gli devi dire quello che è successo, che stava bene e che non è successo niente… capisci a me, poi ci penso io, non ti preoccupare».

L’attività di indagine integrativa con la testimonianza di Francesco Tedesco formalmente non fa ancora parte del fascicolo dibattimentale del processo. La comunicazione fatta oggi in aula dal pm è stata solo per informare le altre parti processuali della nuova e integrativa attività d’indagine al fine di consentire a tutti prendere visione degli atti. In una prossima udienza ci sarà formalmente la richiesta di acquisizione di tutti agli atti, con la richiesta di ulteriori e nuove prove testimoniali.

«Oggi mi sono emozionato nell’apprendere questa notizia… tutti i dubbi su di me sono stati cancellati. Signora Ministro io sono un vero carabiniere… Io ho mantenuto fede al giuramento. Io sono degno di indossare la divisa. E io e la mia famiglia abbiamo e stiamo pagando la nostra scelta. Io e la mia famiglia da oggi abbiamo centinaia di italiani con noi», scrive sui social anche Riccardo Casamassima, l’appuntato dei carabinieri che con la sua testimonianza aveva fatto riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi. Lo scorso giugno Casamassima si era rivolto al primo ministro Giuseppe Conte, al vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini e al vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio: «Per aver fatto il mio dovere, come uomo e come carabiniere per aver testimoniato nel processo relativo a Stefano Cucchi, morto perché pestato dai miei colleghi, mi ritrovo a subire un sacco di conseguenze – aveva detto su Facebook -. Avevo manifestato le mie paure prima del processo del 15 maggio, paure che si sono concretizzate perché mi è stato notificato un trasferimento presso la scuola allievi ufficiali. Sarò allontanato e demansionato e andrò a lavorare a scuola dopo essere stato per 20 anni in strada. È scandaloso. Ho subito minacce, nessuno mi ha aiutato. Mi appello alle cariche dello Stato, ai ministri Salvini e Di Maio e al presidente del Consiglio Conte: è giusto che una persona onesta debba subire questo trattamento? Mi stanno distruggendo».

Sono stati sei i testimoni ascoltati in aula oggi nell’ambito del processo ai cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale, per la morte di Stefano Cucchi, il giovane romano arrestato nell’ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale. Oltre a Mastrogiacomo, hanno testimoniato i suoi colleghi Michele Fiore, Roberto Latini, Massimo Furiglio e Alessia Forte ripercorrendo le difficoltà, anche burocratiche, precedenti al trasporto di Cucchi dal Pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, al Reparto detenuti dell’Ospedale Sandro Pertini dove poi mori dopo sei giorni di calvario. Successivamente, è stato sentito anche Alaya Tarek, un detenuto che, tramite un senatore, fece pervenire alla procura una lettera (ricopiata da un altro detenuto) nella quale erano contenute delle confidenze di Cucchi mentre entrambi erano ristretti nel Centro clinico del carcere di Regina Coeli. «Ho conosciuto in quell’occasione Cucchi – ha detto Tarek – arrivò con infermieri, camminava male, zoppicava, era rosso in viso e sul corpo. Si coricò e dopo qualche minuto urlò di dolore. Gli chiesi cos’era successo e lui mi disse che aveva preso tante botte dai carabinieri per tutta la notte per un pezzo di fumo. La mattina dopo ha chiamato un dottore, l’hanno visitato e poi l’hanno portato via». Il 24 ottobre, prossima udienza per l’audizione di ulteriori testimoni.

Riace non si arresta

Domenico Lucano saluta le persone giunte a Riace per testimoniare la loro solidarietà al sindaco - ora sospeso - agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, Riace, 06 ottobre 2018. ANSA/MARCO COSTANTINO

Il pugno che sale, il pugno di Mimmo che saluta dalla finestra un corteo di donne e uomini che lo abbracciano simbolicamente ribadendo che Riace non si arresta, è una immagine piena di futura, e presente, umanità. Quanto accaduto a Riace in questi anni e in questi giorni non è riassumibile nella parola modello, ma è una pratica che dimostra materialmente la possibilità di un sistema basato sull’accoglienza anziché sul respingimento: parla all’Italia, parla all’Europa. Lo stesso giorno dell’arresto di Mimmo Lucano ho comunicato alla Plenaria del Parlamento europeo riunito a Strasburgo quanto accaduto: una conseguenza della istituzione del reato di solidarietà. Tante deputate e tanti deputati hanno potuto manifestare la loro solidarietà al Sindaco di Riace nel dibattito già programmato per il giorno successivo – 3 ottobre, anniversario del naufragio di oltre 360 persone nelle acque di Lampedusa – che aveva come oggetto proprio il ruolo degli enti locali nelle politiche di accoglienza nell’area mediterranea. Nell’Europa fortezza i cui confini – per mare e per terra – sono ormai diventati fondamenta, l’Italia sta diventando sempre più laboratorio della istituzione del reato di solidarietà. La criminalizzazione della solidarietà è strettamente intrecciata a quel processo di “crimmigration”, di criminalizzazione delle persone migranti, di cui scrivevo proprio su queste pagine. Prima si sono criminalizzate le Ong che operano nelle acque del Mediterraneo, sequestrando imbarcazioni, accusando di collusioni con i trafficanti i prestatori di soccorso, chiudendo i porti. Ora è il turno dei Comuni che accolgono. Sin dal 2001 Riace ha messo in atto uno straordinario processo di integrazione attraverso l’impiego del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e ha ripreso vita riempiendo quel vuoto creato dall’emigrazione di tante e tanti giovani del Sud Italia e Sud Europa, che si dirigono verso nord cercando un lavoro e una vita migliore. Per difendere quel sistema dal taglio dei fondi voluto dal ministero dell’Interno, Mimmo Lucano aveva intrapreso anche uno sciopero della fame. Il 24 settembre – una settimana prima dell’arresto del Sindaco di Riace, avvenuto il 2 ottobre – viene approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri il Decreto legge in materia di “sicurezza e immigrazione” (controfirmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 4 ottobre) che smantella di fatto proprio il sistema di accoglienza Sprar. Nel sistema Sprar – sistema che integra l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo – avevano un ruolo importantissimo proprio gli enti locali ed erano definiti standard nell’accoglienza e nella prestazione di servizi; l’accoglienza diffusa favoriva un processo di integrazione sociale e lavorativo. Tutto questo viene messo a rischio dal decreto Salvini, che di fatto separa accoglienza dei richiedenti asilo, confinandola nel sistema gestito dalla prefettura, da quella delle persone rifugiate. L’abolizione del permesso di soggiorno per protezione umanitaria, le gravi lesioni nel diritto di asilo e nel diritto alla difesa, rendono ancora più evidente la volontà di bloccare le persone che migrano e le persone che accolgono. Quando sono entrata nella casa di Mimmo Lucano, e ho visto la sua mano sporgersi dalla finestra per salutare il corteo che cantava “Bella ciao”, ho pensato che drammaticamente la situazione dell’Italia oggi si può riassumere così: le sedi delle forze neofasciste sono aperte, i porti sono chiusi; le squadracce hanno libertà di circolazione, Mimmo è agli arresti domiciliari. E che noi abbiamo un dovere di nuova Resistenza, verso i partigiani morti per la libertà, e verso la futura umanità.

L’editoriale di Eleonora Forenza è tratto da Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Processo Cucchi: uno dei carabinieri imputati rivela la scomparsa del rapporto in cui spiegava quello che era successo quella notte. Il pm lo cita a testimoniare

Un momento del sit in organizzato all'esterno del tribunale di piazzale Clodio in occasione del processo Cucchi bis, Roma, 27 settembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Colpo di scena – e non è un modo di dire giornalistico – al processo per l’omicidio di Stefano Cucchi: uno dei tre carabinieri imputati per le percosse, ha rivelato al pm che all’epoca aveva redatto un rapporto in cui raccontava ai suoi superiori che cosa fosse accaduto – e in particolare il contegno violento dei suo colleghi – nella caserma in cui l’arrestato per droga era stato portato per il fotosegnalamento. Quel rapporto è scomparso e questo confermerebbe l’ipotesi di reato per gli altri due carabinieri imputati per l’orchestrazione delle operazioni di insabbiamento e depistaggio che hanno tenuto l’Arma in un cono d’ombra per otto anni. Il pm Giovanni Musarò ha reso noto, in apertura di udienza, un’attività integrativa di indagine dopo che uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, in una denuncia ha ricostruito i fatti di quella notte e ha «chiamato in causa» due dei militari imputati per il pestaggio. Musarò sulla base delle dichiarazioni rese dal carabiniere Tedesco dal 6 giugno 2018 a oggi, ha chiesto di aggiungerlo ai testi da sentire nelle prossime udienze. Su Facebook il commento di Ilaria: «Processo Cucchi. Udienza odierna ore 11.21. Il muro è stato abbattuto. Ora sappiamo saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano e alla famiglia Cucchi».
[Articolo in aggiornamento]

Ripensare l’accoglienza

L’approccio emergenziale ai fenomeni migratori, sancito con l’adozione dell’Agenda europea sulle migrazioni nel maggio 2015, non ha permesso un’adeguata riflessione sulla portata della sfida in campo. Si è preferito trattare l’accoglienza come un problema di ordine pubblico, invece di riflettere sul come costruire strategie vincenti per un dialogo interculturale e sfruttare la grande opportunità di mettere in discussione il modello di sviluppo che stiamo inseguendo. Ne sono esempio lampante i Centri d’accoglienza straordinaria, i cosiddetti Cas, nei quali si trovano attualmente l’80% delle persone inserite nel circuito dell’accoglienza, “nonluoghi” simbolici nei quali i diritti dei migranti sono sospesi, senza tutele e garanzie.

L’accoglienza diffusa impone invece un cambiamento di paradigma: questo sistema, eccellenza italiana studiata in tutta Europa, si basa sull’adesione volontaria dei Comuni e rifiuta il concetto dei grandi centri collettivi, valorizzando e riconoscendo in questo modo l’importanza delle reti sociali e delle relazioni umane nel processo d’accoglienza. I vari esempi ne dimostrano la grande efficacia: grazie alla presenza di piccoli numeri di migranti inseriti nel tessuto urbano sono stati avviati progetti di mutualismo, di riqualifica delle aree verdi, degli spazi abbandonati, laboratori di artigianato. E così le comunità sono cresciute, aprendosi all’altro che però assume le sembianze del vicino di casa e non più di un estraneo.

Il problema sembra dunque essere politico: perché non promuovere questo sistema, che l’evidenza dei fatti sembra dirci funzionare? Perché vorrebbe dire per molti amministratori locali mettere in discussione le basi del proprio consenso elettorale. E così si preferisce continuare a trattare il fenomeno come qualcosa da combattere e disincentivare piuttosto che come una sfida della contemporaneità. Per questo Riace è così pericolosa, perché più di qualsiasi altra esperienza mette in discussione la retorica sull’accoglienza. Com’è possibile che in un paese di poco più di mille abitanti nella regione più povera d’Italia, nella quale il 60% dei giovani è disoccupato, si siano trovate quelle che internazionalmente vengono riconosciute come strategie vincenti per l’accoglienza?

Ciò che fa di Riace un modello è che si sia cercato di fare ciò che in tempo di crisi sembrava impensabile fare: ridare dignità ai lavori manuali, al commercio equo e solidale, ad un turismo responsabile, all’ecologia. Nella Calabria devastata da speculazione e cementificazione, nella Calabria degli appalti falsi e dell’abbandono edilizio, si è iniziato a pensare al riutilizzo di quello che già c’era. Inoltre, Riace e ciò che rappresenta mettono in moto una riflessione quanto mai necessaria: l’importanza di far rivivere le aree interne, investire sul loro sviluppo con incentivi reali alla riqualifica ambientale e sociale. E poi renderle attrattive per i giovani creando poli culturali e di ricerca in grado di innovare i mestieri più antichi con gli strumenti e gli occhi del domani. Un’opportunità per ripensare a quale modello stiamo inseguendo, per ripensare dunque al rapporto con il territorio, con il lavoro, con l’urbanizzazione, con il turismo.

Le risposte che ci dà Riace hanno il valore aggiunto di non essere soluzioni applicabili acriticamente ad ogni contesto. Ci costringono a fare i conti con le caratteristiche specifiche di ogni territorio, a partire da quelle antropologiche, morfologiche, economiche e culturali. Ce lo lascia fare però dotandoci di strumenti e punti di riferimento sia etici che pragmatici.

Per approfondire, Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Ma chi l’ha eletto, il Papa?

Papa Francesco durante la conferenza stampa a bordo dell'aereo che lo riporta a Roma da Rio de Janeiro, 29 luglio 2013. ANSA/LUCA ZENNARO/POOL

È popolare e populista papa Francesco: fiuta l’aria e affonda con il tempismo dei migliori centometristi. Se è tempo di crisi non gli manca una carezza ai lavoratori in difficoltà, se è tempo di modernità non disdegna un “buonasera” in favore di telecamere e ora che è tempo di integralismo di ritorno (con buone dosi di patriarcato, omofobia e maschilismo) ha appoggiato una bella frasetta contro l’aborto con la delicatezza di appellare come sicari i (troppi pochi) medici che se ne occupano seguendo il proprio giuramento professionale e le leggi del proprio Stato. Però, diciamocelo, il Papa fa il Papa, niente di più e niente di meno, e sarebbe il caso che se ne rendano conto anche quelli a sinistra che alla perenne ricerca del leader si sono fatti abbindolare dal capo della Chiesa scambiandolo per Che Guevara.

Stupisce piuttosto che da destra (questa destra che da decenni si diverte a canzonare le macerie di sinistra ma rimane senza ombra di dubbio la peggior destra della storia repubblicana) improvvisamente Bergoglio torni ad essere sventolato come certificazione delle proprie idee, manco fosse il marchio doc di ciò che è giusto sbagliato in un Paese con un tale catafascio di leggi, commissioni, discussioni parlamentari che sarebbero lì a decidere proprio di questo: diventiamo laici se il Papa chiede di accogliere i migranti e poi di colpo tutti clericali (ché la Chiesa è roba diversa dalla fede) se il Pontefice sibila una frasetta che ci può tornare utile.

Quelli che dovrebbero evitare gli aborti migliorando le condizioni sociali, lavorative ed economiche delle donne, impegnandosi in una seria campagna sulla contraccezione, fortificando e tutelando le donne e i medici che se ne prendono cura, si aggrappano come scimmie ululanti alla dichiarazione di Bergoglio: fanno i cattolici a singhiozzo proponendoci un parere come dogma e se ne fottono della laicità dello Stato sancita dalla Costituzione.

Sorgono allora un paio di domande, tanto per uscire dalle solite scontate tifoserie: non vale forse la pena di sottolineare l’infame tempismo di una dichiarazione del genere proprio nei giorni in cui a Verona succede quel che sta succedendo e il senatore Pillon sta provando a trasformare una dottrina in legge? E poi: per quanto tempo ancora si insisterà nell’accettare lezioni di maternità e sessualità dal cultore di un libro in cui partorisce una vergine e un serpente decide le sorti del mondo?

Ma soprattutto: se dobbiamo fregarcene fieramente dello spread perché dovremmo strapparci i capelli per il Papa? Chi l’ha eletto, il Papa?

Buon giovedì.

Noi stiamo con Riace

Il 2 ottobre Domenico Lucano, sindaco di Riace, è stato arrestato per favoreggiamento all’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto dell’appalto della raccolta differenziata dei rifiuti a due cooperative del luogo. Il sindaco ha fatto di Riace un modello di accoglienza, esempio nel mondo. Sabato 6 ottobre arrivano a Riace migliaia di persone dall’Italia, ma anche da altri Paesi, per manifestare contro le accuse mosse a Lucano, messo agli arresti domiciliari al pari dei mafiosi. In questo momento politico e con il clima di odio diffuso che si respira, non potevamo pensare che questo arresto fosse una coincidenza e non potevamo non essere lì. Appena giunte troviamo donne di vari paesi dell’Africa in piazza a chiacchierare, bambini che giocano tra loro, uomini riacesi riuniti a discutere, una coppia di origini mediorientali, lei incinta e con un figlio nel passeggino che escono da quello che sembra il municipio, ma in realtà è un ambulatorio medico: oggi è di turno la ginecologa. Perciò le donne sono tutte lì in fila, calme e scherzose, anche in vista dell’imminente arrivo degli “stranieri”, che saremmo noi. Mostrano una tranquilla curiosità e una naturale apertura verso i nuovi ospiti. “Giuseppina!” una mamma di origini africane chiama la figlia, forse ultima nata del paese. Notiamo subito che qui c’è un clima umano diverso da quello che viviamo ogni giorno. Le migliaia di persone che arrivano man mano, sono calme e decise allo stesso tempo, unite nella solidarietà al sindaco, ma ognuno con la sua storia particolare di vita che gli ha dato motivo di essere lì. Un nutrito gruppo di ragazzi africani accolti a Riace aprono la manifestazione in anticipo: «Noi dobbiamo dare inizio alla manifestazione, perché noi siamo la testimonianza in carne e ossa di quello che Mimmo ha fatto; Luter King, Mandela, Sankara: Mimmo è diventato l’ennesimo nero in carcere». Poi la manifestazione parte, risaliamo un corteo che non finisce più: tante associazioni, partigiani, sindacati, tante sigle, ma oggi i nomi non contano, oggi contano gli esseri umani. Il corteo scorre tra tanti slogan, arrivati sotto casa di Mimmo si ferma. Non prosegue. Le persone vogliono gridare solidarietà a quest’uomo, vogliono dirgli grazie. I ragazzi e le ragazze accolti a Riace ballano al grido di “Mimmo non si arresta”. Tutta insieme la folla intona Bella ciao. Lucano alla finestra piange, sorride, alza il pugno, riconosce le persone venute lì per lui e lancia baci uno ad uno. I suoi occhi dicono un grazie infinito a tutti i presenti. E si resta lì sotto, a cantare, urlare, scambiarsi sguardi e cenni per più di mezzora, mentre la testa del corteo ha già iniziato il comizio. Più tardi Lucano manda un discorso scritto a tutti i manifestanti. Potete leggerlo ovunque online. Quest’uomo dice e fa quello che dovrebbe essere naturale per ogni essere umano, ma che oggi non è tanto scontato: aiutare l’altro non per motivi di carità religiosa o convenienza personale, bensì in quanto essere umano simile a noi. Come tale egli ha diritto non solo al cibo, all’acqua, ai vestiti, a un tetto, ma ad una casa sua, ad un lavoro, a costruirsi una nuova vita, a realizzare la propria identità. Identità che si realizza ancor più, se anche le persone che appartengono alla sua stessa comunità, possono realizzarsi. Se gli altri intorno a me vivono bene, vivo bene anch’io. Questo vale in primis per i riacesi che hanno visto il proprio paese rifiorire. Qualcuno ha scritto che sarebbe da provare se effettivamente il modello Riace consente uno sviluppo economico duraturo, ma ciò che conta è che promuove e mantiene lo sviluppo umano, sociale e culturale. Questo ci dà la possibilità di pensare diversamente la nostra società in cui sviluppo economico e sviluppo umano spesso sono inversamente proporzionali. Per questo lo hanno chiamato “reato di umanità”. Grazie al sindaco e all’uomo, alla sua capacità di sentire, vivere, amare gli altri uomini, donne e bambini; alla sua naturale capacità di riconoscere l’identità dell’altro: «Conosce per nome tutti i bambini del paese», ci ha detto un ragazzo africano, grato. Ma dopo sabato abbiamo la certezza che tale capacità non è di un uomo solo, ma anche delle migliaia di persone che erano lì a lottare con lui e chissà di quanti altri più silenziosi. «Ho fatto un sogno» diceva Martin Luther King. Anche noi credevamo di essere delle sognatrici, prima di arrivare a Riace. Dopo averla conosciuta sappiamo che non è così.

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Rossella Carnevali e Valentina Mancini sono entrambe psichiatre e psicoterapeute. Hanno curato tra l’altro il numero monografico della rivista scientifica di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla dal titolo “Migrazione, una sfida culturale”

Per approfondire, Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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«Inaccettabili le parole del papa sull’aborto, che paragona medici e sicari», dice Filippi, Fp Cgil medici

20080308 - ROMA - POL - 8 MARZO:CORTEO ROMA;ORGANIZZATORI,OLTRE 30 MILA PARTECIPANTI . Palloncini con le cifre 194, numero della legge sull' aborto, durante la manifestazione organizzata da Cgil, Cisl e Uil per il centenario della festa della donna, questo pomeriggio a Roma. DI MEO / ANSA/ ji

«Il paragone operato da una autorità religiosa, tra medici che praticano l’interruzione di gravidanza e sicari, è per noi inaccettabile, in uno Stato laico». Con queste parole Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil medici, respinge al mittente le dichiarazioni di papa Bergoglio, rilasciate durante l’udienza generale sul tema del quinto comandamento, “Non uccidere”.

«Non è giusto “fare fuori” un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema. È come affittare un sicario per risolvere un problema», ha riferito il papa in Piazza San Pietro.

«Con questo paragone – commenta Filippi – il papa definisce come killer dei professionisti che lavorano ogni giorno nell’unico ed esclusivo interesse della salute dei cittadini, e in particolare di quella delle donne. Ci sentiamo gravemente offesi. I medici hanno il dovere di rispondere a principi deontologici e alla legge, non certo ad ideologie culturali, né tantomeno religiose».

La violenta esternazione di Bergoglio segue le sue frasi dello scorso giugno, pronunciate durante il Forum delle associazioni familiari, secondo cui, ancora in riferimento all’aborto, «nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». E arrivano a stretto giro rispetto alla mozione approvata dal Consiglio comunale di Verona per finanziare associazioni cattoliche che combattono l’interruzione di gravidanza, col voto favorevole – è bene ricordarlo – della capogruppo del Partito democratico Carla Padovani.

«Non possiamo pensare che sia una coincidenza», commenta il sindacalista. «Tale affermazione del papa arriva a pochi giorni di distanza rispetto ai fatti di Verona, e si pone in continuità rispetto ai recenti attacchi dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza , una legge che è stata un’importante conquista sociale. Si tratta dell’ennesima ingerenza di un capo di Stato straniero che segue principi esclusivamente religiosi. Mentre è la scienza, con le sue evidenze, il nostro unico punto di riferimento, grazie al quale tuteliamo la salute dei cittadini».

Nel frattempo, stando ai dati dell’ultima relazione ministeriale sull’attuazione della legge 194, solo il 60% delle strutture ospedaliere con reparto di ostetricia e ginecologia in Italia effettuano le Ivg (interruzioni volontarie di gravidanza, ndr), e 7 ginecologi su 10 sono obiettori.

«Nei reparti di ginecologia sono pochi i non obiettori – prosegue Filippi – e così i medici che lavorano nel servizio pubblico per tutelare la salute delle donne si trovano spesso a lavorare in condizioni gravissime di carenza di organico, rinunciando peraltro spesso alle proprie carriere, per fare ciò che tutti i medici dovrebbero fare. Il nostro sindacato, da sempre, combatte per arginare il grave problema dei medici obiettori di coscienza, e richiama i suoi medici al dovere del rispetto della deontologia e della legge. Non è accettabile che per principi morali il medico non intervenga laddove è necessario intervenire, per salvaguardare la salute psico-fisica delle persone».