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Genova, quale futuro per la città spezzata?

People look at the Morandi motorway bridge two days after a section collapsed in Genoa on August 16, 2018. - A vast span of the Morandi bridge caved in during a heavy rainstorm in the northern port city on August 14, 2018, sending about 35 cars and several trucks plunging 45 metres (150 feet) onto railway tracks below and killing at least 39 people. (Photo by MARCO BERTORELLO / AFP) (Photo credit should read MARCO BERTORELLO/AFP/Getty Images)

«Mancano soldi nel decreto Genova ma, soprattutto, manca un ragionamento sulla città» dice a Left Luca Borzani, storico, ex presidente di Palazzo Ducale e, prima ancora, assessore ai tempi di Pericu. «Credo che verrà ritoccato – aggiunge – perché, probabilmente, i pochi soldi dipendono dalla partita che si sta giocando con l’Ue sulla legge di bilancio. E Genova potrebbe essere usata per slargare i cordoni della borsa. A quasi due mesi dal crollo del ponte Morandi, però, non sembra ancora chiaro a nessuno che non è una questione locale ma una faccenda che investe la sesta città italiana».
«Sul decreto si gioca il futuro di una città divisa non solo da un ponte spezzato» spiega Davide Ghiglione, consigliere municipale in Valpolcevera (Chiamami Genova). «Da tempo esistono due città: una esclusiva, luccicante e un’altra fatta di periferie abbandonate, quartieri dormitorio». Fino al giorno della strage – 43 i morti e 258 le famiglie sfollate – i 70mila abitanti della valle comunque dovevano battersi contro Tav, Gronda, Dighe di Begato (due torri di edilizia popolare fatiscenti), sversamenti di idrocarburi, sfruttamento selvaggio del territorio. «Alcuni sembrano accorgersene solamente adesso – riprende Ghiglione – ma la tragedia ha messo in risalto il processo di desertificazione sociale della Valpolcevera, e delle periferie in generale, carenti di qualsiasi tipo di servizi, da quelli sanitari ai trasporti». “Lavoro, strade, sanità”, infatti, sono state le parole d’ordine del corteo di alcune centinaia di persone, scese dalla Valpolcevera fino al centro, l’8 ottobre, dopo aver…

 

Il reportage di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Stop al modello Riace: La circolare del Viminale

Ecco il link per scaricare (o leggere) il documento con cui il Viminale ha comunicato il provvedimento amministrativo di chiusura dello Sprar di Riace: Linee guida Accoglienza Spraar

Il provvedimento diventerà esecutivo tra 60 giorni. Nel frattempo, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Mimmo Lucano ha fatto sapere che presenterà ricorso al Tar tramite l’Asgi.

 

Per approfondire, Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Roberto Escobar: La solidarietà è un tratto umano. E laico

A Demonstrator holds a banner reading 'Solidarity is not a crime" during a demonstration in support of Riace mayor Domenico 'Mimmo' Lucano in Rome, on October 02, 2018. Lucano was put under house arrest today in relation to allegations of aiding illegal immigration, prosecutors said. (Photo by Christian Minelli/NurPhoto via Getty Images)

«WHO is society?», il motto tatcheriano racchiudeva una visione del mondo negatrice del legame sociale. La sua spietatezza innocente, scrive Roberto Escobar, immagina individui astratti, ad una sola dimensione, poveri di umanità, concentrati sulla massimizzazione del profitto. In quel modello di società basato sull’homo oeconomicus, «non c’è società, non c’è relazione, né solidarietà, se non all’interno della famiglia». Nel suo ultimo libro Il buono del mondo. Le ragioni della solidarietà, il docente di filosofia politica dell’Università di Milano indaga le radici del dogma neoliberista che ha aperto la strada al predominio dell’economia capitalista sulla politica e a una visione agghiacciante della società, totalmente anaffettiva, in cui le parole simpatia, empatia, solidarietà sono state svuotate di senso, o addirittura criminalizzate, come accade oggi con l’avanzare di politiche xenofobe e nazionaliste.
Professor Escobar, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una escalation di criminalizzazione della migrazione, di denigrazione delle Ong, fino ad arrivare a concepire un ossimoro come il “reato di solidarietà”. Quando è cominciato tutto questo?

L’invenzione del reato di solidarietà non è di oggi né di ieri. È una invenzione che è stata elaborata in 20-25 anni in Italia e non solo. Si è sostituita la politica, che è sempre una prospettiva volta al possibile, con la paura. Si è cercato di far credere agli italiani che non si tratti di problemi reali, sociali, ma che siano problemi fantasmatici e che ci siano fantasmi pericolosi. Ma queste categorie sociali additate sono quelle più deboli che in questo modo sono state demonizzate. Dunque la solidarietà non ha più motivo di essere. Anzi la si fa sembrare qualcosa di negativo. L’invenzione della parola “buonismo” è lì a ricordarlo. Quando mi danno del buonista contrattacco ma sono da solo contro un intero immaginario. Uno, da solo, viene zittito. Tanto più perché inculcano queste assurdità nelle teste degli italiani da almeno 25 anni.

Perché fa tanta paura Riace, un paesino dove si è sviluppata un’esperienza di buona amministrazione e di integrazione nata dall’incontro fra uomini e donne stranieri e non? Perché spaventa tanto la politica conservatrice e xenofoba che per giunta ha potenti mezzi dalla propria parte?

Fa paura perché dimostra che si può agire diversamente. Fa paura perché la solidarietà è diffusiva, è una malattia benefica. E proprio per questo cercano di bloccarla. Fa paura perché dimostra che la politica può lavorare diversamente. Io vedo il sindaco Mimmo Lucano come un uomo per bene, coraggioso, una persona solidale, lo vedo come un politico serio. È uno che di fronte a un problema lo affronta per quello che è e cerca di risolverlo. E questo, per chi oggi ci vieta di pensare politicamente, è pericoloso. Perché se Lucano ha ragione, allora hanno torto loro, perciò tentano di fermarlo.

Nel suo nuovo libro lei indaga la parola solidarietà da vari punti di vista. A partire da Leopardi lei scrive che la solidarietà è qualcosa di prettamente umano, un moto che viene dalle emozioni, dal riconoscimento dell’altro come pari e diverso ad un tempo.

Questa è la prospettiva di fondo di questo ultimo lavoro ma anche di ciò che sto scrivendo e pensando in questi anni. Per dirla in modo estremamente sintetico: non ci si deve stupire se qualcuno aiuta un altro; ci si deve stupire se non lo fa. Mi spiego: c’è dentro di noi (e lo si può dimostrare in vario modo dalla psicologia alla filosofia) qualcosa che ci spinge ad andare verso l’altro. Se vediamo che soffre gli tendiamo la mano, prima ancora di valutare chi sia, se la situazione in cui si trova sia colpa sua o meno. Sei caduto ti do una mano ad alzarti. E viceversa. Questo slancio è ciò che ha consentito all’umanità di non scomparire. Altrimenti non saremmo qua. Ma questo slancio è coperto, è coartato è negato dalla cultura dominante, del pensiero diffuso. Leopardi lo dice con la sua prosa splendida. Se davanti a qualcuno che sta male non ti muovi, hai un cuore di pietra. Io parto da questa idea. Non devo dimostrare che è giusto essere solidali ma cerco di mostrare quanto sia artificiale e artificioso il nostro rifiuto della solidarietà. Responsabile di questo artificio è la politica della paura e dell’odio che mira ad orientare il consenso.

Lévinas viene considerato come un pensatore del dialogo con l’altro, ma lei ne offre una interessante lettura critica, mettendo bene in luce che nell’ orizzonte filosofico del filosofo francese l’incontro con l’altro ha una premessa religiosa, è fondato sulla metafisica. Se c’è il divino non ci può essere l’umano in quell’incontro, possiamo dirlo?

Questa è la mia opinione. Se per venire incontro a te io ho bisogno di passare attraverso un assoluto, allora l’assoluto è più importante di te. Faccio sempre questo esempio. Pensiamo ai difensori della vita: per loro la vita è un assoluto, magari uccidono la donna che vuole abortire, perché questa donna, per loro, è “un relativo” e vale meno dell’assoluto. È una tragedia quella che poi ne viene fuori.

Io sono per i valori relativi che non sono i valori relativisti, ma sono i valori che nascono nella relazione con l’altro. Questo vale anche per le ideologie, le filosofie, non solo per la religione. Emmanuel Lévinas dice che Dio ci obbliga alla relazione. Se ci obbliga alla relazione, non è più una relazione.

La sinistra, per rinascere oggi, ha bisogno anche e soprattutto di laicità?

Ne ha bisogno profondamente. Il che non significa esclusione delle fedi private dei singoli. Laico è chi immagina che noi viviamo inseme e che ognuno deve essere rispettato nella sua identità e dignità e che ciò che conta è ciò che insieme decidiamo, non le verità che vogliamo imporre agli altri. La sinistra, secondo me, in questo senso deve essere laica.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Roberto escobar prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Candidiamo Mimmo Lucano al Nobel per la pace

Quando la prassi si fonde alle idee un altro mondo è davvero possibile. Questo ci dice la rivolta politica di Lucano. Riace invasa dai manifestanti è molto più che una trincea di fronte al dilagare della destra nazionalista con la sua agghiacciante concezione dell’uomo e della società Bisogna venirci di persona, fino a Riace, per toccare con mano la bellezza di un borgo rinato, che ti sorprende con le sue stradine curate, i murales, la fattoria alle porte del paese appena terminata grazie ai fondi per l’inserimento dei migranti e che ospita gli asini preposti alla raccolta differenziata la cui gestione, sottratta alle ecomafie, è stata contestata dalla procura di Locri.

L’anfiteatro variopinto incastrato tra i monti e il mare ci era già familiare per le tante immagini che presentano l’esperienza di integrazione fra accoglienza dei migranti e rilancio di una comunità in via di spopolamento che è valsa al sindaco Domenico Lucano la notorietà internazionale e gli arresti domiciliari. Oggi lo vediamo gremito da persone di ogni età e provenienza, che dopo aver sfilato in corteo dentro e fuori il paese ascoltano attente interventi, testimonianze e appelli a non fermarsi qui. Prima della lettura del messaggio del sindaco, che avevamo visto salutare commosso il «travolgente fiume di solidarietà» che si snodava sotto le sue finestre, gli applausi più lunghi sono per un giovane ivoriano. Kader Diabate si definisce un frutto del modello Riace, dove in meno di due anni ha imparato abbastanza della lingua e della cultura italiana da inserirsi nella società. Dalla Puglia, dove si è trasferito, è tornato per esprimere il suo sostegno al sindaco. All’assemblea lancia due appelli. Il primo è rivolto agli intellettuali, che si impegnino a studiare il territorio, elaborare progetti e partecipare ai bandi di finanziamento per emancipare l’esperienza di Riace dalla mannaia dei fondi pubblici.

Il secondo s’impone con la semplicità delle cose ovvie e già si sta diffondendo nelle piazze e in rete: candidare “Mimmo” al Nobel per la pace, farne un punto di riferimento per le generazioni future. Vorrebbe dire partire da Riace non solo come ultima trincea di fronte al dilagare della destra populista con la sua violenza verbale e fisica, le sue sistematiche menzogne, la sua agghiacciante concezione dell’uomo e della società, ma come trampolino per rilanciare con forza la consapevolezza che quando la prassi si fonde alle idee un altro mondo è davvero possibile. E non è un caso che fra tanti provvedimenti che stanno minacciando la nostra democrazia, proprio l’arresto di Lucano abbia prodotto una reazione così ampia e spontanea. Non era affatto detto che più di cinquemila persone si sarebbero ritrovate il 6 ottobre in questo lembo estremo del Mezzogiorno, lontano…

Il reportage di Natascia Di Vito e David Armando prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Cosa rischia l’Italia con questa legge di bilancio

Italian Minister of European Affairs, Paolo Savona, attends the Raiuno Italian program "Porta a porta", conducted by Italian journalist Bruno Vespa, in Rome, Italy, 09 October 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Dopo settimane di annunci roboanti e schiamazzi vari, rallegrati da apparizioni sui pubblici balconi – chissà quale vittoria si festeggiava, contro un ministro del proprio governo? Contro un partito alleato? Contro l’Europa, quando ancora tutto deve essere giocato? – è stato finalmente presentato il primo documento ufficiale di programmazione economico-finanziaria del nuovo governo. Si tratta della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (NaDef). Il Def è il documento con il quale, ad aprile, si apre il processo di formazione della manovra di bilancio per l’anno successivo, processo che si svolge in uno stretto rapporto di interlocuzione con la Commissione europea. Il Def illustra la situazione economico-finanziaria del Paese e formula gli obiettivi di politica economica che il governo intende raggiungere l’anno successivo. La Nota di aggiornamento viene presentata a settembre, alla vigilia del disegno di legge di bilancio, e serve per aggiornare, appunto, gli obiettivi formulati in aprile, alla luce dell’evoluzione della situazione economica. Quest’anno la Nota riveste particolare importanza, perché il Def di aprile è del precedente governo: pertanto con la nota si mettono in chiaro i cambiamenti di rotta impressi dal nuovo governo alla politica economica.

La sfida alle regole dell’Unione europea, oggetto dei numerosi annunci della vigilia, annunci che hanno comportato già un notevole costo in termini di maggiori interessi pagati sul debito pubblico, risulta nella sostanza confermata, anche se con una certa attenuazione. Si era detto che si sarebbe portato l’indebitamento netto, vale a dire il deficit del bilancio pubblico, al 2,4% del Pil per il triennio 2019-2021, oggetto della manovra di bilancio. Come si vede dalla tabella riportata in pagina, invece, dopo il 2,4% programmato per l’anno prossimo, il deficit dovrebbe scendere, nei due anni successivi, al 2,1% e al 1,8%.

Perché si tratta di valori contro le norme europee se il trattato di Maastricht, come è noto, impone al deficit pubblico un limite del 3%? Non siamo ben al di sotto? Il perché sta nel fatto che, dopo il…

L’articolo di Ernesto Longobardi prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Domenico Lucano: Vogliono distruggere il Modello Riace

«Vogliono soltanto distruggerci. Nei nostri confronti è in atto ormai un vero e proprio tiro incrociato. I nostri legali, comunque, stanno già predisponendo un ricorso al Tar contro la decisione del Viminale». Lo ha detto all’Ansa il sindaco di Riace, Domenico Lucano, in relazione alla circolare con cui il ministero dell’Interno ha disposto il trasferimento dei migranti accolti nel Comune calabrese e chiesto la rendicontazione di tutte le spese sostenute sollecitando «ad inviare la relativa documentazione secondo le modalità previste dal manuale di rendicontazione Sprar».

Già dalla scorsa estate il Viminale aveva bloccato alcuni pagamenti per anomalie nella documentazione presentata dall’amministrazione di Riace. Nel 2018, il Comune calabrese non ha ricevuto fondi e il 30 luglio scorso il sindaco Mimmo Lucano era stato avvisato della revoca dei finanziamenti diventata ufficiale all’inizio di questa settimana.

Il caso di Riace e il rispetto dei valori della Costituzione

 

I toni e i contenuti aspri e smodati di molte critiche pubbliche al progetto di accoglienza di Riace  paiono mirare a minare la Costituzione e diminuiscono la sicurezza di tutti, perché delegittimano l’efficacia di qualsiasi modello esemplare di accoglienza: in tal modo grave è il rischio di isolare qualsiasi persona che non ha scopi di lucro, ma che, attuando i doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale prescritti  dall’articolo 2 della Costituzione, si impegni a difesa dei diritti delle persone socialmente più svantaggiate, in un contesto purtroppo teso a ridurre lo spazio per un’effettiva tutela del diritto di asilo e dei diritti umani  fondamentali.

In ragione di ciò appare insopportabile la mistificazione secondo cui si vorrebbe combattere il business dell’accoglienza proprio smantellando lo SPRAR e incentivando l’accoglienza dei richiedenti asilo in strutture sovraffollate e con meno garanzie come deciso dal Governo con l’approvazione del cosiddetto decreto legge sulla sicurezza . Sconcerta che grossi centri come quello di Mineo e molti altri, la cui gestione è stata oggetto di vari procedimenti penali non vengano chiusi e gli appalti non siano revocati, ma che si voglia ridurre il sistema SPRAR strumentalizzando anche la vicenda di Riace. Ci chiediamo perché tanta solerzia non avvenga nelle mille situazioni nelle quali impera il lavoro nero, il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori, preferendo colpire proprio l’esperienza di Riace e la persona di Lucano per il suo valore simbolico.

Il progetto di accoglienza diffusa fu promosso fin dal 2002 a Riace e rappresenta una esperienza preziosa, nota in tutto il mondo, che ha permesso di invertire il declino demografico, economico e sociale di quella comunità. Essa ha altresì contribuito a sottrarre le persone accolte da possibili sfruttamenti lavorativi in un territorio dominato dall’influenza criminale della ’Ndrangheta tanto da essere stato realizzato poi in modi analoghi anche in altri luoghi d’Italia favorendo accoglienza e di inclusione sociale.

E’ prioritario evidenziare come il Tribunale di Locri abbia autorizzato misure cautelari per reati che sarebbero stati commessi a Riace, ma che non riguardano l’accoglienza degli stranieri ospitati nelle strutture di accoglienza di Riace afferenti allo SPRAR, in merito alla quale non ha ravvisato nessuno dei delitti ipotizzati dalla Procura della Repubblica di Locri, il cui comunicato stampa, per le inedite modalità e i toni usati, non può che determinare sconcerto e preoccupazione.

Sono pertanto infondate tante ricostruzioni giornalistiche che ricollegano i reati per i quali sono state consentite le misure cautelari ad atti concernenti l’accoglienza degli stranieri nelle strutture  allestite dal Comune di Riace. Poiché nessuno può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna, come prevede l’art. 27 della Costituzione, ed  ognuno ha diritto di difendersi dalle accuse come prevedono gli artt. 24 e 111 della Costituzione, il Ministro dell’Interno che, come tutti i Ministri, ha giurato di osservare fedelmente la Costituzione,  avrebbe dovuto astenersi da esprimere parole di disprezzo sulla vicenda di Riace .

Infine occorre porsi il dubbio sulla ragionevolezza dell’applicazione di una norma penale come quella dell’art. 12 d. lgs. n. 286/1998 che punisce il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare anche in mancanza di scopi di lucro, il che può irragionevolmente colpire anche attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate nei confronti degli stranieri in condizione di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato, cioè proprio atti che quella stessa disposizione non considera reato. Nel caso del sindaco di Riace, posto che è indubbia l’insussistenza di ogni scopo di lucro nella presunta attività di favoreggiamento, contestata altresì rispetto ad  una sola specifica situazione, sorprende come possa essere stata assunta la decisione della custodia cautelare.

In questa particolare e tormentata fase, in cui i diritti fondamentali rischiano di essere pretermessi, si impone, nei confronti di tutti, la necessità di un fermo rispetto di quei principi costituzionali che sono la base imprescindibile del nostro consesso civile.

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Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Info sull’Asgi

Per approfondire, Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Il decreto disumano, vite sospese ai tempi di Salvini

Kingsley ci ha messo un po’ a ritrovare Jennifer e Joy, moglie e figlia di soli tre anni. Partiti insieme dalla Nigeria per garantire alla piccola una vita migliore della loro, le loro strade si sono divise durante il primo tentativo di traversata del Mediterraneo. Un gruppo di ribelli libici li ha ripresi, quando già erano al largo, e condotti in carceri diverse. Per questo, una volta usciti, hanno dovuto ripetere il viaggio. Da soli. «A distanza di mesi, quando anche Kingsley (tutti i nomi sono di fantasia, ndr), dopo la compagna con la bimba, è riuscito ad arrivare in Italia, abbiamo riunito la famiglia. Ora vivono in una struttura della nostra rete Sprar in provincia di Parma. Si sono lasciati alle spalle un contesto di povertà estrema, in Africa erano contadini, integrandosi ogni giorno di più. Jennifer frequenta le mamme della zona, e per il compleanno di Joy casa loro si è riempita di bambini. Ma, adesso, il loro futuro è appeso a un filo».

A raccontarci la vicenda è Talita Pini, operatrice dell’equipe legale di Ciac Onlus, centro immigrazione asilo e cooperazione, con base a Parma. Una realtà pioniera nel campo dell’accoglienza – nata nel 2001, ora conta due progetti Sprar, con 250 posti in totale – che può fregiarsi di gestire esperienze di integrazione all’avanguardia. Frutto di un impegno tenace in difesa dei diritti di chi scappa da guerre e miseria, che ha avuto ricadute positive sul territorio (500 mila euro investiti in zona tra 2017 e 2018, da fondazioni e fondi europei, solo per le attività di progettazione relative ai percorsi di uscita dallo Sprar, dichiara Ciac), e che ora rischiano di venire mutilate dal governo giallonero.

«Jennifer e famiglia – prosegue Pini – hanno già affrontato la Commissione territoriale, che deve ora valutare il riconoscimento della protezione internazionale. Proprio in virtù del principio di tutela dell’unità familiare, sono potenziali beneficiari di protezione umanitaria, peccato che Salvini l’abbia appena eliminata. Adesso la loro situazione è assai incerta».

Ma non sono gli unici in pericolo. «Nel progetto di Fidenza – prosegue – abbiamo cinque posti per ospiti vulnerabili affetti da patologie psichiatriche, che…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Turchia, Erdogan fa processare la libertà di stampa

Members of the media cover a protest outside a court where the trial of about a dozen employees of the Cumhuriyet daily newspaper on charges of aiding terror groups, continues in Istanbul, Tuesday, Oct. 31, 2017. Most of the staff were released from prison earlier this month, but four of them, including editor-in-chief Murat Sabuncu and investigative journalist Ahmet Sik, are still in prison. (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

La sala delle riunioni di redazione del più antico quotidiano di opposizione in Turchia, Cumhuriyet, che in italiano significa “repubblica”, è ampia, odora di fresco. Luminosa e arredata con comodi divani su cui siedono l’uno di fronte all’altro i redattori, i capiservizio e il caporedattore facente funzioni di direttore. Molti di loro hanno condiviso una angusta cella di prigione per quasi un anno e mezzo per poi essere condannati il 25 aprile di quest’anno a pene dai 3 anni e mezzo ai 7 e 8 mesi per «favoreggiamento del terrorismo».

Nell’attesa del secondo grado sono tornati a lavorare in redazione, insieme. Con tanta determinazione e un pizzico di umorismo. Akin Atalay, amministratore delegato della fondazione che edita la testata, ultimo a essere scarcerato e Murat Sabuncu, tornato libero pochi mesi prima di lui, durante le riunioni per decidere il giornale del giorno dopo non si risparmiano battute a vicenda. «Ho solo un problema», dice Akin indicando sorridendo Sabuncu «Siamo stati insieme per 24 ore al giorno e ora non vorrei più vederlo, ma presto potrò liberarmi di lui». Il loro buon umore non riesce però a mascherare la gravità della minaccia che pesa sul capo di 13 tra amministratori e giornalisti del quotidiano e la consapevolezza di dover lasciare a breve il giornale per il quale hanno dato la loro libertà. Lo scorso 8 settembre, alla fine di una lunga assemblea della fondazione che edita il quotidiano è prevalsa la linea kemalista su quella liberal. E così a guidare la società che controlla Cumhuriyet, appena terminato il mandato del precedente board, sarà uno degli…

L’articolo di Antonella Napoli prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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Stefano Allievi: I confini non sono muri ma luoghi di passaggio

PALONG KHALI, BANGLADESH - OCTOBER 9: Thousands of Rohingya refugees fleeing from Myanmar walk along a muddy rice field after crossing the border in Palang Khali, Cox's Bazar, Bangladesh. Well over a half a million Rohingya refugees have fled into Bangladesh since late August during the outbreak of violence in Rakhine state causing a humanitarian crisis in the region with continued challenges for aid agencies. (Photo by Paula Bronstein/Getty Images)

«Potersi muovere è un fattore imprescindibile dello sviluppo economico e culturale. Si muovono le idee, il denaro, le merci. Gli uomini e le donne quando si muovono imparano delle cose, quando si separano dai loro luoghi d’origine vivono nuove esperienze. E spesso possono anche decidere di riportarle al loro Paese se torneranno». Incontriamo Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, all’indomani dell’uscita di 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare). Un libricino di 64 pagine edito da Laterza, dal costo di soli 3 euro, che risponde con parole semplici ed esempi chiari alle domande e ai dubbi più frequenti sul tema del secolo, che la politica, a livello nazionale ed europeo, non riesce a (o non vuole) risolvere.

Da dove bisogna partire per parlare di immigrazione senza tare ideologiche o di altro tipo?
Ci sono ambiti legati al tema dei migranti su cui non si riflette mai abbastanza. Quando parliamo di demografia si tende a enfatizzare soprattutto quella dell’Africa. “Fanno tanti figli, la loro popolazione si raddoppierà, la Nigeria sostituirà gli Usa come terzo Paese più popoloso al mondo”, e questo suscita terrore: “Non possiamo accogliere tutti”. E si perde di vista quello che comporta il calo demografico in atto in Europa. Dove per la prima volta nella storia si è invertita la piramide demografica per cause naturali, cioè non per effetto di una guerra, e i giovani sono molto meno degli anziani. Nelle regioni del nord per ogni under 15 ci sono due over 65. Già oggi, non in futuro. In Africa, invece, metà della popolazione ha meno di 15 anni.

Molti sottolineano che la sostenibilità del sistema pensionistico non può prescindere dai contributi dei lavoratori stranieri, appunto mediamente più giovani.
Ma è molto più di questo. Intanto potremmo far notare che…

L’intervista di Federico Tulli al sociologo Stefano Allievi prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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