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Che gelida manina, se la lasci riscaldar…

Italian Deputy Premier and Labour and Industry Minister, Luigi Di Maio, attends the Raiuno Italian program 'Porta a porta' conducted by Italian journalist Bruno Vespa in Rome, Italy, 17 October 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Tocca addirittura ricorrere a una citazione di Giacomo Puccini (sì, La Bohème, di questi tempi conviene specificarlo) per raccontare la (soap) opera che si abbatte per l’ennesima volta sul governo. Parte tutto dall’allarme (sempre compito e composto, com’è loro costume) di Luigi Di Maio che sulla sua pagina Facebook ieri sera proclama:

«+++ È accaduto un fatto gravissimo! Il testo sulla pace fiscale che è arrivato al Quirinale è stato manipolato. Nel testo trasmesso alla presidenza della Repubblica, ma non accordato dal Consiglio dei Ministri, c’è sia lo scudo fiscale sia la non punibilità per chi evade. Noi del MoVimento 5 Stelle in Parlamento non lo votiamo questo testo se arriva così. Questa parte deve essere tolta. Non ho mai detto che si volevano aiutare i capitali mafiosi. Non so se una manina politica o una manina tecnica, in ogni caso domattina si deposita subito una denuncia alla Procura della Repubblica perchè non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato! +++»

La gravità del momento si coglie  dai +++ che incorniciano il testo (ah, beati quelli che non hanno bisogno di segni per rinforzare il senso delle proprie parole) e dal solito stile da bar sottocasa che rende il ruolo istituzionale una prebenda guadagnata alla bocciofila: dice Di Maio che stamattina sarà in Procura (quelle che non dovrebbero interessarsi di politica secondo il suo alleato di governo) per denunciare la manina che si ostina a rompere le uova nel paniere al governo del cambiamento. Ha qualcosa di rassicurante comunque tutto questo: passare dai poteri forti a una semplice manina mi fa dormire più tranquillo.

Ma c’è di più: il Quirinale, da parte sua, dichiara di non avere ricevuto nessun testo.

Panico.

Qualcuno ha dimenticato sul tavolino di un bar dalle parti del Parlamento un lurido foglietto con gli appunti e le somme della manovra finanziaria. Non solo: qualche barista (al soldo dei poteri forti) si è divertito a cambiare le cifre con lo zucchero di canna e ad aggiungere al condono esistente anche qualche piccolo favore a mafiosi e grandi evasori. Del resto, pensateci, chi potrebbe mai immaginare di decretare un condono fiscale facendo felici mafiosi e furbi? Dai, davvero.

Di Maio controreplica: “Allora basterà lo stralcio”. Se pensate che la risposta non abbia nessun senso non spremetevi troppo: è proprio così.

Ci sono solo due soluzioni: o al governo ci sono dei truffatori seriali che continuano a turlupinare gli sventurati 5 Stelle oppure al governo ci sono degli incapaci. Tertium non datur.

La conclusione migliore è sempre di Di Maio, ma di due giorni fa, sempre dal suo profilo Facebook:

«Aiutiamo le persone in difficoltà, non gli evasori! E’ il primo anno che in Italia non si fa lo scudo fiscale, ma questo i giornali non riescono proprio a scriverlo! La voluntary disclosure che i governi di centrosinistra avevano fatto negli ultimi anni, non si rifarà. I capitali portati in nero all’estero e fatti rientrare pagando una piccola quota, quest’anno non ci saranno. Quindi qualche grande e potente evasore si sarà offeso perchè si vede negare un “privilegio” che era sempre stato garantito anche dai governi di centrosinistra. Si metta l’animo in pace, anzi, stia attento! Perchè (scritto con l’accento sbagliato, testuale, da qui) con questo governo quando si becca uno che evade, finisce in galera. Uomo avvisato, mezzo salvato».

Altro che Puccini.

Buon giovedì.

Chiediamo a tutti i Comuni di conferire la cittadinanza onoraria a Domenico Lucano

L’intera Rete dei Comuni solidali (Recosol) si stringe a Riace e al sindaco Mimmo Lucano. Amministratori, associazioni, volontari di ogni parte d’Italia al fianco di Riace che in tutti questi anni ci ha insegnato che le migrazioni se gestite nel modo corretto possono essere una risorsa e non necessariamente un problema. Ci ha insegnato che si può accogliere facendo l’interesse non solo dei migranti, ma anche dei propri cittadini e del proprio territorio.

L’“esilio” deciso dal tribunale del Riesame dopo la revoca degli arresti domiciliari è un’azione che non fermerà il lavoro del primo cittadino e soprattutto non spegnerà lo spirito solidale innescato. In attesa degli sviluppi giuridici Re.Co.Sol rimane al fianco di tutti i primi cittadini che ogni giorno, da anni, operano per migliorare le condizioni sociali di tutte e tutti.

Chiediamo a tutti i comuni di accogliere Mimmo Lucano che ha reso Riace la casa di tutti e che adesso non può essere casa sua. E ai primi cittadini della Rete di conferirgli la cittadinanza onoraria.

«Riace, i riacesi e Mimmo Lucano non siano oggetti di strumentalizzazioni – afferma Giovanni Maiolo, legale rappresentante Re.Co.Sol-. Si leggono in vari organi di stampa e si ascoltano in vari programmi televisivi allusioni che tendono a ledere il lavoro e l’operato di persone per bene. L’accoglienza e le politiche sociali non si chiudono con nessuna mandata. Restiamo umani».

«Riace rappresenta concretamente la dimostrazione di un’Accoglienza Possibile, che per qualcuno va colpita e smantellata. Proprio perché diventata simbolo di un “modello altro” di relazione con il mondo, va umiliata e cancellata. Non si interviene -come sarebbe giusto e opportuno, nel caso ci fossero state storture e inadeguatezze- per porvi rimedio: semplicemente si spazza via tutto».

Concordiamo con Lucano secondo cui: «Lo Sprar di Riace non lo chiude il Viminale, lo chiudo io. Non sono degni del messaggio di umanità ed accoglienza. Non vogliamo più essere i capri espiatori di politiche repressive. È ora di cambiare marcia. Insieme a tutti i solidali e coloro i quali scelgono di ‘restare umani’, per citare Vittorio Arrigoni, creeremo un nuovo progetto di accoglienza, autogestito e autosufficiente. Pagheremo prima i debiti che a causa di questo sistema farraginoso abbiamo contratto e poi ognuno per la sua strada. Se il Viminale non ha fiducia in noi, l’accoglienza la facciamo da soli, con il crowfunding, con la solidarietà. A Lodi hanno in una settimana racimolato i soldi, negati da Salvini, per le mense dei bimbi dei rifugiati, questo è l’esempio. È necessario ritrovare l’entusiasmo ma il modello Riace sopravviverà, nessuno sarà obbligato ad andarsene. Metteremo a sistema tutte le strutture che abbiamo costruito – il frantoio, la fattoria didattica, l’albergo solidale, le imprese zootecniche. A prescindere dai finanziamenti Sprar».

Quindi ribadiamo la nostra richiesta ai quasi 300 sindaci aderenti alla Rete dei Comuni Solidali: concedete la cittadinanza onoraria a Mimmo Lucano. 10, 100, 1000 Riace.

Per approfondire, Left in edicola fino al 18 ottobre 2018 e in versione digitale su www.left.it


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Selly Kane, Cgil: «Il governo attacca i migranti per colpire i diritti di tutti»

Milano, Catania, Perugia-Assisi, Riace: dice Selly Kane, responsabile Cgil per le politiche sull’immigrazione, che sono state belle piazze quelle di queste settimane contro i decreti e le circolari del ministero degli Interni, «perché dimostrano che Salvini non rappresenta tutti quelli che crede di rappresentare». Per questo bisogna dare continuità alla mobilitazione.

«Siamo di fronte a un attacco alle libertà e ai diritti fondamentali della Costituzione», spiega a Left ricapitolando: blocco dei porti, guerra alle Ong, circolare sgomberi, dl sicurezza e immigrazione, cancellazione del modello di accoglienza Riace. «Ma anche il disegno di legge Pillon, un’aggressione ai diritti delle donne, o le discriminazioni di Lodi contro i bambini figli di stranieri fanno parte di questo attacco. Non è solo un attacco frontale ai cittadini migranti, viene messa in discussione la coesione sociale di questo Paese, valori come uguaglianza e solidarietà sono a rischio se prosegue la criminalizzazione della povertà: a questo si punta con il Daspo urbano, con l’inasprimento delle pene per l’occupazione degli immobili. Non vorrei che passi il messaggio che siano solo attacchi ai migranti». Selly Kane, senegalese, da 22 anni in Cgil, è anche vicepresidente del direttivo nazionale di Corso Italia. Dice anche che si sta «creando una società di apartheid che riguarda tutti, smantellando dalle sue profonde radici la nostra società. È oltre il razzismo, la vicenda di Lodi, ad esempio, ci parla dello stato sociale, della sue messa in discussione. E, in generale, i provvedimenti del governo vanno contro movimenti sociali sempre più meticci».

E allora, dice Kane, «bisogna fare presto, non c’è più tempo per una mobilitazione nazionale di tutte le forze democratiche e in cui la Cgil può essere protagonista, segnali in questo senso arrivano anche dalle parole della segretaria Camusso e di altri settori del sindacato». Anche la segretaria uscente, infatti, ha bocciato come « disumano, sbagliato, di dubbia legalità» il tentativo di Salvini di deportare i migranti da Riace: «Non è più tollerabile che chi governa il Paese soffi sul fuoco del razzismo alimentando odio per crescere nei consensi, riportandoci tutti a rivivere le pagine più buie della nostra storia. Non sono più tollerabili atti come quelli di Lodi che dividono e stigmatizziamo», ha detto 48 ore fa Susanna Camusso.

Chiede Left: «C’è una discussione in corso, tra le reti sociali, per una manifestazione a Roma il 10 novembre prossimo contro il razzismo e contro le disuguaglianze. Crede che possa funzionare per quello che propone?». «È un’occasione, almeno come primo appuntamento. È necessario scendere in piazza prima della conversione in legge del decreto Salvini. E comunque non sarà l’ultima scadenza. Da qui alle europee l’attacco sarà sempre più duro e la mobilitazione deve essere permanente e coinvolgere tutti i territori. La posta in gioco – avverte in conclusione – è altissima».

Per approfondire, Left in edicola fino al 18 ottobre 2018 oppure in versione digitale su www.left.it


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Cous cous Klan

Le sarde in saor di cui sono così fieri i veneti sono descritte in una ricetta del 1226 Muhammad bin al-Hasan bin Muhammad bin al-Karīm al-Baghdadi, noto come al-Baghdadi che (a Baghdad) scrisse il suo libro Kitab al-Tabīh (Il libro dei piatti) che è sopravvissuto in un’unica copia.

Gli agrumi arrivano dall’Oriente. Anche se i Romani conoscevano già il limone, la loro grande diffusione nel Mediterraneo, dove hanno trovato condizioni climatiche favorevoli al loro sviluppo, si deve all’espansione araba verso l’occidente a partire dal 1100.

Gli struffoli napoletani derivano dai basyniasa, dolcetti dell’Antica Grecia a base di uova, miele e noci.

Il mondo classico mediterraneo invece conobbe il riso orientale solo dopo la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno. Teofrasto, contemporaneo di Alessandro, descrisse il riso nel suo trattato sulla storia delle piante. Ne parlò come di un cereale che cresceva in acqua per lungo tempo e i cui semi erano particolarmente idonei ad essere bolliti per soddisfare le esigenze alimentari dei popoli dell’Asia. E infatti non si mangiava mica qui, il riso, ma era usato come unguento medicamentoso.

I fagioli arrivano dal vicino Oriente. La birra o dalla Mesopotamia o dall’Egitto. La prima olivicultura si sviluppa in Palestina, in Siria e a Creta, luoghi d’origine delle più antiche civiltà. Relazioni di Plinio nel suo Naturalis historia testimoniano l’importazione del noce in Europa da parte dei greci tra il VII e il V secolo a.C. dall’Asia minore. La carota dovrebbe arrivare dall’Estremo Oriente. Il basilico è originario dell’Asia tropicale, fu coltivato inizialmente in Iran o in India e giunse attraverso il Medio Oriente in Europa.

Si potrebbe continuare all’infinito, solo per dimostrare la miseria culturale (oltre che politica) dei sovranisti di casa nostra che insieme al presepe ogni anno trovano un buco per sparare qualche castroneria sul cibo. L’ultima in ordine di tempo è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che si è infuriata per l’inserimento del cous cous in una mensa scolastica a Peschiera Borromeo a suo dire con grave sfregio del maiale che è stato invece derubricato. In realtà chi di dovere ha già spiegato che la lonza di maiale è stata sostituita perché troppo dura e perché veniva spesso avanzata dai bambini in mensa ma i sovranisti, si sa, hanno una propaganda talmente solida che riuscirebbero a fare (anzi, lo fanno) un comizio anche su un osso di pollo. E infatti la stessa Meloni qualche giorno fa invitava a mangiare solo mele italianefiera della propria ignoranza.

Se non ci fosse di mezzo un Paese intero questi meriterebbero di vivere in un mondo come quello che auspicano solo per un pugno di voti. Sarebbero a pane e acqua, scrivendo segni con legnetti sull’argilla, a battersi il petto per ripetersi con suoni gutturali quanto sono stati bravi. Anzi no, senza egiziani non avrebbero nemmeno il lievito per il pane.

Per questo temono la cultura: non lo sanno ma probabilmente lo sentono che anche quella avanza solo grazie alle contaminazioni. E per quello ogni volta che aprono bocca sembrano fuori dal tempo: perché sono fuori dal tempo.

A proposito: il cous cous può essere considerato di diritto un piatto siciliano, con un gran bel festival a San Vito Lo Capo e sapete come lo chiamano da quelle parti? «Piatto della pace e dell’integrazione».

Buon mercoledì.

Cucchi, la lotta prosegue: dietro il muro di omertà non ci sono solo i responsabili

Ilaria Cucchi e sullo sfondo una foto del fratello Stefano. ANSA/FABIO FRUSTACI

La confessione lega chi la pronuncia a una verità.
Non solo colui che confessa si qualifica in modo diverso rispetto a quanto afferma: e allora il ladro diventa capace di risarcimento, il violento di riparazione, il peccatore di pentimento. Ma la confessione istituisce anche un rapporto di dipendenza tra il soggetto che la verbalizza e il soggetto, i soggetti che la ascoltano.
La deposizione di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri indagati nel processo per l’omicidio di Stefano Cucchi, mostra un rapporto di dipendenza inedito. Prima dell’11 ottobre del 2018 la verità sulla morte di Cucchi era appannaggio esclusivo di un discorso, diremmo privato, bisbigliato nei locali del comando dei carabinieri della compagnia Roma Casilina. Un discorso costruito all’interno di una logica di omissioni, occultamenti, depistaggi cui i carabinieri autori del pestaggio sono stati sempre fedeli, vincolandosi a essa in un patto che insieme legava loro stessi e quella parte dell’Arma che con il proprio silenzio rinnovava l’insabbiamento.

«Quando dovevo essere sentito dal pm, il maresciallo Mandolini non mi minacciò esplicitamente ma aveva un modo di fare che non mi faceva stare sereno. Mentre ci recavamo a piazzale Clodio, io avevo capito che non potevo dire la verità e gli chiesi cosa avrei dovuto dire al pm anche perché era la prima volta che venivo sentito personalmente da un pm e lui rispose: “Tu gli devi dire che stava bene, quello che è successo, che stava bene, che non è successo niente….capisci a me, poi ci penso io, non ti preoccupare”».
Tedesco, dopo nove anni, con la sua confessione perfora il muro di quella grammatica liturgica di protezione tra colleghi, recide il legame delle omertà condivise e inaugura una nuova relazione che impegna a compiere un percorso di trasformazione pubblico. Sottraendosi alla solidarietà con quel piccolo gruppo di militari e graduati dell’Arma responsabili dell’abuso, innesca un nuovo rapporto di dipendenza, stavolta con la comunità tutta. Quella comunità che da quei carabinieri per mandato deve essere protetta, quella comunità che in questi anni ha ostinatamente tenuto lo sguardo fermo sulle sofferenze di un corpo consegnato allo Stato, quella comunità che si è costituita intorno alla famiglia Cucchi e ne ha reduplicato la richiesta di giustizia e verità. Che il pestaggio avvenuto sia testimoniato e inscritto su un documento giudiziario restituisce piena responsabilità non soltanto ai suoi esecutori diretti e ai suoi complici, ma chiama in causa tutti coloro che si sono pronunciati sulla vicenda, anche e soprattutto chi ha denigrato, calunniato, offeso.

«Fu un’azione combinata. Cucchi e Di Bernardo ricominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi, per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con un schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu una spinta di Di Bernardo in senso contrario, che lo fece cadere violentemente sul bacino. Il giovane battè anche la testa, in modo violento, ricordo di aver sentito il rumore».

Scandire in un’aula di tribunale la successione dei colpi inferti al corpo di Stefano Cucchi non rende giustizia a nessuna di quelle lesioni e non rende relativa nessuna parte di quel dolore. Quello che possiamo pretendere dalla confessione di Tedesco è allora che approfondisca, estenui, insista il suo potere di incisione materiale, di azione concreta, di condotta tangibile. La chiamata alla responsabilità che questa confessione porta con sé si allarga a tutti noi, si restituisce come un obbligo che deve investire interamente la nostra struttura sociale e lo Stato dei diritti. Ilaria Cucchi ha parlato del crollo di un muro: e il muro è crollato non in un momento puntuale, piuttosto arrivare alla verità è stato un sentiero di lotte, uno smottamento continuo, un lavorìo quotidiano e ostinato.

*

Federica Graziani è attivista dei diritti umani e collaboratrice dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali e Ludovico Griguoli Lanza è uno scrittore

Città del Messico 50 anni dopo: quel pugno contro il razzismo è ancora alzato

Chissà se siamo solo noi “bianchi” a pensare alle coincidenze. E chissà se il filo conduttore della storia che lega 50 anni, passando da Città del Messico e arrivando in Giappone, transitando quasi casualmente per l’Italia abbia o meno un senso. Ma proviamo a credere che lo abbia, proviamo a credere in questo senso. Questioni di fusi orari ma il 16 ottobre del 1968 avvenne l’inevitabile. C’erano le Olimpiadi a Città del Messico, c’erano già state le repressioni orrende prima dell’apertura dei giochi. In Piazza delle 3 culture l’esercito aveva sparato per estirpare la protesta degli studenti. Le vittime? Forse 50? (fonti governative) forse 300 secondo i manifestanti. Il clima era comunque incandescente. Inaccettabile quindi quello che è accaduto con la finale dei 200 metri di atletica leggera disputatasi il 16 ottobre. Una finale che diventerà leggenda. Vince Tommie Smith, Usa, 24 anni, col tempo fenomenale di 19,83, secondo Peter Norman, Australia, 26 anni in 20,06, terzo John Carlos, Usa, 23 anni, in 20,10. Fantastica la gara ma epica e immortale la premiazione. Tommie Smith e John Carlos si presentano scalzi, con un guanto nero alzato a pugno chiuso, (ne avevano portati solo un paio) e a testa bassa. Per protestare contro le discriminazioni razziali in Usa. Ma non solo. Il loro gesto, con la testa abbassata durante l’inno americano, rappresenta appieno la politica che irrompe nello sport, il sostegno al Black Panther Party, il loro appoggio ad una rivolta che segna ancora oggi la storia americana. E quel bianco, quel Norman, bianco e dall’aria estranea? La sua storia, meno nota forse è anche più degna di ricordo. Appoggiò in pieno la protesta silenziosa dei due statunitensi afroamericani, chiese di poter portare con sé alla cerimonia un distintivo per la difesa dei diritti umani, si schierò totalmente dalla parte giusta. Smith e Carlos vennero cacciati immediatamente dal villaggio olimpico che avevano dissacrato, Norman tornò con la sua preziosa medaglia d’argento in Australia ma, nonostante avesse continuato a garantire prestazioni di alto livello venne escluso, come traditore, dagli ambienti sportivi. Morì da solo e a portare la sua bara c’erano i compagni di corsa Tommie Smith e John Carlos. Più tardi, troppo tardi, il governo australiano chiese scusa per il comportamento tenuto nei confronti del proprio concittadino “bianco” che si era schierato con i “neri” e contro il potere.
Ma parlavamo di coincidenze. Altri sport, altra epoca, altri contesti. La nazionale femminile di pallavolo entra fra le prime 4 del mondo grazie soprattutto ai colpi di Paola Egonu, nata a Cittadella da genitori nigeriani e di Miriam Fatime Sylla, nata a Palermo e figlia di ivoriani. Italiane sì ma nere, come le quattrocentiste di cui abbiamo parlato in passato, italiane sì ma che confermano, in un ambito complesso come quello sportivo come l’equazione italiano = ovviamente “bianco” sia una menzogna utile unicamente a dividere. Oggi tutti fanno i complimenti a Paola e Miriam e ci uniamo a loro. Fa bene vederle saltare e giocare in un contesto da cui i colori sono banditi. Ma se dovessero, putacaso, vincere il mondiale e se ricordassero quello che avveniva negli Usa rimasti più apertamente razzisti rispetto al nostro ipocrita Paese, ci creerebbe problemi vedere altri pugni guantati di nero e alzati? Tranquilli non accadrà. Ma occhio che prima o poi qualcuno potrebbe ricordarsi di essere, per quanto bravo atleta, considerato in quanto non italiano dal punto di vista del colore della pelle, non rispettato. Potrebbe ricordare. Potrebbe studiare e ritrovarsi nel pugile Leone Jacovacci (padre italiano e madre congolese) che durante il fascismo venne ottenebrato e censurato. Combatte per il titolo italiano dei pesi medi, vince ma il verdetto viene falsato. Si prende la rivincita, con un pugile ariano/italiano per il titolo europeo e vince. Sparisce per poi tornare a Roma, dopo la caduta del fascismo, morendo ad 81 anni facendo il portiere d’albergo. La Roma popolare tifava per lui, contro il milanese Bosisio, non perché antirazzista ma perché lo riconosceva come figlio del popolo. E occhio che il pregio/difetto della memoria, è quello di non risparmiare nessuno.

E le ronde contro la pace fiscale?

Si armino presto i valorosi rondaioli che in questi mesi ci hanno protetto dagli accendini illegalmente venduti in spiaggia e che hanno controllato (senza diritto di controllare) i biglietti sui treni regionali dedicandosi solo ai passeggeri più scuri: se è vero che in questi ultimi mesi si sono dimenticati per distrazione di 49 milioni di euro non obliterati finiti sulla bancarella del partito di cui è segretario il ministro dell’interno ora potranno comunque rifarsi attraversando l’Italia intera, da nord a sud, stando comodi dentro ai confini come piace a loro, controllando i furbetti delle tasse non pagate.

Italianissimi e dalla pelle bianchissima i graziati dal condono (che ora con un moderno fondotinta lessicale si chiamano pacificati) li riconoscete perché sono quelli che fin dai tempi di Berlusconi hanno un’unica scadenza per il pagamento delle tasse segnata sul calendario: votare quello giusto. Aggrappati per anni alla sottana del berlusconismo probabilmente non avrebbero mai potuto immaginare nemmeno nella migliore delle ipotesi che il governo del cambiamento restasse uguale uguale in materia di favoreggiamento fiscale ai furbi.

Le ronde ora le potrebbero istituire contro questi che non solo non stanno pagando il viaggio ma addirittura non l’hanno mai pagato eppure hanno tutto il diritto di rimanere a bordo. Se spendi in modo immorale il tuo reddito di cittadinanza(e il girone dell’inferno è fare acquisti all’Unieuro secondo l’etica di governo) rischi sei anni di galera mentre se non hai ottemperato ai tuoi doveri fiscali da cittadino ora puoi esultare felice.

E fa niente che proprio quelli del Movimento 5 Stelle avessero levato grida di dolore sdegnato in occasione della rottamazione dello scorso governo (che non cancellava il debito ma solo le sanzioni): se sei scaltro sei perdonato, se sei onesto sei un coglione (citando quel Silvio che nell’ombra sicuramente sorride), se sei povero sei clandestino. Cancellare i poveri fingendo di cancellare la povertà e accarezzare gli evasori invocando la pace è un perfetto ritorno ai tempi della destra quando non si travestiva da nuovo senza ideologie.

È lecito, per carità. Basta esserne coscienti. E chissà se ora partiranno le ronde contro questi insopportabili clandestini degli obblighi di cittadinanza oppure preferiranno continuare ad accanirsi sui vù cumprà o sui panini in mensa per i bambini.

Buon martedì.

No al turismo senza regole e alle città invivibili: i comitati della rete Set lanciano l’allarme

La prua della Msc Divina vista da via Garibaldi, nel sestiere di Castello, mentre si dirige verso la bocca di porto di San Nicolò per la crociera inaugurale, Venezia, 02 giugno 2012 ANSA/ANDREA MEROLA

Marco d’Eramo lo aveva scritto già nel 2017 nel saggio Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli): «Come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono (…) Si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo. Finché l’afflusso di visitatori non supera questa soglia, i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti. Oltre questa soglia invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti». Le prestazioni e i servizi sono il diritto all’alloggio, un sistema di mobilità pubblica efficiente, una condizione lavorativa dignitosa, la difesa dall’ambiente e del territorio. Di questi temi si parlerà a Napoli, dal 18 al 20 ottobre prossimi, al primo incontro nazionale della rete italiana Set (Sud Europa di fronte alla turistizzazione), un sistema di movimenti del Sud Europa nato in Spagna per contrastare il turismo di massa e i suoi effetti irreversibili sulla vita dei cittadini.
Nel manifesto fondativo di Set si legge: «In molte città del Sud Europa stanno nascendo movimenti di resistenza ai processi di turistificazione. Associazioni e collettivi di alcune di queste (Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Barcellona) si sono incontrati nel corso dell’ultimo anno con l’obiettivo di condividere esperienze e conoscenze. Anche se ognuna di queste città presenta problemi specifici legati al fenomeno della turistificazione, alcuni sono senza dubbio comuni a tutte loro. Il più importante ed esteso è l’aumento della precarizzazione del diritto all’alloggio, in buona parte provocato dall’acquisto massivo di immobili da parte di fondi di investimento immobiliari da destinare al mercato turistico».
Se la rete Set è apartitica i temi sono quantomai politici, in quanto espressione di bisogni reali e sostanziali che, al netto delle specificità territoriali, sono accumunate da un sottile ma potente fil rouge, l’erosione dei diritti fondamentali: casa, lavoro e fruizione degli spazi pubblici.
«Se l’unica fonte di crescita economica è individuata nel turismo senza regole è chiaro che siamo di fronte ad un abbaglio dalle importanti ricadute sociali, lavorative e abitative» spiega Antonella Esposito del comitato di Napoli che, con Firenze e Venezia, è una delle tre città nostrane a far parte della costola italiana della rete europea Set. «A Napoli, nel corso degli ultimi tre anni, il turismo è aumentato esponenzialmente – prosegue Esposito – e questo dato è stato letto come un segno di riscatto da un immaginario comune non favorevole alla città. Dall’altro lato, stiamo assistendo ad una progressiva espropriazione delle abitazioni del centro storico, adibite alle locazioni brevi per affitti turistici. Il nostro tessuto sociale è particolarmente fragile e la compresenza tra la alta povertà e la pressione turistica crea un importante spazio di frizione». Tradotto: sfratti in costante crescita, aumento del costo della vita e del canone degli affitti.
«Anche sul tema del lavoro, di cui vengono sottolineati solo i benefici a breve termine, è indispensabile fare un ragionamento più complessivo: i principali settori turistici, quali l’alberghiero, la ristorazione e il commercio, presentano spesso le peggiori condizioni di lavoro per salari bassi, lavoro in nero ed esternalizzazioni», aggiunge Esposito.
Infine, sul fronte degli spazi pubblici: «È in atto una sorta di militarizzazione dei luoghi, con ordinanze e controlli “antipanchina”, come già avvenuto in tante altre città italiane».
Siamo ancora sicuri che il turismo sia da considerare una risorsa economica sacra e intoccabile? «Il turismo è la nuova veste del capitalismo, visto che rappresenta circa il 10% del Pil mondiale e il 13% di quello italiano. Ma con quali conseguenze? – si interroga Maria Fiano, insegnante e attivista del collettivo veneziano “Officina del Pensiero e Azione”. La nostra città rende evidente, fino alle estreme conseguenze, quello che succederà anche alle altre città. Si calcola che siano 27 milioni i visitatori annui a Venezia, che incidono pesantemente su una popolazione residente composta da 54mila abitanti. Il centro storico si è svuotato da anni, e tutte le funzioni sono pensate per il turista causando un grave impoverimento del tessuto sociale. L’aeroporto di Venezia si è ingrandito, come quello vicino di Treviso, garantendo sempre maggiori arrivi di visitatori. Nei fine settimana abbiamo dalle sei alle dieci navi da crociera ormeggiate in laguna, che provocano seri problemi d’inquinamento e dissesto idro-morfologico all’ambiente lagunare, già naturalmente fragile. Mi chiedo fino a quando i turisti saranno disposti a visitare una città in cui è sempre più difficile persino muoversi e camminare, e preferiranno infine andare altrove lasciando dietro di sé una città svuotata e desolata».
«È comunque doveroso precisare che non siamo “turismofobici”, crediamo tuttavia che sia necessario leggere il fenomeno del turismo nel suo insieme, ed esaminarne le dinamiche in senso globale altrimenti ne cogliamo solo gli aspetti più marginali, come la movida o il degrado, lasciandoci sfuggire la cornice dalle conseguenze assai più complesse» aggiunge ancora Esposito.
Anche Antonio Fiorentino, del laboratorio politico PerUnaltracittà di Firenze, ricorda il libro di Marco d’Eramo: «L’industria turistica è paragonabile all’industria pesante degli anni Sessanta. È una delle cause della distruzione delle città ed è quindi necessario un processo di riappropriazione della stessa». Fiorentino, come Esposito di Napoli, sottolinea la militarizzazione degli spazi pubblici, a seguito di numerose ordinanze sul decoro che vietano, in certi luoghi caldi del centro storico, di mangiare per strada o sulle panchine: «È un’involuzione autoritaria a cui si sottopone la città che, ricordiamolo, non è una caserma. Ci sono inoltre enormi pressioni di tipo immobiliare speculativo, sia sul centro storico Unesco, sia sulla città metropolitana, nella periferia a nord ovest di Firenze, dove sono previste, tra le altre cose, la costruzione del nuovo stadio della Fiorentina e l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola». Con il potenziamento dell’aeroporto si stima l’arrivo di ulteriori 4 milioni di persone annue, in una città di 350mila abitanti e che può già vantare una media di 14 milioni di visitatori all’anno.
«È chiaro che le amministrazioni si devono porre il problema, ormai improrogabile, sul futuro di Firenze: vogliamo distruggere definitivamente la città – prosegue Fiorentino – o vogliamo investire realmente sulla ricchezza del territorio?». La questione “aeroporto” è talmente cruciale per la città che, alla soglia delle amministrative della prossima primavera, tutte le forze politiche si sono espresse sulla necessità o meno dell’opera, dal sindaco Pd Dario Nardella (favorevole) alla Lega (contraria a giorni alterni), fino alla Cgil Toscana che ha espresso forti dubbi di natura ambientale ed economica sull’ampliamento, bocciando di fatto il progetto.
«A tutte le forze politiche che si stanno spendendo per bloccare l’ampliamento di Peretola, vorrei ricordare che, se mai il progetto sarà fermato, sarà solo grazie ai comitati che da anni lottano contro un’opera inutile e dannosa». Insomma, il turismo è ormai una questione troppo seria per essere lasciata alle polemiche politiche da perenne campagna elettorale.

Sull’esperienza di Lisbona contro la gentrification e per una nuova politica dell’abitare leggi Left n.20 del 18 maggio 2018

Metterci i corpi e andare al largo, tra le macerie

Il 4 ottobre 2018 una nave italiana (la Mare Jonio) ha deciso di impegnarsi nell’operazione Mediterranea per andare là dove le Ong sono state cacciate, in quel pezzo di mare in cui fa comodo ai lupi che le persone muoiano (ma in silenzio) o che vengano riportate nell’inferno libico senza che si sappia troppo in giro. Una nave con finanziatori chiari e modalità trasparenti: liberi cittadini decidono di offrire miglia nautiche direttamente dal sito, i giornalisti a bordo raccontano le giornate, l’equipaggio poche ore fa ha contribuito al salvataggio di settanta persone. Come disse benissimo Sandro Veronesi è il tempo di metterci i corpi. Fisicamente esserci, mollare gli ormeggi e andare al largo, tra le macerie di un tempo che miete vittime solo tra i disperati, i deboli, i meno difesi.

Metterci i corpi nel Mediterraneo ma metterci i corpi anche a Lodi, dove tra l’altro hanno dovuto chiedere di bloccare le troppe donazioni che hanno già pagato l’uguaglianza in mensa tra bambini italiani e stranieri.

Metterci i corpi a Riace dove Salvini ha bisogno di fare il prima possibile un deserto chiamandolo giustizia come fanno gli incapaci quando non hanno altro modo di distruggere l’esistente per fingere di avere un progetto.

Metterci i corpi nei quotidiani casi di razzismo (ieri a Bari un bambino nero è stato aggredito con schiuma spray all’urlo “ora ti facciamo diventare bianco”).

Metterci i corpi nella sciagurata idea di un Decreto sicurezza che vorrebbe imporre orari di chiusura ai negozi in base all’etnia.

E, nel piccolo, metterci i corpi nelle decine di voci che ci capita di ascoltare, vomitevoli e illegali (sì illegali) che ci capita di incrociare.

Metterci i corpi consapevoli che non possiamo scostarci, non possiamo evadere dal presente. L’indifferenza è una colpa. Il silenzio è omertà.

Andare al largo, tra le macerie, significa prendersi cura di questa epoca. Lì c’è la gente da cui ripartire per ricostruire. È un congresso naturale.

Buon lunedì.

Agadez, Niger: ultima fermata

Pushed back by Algeria, migrants descend a truck out of Agadez. After days travelling in the Sahara. Agadez, Niger, 2018

Poco più di un anno fa, il 5 ottobre 2017, gli Stati Uniti si svegliavano con una sorpresa macabra, destinata a occupare le prime pagine dei giornali per i mesi a venire: quattro berretti verdi, soldati delle forze speciali, erano stati uccisi da un gruppo jihadista, durante un’imboscata in Niger. Inchieste interne e ricostruzioni giornalistiche avrebbero messo in luce imprecisioni e superficialità nella catena di comando. A colpire l’opinione pubblica statunitense e alcuni senatori, era stata però la stessa presenza di centinaia di militari americani in un Paese africano, povero e sconosciuto a molti.
L’attacco di Tongo Tongo, un villaggio a 25 chilometri dal confine con il Mali, accendeva i riflettori sulla presenza di militari occidentali in Niger e sul ruolo del Paese come hub per operazioni anti-terrorismo tra Stati del Sahel e Libia. Oltre alle tre, più note, basi francesi, aperte nell’ultimo quinquennio, la stampa internazionale ha così parlato della base Usa per droni, la più grande del continente, alle porte della città di Agadez, rivelando recentemente anche l’esistenza di una base segreta della Cia, sempre per droni, nell’oasi di Dirkou, sulle piste per la Libia. Una caserma tedesca nella capitale Niamey, appoggio logistico per le operazioni militari nel vicino Mali, e una serie di consiglieri in tuta mimetica in alcune basi locali, completavano il quadro della presenza occidentale nel Paese. L’Italia si è aggiunta alla lista nel dicembre 2017, quando un governo Gentiloni in scadenza ha presentato, e fatto poi approvare dal Parlamento, l’invio di una missione militare in Niger per…

Il reportage di Giacomo Zandonini e Francesco Bellina prosegue su Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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