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Alla riconquista del tempo di vita e di relazione

In this Thursday, Nov. 3, 2016 photo, Dan LaMoore sizes hands for an 8-foot diameter silhouette clock at Electric Time Co., in Medfield, Mass. Daylight saving time ends at 2 a.m. local time Sunday, when clocks are set back one hour. (AP Photo/Elise Amendola)

Tempo rubato è il disvelamento di un furto compiuto ai danni di generazioni di uomini e donne nati nella seconda metà del secolo scorso. È il tentativo di mettere a fuoco i processi di lunga durata e le scelte politiche contingenti che hanno sottratto il controllo del tempo dalla disponibilità di una parte della società a favore di un’altra. È il racconto di una guerra condotta dalle classi dominanti contro le classi dominate, di chi sta in alto contro chi sta in basso. Il tempo inteso come campo di battaglia, terreno di un conflitto tra desideri di autonomia e imperativi di comando. Spazio di emancipazione individuale e collettiva e dispositivo di disciplinamento politico e sociale. La relazione tra tempo di vita e tempo di lavoro è tutta dentro questo svolgimento conflittuale e dialettico, stretta dai rapporti di potere che consentono a una cerchia ristretta di élite economiche e politiche di governare il destino della maggioranza di uomini e donne che popolano il pianeta. Il tempo sottratto alla realizzazione del sé, il tempo rubato agli affetti personali, allo sviluppo della creatività individuale e collettiva è il risultato di uno scontro, che nasce nei luoghi di lavoro e si estende alla società. Un movimento dialettico che divide e ricompone i rapporti tradizionali tra fabbrica e società, due ambiti che si condizionano a vicenda, nell’intreccio, divenuto inestricabile, tra tempi di vita e tempi di lavoro. Tempo rubato prova a ricostruire la trama degli eventi in cui si snoda questo furto. Un piccolo contributo per sollecitare un dibattito pubblico all’altezza delle sfide di questo momento, per chi vorrà raccoglierlo. Chi spera di trovare spiegazioni rassicuranti, soluzioni indolore, proposte ispirate a una razionalità tecnica e universale sarà deluso. Chi scrive, aderisce a un punto di vista preciso, crede che la storia non sia un processo lineare e progressivo, ma il portato di conflitti tra interessi e posizioni distinte che si fronteggiano per conquistare potere.

Il tempo come relazione, appunto. Costrutto in movimento che segue lo svolgersi dei rapporti di potere e da questi è plasmato. Non il tempo della storia, ma il tempo della politica, dell’intervento umano che reagisce alla storia, imponendo arresti improvvisi e balzi in avanti. In questo schema interpretativo si inscrive la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro. Una battaglia che accompagna il movimento operaio dai suoi albori ai tempi recenti. Dalla classe operaia inglese di metà Ottocento raccontata da Marx ed Engels alle lotte che si svolgono nelle nuove fabbriche globali. Una lotta che chiede di essere organizzata, per sperare di avere successo e migliorare le condizioni di vita delle maggioranze sociali. Questo libro cercherà di rispondere anche a questo interrogativo, ricercando i possibili nessi tra il piano di attivazione sociale e gli schemi di politica pubblica con cui affrontare il tema della riduzione dell’orario di lavoro. Il libro approfondirà la cornice teorica da cui maturano le ipotesi discusse nella seconda parte del testo. Si cercherà di delineare sinteticamente il contributo di Marx alla nozione di tempo, a partire dall’analisi dei processi di valorizzazione che caratterizzano le strategie di accumulazione capitalistica. Le intuizioni di Marx torneranno utili per leggere le contraddizioni attuali che lacerano le società a capitalismo maturo. Nella ricostruzione storica del dibattito e dei conflitti sul tempo di lavoro si cercherà di inquadrare i momenti di svolta nelle relazioni di potere tra le classi e nello sviluppo del rapporto tra capitalismo e democrazia. In questa luce si articolano le fasi di passaggio che maturano in Occidente: dal ciclo di lotte operaie dei decenni Sessanta e Settanta che portano al consolidamento del compromesso sociale sino alla reazione capitalistica con le riforme promosse da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che inaugurano il lungo ciclo di egemonia liberista.

La grande crisi del biennio 2007/2008 – che porta a maturazione le contraddizioni di uno sviluppo trainato dalla fede incrollabile nella libertà di movimento delle merci e dei capitali e nella battaglia contro le organizzazioni del movimento operaio – segna lo sgretolamento dell’ordine neoliberale e il passaggio a una fase completamente nuova e per certi versi indecifrabile. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016 rappresentano i segnali evidenti di questo passaggio d’epoca, che ha sconvolto il paesaggio politico mondiale. Una cesura storica in cui la fine del vecchio mondo porta con sé la crisi del nesso costituzionale tra lavoro e cittadinanza, traghettato dalla transizione dal fordismo al postfordismo e dal crescente impoverimento di larghe fasce di lavoro dipendente e autonomo. Scaveremo dunque nelle profondità della crisi di legittimazione delle democrazie liberali, nella debolezza dei corpi intermedi e nello scollamento sempre più evidente tra le forze politiche eredi del movimento operaio e le vecchie e nuove soggettività del mondo del lavoro. In questo passaggio si cercherà di mettere a fuoco il nesso tra salario, reddito e riduzione dell’orario di lavoro, tentando di individuare una risposta possibile alla frantumazione della classe lavoratrice e alla distribuzione diseguale del reddito e del tempo di lavoro. Un’analisi che interroga le dinamiche di fondo del mercato del lavoro e le relazioni con la composizione settoriale dell’occupazione e le scelte di politica economica. Le trasformazioni inerenti la struttura produttiva verranno analizzate dentro i mutamenti qualitativi che intervengono nell’organizzazione della produzione e nel rapporto tra sfera produttiva e riproduttiva, tra tempi di lavoro e tempi di vita. Le sperimentazioni recenti di riduzione del tempo di lavoro, come la legge sulle 35 ore varata dal governo francese tra il 1998 e il 2001 e gli accordi siglati in Germania tra sindacato e Confindustria, saranno oggetto di una breve trattazione allo scopo di individuarne i caratteri principali e le sfide da cogliere.

La costruzione di una proposta politica di riduzione dell’orario di lavoro verrà affrontata dentro le trasformazioni che riguardano la sfera statuale e le sue funzioni tradizionali. Per questo nell’opera recuperiamo elementi conoscitivi per introdurre ad una teoria critica dello Stato, identificando nella dimensione statuale un terreno decisivo nella doppia funzione di produttore di beni e servizi pubblici e regolatore dei conflitti distributivi tra le classi. Il campo di analisi dello Stato non si limiterà a riconoscere le funzioni strumentali di controllo della domanda di lavoro, ma si proporrà di interrogare i meccanismi di formazione delle decisioni e la determinazione degli apparati di mediazione e rappresentanza tra interessi sociali contrapposti. In questo schema si colloca la valutazione dei nessi che legano la proposta di un piano di assunzioni nella pubblica amministrazione con una politica di riduzione del tempo di lavoro e le implicazioni sulla qualità della macchina amministrativa. Inoltre, riportare lo Stato al centro della riflessione sulla riduzione dell’orario di lavoro impone il riconoscimento del fallimento del paradigma neoliberale che ha ispirato l’ultimo trentennio di politiche economiche in Italia e in Europa. La centralità assegnata a politiche dell’offerta volte a ridurre i vincoli distributivi e liberare le imprese dal controllo politico-sindacale sulla domanda di lavoro ha trascinato i Paesi europei dentro una spirale recessiva con effetti devastanti sul fronte occupazionale. La necessità di recuperare i fondamenti teorici di una nuova politica economica è il passaggio ineludibile per iscrivere la riduzione dell’orario di lavoro in un quadro di trasformazione della società. Infine, si darà conto degli schemi di riduzione dell’orario di lavoro, dei nessi tra le iniziative legislative e il ruolo della contrattazione sindacale. Un modo per affrontare nel dettaglio le ipotesi di riduzione del tempo di lavoro, tenendo a mente la complessità delle funzioni di governo e di rappresentanza degli interessi. In questo senso, verranno approfondite le ipotesi di riduzione dell’orario contenute nella prassi delle relazioni industriali con le possibilità di intervento legislativo. In un tempo segnato dalla divaricazione tra politica e società, dalla crisi dei dispositivi tradizionali di mediazione, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro offre la possibilità concreta di ricomporre un terreno comune di lotta. L’obiettivo di questa ricerca è qui. Identificare una grande mobilitazione generale su un tema che interroga le forme di organizzazione della società, il modo di produrre e consumare, la vita di tutti noi.

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L’autore Simone Fana è laureato in Scienze politiche. Si occupa di servizi per il lavoro e formazione professionale. Collabora con Left e altre testate sulle temi dell’occupazione, dello sfruttamento lavorativo, del reddito di cittadinanza. Ha pubblicato per Laterza la postfazione, insieme a Marta Fana, al Manifesto per il reddito di base a cura di Federico Chicchi ed Emanuele Leonardi

Il brano del libro di Simone Fana è stato pubblicato su Left del 21 settembre 2018


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Zingonia, cronaca di una deportazione

Trattandosi di un imprenditore e finanziere egotico la chiamò Zingonia. L’imprenditore si chiamava Renzo Zingone e alla fine degli anni sessanta, sfruttando incentivi ed esenzioni fiscali per quella che allora era una zona depressa della pianura bergamasca, si mise in testa di creare dal nulla una città operaia, oggi si direbbe una new town, forse suggestionato dalla vicina Crespi D’Adda ove a cavallo tra ottocento e novecento venne edificato un villaggio operaio modello ora patrimonio Unesco.

Zingone favorì l’insediamento di decine di piccole e medie aziende, tutte con i loro tetti in eternit, edificò un grande e lussuoso albergo, un impianto sportivo tutt’ora funzionante, una discoteca. Servivano lavoratori, tanti lavoratori, e così costruì case e le vendette a caro prezzo agli operai. Tra queste sei grandi ed allora avveniristici condomini, le cosiddette torri di Zingonia. I suggestivi filmati d’epoca si possono vedere su Youtube. Arrivarono dunque gli immigrati dal sud, i terù, come li chiamavano e chiamano a Bergamo, e le sei torri vennero abitate. Gli appartamenti, spaziosi e luminosi, furono acquistati da quegli immigrati con faticosi mutui ventennali o trentennali. Le banche della zona fecero fortuna. Zingonia ebbe un momento di fulgore: fabbriche in piena attività e popolazione in aumento con qualche tensione tra autoctoni e immigrati.

Poi, morto Zingone, il progetto, che prevedeva una new town da 50mila abitanti, non fu completato e negli anni novanta iniziò un’inarrestabile crisi. Venuti meno gli incentivi fiscali molti imprenditori chiusero le loro aziende e si trasferirono altrove. Rimasero grandi distese di vuoti capannoni di eternit grigiastro e consunto. Anche molti lavoratori se ne andarono, ma furono via via sostituiti da altri immigrati, venuti da più lontano, dall’Africa. Dopo la grande crisi del 2008 la situazione, già difficile, precipitò: Zingonia si stava trasformando in un ghetto e chi poteva fuggiva lontano, vendendo il proprio appartamento agli immigrati africani, i nigher, come li chiamano qui.

Zingonia non esiste sulle carte geografiche, è una località appartenente a diversi comuni: Ciserano, Verdellino, Verdello, Boltiere, Osio Sotto. Le sei torri si trovano nel comune di Ciserano, sindaco Pd. Si è creata nel tempo una frattura nel paese: oltre la strada a scorrimento veloce l’insediamento storico, dall’altra parte le sei torri, il ghetto degli africani, la Scampia lombarda, luogo di spaccio e prostituzione. Gli appartamenti delle sei torri sono 206 oltre ai locali commerciali sottostanti. Una buona parte venne acquistata dagli immigrati extracomunitari sempre a prezzo di enormi sacrifici e interminabili mutui altri, pochi, rimasero ad italiani che li possiedono dall’epoca di Zingone, altri ancora rimasero vuoti e furono occupati da spacciatori che in loco, tuttora, tengono vedette e “cavallini”. Il comune di Ciserano ci mise del suo, evitando ogni intervento di riqualificazione urbanistica. Venne smantellata la recinzione e non si sa come, sparì la centrale termica per il riscaldamento delle sei grandi torri, la spazzatura si accumulò, come si accumularono odi e incomprensioni dei paesani storici verso gli africani.

Gli spacciatori dettano legge, intimidiscono coloro che risiedono regolarmente nelle torri, Zingonia, il non luogo geografico, è diventata la sede del male per eccellenza nel cuore di una provincia ad alta densità leghista. L’amministrazione comunale piddina cavalca i sentimenti di ostilità: le elezioni si vincono solo se si promette di risolvere le difficoltà del ghetto, dove risolvere è sinonimo di abbattere e deportare. E così avviene, con il deplorevole concorso di entità ostili e minacciose: i comuni della zona, la Provincia di Bergamo, la Regione Lombardia, l’Azienda pubblica per le case popolari (Aler). Comune di Ciserano e Provincia di Bergamo sono a guida Pd ma fa lo stesso: nel 2015 tutti insieme appassionatamente sottoscrivono un accordo di programma il cui semplice contenuto è il seguente: le sei torri devono sparire, devono essere abbattute, rase al suolo. Su quel terreno sorgerà una struttura di vendita, un parcheggio, uffici. Il piano urbanistico si chiama ARU01 e fu adottato nel 2015.

C’è un piccolo e insignificante problema da risolvere, ovvero i residenti nelle torri i quali non vogliono cedere gli appartamenti acquistati con tanti sacrifici, si riuniscono in comitato, portano la protesta nel cuore di Bergamo, in Regione, manifestano davanti al comune di Ciserano, insomma si fanno sentire vivacemente. Nessuno li aiuta, né il sindacato tradizionale, né tanto meno i partiti, neppure le organizzazioni clericali, che tanto sono per lo più islamici… Solo il Sindacato generale di base (Sgb) e i ragazzi del centro sociale Pacì Paciana di Bergamo li supportano. I tempi si allungano.

Alcuni vendono le loro case ad Aler che le acquista per demolirle, il che è una contraddizione in termini per un’azienda pubblica che dovrebbe dare case e non toglierle. Altri resistono e rifiutano la cessione anche perché Aler propone in cambio poche migliaia di euro. Il comitato dei residenti tenta un ricorso al Tar ma la sospensiva viene negata. Siamo all’epilogo. Nel mese di luglio 2018 vengono notificati i decreti di esproprio. Per appartamenti di 100-130 mq l’indennità è di circa 6.000 – 8.000 euro. In sostanza gli appartamenti acquistati negli anni scorsi per importi tra i 50.000 e gli 80.000 euro vengono espropriati a 6.000 – 8.000 euro e gli espropriati con mutuo in corso dovranno pagare anche il debito residuo alla banca. Chi ha sospeso il pagamento delle rate in attesa dell’esproprio è stato segnalato alla centrale rischi interbancaria e dunque impossibilitato ad avere credito. Un disastro che ha provato gli interessati anche psicologicamente.

Nessuno, a parte le due eccezioni predette, ha trovato da ridire, il ghetto deve scomparire, i suoi abitanti si arrangino. Negli stabili ove ancora vivono alcune famiglie si sviluppano strani e inquietanti incendi. Gli esproprianti mandano operai a devastare gli appartamenti lasciati vuoti: spaccano tutto, porte, bagni, cucine, mobili. Oggi le torri evocano più la Siria che il centro della Lombardia.

Questa è la storia di una deportazione, di un sopruso, di una violenza perpetrata nell’indifferenza, spesso nell’aperta ostilità dell’opinione pubblica. Eppure è anche una storia di dignità e di acquisita consapevolezza, di resistenza e di coraggio che, nonostante tutto, ha lasciato e lascerà un segno. Le sei torri, ad oggi, sono ancora in piedi. Dentro resiste qualche famiglia. In uno scenario lunare si consumano le ultime resistenze. Presto del sogno di Zingone, delle case degli immigrati meridionali, di quelle degli immigrati africani, non rimarranno che macerie analoghe a quelle immateriali che ingombrano molti cervelli.

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Roberto Trussardi, avvocato, ex assessore alle Politiche per la casa del Comune di Bergamo per Rifondazione comunista, è il legale del comitato residenti di Zingonia. 

«Noi, che sappiamo tutto quello che hanno passato per venire in Italia». Parlano i lavoratori dei servizi per gli immigrati

Migrants from Eritrea desembark the Italian Coast Guard ship Diciotti in the port of Catania, Italy, 25 August 2018. Twelve migrants on 117 were allowed to land due to health reasons.The vessel arrived between Sunday and Monday with 177 migrants on board, but the Italian Interior Ministry denied them to disembark, calling EU member states to find a solution on how to distribute them. On 22 August, 27 unaccompanied minors were let off from the ship, assisted by Red Cross, UNHCR and Save the Children. ANSA/ORIETTA SCARDINO ANSA/ORIETTA SCARDINO

«C’è questa idea che è un’emergenza… ma, invece, se la chiamassimo con il nome che ha, cioè che i popoli si muovono, che è un fenomeno antropologico e, quindi, dobbiamo fare i conti con questo movimento che c’è… e fare i conti significa attrezzare gli Stati per questo, altrimenti resteremo sempre in una dimensione sbagliata», dice, nella ricerca La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione, condotta da Cgil, un’operatrice dei servizi sociali del comune di Latina. E, invece, stando a quanto riporta il documento, non sembra che il sistema dei servizi per l’immigrazione si sia (ancora?) adattato a questo tipo di scenario per rispondere ai bisogni dell’integrazione.

A dichiararlo, le voci, le analisi e i racconti dell’esperienza di una diversificata platea di lavoratori e lavoratrici impegnati nelle amministrazioni centrali, negli enti locali, in sanità e nella cooperazione sociale. Che restituiscono una sguardo attento sulle inefficienze a più livelli. Primo, sull’impianto generale del sistema: manca una rete, funzionano a singhiozzo le procedure d’appalto e l’affidamento dei servizi e impera una disomogeneità che colora a macchia di leopardo l’intero sistema. Coinvolgendo non solo i destinatari dei servizi ma anche i lavoratori che li prestano, penalizzati nel rispetto dei loro diritti: tra dequalificazione del lavoro ed esternalizzazioni non sempre virtuose e governate, nelle quali le amministrazioni pubbliche risultano strette tra la morsa delle verifiche (per obbligo di legge) sulla qualità dei servizi offerti e la scelta di far ricorso a gestori opachi dal punto di vista economico, con una serie di subappalti che fa perdere qualità e competenza.

Lamentano «un contesto generale di scarsa sensibilità nei confronti del coordinamento con conseguenze negative sui diversi attori coinvolti», mancando una regìa istituzionale; riportano frizioni fra regioni e strutture di prima accoglienza, vivono un’incertezza fatta di prassi rinegoziata nell’azione quotidiana, soprattutto nei rapporti con questure e prefetture. A questo proposito, «con la questura è veramente un gioco che si crea quotidianamente, per cui ci sono dei giorni in cui ti fanno entrare e ti sorridono tutti; delle settimane in cui è impossibile che l’operatore entri in questura; dei giorni in cui i richiedenti asilo vanno per il rinnovo del permesso di soggiorno e, casualmente, non si capisce perché, li rimandano a casa», racconta C.V., operatore di una cooperativa di accoglienza di Monza e Brianza.

Talvolta, le difficoltà incontrate nella comunicazione con le amministrazioni locali sono frutto della pressione esercitata dall’orientamento politico di turno che introduce un elemento in più di resistenza all’adempimento degli atti da parte di ambienti istituzionali non del tutto efficienti. Creando un circolo vizioso tra competenze del servizio e responsabilità, anche personali, di presa in carico: in alcuni servizi è, infatti, pressante l’obbligo a limitarsi all’essenziale, e in altri vige la pretesa di un’azione a tutto tondo senza garanzie rispetto agli esiti. Ma tant’è: se alcune questioni – vedi quella dell’accessibilità dei migranti al sistema dei servizi e delle opportunità – non venissero affrontate pragmaticamente dagli operatori, si risolverebbero in una vera e propria esclusione di fatto degli utenti, inconsapevoli spettatori dei complicati contesti in cui si trovano a lavorare gli operatori, spesso sottoposti a condizioni di insicurezza sul luogo di lavoro – dal rischio personale al burn out – e in balìa della confusione delle mansioni, senza mobilità interna e tagliati fuori da percorsi di crescita professionale. Lavoratori, dai medici agli operatori, attivi a trecentosessanta gradi per sopperire all’assenza di una presa in carico integrata degli immigrati, fra norme che vorrebbero emergenziale l’accoglienza e normale senso di responsabilità verso gli esseri umani.

Risultato: una predisposizione dei lavoratori al costante adattamento dei mandati istituzionali alla realtà fatta di bisogni delle persone, soccombendo a un impegno supplementare che va oltre i ruoli assegnati. E svolgono, i lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione, anche compiti pragmaticamente risolutivi, talvolta (pure se) ostacolati dalla scarsità delle strumentazioni a disposizione: dalle (anacronistiche) risorse informatiche alle caratteristiche (inadeguate) degli spazi di accoglienza. «Quando senti che uno ha attraversato dal sud dell’Africa, a piedi, gli hanno bruciato e ammazzato il padre, gli hanno mutilato la sorella, arrivano in Sicilia e da lì a Milano, già solo questa narrazione meriterebbe un luogo dove la persona può anche vivere le emozioni di quello che sta raccontando, e sta raccontando un pezzo di vita che noi traduciamo e scriviamo in due minuti ma che per loro è durato due anni di cammino, con tutti i rischi connessi», spiega G.F., operatrice della questura di Milano.

L’inadeguatezza di spazi e risorse accomuna immigrati e lavoratori, il cui disagio è, altresì, alimentato dall’incertezza vissuta dai migranti. Secondo una reciprocità che V.P., medico, Asp Palermo, Sicilia 2, riassume così: «Quando noi conosciamo e veniamo a contatto con queste condizioni, facciamo un viaggio anche dentro la nostra mente, dentro il nostro immaginario collettivo. Quindi, il confronto con la persona che viene da fuori è un confronto continuo con la tua anima, con il tuo modo di conoscere e di crescere (…) Quello a cui teniamo è riconoscere la persona e dirle che qui ha gli stessi diritti, dal punto di vista del livello essenziale di assistenza, del figlio dell’onorevole».

Cucchi: un altro carabiniere sotto torchio e il generale Nistri vuole punire chi parla

foto generica

Caso Cucchi, due sono le novità: l’interrogatorio fino a notte fonda di un ennesimo carabiniere spuntato dopo nove anni alla ribalta processuale e il j’accuse di Ilaria Cucchi contro il generale dell’Arma dei Carabinieri Nistri che si starebbe apprestando a punire gli artefici del crollo del muro di omertà piuttosto che rimettere mano su un modello che non solo produce abusi ma è una macchina per insabbiarli e depistare. Left è appena sbarcato in edicola con una copertina dedicata a questa storia, nel tentativo di raccontarla senza suscitare pena, senza concentrarsi solo sulla compassione per una famiglia devastata dal dolore ma provando a capire il cocktail di proibizionismo, militarismo, malasanità, razzismo, carcere e malapolizia che ci viene somministrato ogni giorno e dentro cui si producono storie che non dovrebbero accadere mai più. Ci interroghiamo sul modello di addestramento, su quello che accade quando si verifica un abuso in divisa e su come si può resistere. Siamo in edicola proprio nella settimana degli anniversari di quei sei giorni dal 16 al 22 ottobre del 2009, in cui un ragazzo di una periferia romana venne arrestato per il possesso di una ventina di grammi di hashish e poi morì paralizzato e disidratato, nascosto dal mondo in un letto di ospedale.

Dunque, la sera del 18 ottobre, è stato interrogato per oltre sette ore a piazzale Clodio il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza. Colombo, indagato per falso ideologico, è arrivato in Procura accompagnato dal suo legale Antonio Buttazzo ed è stato sentito per ore dal pm Giovanni Musarò. A chiamare in causa il luogotenente, anche se non direttamente, è stato Francesco Di Sano, il carabiniere scelto della caserma di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi e che è stato ascoltato in aula il 17 aprile scorso nel processo a cinque militari dell’Arma (accusati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia). In quell’occasione il militare, ora indagato anche lui per falso, ammise di aver dovuto ritoccare il verbale sullo stato di salute di Cucchi senza precisare da chi gli fu chiesta la modifica. L’atto istruttorio è stato secretato.

Nelle stesse ore Ilaria Cucchi, in una conferenza stampa, aveva accusato il generale Nistri: «Ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato». Il giorno prima, Ilaria aveva incontrato il comandante generale dell’Arma dei carabinieri al ministero della Difesa alla presenza del ministro Elisabetta Trenta, uno delle tante personalità che, in questi anni, non si sono fatte mancare l’occasione di un selfie con la sorella di una vittima di abusi. «Dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo», ha spiegato la sorella del geometra morto nel 2009 assieme al suo legale Fabio Anselmo.

Ilaria Cucchi è voluta intervenire in difesa di Riccardo Casamassima e la moglie, Maria Rosati, entrambi carabinieri, che con le loro dichiarazioni hanno permesso la riapertura del processo, e di Francesco Tedesco, il quale ha accusato del pestaggio di Cucchi i coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. «L’unica cosa che Nistri si è sentito di dirmi è che gli unici testimoni che hanno avuto il coraggio di rompere l’omertà verranno puniti con procedimenti disciplinari». Alla ministra Trenta, invece, ha chiesto aiuto «contro i post infamanti e violenti su pagine di Facebook in gran parte gestiti da appartenenti a polizia e carabinieri». L’intervista a Charlie Barnao, a pagina 16 del numero in edicola, è utile per capire le ragioni di certi atteggiamenti da parte di appartenenti alle forze dell’ordine. Proprio la ministra, però, ha voluto gettare acqua sul fuoco con un post in cui afferma che «Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l’obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di Comandante». Ma è proprio alla catena gerarchica che ora punta la Procura dopo che la testimonianza di Tedesco ha dato impulso ai nuovi accertamenti.

Ora, oltre agli esiti dell’inchiesta, sono attese anche le risultanze dei procedimenti disciplinari nei confronti di Casamassima e Rosati e anche dei tre carabinieri imputati per omicidio preterintenzionale, compreso Tedesco. I provvedimenti, che potrebbero riguardare la destituzione o la sospensione dal Corpo, per il reato di abuso di autorità (già prescritto) sono stati notificati nel luglio scorso, il giorno dopo l’interrogatorio di Tedesco al quale ne fu data notizia mentre andava a rendere la sua testimonianza. A parlare di «anticipazione illegittima e ingiustificata» sull’esito dei provvedimenti è stato anche Eugenio Pini, legale di Tedesco.
Ma è proprio a questi carabinieri che dobbiamo un processo negato per anni dopo un proclama dell’allora ministro La Russa che assolveva a priori l’Arma già sconvolta all’epoca, proprio a Roma, dallo scandalo di alcuni militari che volevano ricattare l’allora Governatore Marrazzo e dal flop di alcune inchieste come quella per gli stupri della Caffarella.

È utile ricapitolare i sette falsi che sono stati accertati in questa storia: furono manomessi il verbale di arresto e perquisizione, il registro del fotosegnalamento, artefatte le annotazioni di servizio della caserma dove Cucchi passò la notte per celare le conseguenze del pestaggio, fu impedita la nomina del legale che Stefano aveva indicato, sulle carte che arrivarono all’udienza di convalida c’era scritto che era albanese e senza fissa dimora, fu falsificato il registro che custodiva il rapporto stilato da Tedesco sei giorni dopo il pestaggio, alla notizia della morte di Cucchi, e perfino le sequenze informatiche dei protocolli interni sarebbero state manomesse. Seguì una riunione collegiale tra tutti i coinvolti e i loro superiori che doveva servire a cementare tutti attorno a una versione condivisa. E le consuete dosi da cavallo di retorica sulla benemerita.

Se abbiamo voluto dedicare la copertina a Ilaria Cucchi è per illuminare tutte le storie di “malapolizia”, perché si trovi il modo, insieme, perché non succeda mai più.

Per approfondire, Left in edicola dal 19 ottobre 2018 oppure in versione digitale su www.left.it


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Totò, Peppino e la malamanina

Non c’è nemmeno bisogno di scriverli, gli editoriali. Fanno tutto loro. Al mattino la drammaturgia è tutta scritta sulle agenzie di stampa. La cronaca della giornata di ieri supera qualsiasi fantasia.

La clamorosa accusa di Di Maio su una presunta manina che di nascosto avrebbe modificato il decreto fiscale è falsa. Di Maio ieri non si è presentato in Procura e non ha presentato nessuna denuncia.

Quella manina, secondo i 5 Stelle è la Lega. La Lega ha risposto che in Consiglio dei Ministri tutti hanno votato a favore. Di Maio dice che non era quello il testo su cui si erano confrontati e Giorgetti dice il contrario. Insomma, ciò che si sa è che lo scudo fiscale per evasori (e mafiosi) c’è nella manovra perché lo vuole la Lega.

Salvini ha risposto così: «Non ci sono regie occulte, invasioni degli alieni o scie chimiche. Questo è un governo che non ha timidezze, problemi o complotti contro. In Consiglio dei ministri c’erano tutti, non c’ero solo io. Stiamo per essere attaccati dall’Europa: se diciamo che il decreto è stato modificato la sera per la mattina da Batman o da Robin, è un problema». Se avete la sensazione che stia prendendo in giro Di Maio non vi sbagliate.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che convocherà un Consiglio dei ministri nei prossimi giorni. L’ha detto così: «Il Consiglio dei ministri si svolgerà perché a convocarlo sono io. Non so se Salvini farà in tempo a rientrare. Ma il Consiglio dei ministri ci sarà. Il presidente del Consiglio sono io».

Salvini ha risposto così: «Non possiamo rifare il Consiglio dei ministri ogni quarto d’ora. Quando prendo un impegno, quando firmo un contratto con Di Maio e con gli italiani, lo mantengo. Quando approvo un decreto lo mantengo. Non possiamo ricominciare tutto daccapo. Non si può costruire di giorno e smontare di notte. Domani inizio a Cles la mattina e finisco a Trento a tarda notte. Sabato mattina sono a Cernobbio. Domenica ho il derby, entro in clima derby e non posso occuparmi di altro».

Ditemi, cosa c’è da aggiungere? Hanno fatto tutto loro. Così.

Buon venerdì.

Senegal e Gambia, depredati a casa loro

In Senegal non c’è alcuna guerra. C’è però chi scappa. Alle calcagna non un esercito, ma flotte di pescherecci, pronti ad aggredire economicamente le coste senegalesi. «Se continuano così lasceranno un deserto liquido. I nostri pesci moriranno tutti, annientati dalla pesca selvaggia degli stranieri». Karim Sall, pescatore esperto e sindacalista di mille battaglie, è preoccupato per il suo villaggio. A Joal Fadiouth, come in tutto il Senegal, la pesca è il motore trainante di tutta l’economia.

L’oceano sbatte sulla piroga che ci porta a largo. Un capitano adulto, accompagnato da un equipaggio di giovanissimi, con anche due bambini. Si va a largo, si martella sul legno della piroga, per far rumore e spaventare i pesci. Si calano le reti. Cernie, sardinelle e sogliole che vengono tirate su. Quest’oceano è ricco di pesce, ma non lo è più come un tempo. Con le piroghe non ci si può spingere troppo in là nel mare. All’orizzonte si vedono dei mostri metallici, battelli di multinazionali della pesca che prendono il pesce in acque senegalesi, lavorandolo direttamente su quelle imbarcazioni: vere e proprie industrie.

Il più giovane della piroga prepara un tè alla menta su di un braciere tenuto a bada durante tutta la missione in mare. Si contano i pesci. Chi pesca da qualche anno sa che con questi numeri è difficile tirare avanti.
«Io ho provato a partire in piroga. Siamo arrivati a Tenerife. Eravamo in 40. Durante il viaggio ho visto morire anche tre persone, tra cui una donna incinta. Dopo 45 giorni ci hanno…

Il reportage di Lorenzo Giroffi e Giuseppe Borello prosegue su Left in edicola dal 19 ottobre 2018


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Quei profughi segregati nei centri d’accoglienza di Firenze

A migrant stands at the entrance to the Catholic Church center 'Mondo Migliore' in Rocca di Papa, near Rome, on August 29, 2018. - Some 100 refugees and migrants arrive in Rocca di Papa reception center on August 28, 2018, after they disembarked from the Italian coast guard ship 'Diciotti' on August 26 following a ten-day-standoff. CasaPound far-right party activists have plan a protest on August 29, 2018 against the arrival of migrants, in front of the Catholic Church center 'Mondo Migliore' in Rocca di Papa (Photo by Andreas SOLARO / AFP) (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Quando serve un nemico per alimentare le paure da radicare nei potenziali elettori non ci si fa scrupoli a ridurre persone costrette a fuggire dai propri Paesi in elementi socialmente pericolosi, anche senza che abbiano commesso reati. È ciò che sta accadendo a Firenze, dove tre circolari della Prefettura confermano che gli ospiti dei Centri di accoglienza straordinari (Cas) siano soggetti da monitorare continuamente, quasi che fossero soggetti ad un differente diritto rispetto a quello riconosciuto e sancito dalla nostra Costituzione.

Infatti, con la prima circolare si impone agli ospiti di rientrare entro le 20 e di non uscire fino alle 8 del giorno successivo. Con la seconda si impone a chi riceve pacchi ordinati su internet, di aprirli con gli operatori della struttura, sia “per ragioni di sicurezza, sia per verificare che gli acquisti siano compatibili con la situazione economica dell’ospite”. E se risultano acquisti “sproporzionati rispetto alla condizione dichiarata, si invita a chiederne ragione agli interessati” ed eventualmente, se ci fosse qualche sospetto, si dovrà riferire alla Prefettura e alle forze dell’ordine.

Ma davvero si pensa che se “la situazione economica dell’ospite” fosse buona, questo avrebbe attraversato il deserto, le prigioni libiche, il mare Mediterraneo e adesso dormirebbe in un centro di accoglienza? O forse si vuol solo rafforzare l’idea che “l’immigrato è un furbetto che ci vuole fregare”. Sono ormai famose le bufale (purtroppo ancora in circolazione) sugli alberghi a cinque stelle e i fiumi di soldi regalati dal governo italiano ai rifugiati.

Con la terza circolare gli operatori dei Cas dovranno verificare “le modalità di acquisizione” delle biciclette. Quindi se un ospite di un centro d’accoglienza ha una bicicletta, dovrà spiegare dove e come l’ha comprata, il tutto verrà verbalizzato e nel caso di dubbi, sulla provenienza della bici si dovrà anche in questo caso informare la Prefettura. Sono disposizioni che ledono i diritti degli ospiti (a partire dalla violazione della corrispondenza privata) e che potrebbero essere assimilati alla fattispecie di reato di incitamento all’odio.

A leggere queste disposizioni sorge il sospetto che riguardino strutture carcerarie o comunque persone che costituiscono un pericolo e vanno tenute strettamente sotto controllo.

E invece parliamo di persone che non hanno commesso alcun crimine e che vengono “parcheggiate”, dati i tempi spropositati di attesa dei documenti, dentro Centri di accoglienza straordinari (che poi di straordinario hanno ben poco, visto che il decreto Salvini li vuole far diventare la normalità). Il richiamo alla pagina più buia del nostro Paese è forte: come la prendereste se vi dicessero che “gli ebrei non potranno entrare nei negozi di frutta e verdura, che dovranno consegnare le loro biciclette, che non potranno più salire sui tram né uscir di casa dopo le otto di sera?”, per citare il Diario di Etty Hillesum (scrittrice olandese di origine ebraica, vittima dell’Olocausto, ndr)

Riteniamo inaccettabile questa situazione per cui la condizione di migrante diviene da sola motivo di sospetti e paura in un clima di razzismo più o meno latente che ha visto negli ultimi mesi numerosi casi di aggressioni, attentati e omicidi ai danni dei migranti, mentre il ministro degli Interni spinge l’acceleratore della guerra tra poveri ed ostacola qualsiasi forma di integrazione.

Infatti, con il suo decreto sicurezza e immigrazione, Salvini condanna decine di migliaia di richiedenti asilo e migranti con regolare permesso di soggiorno a diventare clandestini (secondo le stime, 50 mila solo nel 2019, in generale più di 100 mila persone). Queste persone saranno un esercito di lavoratori ricattabili e senza diritti. Aumenteranno il lavoro nero e la criminalità. Inoltre il sistema Sprar verrà molto ridimensionato; sarà più difficile per i migranti integrarsi e molti operatori e insegnanti di italiano perderanno il lavoro. Il decreto infine raddoppia i tempi di permanenza nei Centri di rimpatrio, dei veri e propri carceri per stranieri che non hanno commesso reati ma semplicemente non hanno un foglio di carta che permetta loro di restare.

Mentre i migranti sono sotto la lente di ingrandimento (e alla gogna su tutti i giornali, perché un sospetto spesso vale già come una sentenza), la Procura fiorentina ha chiuso le indagini sulle irregolarità nella gestione dei centri d’accoglienza per migranti (tra le accuse, quella di frode in pubbliche forniture). A questo riguardo chiederemo l’istituzione di una commissione d’inchiesta da sottoporre al Consiglio comunale di Firenze.

A fronte di tutto questo ci sembra necessario ribadire, per l’ennesima volta, che il problema è la povertà e non i poveri. E questo problema non si risolve facendo diventare qualcun altro ancora più povero ma garantendo a tutti, italiani e stranieri, un lavoro ed una casa, la sanità, i trasporti e tutto ciò che serve per vivere una vita dignitosa. La vera differenza non è tra diverse nazionalità o colori della pelle ma tra chi lotta per vedersi garantiti questi diritti e chi invece può permettersi di vivere nel lusso. Lottare uniti per i diritti di tutti e tutte è la via migliore per sconfiggere il razzismo e la paura.

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Miriam Amato, consigliera comunale di Firenze, e Thomas Maerten sono militanti di Potere al Popolo – Firenze

Maude Barlow: Contro il Ceta, il governo italiano passi dalle parole ai fatti

«Prima delle elezioni politiche la campagna Stop Ceta italiana ha fatto un’intensa attività di pressione sui candidati, sottoponendo loro un decalogo da sottoscrivere. Tutti i candidati delle formazioni politiche che compongono l’attuale governo lo hanno sottoscritto. Gli impegni elettorali vanno ora trasformati in fatti, in una bocciatura del Ceta», ribadisce Maude Barlow, di fronte alla platea attenta del Cinema Palazzo, a Roma.

Barlow – presidentessa del Council of canadians, organizzazione ambientalista che si batte per il diritto all’acqua, al cibo e per la giustizia commerciale, in prima linea contro i trattati di libero scambio Ceta e Nafra – è stata ospite in Italia del Forum dei movimenti per l’acqua e della Campagna Stop Ttip/Ceta, e ha dato spunti preziosi alla platea su come condurre le queste battaglie. Se possiamo parlare dell’acqua come di un diritto umano universalmente riconosciuto dalle Nazioni unite dal luglio del 2010, è proprio grazie all’attivismo tenace della Barlow che, al tempo, era relatrice speciale all’Onu e che é il volto, le gambe, la voce, il cuore e la forza della battaglia mondiale per l’acqua pubblica.

Ora però, l’accordo commerciale Ceta tra Unione europea e Canada rischia di farci fare numerosi passi indietro. «Il Ceta è un grosso pericolo per l’acqua, intesa come la considera la risoluzione Onu. Perché per il Ceta l’acqua è un bene commerciale, e come tale va considerata sia nel suo trattamento che nell’applicazione delle misure arbitrali», spiga Barlow. Anche il Parlamento europeo ha approvato, nel settembre del 2015, una risoluzione sul diritto all’acqua. Il testo votato a Bruxelles invitava a proporre iniziative legislative che sanciscano il diritto umano all’acqua, tra cui una revisione della direttiva quadro, e chiedeva di contrastare la privatizzazione dei servizi idrici e di escluderli dai negoziati sul Ttip, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Unione Europea all’epoca in discussione (poi fallito definitivamente, ndr).

Sul Ceta, però, l’Europa ha avuto memoria corta. Perché l’accordo, approvato dal Parlamento Ue in sessione plenaria a Strasburgo nel febbraio 2017, renderebbe difficilissima la ripubblicizzazione del servizio idrico una volta privatizzato, soprattutto in regime di meccanismo privato di arbitrato delle controversie. Anche il meccanismo modificato di arbitrato, la cosiddetta Corte multilaterale per gli investimenti (Isds), non sfugge alle critiche di Barlow, che ricorda che la stessa negoziatrice canadese per il Ceta ammise – sia in fase negoziale che dopo – che il meccanismo Isds poneva gli interessi delle multinazionali sopra quelli dei cittadini e nazionali.

Sono tecnicismi aridi? No, sono armi affilate per combattere, sono parole di conforto e sprone dalla viva voce di chi le usa da anni, da un Premio Nobel alternativo, da una speciale rapporteur, da una donna, da una di noi. Parole importanti, ora più che mai, visti i numerosi dietrofront del Movimento 5 stelle rispetto alle promesse lanciate in campagna elettorale, dall’Ilva alla Tap.

«La battaglia per l’acqua – torna a dire Barlow – è anche battaglia per il cibo. Dentro i prodotti che commerciamo ci sono riserve idriche virtuali, nella carne, nei vegetali, addirittura nei computer. Si tratta di una sottrazione continua delle riserve idriche nazionali che impoverisce i Paesi». Durante l’incontro, sul tavolo, c’è una bottiglia d’acqua, probabile gentilezza di chi non sapeva che relatrice quel tavolo aspettasse; un attivista la toglie, la Barlow ride, fa il segno del pollice alzato, il pubblico la applaude, Roma la accoglie grata.

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Elena Mazzoni è Responsabile nazionale ambiente del Partito della Rifondazione comunista – Sinistra europea. Fa parte del coordinamento della Campagna StopCeta – StopTtip Italia

Il caso Cucchi spiegato ai miei studenti

“Prof, ma lei cosa pensa del caso Cucchi?”. I ragazzi oggi soffrono un vuoto di politica (nel senso più specifico del termine), ma non smettono di avere occhi per vedere quello che accade. E quando si tratta di casi singolari l’attenzione aumenta. è più facile immaginarsi di provare quel che ha provato un altro ragazzo che non proiettarsi in scenari più astratti, dove a lavorare è più la mente del cuore. Così, casi come quello di Cucchi stimolano la curiosità: com’è possibile essere vittima di chi ti dovrebbe proteggere? “Cosa sapete, voi?”, chiedo. “Lo hanno ucciso”, dice uno. È il giorno della deposizione di un carabiniere che finalmente ammette il pestaggio letale. “Cosa avreste fatto voi se aveste assistito a un fatto del genere?”. “Lo avrei detto”. Ecco, perché per anni e anni c’è stata omertà? Perché nessuno ha detto? Il nome di Aldrovandi viene richiamato per associazione, non tutti lo conoscono. Anche in quel caso solo l’ostinazione di un familiare ha avuto ragione di quei silenzi complici. Ma allora è un fatto di responsabilità individuale o ha a che fare con qualcosa di più grande, di strutturale? Racconto delle tante storie che ho ascoltato negli anni, a cominciare da quelle dei centri di detenzione per immigrati irregolari su cui scrissi un libro dodici anni fa. Quel libro aveva in esergo la dichiarazione di un ispettore di polizia, di nome Michele Pellegrino, che aveva lavorato in un centro pugliese: “Nessuno sapeva di aver vinto un concorso per fare il guardiano di un lager”, aveva detto, “Facciamo i guardiani di povera gente”. Ecco, dopo quella dichiarazione ebbe un provvedimento disciplinare. Ma per tutti i numerosi casi di pestaggi ai danni di immigrati di cui raccontavo nel libro nessuno è mai stato punito, e nemmeno perseguito. Come d’altronde nel caso delle violenze di Genova, quando i responsabili sono magari stati allontanati dalla città in cui operavano ma pure promossi. Qualcuno dei ragazzi ha visto il film Diaz, e di fronte a quella ferocia esibita c’è poco da parlare. Racconto che quella notte stavo per andare a dormire lì, e solo per un caso andai altrove.

Questo richiama il fatto che in Italia non siamo mai riusciti a far passare una norma di civiltà, di responsabilità personale, come il numero di identificazione sulle divise delle forze di polizia. Quanto tutto questo ha a che fare con la storia della nostra Repubblica? Lo storico Ginsborg ha parlato di “continuità dello Stato” a proposito del passaggio tra fascismo e Repubblica, in ordine alla continuità di leggi, istituzioni e personale dell’amministrazione, compresi prefetti, questori e uomini della polizia. è un elemento utile per capire che ciò di cui stiamo parlando va inscritto in una prospettiva di lungo periodo? Stavo facendo politica, direbbe Salvini. Sì, e lo rivendico. Ma non politica in senso partitico. Faccio politica nel senso più vero del termine, nel senso aristotelico, perché nessuno vive rinchiuso nel suo orticello ma è parte di una comunità e ha precise responsabilità etiche nei confronti degli altri esseri umani. Si tratta, semplicemente, di garantire i diritti sanciti dalla Costituzione. Articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Articolo 3: «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali». Articolo 13: «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Ripartire dalla Costituzione come patto fondativo della Repubblica oggi appare più che mai necessario. Meditare insieme su quegli articoli legandoli non solo ai fatti di cronaca e di attualità, ma anche agli stessi eventi della storia passata. Riconoscere in quella carta fondativa della Repubblica dei valori e dei principi di giustizia universali, e riconoscere quanto si discostino da essi tutta una serie di pratiche politiche e sociali del presente. E poi capire, magari, che trascendono la legge stessa, in quanto frutto della volontà comune di uomini e donne che nella storia hanno agito in quanto forza collettiva per affermarli.

L’editoriale di Marco Rovelli è tratto da Left in edicola dal 19 ottobre 2018


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Uno Stato di violenza

A woman passes by a giant wall-painting of anti-riot police, 16 November 2007 in Milan, on the eve of a "No global" demonstration in Genoa. The radical left will demonstrate in favour of 25 people accused of rioting during the G8 Summit in Genoa during July 2001 when a young men, Carlo Giuliani was shot dead by a policeman during clashes. On the wall can be read "In hate, in love, Carlo lives". AFP PHOTO / DAMIEN MEYER (Photo credit should read DAMIEN MEYER/AFP/Getty Images)

All’alba del 22 ottobre 2009 muore, paralizzato e disidratato, Stefano Cucchi, arrestato sei giorni prima per una ventina di grammi di hashish. Le carte della prima inchiesta, che rinviò a giudizio guardie carcerarie e sanitari del Pertini, dicevano già che c’erano questioni da chiarire rispetto alle ore in cui il giovane era stato nelle mani dei carabinieri. Ma ci vorranno nove anni perché venissero alla luce il pestaggio e i nomi dei carabinieri picchiatori. Se c’è una novità in questa storia è quella che spiega a Left Fabio Anselmo, il più famoso avvocato dei casi di “malapolizia”: «È la prima volta che a parlare è uno dei protagonisti diretti». Si tratta di Francesco Tedesco. Da imputato di omicidio preterintenzionale si è trasformato in grande accusatore dei colleghi coimputati. Però nove anni dopo. Scrisse un rapporto proprio il giorno in cui seppe della morte di Stefano, ma lo insabbiarono. È stata la determinazione di Giovanni, Rita e Ilaria, padre, madre e sorella di Cucchi, a trasformare un dolore privato in una storia condivisa. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Cucchi, o Aldrovandi e Uva, Budroni, Magherini? Prendiamo Ilaria. Ilaria che buca lo schermo. Come Salvini, al contrario però di Salvini. Più come Mimmo Lucano. L’Italia è un Paese spaccato, come raccontano le piazze di questi giorni. È la linea etica: i solidali e gli ostili, gli ostili contro i solidali. E in mezzo, certo, gli indifferenti, che però sono più amici degli ostili. «Queste zecche del cazzo… speriamo che muoiano tutte… Intanto, uno a zero per noi», si disse in questura, a Genova, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani mentre migliaia di agenti di ogni corpo violentavano i manifestanti. E i cellulari dei celerini squillavano cantando Faccetta nera. Sulle loro chat si possono leggere chicche come: «L’Italia non è uno stivale. È un anfibio da celerino». Ecco, quando parliamo di Cucchi parliamo anche della persistente subcultura fascistoide dentro settori di forze armate e di polizia. E i carabinieri che lo avrebbero pestato se ne vantavano al telefono: «Quel drogato di merda». Giovanardi dice lo stesso ma in modo più elegante. Ma il succo è sempre quello. Drogati di merda, immigrati di merda, poveri di merda. Giovanardi è anche l’autore, con Fini, della peggiore legge sulle droghe mai stata in vigore in Italia: ha riempito le galere di stefanicucchi e le tasche delle cosche. Quando…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 19 ottobre 2018


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