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Mélenchon lascia il Partito della sinistra europea: «Non possiamo convivere con chi applica l’austerity»

epa06669277 Jean Luc Melenchon, member of far-left opposition 'France Insoumise' political party, attend a demonstration named 'Stop Macron' against French government reforms in Marseille, France, April 14, 2018. EPA/Arnold Jerocki

Jean-Luc Mélenchon lascia il Partito della Sinistra europea: «A un anno dalle elezioni europee, non è più possibile unire nello stesso partito europeo gli oppositori e gli artigiani dell’austerità». Durante l’ultimo giorno del loro congresso, i delegati francesi del Parti de gauche (Partito della sinistra, Pg) hanno ufficialmente deciso di lasciare il Partito della sinistra europea (Se) con una dichiarazione approvata domenica scorsa con 208 voti, 2 contrari e 3 astensioni.

Il Partito della Sinistra europea è stato creato nel 2003, riunisce una trentina di partiti: comunisti, “rosso-verdi”, socialisti o democratici di sinistra, di 17 Stati membri dell’Unione europea e 4 Paesi al di fuori. Il Pg è nato alla fine del 2008, aveva formalmente aderito all’Se nel dicembre 2010 al suo terzo congresso, quando il comunista Pierre Laurent aveva preso la presidenza.

Alla fine del successivo Congresso, nel 2013, Pg aveva sospeso temporaneamente la sua partecipazione al Se, per protestare contro la riconferma come capo del partito europeo di Pierre Laurent, perché s’era alleato ai socialisti nelle elezioni comunali di Parigi. Al suo rientro, in occasione delle europee del 2014, il Se ha candidato proprio Tsipras alla presidenza della commissione europea.

La dichiarazione adottata domenica ricorda che il Pg aveva già messo in discussione la presenza di Syriza di fronte all’esecutivo del Se, ma senza successo. Il partito di Jean Luc Melenchon ha quindi preso atto del rifiuto della sua richiesta ed è uscito dal Se, considerando che «il periodo invita più che mai ad essere chiari di fronte alla politica di austerità dell’Ue» e che «qualsiasi applicazione di questa politica da parte di un membro della Sinistra europea ignora qualsiasi posizione anti-austerity presa dagli altri membri».

«Syriza è diventata la rappresentante della linea di austerità in Grecia al punto di attaccare il diritto di sciopero, abbassare drasticamente le pensioni, privatizzare interi settori dell’economia; tutte le misure contro le quali i nostri partiti combattono in ciascuno dei nostri Paesi», si legge nella dichiarazione. La decisione era diventata inevitabile. E affonda le sue origini sin dal varo del Plan B, da parte di Jean-Luc Mélenchon e dei suoi alleati nell’autunno del 2015, a cui i partiti comunisti membri del Se, a cominciare dal Pcf (il Partito comunista francese, ndr), non non hanno mai accettato di partecipare.

I contatti presi nei vertici legati al Plan B hanno permesso a France insoumise, in cui il Pg di Mélenchon è pienamente impegnato, di costruire alleanze con altri partiti europei intorno a una piattaforma comune, il cosiddetto appello di Lisbona, firmato ad aprile con Podemos (Spagna) e Bloco de izquierda (Portogallo). Questo raggruppamento, che registra simpatie anche in Italia, in settori di Rifondazione comunista e di Potere al popolo, aspira a guidare uno schieramento, il prossimo anno, al Parlamento europeo.

All’appello, lanciato il 12 aprile scorso, hanno aderito: Alleanza rosso-verde (Arv, Danimarca), Partito della sinistra (Svezia), Alleanza di sinistra (Finlandia). Il Pcf francese ha invitato lunedì scorso i rappresentanti della sinistra a incontrarsi per la costruzione di una lista alle elezioni europee, «la più ampia possibile», Jean-Luc Mélenchon era però a Madrid con il leader del Podemos, Pablo Iglesias.

In Italia si attende che Luigi De Magistris chiarisca il ruolo che vorrà recitare per le europee e quali compagni di strada sceglierà. L’eventuale presenza di Varoufakis, anch’egli interessato a guidare uno schieramento transnazionale (ma che in Italia potrebbe allearsi con il sindaco di Napoli), potrebbe contribuire a snellire la compagine. C’è anche l’ipotesi di una lista Colau, la popolare sindaca di Barcellona che potrebbe riprodurre il modello di “confluencia” che le ha consentito di vincere le elezioni comunali.

Ovvio che il profilo assunto da Tsipras all’indomani del voltafaccia rispetto all’“Oki” contro il III memorandum non consenta una replica di una lista europea antiliberista guidata da lui. La mossa di Melenchon, tuttavia, al di là del merito, potrebbe ingarbugliare le acque del dibattito a sinistra qui in Italia.

Su Left n. 27, in edicola da venerdì 6 luglio, Checchino Antonini fa il punto sul cosiddetto “quarto polo“, intorno a cui si sta raccogliendo la sinistra in Italia in vista delle europee 2019

La cover di Left n. 27, in edicola da venerdì 6 luglio


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‘A livella: indicare il fango degli altri per sembrare puliti

epa02825823 A festival visitor is covered with mud during the 14th Boryeong Mud Festival on Daecheon beach in Boryeong City, 190km west of Seoul, South Korea, 16 July 2011. During the festival period, tourists flock to the area to experience the beneficial properties of the Boryeong mud, and also to have lots of fun. Fully immersed in the both the mud and the festival?s atmosphere, visitors enjoy mud wrestling, mud sliding and even swimming in the mud mega tub. Boryeong Mud Festival is held on 16-24 July. EPA/JEON HEON-KYUN

La nuova via di scampo, la più in voga al momento, per evitare di argomentare una difesa e non essere costretti a prendersi le proprie responsabilità è nel trovare qualcuno di peggio in giro e sperare che la feroce indignazione popolare trovi abbastanza soddisfazione per placarsi. Sta accadendo in queste ore con i cinquanta milioni di euro “spariti” dalla Lega di Salvini (“e allora il Pd?” ormai è diventata una frase buona per tutte le occasioni, come le profezie di Fassino quando c’è da risollevare una serata) ma accade anche ogni volta che qualche politico viene indagato o arrestato e accade ogni volta che si discute delle qualità di qualcuno.

La livella non è più la morte come nella celebre poesia di Totò: è lo schifo. Più schifo riescono a cogliere in giro e più si sentono in diritto di fare schifo, come se l’asticella della dignità e della potabilità delle proprie azioni si abbassasse ogni giorno di qualche centimetro: se c’è gente che chiede di affondare i barconi quelli che si limitano a non piangere i morti in mare si considerano quasi degli umanisti. Se c’è qualcuno che è stato arrestato per mafia quelli che semplicemente sono amici di mafiosi (o ne sono stati per anni alleati di governo) possono addirittura fingersi degli eroi contro la criminalità. Raccontano i grandi evasori fiscali e così le loro piccole corruzioni valgono come un paio di multe per divieto di sosta.

È un’irrefrenabile corsa verso il peggio in cui il sapere o il senso di responsabilità sono diventati un’onta, dove la morale è essere più furbi degli altri riuscendo se possibile a essere peggiori, dove conta avere in tasca la storia di qualcuno meno preferibile di te per considerarsi assolti. E così, rotti gli argini, si sfaldano anche le parole: il ministro degli Interni dichiara di voler prendere a bastonate i mafiosi usando il loro stesso vocabolario, la calunnia è l’unico metodo di critica, l’insinuazione rivenduta come analisi, l’appartenenza è una qualità, la delazione un’arma politica sdoganata e la violenza un’accettabile e legittima difesa.

Una moltitudine di cercatori di fango che insozzano l’ambiente intorno sperando di ricavarne profumo personale. E mentre tutto deperisce l’unica speranza è trovare nuovi e più turpi disperati. Una decrescita infelice che ci rivendono come Rinascimento.

Buon giovedì.

Bulli e sdraiati sarete voi

Da una parte, gli adolescenti dipinti come una generazione di bulli, pericolose pesti in preda ad un’inspiegabile irrequietezza, da irreggimentare e rendere il più possibile innocui. Dall’altra, quelli tratteggiati alla stregua di zombie, in perenne ostaggio di una tecnologia che imbriglierebbe le loro potenzialità, fino a ridurli ad uno stato di apatia sdraiata. Per non parlare poi degli editoriali di prestigiosi quotidiani mainstream di centrosinistra, secondo i quali la linea di demarcazione tra i ragazzini educati e quelli «tracotanti», quelli rispettosi e quelli violenti, ricalcherebbe la separazione tra benestanti e poveri. Stereotipi reazionari (quelli “apocalittici” nei confronti del progresso tecnologico), classisti (quelli che fanno della buona educazione una questione di censo) oppure legati all’ignoranza in ambito psicologico (quelli sulla violenza – oppure la svogliatezza – “innata” dei teenager). Preconcetti che affollano i media e il racconto pubblico di una fase assai delicata della crescita degli esseri umani.

Proseguendo nella nostra ricerca sull’adolescenza (v. lo speciale su Left del 6 aprile 2018) abbiamo voluto nuovamente dimostrare l’inconsistenza di questi falsi miti. Senza sostituirci alla voce degli adolescenti, ma incontrandoli e dandogli ascolto, per comprendere quali sono le loro speranze, i loro desideri, i loro timori. Lo abbiamo fatto grazie ad un progetto di intervento nelle scuole. Scopo dell’iniziativa: il contrasto alla dispersione scolastica legata al disagio psichico. In pratica, una serie di incontri in 13 classi prime dell’Istituto di istruzione superiore Di Vittorio – Lattanzio, nella periferia est di Roma, ha portato quattro professionisti, psicologi e psichiatri, a presentare in aula altrettanti romanzi. Libri usati come strumento, come “grimaldello” culturale per raccontare ai giovani cosa c’è alla radice di patologie come la depressione, oppure di comportamenti violenti come lo stalking e il bullismo, o dei fenomeni legati al razzismo. Ma anche – e soprattutto – per far parlare i giovani di sé.

Ultima tappa del progetto: la presentazione di questi testi e della loro esperienza nella redazione di Left e di Radiolibri.it. Ne emerge il quadro originale di una generazione vivace, impegnata nella ricerca di una propria identità, oltre e nonostante il refrain assillante dei «giovani che non avranno un futuro». In un Paese in cui, va ricordato, il tasso di dispersione scolastica resta un problema grave. Dopo il calo significativo dal 19,6% del 2008 al 13,8% del 2016, nell’anno successivo la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che escono dal sistema dell’istruzione con in tasca solo la licenza media è tornato a salire, attestandosi a quota 14% (dati Istat). Siamo ancora lontani, insomma, dall’obiettivo della strategia di Lisbona, la cosiddetta “Europa 2020”, che invita i Paesi Ue a rientrare nella soglia del 10% prima della fine del decennio. Tutto ciò, in un quadro in cui un milione e 300mila bambini e ragazzi, ben il 12,5%, vivono in Italia condizioni di povertà assoluta (come ricorda il recente report Nuotare contro corrente di Save the children). Uno dei motivi dell’abbandono scolastico precoce è proprio il disagio mentale, e la cultura della prevenzione è il primo tassello, imprescindibile, per intervenire per tempo, quando le prime avvisaglie di sofferenza si manifestano.

Di tutto questo si parla nell’articolo di Amarilda Dhrami, che ha incontrato i giovani studenti che hanno varcato le porte della nostra redazione. Parlandoci delle loro aspettative, dei timori, delle incertezze e dei desideri. Che aspettano solo di essere considerati con attenzione e interesse

Di seguito, inoltre, i podcast delle interviste ai quattro gruppi di studenti. Nei quali si raccontano, a partire dagli spunti forniti nei libri che hanno letto in classe. Buona lettura e buon ascolto.

[divider]I podcast[/divider]

Gruppo coordinato dallo psichiatra e psicoterapeuta Paolo Fiori Nastro / Libro: Ritratto di uno stalker, di Cinzia Piccoli (L’Asino d’oro)

 

Gruppo coordinato dallo psichiatra e psicoterapeuta Valentino Righetti / Libro: Centrifuga, fughe, ritorni e altre storie, Aa.Vv. (Sinnos)

 

Gruppo coordinato dallo psichiatra e psicoterapeuta Riccardo Saba / Libro: Il rischio, di Chiara Lico (Sinnos)

 

Gruppo coordinato dalla psicoterapeuta Emanuela Grossi / Libro: Blues for Lady Day, di Paolo Parisi (Coconino press)

 

 

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left n. 23 dell’8 giugno 2018 in edicola


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Dignità vo’ cercando…

Welfare Minister Luigi Di Maio (L) and Italian Prime Minister Giuseppe Conte during a press conference after a Council of Minister on the so called "Dignity Decree" at Chigi Palace in Rome, 3 July 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Il Pd si oppone “da destra” alle proposte del ministro del lavoro Di Maio in tema di lavoro. 
Invece di incalzare il governo sull’efficacia reale delle proposte avanzate e su ciò che manca – nel merito e nel metodo (il provvedimento votato in Consiglio dei ministri assente il leghista Salvini non è infatti frutto di un confronto con le organizzazioni sindacali),- ancora rivendica il Jobs Act e le misure neoliberiste che hanno portato all’esplodere delle diseguaglianze ed alla ulteriore drastica contrazione dell’apparato produttivo del Paese.
Invece di apprezzare i temi proposti e sfidare il governo a dare concrete gambe alla dignità – ripristinando per esempio l’articolo 18 invece del semplice aumento della monetizzazione dei licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo-, stila comunicati e dichiarazioni degne degli uffici stampa di Confindustria.
 Non c’è che dire, mostrano proprio di aver politicamente capito la vittoria del no al referendum costituzionale e le recenti elezioni politiche ed amministrative.

Il giudizio politico complessivo sulle politiche del governo in tema di lavoro va espresso leggendo assieme il cosiddetto “decreto dignità” con gli interventi di politica macroeconomica e sociale.
 Le linee strategiche del governo su questo terreno, illustrate dal ministro Tria, sono estremamente preoccupanti. Il governo è in totale continuità con i governo Monti Renzi e Gentiloni, compresa la politica di tagli al welfare. 
L’invarianza della spesa corrente in termini nominali annunciata avrebbe effetti sociali devastanti. Vorrebbe dire, nel triennio, intervenire sui 27 miliardi di maggiore spesa pensionistica, frutto di una normativa già insostenibile, e colpire ulteriormente la spesa sanitaria, già a livelli tali da escludere oltre 10 milioni di cittadini italiani dalle cure fondamentali.
La posizione del presidente della Repubblica sull’individuazione del ministro dell’Economia, partendo da una considerazione sulle attribuzioni presidenziali e sull’equilibrio dei poteri costituzionalmente dato, si è fattualmente e politicamente concretizzata nel far ricoprire i dicasteri economici ad esponenti di area forzista e più complessivamente legati alle scelte conservatrici della Commissione europea.

Sul piano più squisitamente politico il cosiddetto “decreto dignità” rappresenta il tentativo del Movimento 5 Stelle di competere con lo strabordante alleato Matteo Salvini e di contrastare il consenso a livello di massa e popolare della Lega. Secondo Di Maio e i Cinque Stelle questo dovrebbe rappresentare un colpo serissimo alla precarietà lavorativa, al netto degli emendamenti “peggiorativi” che lo attendono in Parlamento.

La prima diffusa impressione è che il provvedimento tocchi le materie giuste ma in modo parziale. Sui licenziamenti ingiustificati va indubbiamente bene aumentare il risarcimento ma, come Di Maio sosteneva in campagna elettorale che, senza la reintroduzione e l’ampliamento dell’art.18 come proposto dalla Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil non si riafferma il valore costituzionale del lavoro né si ripristina un diritto del lavoro degno di questo nome. Sui contratti a termine la reintroduzione delle causali è indubbiamente un segnale positivo, ma questa deve essere a prescindere da tempistica, tanto più che la durata degli stessi è già attualmente in via prevalente di circa un anno.

Considerazione simile per i contratti in somministrazione, che vengono di fatto equiparati ai contratti a termine. Il che determina per le imprese di non avere più del 20% di lavoratori assunti con queste due forme di contratto precario. Restano in vigore tutte le altre, che assommano a più di 40. 
Rispetto alle delocalizzazioni il tema è giustissimo, rilevante e va affrontato – ed è estremamente positivo sul piano politico che sia stato messo al centro dell’attenzione -, ma occorre valutare anche quale tutele siano previste per i lavoratori assieme a politiche industriali che prevedano sia l’intervento che la proprietà pubblica nei settori e nelle aziende ritenute strategiche.
Quanto ai voucher, nessun dubbio, non vanno assolutamente reintrodotti, ed è estremamente negativa la proposta avanzata.

Non si tratta dunque di un “rovesciamento del Jobs Act”, sicuramente, ma di una semplice – seppur positiva – limitazione all’arbitrio totale concesso alle imprese dai Governi Monti-Letta-Renzi-Gentiloni.
Alle forze sindacali e politiche l’intelligenza di costruire una iniziativa che, valorizzando l’inversione dei temi proposta dopo molti anni e inserendosi nelle oggettive contraddizioni del Governo, sappia rimettere al centro della scena sociale e del dibattito pubblico i temi della dignità e del riscatto del Lavoro.

*Maurizio Brotini è segretario Cgil Toscana

La polizia uccide un giovane durante un controllo. Per le strade di Nantes esplode la protesta

Firefighters work to put out a fire in a car in the Malakoff neighborhood of Nantes early on July 4, 2018. - Groups of young people clashed with police in the western French city of Nantes on the night of July 3 after a man was shot dead by an officer during a police check. Cars were burned and a shopping centre partly set alight in the Breil neighbourhood as police confronted young people, some armed with molotov cocktails. (Photo by SEBASTIEN SALOM GOMIS / AFP) (Photo credit should read SEBASTIEN SALOM GOMIS/AFP/Getty Images)

Si chiamava Bubakar e aveva ventidue anni il ragazzo ucciso la sera di martedì 3 luglio a Nantes, colpito dalla pistola di un agente della Crs, la polizia antisommossa francese. La sua morte ha provocato reazioni in tre aree sensibili della città.

I fatti si sono verificati nel quartiere di Breil intorno alle 20.30 durante un «controllo da parte di un equipaggio Crs in seguito a reati commessi da un veicolo», ha spiegato alla stampa, sul posto, Jean-Christophe Bertrand, direttore del Dipartimento della Pubblica sicurezza (Ddsp). Le versioni che ricostruiscono la dinamica dei fatti, però, non combaciano. Si parla su Tf1 (il primo canale televisivo francese, ndr) di una manovra a marcia indietro della vettura per sottrarsi al controllo. Durante l’operazione sarebbe stato colpito al ginocchio uno degli agenti in azione e un suo collega ha sparato «ferendo gravemente l’autista». Colpito alla carotide, il ragazzo sarebbe morto all’arrivo in ospedale. Sul quotidiano Liberation si spiega che cercando di scendere dall’auto, la vittima avrebbe colpito uno degli agenti con la portiera. L’identità dell’automobilista era «poco chiara», secondo il portavoce della polizia. Al Crs è stato ordinato di portare l’autista alla stazione di polizia. «L’autista, facendo finta di scendere dalla sua auto, ha colpito un poliziotto» che era leggermente ferito alle ginocchia, ha detto il Ddsp. «Uno dei suoi colleghi ha fatto fuoco e colpito il giovane che purtroppo è morto», ha detto. Secondo fonti della polizia, il giovane è stato ferito alla carotide ed è morto all’arrivo in ospedale.

Immagine tratta dalla pagina Facebook Nantes Révoltée

L’organismo di vigilanza della polizia francese ha annunciato di aver aperto un’inchiesta per accertare le responsabilità e la dinamica dell’uccisione. Johanna Rolland, sindaca socialista della città alla foce della Loira, ha detto che deve essere fatta chiarezza completa con un’inchiesta indipendente.

L’omicidio ha scatenato una rivolta anche nei quartieri di Malakoff e Dervallières. Sono state incendiate macchine ed è stato dato alle fiamme un centro paramedico all’interno di un centro commerciale. Nelle Dervallières sono stati colpiti il municipio locale e gli uffici giudiziari, situati nello stesso edificio. I pompieri sono intervenuti per spegnere le fiamme verso le 3 di notte. La sincaca Rolland è arrivata poco prima delle 2.30 alle Dervallières: «Il mio primo pensiero è per il giovane morto, la sua famiglia, tutti gli abitanti di questo quartiere, i nostri quartieri. La polizia e un’inchiesta indipendente dovranno fare luce su quello che è successo stanotte, ma l’emergenza di questa sera è la richiesta di calma nei nostri quartieri».

Non c’è stato alcun arresto, secondo una fonte della polizia. La stampa locale, intanto, riporta le prime testimonianze degli abitanti del quartiere: «Quel ragazzo aveva sempre il sorriso. Non era nei guai. Era “una crema”. Abbiamo perso un amico, abbiamo perso un fratello». «Il controllo durava da diversi minuti, ad un certo punto si è spostato con la sua auto, ma non ha toccato il poliziotto. Non era pericoloso», dice un altro testimone accanto al quale, un padre di famiglia brontola: «È morto per nulla». Un leit motiv che il cronista registra anche più lontano dal luogo del delitto, vicino a un panificio che è restato aperto, risparmiato dalle fiamme del riot: «Un giovane è morto per niente», «Un poliziotto ha ucciso un ragazzo», ha detto con un filo di voce una bambina molto piccola sulla strada per la scuola.

«Era già immobile, il poliziotto ha sparato a bruciapelo. Gli ha messo una pallottola nel collo mentre era già fermo e non poteva fare nulla – riporta una testimonianza raccolta da un sito di movimento, Nantes Révoltée – il Crs stava guidando nel quartiere, stavano cercando di catturare qualcuno e improvvisamente lo hanno visto, il poliziotto ha perso la pazienza, ha sparato. Non hanno nemmeno provato ad aiutarlo a fare il primo soccorso, non hanno fatto nulla… Ha perso la vita davanti a me. Non c’era nessun Crs ferito, niente di niente».

Immagine tratta dalla pagina Facebook Nantes Révoltée

La brutalità della polizia francese nelle banlieue e contro le manifestazioni politiche è stata spesso al centro di casi di cronaca con una recrudescenza successiva alla proclamazione dell’état d’urgence, le leggi speciali anti-terrorismo che, però, vengono utilizzate contro gli stili di vita e le manifestazioni di dissenso con una continuità tra la gestione Hollande e quella di Macron. Non è un caso che «Tout le monde deteste la police!» sia lo slogan trasversale a tutte le manifestazioni operaie e studentesche che contestano il “riformismo” degli ultimi due governi transalpini.

A Notre-Dame-des-Landes (dove per decenni ha funzionato una lotta contro un progetto di aeroporto annullato solo quest’inverno), la violenza della polizia ha fatto registrare 330 feriti gravi in due mesi in diversi episodi di repressione violentissima contro la Zad, zone a defendre, con l’uso di mezzi militari. Dice Rosaline Vachetta, redattrice del giornale dell’Npa: «La Francia è l’unico paese dell’Ue ad usare ordigni esplosivi nelle operazioni di contrasto, come il tritolo contenuto nelle granate Glif4 che mutilano e hanno già ucciso. Gerard Collomb “il cinico” (il ministro dell’Interno, ndr) pretende che le organizzazioni e i sindacati facciano loro il lavoro sporco cacciando i “perturbatori” dai cortei, sotto la minaccia di mettere in discussione il diritto di manifestare».

See Shepherd, quarant’anni di impegno per la selva marina

SEA SHEPHERD Humpback whale having fun

Per i 40 anni dell’Associazione, fondata dal capitano Paul Watson a Vancouver, in Canada, con la missione di proteggere e conservare la fauna marina, esce per Skira un volume fotografico che ne ripercorre la storia: Sea Shepherd – 40 years * The official book.

Ufficialmente costituito come Sea Shepherd Conservation Society nel 1981, oggi il movimento ha sedi in oltre venti paesi, una flotta di dodici navi e migliaia di volontari appassionati che lavorano insieme in campagne di azione diretta in tutto il mondo. Nel 2017 Sea Shepherd ha celebrato il suo quarto decennio di conservazione marina con un record di venticinque campagne in un anno. Dall’Oceano Antartico e dal Golfo di Guinea nell’Africa occidentale al Mar Baltico in Germania e al Golfo del Messico in California, l’equipaggio di Sea Shepherd ha lavorato in collaborazione con le autorità locali per combattere la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, ha rimosso migliaia di reti da pesca e raccolto prove per condannare i bracconieri. Le campagne sulle coste hanno protetto i nidi delle tartarughe marine in via d’estinzione, rimosso tonnellate di pericolosi detriti dalle spiagge e dai corsi d’acqua e denunciato il trasporto illegale di pinne di squalo nel Sud-Est asiatico.

In quarant’anni anni di attività Sea Shepherd ha intrapreso oltre 200 viaggi attraverso gli oceani del mondo per difendere e salvare la vita degli animali marini. 

Un volume edito da Skira racconta questa avventura attraverso i testi introduttivi di Paul Watson e Paul Hammarstedt un corredo di immagini spettacolari, il libro fotografico ripercorre quarant’anni di battaglie e di protagonisti, di vittorie e di sconfitte, di campagne e di operazioni di questa importante organizzazione internazionale.

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SEA SHEPHERD December 25, 2002 Antarctica campaign

SEA SHEPHERD Volunteer Chris watches over hatchlings as they arrive safely to the ocean

Captains of Operation No Compromise Locky Maclean, Paul Watson, and Alex Cornellisen

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Un abbraccione a Salvini, che si difende come un Berlusconi qualunque

Il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini ospite del programma 'In onda' su La7 a Roma, 3 luglio 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Mettiamo bene in fila i fatti, quelli accertati, visto che il ministro dell’Interno Salvini si premura di avvisare che ha la querela calda quando si parla dei soldi della Lega, nonostante lui con le parole ecceda in continuazione per succhiare un po’ di bile: la Lega Nord (ora Lega senza Nord perché i terroni hanno scoperto che i negri sono più terroni di loro) ha “incassato” 49 milioni di euro dalla truffa sui rimborsi elettorali per cui sono stati condannati il fondatore Bossi e il tesoriere Belsito. 49 milioni di euro. Badate bene: a 35 euro al giorno, sono 1.400.000 giorni di ladrocinio. Mica male.

Dicono i leghisti che non sono soldi rubati perché sono finanziamenti pubblici. Che farebbe già ridere così: che quei soldi siano nostri, dei cittadini che pagano le tasse, lo capirebbe perfino Calderoli. Quindi non soffermiamoci oltre.

La prima difesa del ministro dell’Interno capo della Lega è stata: li abbiamo spesi. Una scena da cinepanettone: beccate il ladro che vi ha rubato l’auto ma lui ferma subito la vostra rabbia dicendovi che gli dispiace ma l’ha venduta. Ah ok, allora niente. Gli inventori della storiella di Ruby nipote di Mubarak in confronto sono dei dilettanti. Andiamo avanti.

Poi ha provato a dire che sono robe di Bossi e Belsito. Questa sembrava anche funzionare, di primo acchito. Poi Bossi l’ha ricandidato (tipico atteggiamento di chi ha la schiena dritta per risollevare un Paese) e infine si è scoperto che quei soldi (che erano già oggetto di indagine) sono stati allegramente spesi da Maroni e Salvini. Avete presente quelli che quando si ritrovano imputati in un processo si liberano dei beni per non farseli confiscare? Innervosiscono, vero? Ecco, così.

Poi ha spiegato che le casse del partito sono vuote. Peccato che, al di là della liquidità esista un patrimonio fatto di buoni del tesoro italiano e obbligazioni societarie (tra l’altro anche in titoli vietati per un partito politico, pensa te). Nello specifico Salvini ha investito 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor mittal e Gas natural. Altro che “le salamelle e le patatine a Pontida”. In più (come spiegato da Tizian e Vergine per l’Espresso) c’è una strana associazione (dal rassicurante nome “Più voci”) gestita dai commercialisti della Lega che si è intascata 250 mila euro da Parnasi. Sì, proprio lui, quello arrestato per lo scandalo dello stadio di Roma. I tre commercialisti tra l’altro hanno anche una fitta ragnatela di piccole imprese di cui è impossibile conoscere i proprietari perché protette da una fiduciaria lussemburghese.

Dicevano i leghisti, fino a ieri: «Se voi giornalisti sapete queste cose perché non interviene la Giustizia?». Eccola: la Giustizia è intervenuta. E come si difende l’uomo forte Salvini? Dice che è un processo politico. Sì, davvero, proprio così. Berlusconi si sarà anche preso qualche spicciolo di diritti d’autore.

E cosa dicono quelli che hanno crocifisso Ignazio Marino per due scontrini (da cui poi è stato assolto)? Bella domanda. Aspettiamo la risposta. Tutti pronti a fare il bagno nella piscina della Lega.

Buon mercoledì.

 

Il rider di Milano prima vittima sul campo della «Waterloo della precarietà»?

Alcuni cicli-fattorini chiedono il riconoscimento come lavoratori subordinati, con carrello e striscioni "I diritti non sono flessibili. Non per noi ma per tutti", all'esterno del ministero del Lavoro, durante l'incontro sui riders tra il ministro Luigi Di Maio e i rappresentanti dei lavoratori, delle piattaforme digitali, dei sindacati e delle imprese, Roma, 2 luglio 2018. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

A Milano, un giudice ha negato ad un lavoratore rider il riconoscimento del diritto all’assunzione a tempo indeterminato, sulla base soprattutto della considerazione che il suo rapporto di lavoro non è di tipo subordinato. La sentenza è arrivata poche ore dopo l’approvazione del cd. decreto Dignità da parte del consiglio dei ministri. La misura, riducendo significativamente la durata dei contratti a termine e dei loro possibili rinnovi, dovrebbe costituire, secondo il suo estensore, il ministro del Lavoro e vice premier Luigi Di Maio, «la Waterloo del precariato italiano».

Tra i due fatti non c’è evidentemente legame diretto, ma è difficile leggere le due notizie come se parlassero di cose diverse, di mondi diversi.

Cosa rappresenta oggi il lavoro di rider se non il fronte, per restare ad una terminologia militare, più avanzato della lotta a tutti i nuovi tipi di precarietà lavorativa? Sul riconoscimento del rapporto di lavoro di rider come subordinato, si gioca la possibilità di migliaia di lavoratori sfruttati di aspirare ad una paga e a condizioni di lavoro dignitose, per restare in tema di dignità, appunto.

Altre cause del genere sono in corso in Italia, e l’auspicio, ovviamente, è che possano arrivare sentenze di segno opposto a quella milanese.

Frattanto, valuteremo gli effetti del dl Dignità, sperando che la riduzione delle durate dei contratti a tempo determinato porti effettivamente a più lavoro a tempo indeterminato e non, come molti temono, ad altra precarietà o a minore occupazione in senso assoluto. Di certo la sentenza di Milano non è un bel segnale, un buon inizio, come direbbe Di Maio, per la Waterloo del precariato, e suona un po’ come se il fattorino meneghino fosse il primo caduto sul campo, per giunta dei precari e non del precariato.

L’ipocrisia di chi applaude le azzurre della staffetta e nega il diritto di cittadinanza ai migranti

(S-D) Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso, Libania Grenot e Raphaela Lukudo, le quattro ragazze italiane che hanno vinto l'oro nella staffetta 4x400 ai Giochi del mediterraneo, Tarragona, 30 giugno 2018. ANSA/ SIMONE FERRARO

Ho davanti a me l’immagine dell’ultima copertina di Left. Un attimo prima avevo rivisto la gara vincente della staffetta femminile delle quattrocentiste azzurre che sono state utilizzate, anche giustamente, come messaggio “anti Pontida”. Qualcosa non mi tornava ci ho ragionato, ho cercato di allargare i punti di riferimento e poi, in ritardo, ho capito.
Ad una certa Italia, quella dell’ “io sono antirazzista ma…”, quella che oggi critica un governo che procede nelle politiche del mai criticato governo precedente, questa immagine fa bene, è rassicurante, consolatoria. Sembra dire:«Vedete come siamo diversi noi da fascisti e leghisti?». Immediatamente tanto i leader di Lega che di Fratelli d’Italia hanno plaudito le atlete che, ovviamente “sono italiane, mica clandestini sui barconi”. Questo induce ad alcune amare considerazioni. La prima è che, con storie diverse, chi nata in Italia da un genitore autoctono, chi arrivata da bambina, chi sposata con un italiano, insomma con diverse modalità le ragazze hanno avuto accesso alla cittadinanza. Per alcune di loro – e bisogna esserne felici – l’ottenimento di tale diritto è stato reso più veloce dalle eccellenti prestazioni sportive.
Che lo sport sia un veicolo favoloso di inclusione sociale è cosa nota, basti guardare le nazionali di calcio, le squadre dei campionati, per capire che in questo senso chi corre o dribbla dimostra di essere più veloce di chi urla in un campo lombardo vestito di verde con tanto di crocefisso, elmo e corna, ma anche di chi siede in un banco parlamentare o spesso, davanti ad una tastiera.
Ma se, come gran parte delle loro coetanee, Libania, Mariabenedicta, Ayomide e Raphaela, avessero fatto altro nella vita, il loro destino sarebbe stato altrettanto propizio? Il ruspante (nel senso di guidatore di ruspe) titolare del Viminale, avrebbe inviato loro tweet ruffiani e avrebbe espresso il desiderio di incontrarle? Se fossero state “normali” studentesse, donne impegnate in mansioni che danno meno notorietà, se fossero state lavoratrici o lavoratori sfruttate o sfruttati da qualche padano padrone, avrebbero meritato eguale attenzione?
Se avessero osato aggirarsi per le piazze delle italiche città sarebbero state additate come simbolo di inclusione e di nuova società o come dimostrazione di “degrado”, “insicurezza”, se non “sostituzione etnica”, come blaterano anche certi sedicenti di sinistra?
Le medagliate, in quanto atlete e nonostante una legislazione sulla cittadinanza semplicemente ignobile, sono riuscite, con maggiore o minore fatica ad ottenere il fatidico status, tanto che proclamano in maniera solare la loro estraneità alle domande banali di un certo giornalismo altrettanto arretrato. Ma per quante/i di loro il cammino sarà reso difficile se non impossibile. Colpa della Lega? No. Tanti anni fa, durante l’ennesimo governo di centro sinistra incontrai un ragazzo che faceva il regista e insegnava regia anche a ragazzi italiani. Era fuggito dall’Algeria dell’integralismo islamico in quanto accusato (era vero) di essere comunista. Venne in Italia dove trovò lavoro e riuscì a realizzare la sua passione. Di fronte alla richiesta di cittadinanza presentata 11 anni dopo regolare presenza si sentì rispondere negativamente perché “la sua presenza non avrebbe comportato all’Italia alcun arricchimento economico e culturale”. La realtà era un’altra. Il governo non voleva compromettere le relazioni con l’Algeria, ma le motivazioni sono raccapriccianti e sono all’origine forse del successo di una xenofobia imperante.
Ben venga la medaglia dunque e ben venga il fatto che anche ad altri sia divenuto chiaro che l’Italia del XXI secolo è questa, meticcia e plurale. Ma quanto ci farebbe bene, come Paese, trovare presto le immagini o i pensieri di quei bambini in copertina di Left, intenti a costruirsi un futuro senza doversi difendere dai mostri che questo Paese ha creato.
E non commettiamo l’errore di fermarci a questo. I morti in mare di queste ore ci ricordano che restiamo un Paese che respinge e rinchiude, che odia e che guarda con disprezzo l’altro. Una paura dell’altro solo fino ad un certo punto connessa al colore della pelle o alla lingua parlata. Fanno paura i poveri e quelli che arrivano da lontano ci ricordano quelli che abbiamo vicino e per cui non sembra esserci futuro. Per loro ci sarebbe bisogno di una medaglia per una corsa diversa. Quella che si combatte ogni giorno per il diritto ad una cittadinanza dignitosa, sostanziale e reale che per milioni di persone oggi non è garantita.

Opposizione con dignità al decreto dignità

Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio durante l'incontro sui riders al ministero del Lavoro con i rappresentanti dei lavoratori, delle piattaforme digitali, dei sindacati e delle imprese, Roma, 2 luglio 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Nell’inesistente opposizione all’interno del Parlamento verso il governo Conte (con il partito democratico che ancora ci deve degnare di un’analisi della sconfitta delle ultime elezioni amministrative, fate pure con calma, e con la sinistra concentrata a decidere se farsi partito o qualche nugolo di partiti) appare scontata la decisione di deridere il cosiddetto decreto dignità che il ministro Di Maio sta licenziando in queste ore (approvato nella notte al Cdm Ndr). Il vecchio trucco di considerare i provvedimenti in base al proponente e non in base all’efficacia (e poi chiamano populismo quando sono gli altri a farlo) sembra un vizio difficile da estirpare.

Eppure si potrebbe dire (anzi, si dovrebbe dire) che le misure per il contrasto alla delocalizzazione (soprattutto di quelle imprese che si intascano aiuti di Stato per poi traslocare) e le misure per il contrasto alla ludopatia siano provvedimenti che in Italia si aspettano da anni. Possono essere riforme migliorabili certo, chi di noi non lo è ogni giorno tutti i giorni nelle cose che facciamo, ma decidere di sfasciarle per mero calcolo elettorale è il modo migliore per fare del male al Paese. E all’opposizione.

I nemici, forse, in questo caso sono i soliti imprenditori corsari che frignano ogni volta che gli si chiede di applicare diritti e di rispondere delle proprie responsabilità (del resto siamo il Paese dei capitalisti senza capitali che sulle spalle degli aiuti di Stato vorrebbero anche impartirci lezioni sul lavoro) oppure le aziende del gioco d’azzardo che stanno usando la solita litania del proibizionismo come se i costi sociali della ludopatia fossero un’invenzione di qualche buontempone. Loro sono gli avversari, non Di Maio. Non ora. Non su questi argomenti.

E se è vero che quello è il Paese delle fake news che diventano virali è altresì vero che un bel pezzo di Paese sa ancora riconoscere la serietà di chi fa politica non solo per demolire l’avversario. Avere un ruolo importante nel miglioramento di (buone) azioni di governo potrebbe perfino dare l’impressione che esista un’opposizione. Di dignità. Pensateci.

Buon martedì.