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Maledettamente coinvolta

Recentemente Roberta Lombardi, capogruppo alla Regione Lazio del M5S, in relazione alla mozione approvata dai consiglieri comunali di Roma del suo partito per l’intitolazione a Giorgio Almirante di una strada di Roma, si è dichiarata favorevole, e fin qui nulla quaestio, sappiamo che il M5S è un partito di destra e che al suo interno ci sono molti fascisti.

Le motivazioni esternate dalla Lombardi sono meravigliosamente idiote: “Almirante è una figura che obiettivamente con quel tipo di fascismo non c’entra assolutamente niente”. Tanto per chiarire, Giorgio Almirante è annoverato tra i fondatori della Repubblica di Salò. La Repubblica di Salò tra i suoi princìpi ispiratori aveva l’antisemitismo, mentre tra le sue azioni più vigliacche si annovera la deportazione e l’eccidio degli ebrei.

“A un certo punto bisogna anche assolvere la propria storia” è questa la sintesi del lombardipensiero, la banalità del male che vuole cancellare la storia perché l’obiettivo vero è quello di minimizzarne la reiterazione nel presente. La Lombardi, non si può dire fino a che punto ne sia consapevole, ma ha sostanzialmente inteso dire che dobbiamo assolvere quegli eccidi così come dobbiamo valutare come ineluttabili i nuovi.

Da quando sono al governo i suoi sodali del M5S, i naufraghi in mare muoiono a centinaia, per decisione del suo partito. La zona SAR, quella nella quale si svolgono le operazioni di salvataggio dei naufraghi, è stata affidata al controllo libico, che equivale a dire che i naufraghi non saranno salvati. La Lombardi dice che bisogna assolvere il fascismo dal deliberato sterminio degli ebrei, vuole essere assolta dal deliberato sterminio dei naufraghi nella zona SAR?

Non c’è solo il disprezzo politico verso la Lombardi per il becero tentativo di riabilitare la sciagurata dittatura fascista, c’è anche la condanna senza appello perché nel suo partito sono state adottate politiche che per un verso hanno scatenato il  razzismo di questa italietta immonda, e dall’altro, ancora più grave, hanno stabilito a tavolino che centinaia di naufraghi sarebbero morti annegati.

La Lombardi non può credersi assolta, la Lombardi è maledettamente coinvolta.

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Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere

al popolo

A 35 anni dal caso Tortora, le associazioni denunciano: «Le vittime degli errori giudiziari senza risarcimento»

Il presentatore tv Enzo Tortora fu arrestato all'alba del 17 giugno '83 in un albergo di Roma, ma fu portato in carcere in tarda mattinata, solo quando - secondo i difensori - fotografi e cineoperatori furono pronti a ritrarre l' imputato in manette.

Disse Ferdinando Imposimato (giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro) che l’errore giudiziario è un virus, capace di inocularsi in qualsiasi parte del processo e di rimanerci se il sistema non è in grado di espellerlo. Reazione che, talvolta, non avviene e che, dal più famoso caso di Enzo Tortora – del quale ricorre il trentacinquesimo anniversario dal suo ingiusto arresto – passando per il più eclatante, quello di Giuseppe Gulotta, ha prodotto, dal 1991 a oggi, circa ventiseimila e cinquecento errori giudiziari, compresa l’ingiusta detenzione, e per risarcire i quali lo Stato, dal 1992 al 2017, ha speso 768.361.091 milioni di euro, quasi 29 milioni di euro l’anno.
Utilizzati, principalmente, per corrispondere gli indennizzi per le ingiuste detenzioni, che oggi, dopo la legge Carotti che li elevò da cento milioni di lire a un miliardo, hanno un tetto massimo di 516mila euro. «L’unico che lo ottenne fu Clelio Darida, ex guardasigilli e sindaco di Roma. Per tutti gli altri, è una somma simbolica che viene elargita come ristoro», racconta a Left, il presidente dell’associazione Art643, Gabriele Magno. Che precisa: «Il vero problema è l’abuso della questione della custodia cautelare preventiva, ossia per il solo fumus del reato, i presunti colpevoli vanno in carcere o ai domiciliari: per loro non è previsto il risarcimento (che, invece, spetta a chi ha subìto condanna definitiva e solo dopo la revisione del processo, grazie a nuove prove, viene assolto) bensì un indennizzo». Sempre più spesso poco riconosciuto: «un po’ perché, così facendo, si cerca di tutelare l’infallibilità del magistrato e un po’ per una questione di principio», continua Magno. Per esempio, «i magistrati che hanno assolto Enzo Tortora – prosegue Magno – sono stati ampiamente criticati perché assolvendolo hanno creato i presupposti perché vincesse il referendum dei radicali sulla responsabilità civile dei giudici».
Quello del tetto massimo dell’indennizzo e quello relativo agli errori del magistrato sono due limiti che l’associazione Art643 ritiene da superare. «La nostra casistica – riferisce il suo presidente – ci ha portato a constatare che chi è stata vittima di un’ingiusta detenzione, nei due anni successivi all’assoluzione – il tempo previsto per proporre istanza di riparazione – si preoccupa di recuperare i propri rapporti umani, deteriorati e persi». E, raramente, di pensare all’indennizzo. Ma, spiega Magno, «dietro il termine dei due anni dall’assoluzione, si cela (furbescamente) la prescrizione dell’errore del magistrato. E la cosa scandalosa è che, in Italia, non abbiamo una casistica: la legge c’è ma non è stata mai applicata per evitare precedenti. Senza precedenti, il problema non esiste».
Non solo. «Dal governo Monti in poi, c’è stato un grosso restringimento per il riconoscimento per l’ingiusta detenzione: i requisiti per ottenerlo sono giudicati in maniera molto più severa tanto che, in un anno, dei circa mille e settecento che finiscono in carcere ingiustamente, è accolto solo il 40 per cento delle domande», aggiunge Valentino Maimone, cofondatore, insieme a Benedetto Lattanzi, di Errorigiudiziari.com, il primo archivio on line su errori giudiziari e ingiusta detenzione. Che continua: «Le cause che stanno alla base degli errori giudiziari sono tante e molto diverse tra loro. Per citarne alcune, la superficialità delle indagini durante la fase investigativa che genera tante falle; poi, una certa propensione dei magistrati a innamorarsi delle tesi degli investigatori; inoltre, la scarsa affidabilità dei testimoni oculari, come dimostrano ormai diversi studi scientifici, della quale, invece, si tiene poco conto; e, infine, le false confessioni indotte dalla pressione psicologica esercitata dagli investigatori durante le indagini».
E, così, le persone, distrutte in un solo giorno, subiscono una “condanna a morte” (anche) mediatica: dal mostro sbattuto in prima pagina all’assoluzione relegata a un trafiletto, quando, addirittura, non riportata. Chissà che con l’approdo della riforma del sistema carcerario in Commissione giustizia alla Camera – il cui iter è rimasto inconcluso nella scorsa legislatura – i nuovi deputati, oltre a prestare attenzione alle (indiscutibili) garanzie della vita detentiva e al lavoro dei reclusi, tengano nella giusta considerazione anche la riabilitazione dell’immagine di quei tanti certi innocenti.

I bambolotti (neri) siete voi

Non stupisce la nuova fonte di liquame in cui nuotano quelli che stanno comunicando altisonanti al mondo che i tre bambini annegati al largo della Libia tre giorni fa siano dei “bambolotti” di una scena ricostruita in studio per mettere in atto un complotto planetario per suscitare pietismo. Non stupisce perché in fondo sono sempre gli stessi che vedevano manichini tra le vittime di Parigi o che ci spiegano come l’uomo non sia mai andato sulla luna. E se dubitare dell’uomo sulla luna premia fino a farti diventare sottosegretario (come nel caso del nostro Carlo Sibilia) non si capisce perché dovrebbero smettere.

Ma ciò che colpisce non è solo la viralità della bufala (la patria dei cretini è sempre stata popolosa) e nemmeno l’ignoranza dietro al presunto scoop (il non sapere che nell’Africa del nord ci siano persona di carnagione chiara, non sapere nulla del rigor mortis, non sapere nulla della saponificazione dei tessuti): ciò che colpisce è che per questa masnada di stolti il “non avere prove” equivale come prova fondamentale perché sia un complotto.

Dicono, questo loschi rimestatori di letame, che se è un fatto è universalmente riconosciuto deve essere per forza falso poiché pianificato dai poteri forti. Quindi gli alberi non sono alberi, il sole è una lampadina, lanciarsi dal ventesimo piano non è mortale e alimentarsi non serve per vivere. “Se tutti credono a qualcosa io dichiaro al mondo che è falsa” è il modo più puerile e vigliacco per farsi notare. Ma i nostri eroi, badate bene, non trovano le prove per sostenere le proprie tesi: si limitano a insinuare contro le tesi degli altri.

Sono gli stessi che nonostante la loro conclamata curiosità non hanno mai trovato il tempo di leggere e raccontare dei migliaia di bambini morti in questi anni (senza bisogno di soffermarsi troppo sugli ultimi tre), sono gli stessi che credono, del resto, che un annuncio su Facebook sia veramente un decreto in atto. Sono gli stessi, del resto, a cui basta la propaganda per convincersi di maneggiare la politica.

Ma che quei bambini siano bambolotti tra le altre cose è anche un enorme condono: se dubito di tutto ho il diritto di non ritenermi coinvolto e quindi credermi assolto. E invece i veri bambolotti siete proprio voi, che avete bisogno di masturbare il vostro ego di fronte alla foto di quei bambini morti per farvi notare dal mondo, esibizionisti codardi di un complottismo che serve per non dover sostenere le proprie idee nel mondo normale. Bambolotti (neri) che hanno bisogno della morte per sentirsi vivi. Vampiri. Cercatori di carogne. Merda, in sintesi. La “pacchia” è la vostra dietro allo schermo.

Buon lunedì.

La revolución sensibile di Tina, Frida e le altre

La pittrice Frida Khalo, la fotografa e attivista Tina Modotti, la pittrice e poetessa Nahui Olin sono solo alcune delle protagoniste del nuovo libro di Pino Cacucci, Mujeres (Feltrinelli comics), che racconta storie di vita di artiste e attiviste, donne indipendenti, coraggiose e impegnate che parteciparono attivamente alla rivoluzione messicana. Molte di loro, più degli uomini, seppero incarnare una vera trasformazione sociale e di valori in senso progressista. Basta pensare per esempio a Elvia, ovvero, Rita Cetina Gutiérrez che fondò la società femminista La siempreviva. Pubblicava una rivista dove si potevano leggere articoli di John Stuart Mill e della filosofa Mary Wollstonecraft (madre di Mary Shelley) e interventi che affrontavano temi come la sessualità femminile, l’aborto, il controllo delle nascite.

«Si trattava delle menti più ardenti e geniali della città, donne fiere e orgogliose, protagoniste e non più succubi, capaci di ridicolizzare i maschi in pubblico se si comportavano da cretini, donne che sapevano guadagnarsi il rispetto per com’erano e per cosa facevano…», dice Carmen Mondragón in Mujeres. Pittrice, modella e scrittrice, rivendicando radici azteche, prese il nome di Nahui Olin. Analogamente, per denunciare la colonizzazione, Frida amava ricreare immagini dell’arte india, pre colombiane di altre tradizioni autoctone latino americane.
Con questo libro «abbiamo cercato di raccontare l’epoca più intensa e creativa del XX secolo, quegli anni Venti e Trenta che videro le donne messicane artefici della cosiddetta “postrivoluzione” e, di fatto, della vera rivoluzione.

La ventata di rinnovamento e progresso civile, che Europa e Stati Uniti avrebbero vissuto negli anni Settanta, nella capitale messicana si era già manifestata mezzo secolo prima», approfondisce Cacucci raccontando la genesi di questa nuova opera a quattro mani che sarà presentata al festival Encuentro, festival della letteratura spagnola e latinoamericana, il 3 maggio a Perugia. Un po’ graphic novel un po’ fotoromanzo disegnato, in Mujeres la scrittura si fa immagine in movimento grazie alle tavole di  Stefano Delli Veneri, che ha lavorato di fantasia a partire da quadri, fotografie d’epoca, ritratti d’autore, come quello, intenso e toccante di Julio Antonio Mella (scattato da Tina Modotti), rivoluzionario cubano che progettava una spedizione armata a Cuba per liberare l’isola dalla dittatura di Gerardo Machado.

In questo affresco corale di un’epoca e di una generazione, affidato alla voce narrante di Nahui Olin, è proprio la figura di Tina Modotti (per quanto sullo sfondo) a stagliarsi con maggiore spessore drammatico. Cacucci aveva già raccontato la sua storia in un altro libro, Tina, che è già un classico. Qui la vicenda umana e politica della rivoluzionaria fotografa che dovette lasciare Udine per andare in cerca di fortuna all’estero, appare in filigrana. Emigrante, operaia, costretta a lottare per la sopravvivenza ma anche artista di grande sensibilità capace di trasformare in frammenti poetici le mani dei contadini, i cappelli e persino gli strumenti da lavoro. Quelle immagini sono ancora oggi presenza viva di un popolo, quello messicano, che seppe alzare la testa e lottare contro l’oppressione. Mujeres non racconta direttamente la storia della rivoluzione, ma attraverso una serie di flash back, accenna ai nodi più importanti ricostruendo la fitta la trama di rapporti fra i personaggi, artisti, scrittori, militanti rivoluzionari e clandestini, anche venuti dall’estero. Come Trotsky che restò profondamente affascinato da Frida Khalo, mentre Tina Modotti ne prese subito le distanze, per obbedienza al regime comunista, con tutte le tragiche conseguenze che quella adesione ebbe nella sua vita. A questo il libro di Cacucci e Delle Veneri accenna immaginando un ultimo drammatico incontro fra Nahui Olin e Tina Modotti, entrambe segnate dalle difficoltà della vita ma anche – chissà – da scelte come quella di Tina di allontanarsi dagli ideali libertari degli anni giovanili della rivoluzione messicana per passare oltre cortina annullando se stessa. Ci sarebbe da capire perché gran parte di quel gruppo di artisti che avevano abbracciato la rivolta di Zapata, che avevano espresso il meglio di sé negli anni rivoluzionari, poi andarono incontro a una fine triste e tragica.

Anche Nahui Olin in questo libro appare come una sopravvissuta agli anni e a se stessa. Anche se racconta con orgoglio ad un giovane assetato di sapere i travolgenti anni Venti e Trenta, quando era protagonista della vivace vita culturale di Città del Messico come scrittrice musa e modella dei maggiori artisti dell’epoca. «Te lo racconto io, cosa eravamo noi, le donne di Città del Messico: quelle che fecero la verdadera revolución… altro che voi uomini, che eravate bravi a spararvi addosso l’un l’altro… ma in quanto a cambiare davvero la realtà, ah, poveretti!». Tornano qui echi del romanzo Nahui di Cacucci e poi flash dei suoi Tina e ¡Viva la vida!, in cui aveva raccontato Frida Khalo. Quella di Frida, Diego Rivera, Chavela Vargas fu una rivolta che anticipava il ‘68 nella celebrazione di una libertà senza identità che praticava l’amore libero senza avere capacità di amare? Il discorso chiederebbe un lungo approfondimento, una lettura della storia che sappia andare al di là dei fatti, senza trascurare di contestualizzare quella rivolta giovanile, su cui si abbatté una durissima repressione. Mujeres ha il merito di non essere un libro a tesi, proponendo interessanti suggestioni e indirettamente sollevando molte domande. In questa chiave racconta molti episodi memorabili. Come l’impresa di Rivera, Orozco, Siqueiros, Charlot e altri artisti, che tra il 1921 al 1924, riuscirono ad affrescare numerosi interni di palazzi pubblici e governativi. Fra questi l’anfiteatro del Colegio de San Ildefonso, ex collegio gesuita e allora sede delle scuole medie statali per la quale Rivera volle che Nahui impersonasse «la poesia erotica». Si narra che in quella scuola ci fosse una pestilenziale ragazzina che, mentre dipingeva, gli faceva una ridda di scherzi. Rivera allora non avrebbe mai detto che quella smorfiosa sarebbe diventata la pittrice Frida Khalo e il suo grande amore. Anni dopo la incontrò di nuovo in casa di Tina Modotti. Le due giovani donne e artiste erano legate da una comune passione politica. Diego era molto più grande di lei, di stazza imponente, aveva sempre la pistola alla cintura ma «con le donne…Diego Rivera si scioglieva, sembrava quasi rimpicciolire, mostrandosi per come era dentro: le amava tutte, con dedizione, illudendosi ogni volta di avere davanti la passione di un’intera vita. Possedeva qualcosa di magico, un tono suadente, lo sguardo da sognatore, parlava di arte e di passione rivoluzionaria». Tanto che Frida ebbe a dire che la vita le aveva riservato due sciagure: l’incidente che la ferì quasi a morte e incontrare Rivera.

L’articolo di Simona Maggiorelli è tratto da Left del 27 aprile 2018


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Con “Amlo” Obrador il Messico svolta a sinistra

Mexico's presidential candidate for the MORENA party, Andres Manuel Lopez Obrador, delivers a speech during a campaign rally in Acapulco, Guerrero State, Mexico, on June 25, 2018 ahead of the July 1 presidential election. (Photo by Pedro PARDO / AFP) (Photo credit should read PEDRO PARDO/AFP/Getty Images)

#JuntosHaremosHistoria, insieme faremo la storia, è l’hashtag più popolare in queste ultime settimane di campagna elettorale in Messico. Riprende il nome dell’alleanza progressista creata dal candidato leader Andrés Manuel López Obrador, detto “Amlo”, guidata dal suo partito Morena. Alle elezioni messicane del 1 luglio, i sondaggi lo danno per certo vincitore. La sua promessa è quella «di fare cambiamenti drastici», di dare impeto alla «quarta trasformazione del Messico dopo l’indipendenza nel 1821, la guerra civile negli anni 1850 e 1860 e la rivoluzione iniziata nel 1910». Una rivoluzione «per rovesciare la mafia del potere e l’élite corrotta», contro i poteri della stampa di regime.

Morena, acronimo di Movimento rigenerazione nazionale, ma anche il nomignolo dei messicani dalla pelle scura del sud campesino (morenos), è un “movimento”, non un semplice partito. Andrés Manuel López Obrador, cerca un consenso trasversale, dalla piccola borghesia ai campesinos, senza disdegnare le élite urbane. A sud ha piani per grandi infrastrutture, promettendo di creare nuove strade in Oaxaca, uno Stato montuoso con un tasso di povertà del 70%, creare una ferrovia da Quintana Roo al Chiapas, e realizzare un corridoio stradale e ferroviario attraverso l’Istmo di Tehuantepec, in Oaxaca e Veracruz, pagato con prestiti dalla Cina. Piace anche al nord industriale per la visione nazionalista, che apprezza che il Messico venga prima rispetto al vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti, mentre il tema dell’indipendenza energetica e dell’autosufficienza alimentare strizza l’occhio sia agli studenti che agli industriali.

Contro l’appeal di Obrador, non ha nessuna chance il candidato del Pri, Jose Antonio Meade. A danneggiarlo è la forte impopolarità e le accuse di corruzione dall’attuale presidente e compagno di partito Enrique Peña Nieto. Nell’ultima settimana ha recuperato qualche punto il candidato del Pan, Ricardo Anaya, 39 anni, che ha accorciato il distacco da Obrador. Che ora punta tutto sugli indecisi. La sua immagine di “uomo nuovo” affascina un Paese stanco e spossato da una ripresa lentissima e violenza diffusa. Anche se Obrador non è un neofita della politica. Ha governato l’immensa Città del Messico tra il 2000 e il 2005, prima di tentare due corse presidenziali infruttuose con il Partito della rivoluzione democratica di centrosinistra, nel 2006 e nel 2012.

Nel frattempo, secondo il Dipartimento di Stato americano in Colombia sta crescendo la presenza del cartello di Sinaloa. Un’espansione geografica che dimostra l’ottima salute dei narcos messicani, sostenuti da un aumento dei consumi di cocaina in Usa e America e dal boom di produzione in Colombia. E con gli affari cresce anche la violenza. Circa 25.340 messicani sono stati uccisi nel 2017. Nel 2018 potrebbero superare i 30.000. La gran parte di questi omicidi è legata al traffico di droga, al controllo delle rotte per gli Stati Uniti e a criminalità comune come il furto di benzina, diventato in Stati come Jalisco e Michoacán una delle principali fonti di guadagno delle gang criminali locali. Il Paese è esasperato da questa ondata ininterrotta di violenza. Per Obrador c’è solo una via di uscita…

L’articolo di Emanuele Bompan prosegue su Left in edicola


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Santiago Gamboa: «La sinistra continua la lotta per il processo di pace»

La potenza narrativa dell’epos l’ultimo romanzo del colombiano Santiago Gamboa Ritorno alla buia valle (Edizioni e/o). E uno sguardo aperto a tutto raggio sul mondo di oggi e sulle sue più brucianti contraddizioni: il divario Nord Sud, l’odissea dei migranti, la discriminazione, la xenofobia, l’egoismo dell’Occidente sempre più arroccato e in crisi, la corruzione e la violenza delle destre al potere in America Latina e la voglia di riscatto della popolazione. Una esigenza profonda di riscatto che nella giovanissima Manuela, violentata dal compagno della madre e oppressa da istituzioni clerico-religiose, si esprime attraverso la poesia.

Anche Tertuliano figlio mai riconosciuto di papa Bergoglio, nato quando era a capo dei gesuiti in Argentina, è in cerca della verità e di un pizzico di giustizia. Come lo sono i diversi e numerosi personaggi che popolano questo romanzo, in cui si intrecciano infinite storie. Per questo Vázquez Montalbán paragonò i libri di Gamboa a quelli di Márquez, anche se appaiono lontani dal realismo magico tipico di Gabo. Piuttosto qui si potrebbe parlare di realismo visionario, capace di scavare a fondo nell’animo umano, di raccontare sogni, paure, di indagare le cause della violenza esprimendo un profondo rifiuto. Anche per questa sua particolarissima capacità di intrecciare storia personale e collettiva, all’indomani delle elezioni in Colombia che hanno portato al governo il leader del centrodestra Ivan Duque, abbiamo rivolto a Santiago Gamboa alcune domande.

Nel suo ultimo romanzo parla dei molti italiani che vanno a lavare i piatti all’estero, in Inghilterra o nel Nord Europa, mentre peruviani, ecuadoregni, filippini, colombiani approdavano in Italia per lavare i loro piatti. Lei ha vissuto a Roma, cosa pensa di quel che sta accadendo in Europa e del governo che vorrebbe chiudere i porti ai migranti?

La situazione in Europa mi pare sempre più compromessa. La crisi economica ha investito il progetto sociale e ideale dell’Unione europea. Cosa significa essere europei oggi? Significa essere solidali con chi sta peggio? Significa comportarsi in modo responsabile nei confronti del resto del mondo? Significa credere nel progresso e nei diritti umani, nella società multietnica e multirazziale? Quei valori rischiano di finire in mille pezzi. La coesione tra gli europei sta già subendo un’enorme frattura: i Paesi ricchi del Nord si dicono stufi di aiutare il Sud: Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. La Brexit esemplifica questa mancanza di solidarietà e la volontà di non condividere la ricchezza accumulata, considerandola solo propria. Anche l’indipendentismo catalano è un modo per sottrarsi all’impegno di aiutare il resto della Spagna (e dell’Europa).

Alcune vicende narrate si svolgono negli anni degli attentati terroristici in Spagna e in concomitanza della strage al Bataclan in Francia, a cui è seguita una forte criminalizzazione dei migranti.

La violenza terroristica, con le ricadute che ha avuto anche sulla crisi dei rifugiati, ha pesato e rischia di rompere l’idea di una società multietnica e multirazziale, non solo in Italia, che è stato il Paese in cui più tardivamente si è fatta strada questa crisi di ideali. Xenofobia e razzismo sono più forti che mai in Francia, Germania, Olanda, Belgio, perfino in Svezia. La politica anti-europea e individualista è cresciuta ed oggi è molto forte. Cresce una sorta di “trumpismo” europeo che punta al nazionalismo, che predica la salvezza individuale in ogni Paese.

L’Europa è diventata una fortezza. Accetta soltanto immigrati selezionati, i più forti e qualificati. Purché arrivino in ginocchio, indebitati, disposti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Sta accadendo una cosa simile in America divisa dal muro con il Messico?

Il trumpismo avanza nel mondo. È la fine del neoliberismo inteso come capitalismo senza frontiere. Ma non produce un sistema migliore. Dire America first significa tornare a innalzare muri per proteggere l’economia interna a furia di dazi. Le frontiere diventano insormontabili, le barriere sempre più crudeli e difficili da superare, perché il migrante con la sua forza lavoro è mal visto dalle società in crisi che soffrono di disoccupazione e si stringono intorno al totem regressivo della tribù. Per questo le forze reazionarie della società vedono il migrante come potenziale delinquente e quel violento messaggio rischia di essere accettato da tutti a causa della crisi stessa. Con ciò negano il fatto che siamo migranti da moltissime migliaia di anni e che nascere, in fondo, è entrare in un mondo sconosciuto.

Anche in America Latina sta soffiando forte il vento di destra. Il Messico sta cambiando rotta?

La sinistra vince in Messico. I sondaggi hanno parlato di un vantaggio di Lopez Obrador di circa 20 punti. È una grande speranza per l’America Latina, perché il Messico è il Paese più influente della regione, il più popoloso e il più ricco (a lato del Brasile). Questa vittoria significa un forte rifiuto della corruzione e della violenza in cui i partiti tradizionali hanno gettato il Messico, dove il problema del narcotraffico ha raggiunto enormi proporzioni. La corruzione e la violenza derivate dal traffico di droga sono un problema di sicurezza nazionale, che contamina anche le relazioni con gli Stati Uniti e si espande verso l’America centrale e il Sud. L’origine è la Colombia, ma l’attività del narcotraffico è quasi al 100% messicana. I cartelli messicani rappresentano la vittoria del capitalismo illegale.

Il processo di pace in Colombia e la rinascita culturale del Paese rischiano uno stop con il nuovo governo di centrodestra?

La violenza degli ultimi 50 anni ha trasformato la Colombia in una società conservatrice, di destra. Per paura molti preferiscono le forti opzioni nazionaliste che promettono unità e sicurezza. È simile a quanto accade in Europa, solo che in Colombia va avanti da almeno cinque decenni. Il processo di pace è stato un grande risultato, una seconda indipendenza per il Paese, chi è contro la paura è a favore del cambiamento. E nulla spaventa di più dei cambiamenti se la società è conservatrice. Il discorso di destra dell’ex presidente Alvaro Uribe (che è indagato per la sua vicinanza ai gruppi paramilitari) ha trovato in questo clima un terreno fertile per far crescere paura e odio. E ha finito per vincere il centrodestra. La sinistra ha perso, ma ha avuto il 42 per cento dei voti; quindi la lotta continua. Ci saranno sicuramente grandi movimenti di protesta nei prossimi 4 anni. Ciò è positivo, perché significa rafforzare un movimento politico ma anche civile che protegga gli accordi di pace dalle piazze e dalle strade del Paese.​

In questo suo nuovo libro dall’articolata architettura si parla molto di poesia, attraverso due storie parallele: quella attuale della giovane Manuela (alla quale vengono rubati versi di una donna che dice di amarla) e quella storica e tormentata di Rimbaud. La poesia può essere rivoluzionaria, un elemento di riscatto, un’oasi per resistere alla violenza?

La poesia protegge le persone e le salva. Salva anche le società. Ma accade che i poeti vengano ascoltati sempre di meno. Ai tempi di Erodoto e di Omero, poesia e vita quotidiana erano molto vicine. Oggi le metafore che governano la vita dell’Occidente non provengono più dalla poesia, ma dal razionalismo e dalla tecnica. Vengono anche dalla solitudine. Le nostre società, orfane di grandi idee, si rifugiano nell’individualismo. Pertanto, quando una persona ha difficoltà a trovare il proprio posto nel mondo, diventa depressa. Incolpiamo noi stessi perché siamo diventati sfruttatori di noi stessi. Fino a non molto tempo fa si facevano rivoluzioni per trasformare società oppressive, oggi si prendono antidepressivi. Abbiamo barattato la rivoluzione con la depressione. Ma la poesia è lì, a ricordarci che ogni sofferenza della vita può avere senso se sappiamo come trasformarla in una parola.

La letteratura permette di vivere molte vite a un tempo. È anche questa la sua forza?

Una vita, da sola, è davvero poca vita. La letteratura ci consente di moltiplicare quella meravigliosa sensazione di vivere, e anche di farlo in tutte le direzioni: verso il passato o il futuro, in altre regioni, lasciandoci cambiare genere, storia o condizione. La letteratura ci rende persone migliori, perché ci permette di sperimentare il dolore e le realizzazioni degli altri, ci insegna la vita in un modo più ampio e più democratico, ma ci fa anche capire cosa origina la violenza e la crudeltà. La letteratura ci protegge anche perché ci mostra le conseguenze di determinate scelte e ciò che accade in strade piene di ombre. Ci aiuta a capire meglio il mondo perché è una versione infinita e irrazionale dello stesso mondo.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Santiago Gamboa è tratta da Left


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Senza immigrati non c’è lotta di classe. Corbyn dixit

epa04927138 Newly elected Labour party leader, Jeremy Corbyn, delivers a speech during an event expressing solidarity with refugees in Parliament Square, London, Britain, 12 September 2015. According to reports thousands have turned out on London's streets to show solidarity with refugees as European Governments continues to search for solutions to the number of refugees arriving in the EU. EPA/ANDY RAIN

Quando è stato eletto leader del Partito laburista, il 12 settembre 2015, come primo atto Jeremy Corbyn ha partecipato ad un evento di solidarietà nei confronti dei rifugiati: il “Refugee welcome”. Nulla di sorprendente per uno storico attivista dei diritti civili, sin dai tempi delle battaglie contro l’apertheid in Sud Africa. D’altronde Corbyn viene eletto sin dal 1983 in uno dei collegi più multietnici del Regno Unito, collegio, quello di Islington North, che tuttavia si riconosce con maggioranze bulgare nel più classico degli inglesi: rossiccio di capelli (una volta) e chiarissimo di carnagione.

Viene un po’ da ridere, dunque, quando, nel tentativo di banalizzarne le posizioni politiche, si cerca di dipingere il leader laburista come un sovranista o, peggio, un isolazionista, quando, in maniera persino naif, Corbyn è il più classico degli internazionalisti. Tanto più che è stato uno dei pochi leader socialisti europei a esprimersi circa lo scandalo del porto di Calais dove, in accordo tra l’allora Primo ministro David Cameron, conservatore, e l’allora presidente della Repubblica Francois Hollande, socialista, centinaia e centinaia di migranti venivano bloccati per mezzo di muri di cinta, costruiti dalle autorità, e lasciati in attesa di una decisione sul loro destino al freddo, in campi di fortuna.

Certo, questa sua attenzione per i rifugiati e i migranti (che, come viene sottolineato nel manifesto del Labour, non sono la stessa cosa) non vuol dire che nella sua proposta politica non vi sia una forte critica alla globalizzazione, e in particolare al dumping sociale, con cui il capitalismo moderno mette i lavoratori gli uni contro gli altri, in quella che Corbyn definisce…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola


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Mimmo Lucano: «Salvini non mi fa paura. Ma le sue idee sì»

TO GO WITH AFP STORY BY FRANCOISE KADRI The mayor of Riace, a village in the southern Italian region of Calabria, Domenico Lucano, awarded the "third best world's mayor", poses in his office in Riace on June 22, 2011. The village of 1800 inhabitants greeted a few years ago some 200 refugees and some 130 more will arrive in the next days with the mayor creating a special scheme for them and helping saving the village from a mass exodus. AFP PHOTO / MARIO LAPORTA (Photo credit should read MARIO LAPORTA/AFP/Getty Images)

Provo ad avvicinarmi alle prime file durante il suo intervento in occasione di una manifestazione che si è tenuta di recente a Reggio Calabria in ricordo di Soumayla Sacko, il sindacalista maliano ucciso il 2 giugno scorso. Si emoziona, sorride, incespica con le parole, preferisce leggere. La sua voce sottile, protetta dalla chiarezza interiore, è sommersa da una serie ininterrotta di applausi. Pochi lo ascoltano con attenzione ma non importa. Importa esserci. Importa la biografia, la sostanza, l’intima certezza che si è di fronte a un uomo che, sulla scia del poeta Robert Frost, ha scelto di percorrere «la strada meno battuta». Una scelta che arriva da lontano, perché Domenico Lucano «fin dai primordi ha lottato per un mondo migliore». Una frase solenne che in bocca a qualche intellettuale soft potrebbe suonare come vizio retorico, ma se a dirlo è il sindaco di Riace tutto cambia. Neppure il più fanatico reazionario potrebbe attribuirgli la patente di radical chic.

“Mimmo” Lucano, che di certo non ha bisogno di presentazioni, ha inventato una vera e propria filosofia dell’accoglienza. Il «modello Riace» continua a stupire e innervosire l’establishment e i seguaci del cinismo. Nel piccolo paese che amministra c’è davvero posto per tutti: gli ultimi, gli sfruttati, i senza voce. Il suo obiettivo, infatti, è costruire una famiglia sempre più inclusiva, dove le differenze di sesso, di nazionalità e del colore della pelle perdono di significato. Ecco perché colui che è stato insegnante del laboratorio di chimica, da anni «sorvegliato speciale», è stato offeso dall’attuale ministro degli Interni che lo definiva uno «zero», e quando in un attimo di pausa gli chiedo dove trova il coraggio, si limita a indicarmi con il dito i volti della sofferenza.

Ma Salvini le fa paura?
Non ho paura di lui. È un uomo con le sue fragilità. Non l’ho mai incontrato né ci tengo a farlo. Però sono terrorizzato dal suo pensiero. Anche perché viene salutato con entusiasmo da una buona fetta della popolazione. Tanta gente della mia terra, com’è noto, ha premiato alle urne l’odio e l’intolleranza, e le politiche leghiste continuano a mietere successi. Non so dove andremo a finire di questo passo.

Che fare?
Difficile rispondere. È tutto così frantumato, disarticolato, atomistico. Non esiste una degna opposizione in Parlamento che possa contrastare la deriva xenofoba di queste ultime ore. Non dimentichiamo le scelte adoperate dai precedenti governi in tema di sicurezza e immigrazione, penso all’indirizzo muscolare di Minniti. Ciò che…

L’intervista di Francesco Postorino prosegue su Left in edicola


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Perché il presidente Trump se la prende con i bambini

MCALLEN, TX - JUNE 12: A Honduran mother removes her two-year-old daughter's shoe laces, as required by U.S. Border Patrol agents, after being detained near the U.S.-Mexico border on June 12, 2018 in McAllen, Texas. The asylum seekers had rafted across the Rio Grande from Mexico and were detained by federal authorities before being sent to a processing center for possible separation. Customs and Border Protection (CBP) is executing the Trump administration's "zero tolerance" policy towards undocumented immigrants. U.S. Attorney General Jeff Sessions also said that domestic and gang violence in immigrants' country of origin would no longer qualify them for political asylum status. (Photo by John Moore/Getty Images)

La quantità di gazzarra mediatica prodotta abitualmente dall’America di Trump è a dir poco destabilizzante. Districarsi tra schiamazzi e fragori risulta essere una fatica di Sisifo – figurarsi riuscire a separare i fatti concreti da quella pura invenzione che deteriora tutto ciò che circonda Donald Trump e la sua corte. Che cosa sappiamo: oltre duemila bambini migranti sono stati separati a forza dai propri genitori. Sappiamo anche che la separazione è causata dallo scontro tra le politiche di tolleranza zero messe in atto dall’amministrazione Trump (per cui ogni attraversamento illegale del confine a sud-ovest deve essere sottoposto ad azione penale) e la giurisprudenza consolidata che non consente la detenzione dei minori per più di venti giorni.

Che cosa si sente dire: che i bambini sono stati strappati dalle braccia delle madri. Che nei campi dove i minori vengono trattenuti, lungo il confine in luoghi come McAllen, in Texas, nella Rio Grande Valley, essi vengono spesso rinchiusi in delle gabbie. Si sentono in giro difensori di questo presidente ridefinire il significato della parola “gabbia”. Si sente dire che i minori non accompagnati vengano dirottati con voli commerciali verso destinazioni lontane come New York o il Maryland. Si sente raccontare di padri e di madri che non trovano i propri figli; e si sente il presidente usare termini come «animali» ed espressioni come «infestazione» per descrivere altri esseri umani e i loro spostamenti. O addirittura, un procuratore generale far riferimento alla Bibbia per giustificare atteggiamenti del genere.

Cosa si vede: vediamo Melania Trump presentarsi sul posto per fare presenza con modi da civettuola Maria Antonietta, indossando la già famigerata giacca con la scritta: I really don’t care, do u? (“A me proprio non importa, e a te?”). Assistiamo all’incapacità di un apparato legislativo di appellarsi alle norme di base che potrebbero sbrogliare l’intera matassa di quel che è rimasto del dibattito formale sulle politiche di immigrazione: una soluzione per i cosiddetti dreamers, il muro di Trump al confine atteso dai suoi più accesi sostenitori, una qualsiasi sorta di codice legale che illustrerebbe la procedura da attuare per le famiglie che arrivano al confine, insomma, qualcosa. E Trump invece ha in qualche modo da solo ceduto, in seguito a un evidente sdegno che brulicava in varie parti del Paese, firmando un decreto anziché una norma congressuale. Si vedono fronti contrapposti delinearsi in colori torbidi nell’opinione pubblica. Un ex governatore nel cuore del Paese ha paragonato la leadership dei democratici a un gruppo di gangster, in un tweet carico di razzismo. Alcuni governatori hanno allontanato i contingenti dal confine, rifiutandosi di prendere parte alle nuove disposizioni federali. A Washington D.C., storica roccaforte di sinistra, i componenti dell’amministrazione Trump vengono contestati fuori dai ristoranti e respinti dai luoghi pubblici.

Ma perché si è arrivati a compiere tali scelte? C’è modo di calmare Trump e il suo bacino elettorale? Tra i fatti, i pettegolezzi, i sospetti e la rabbia montante, giace ciò che ci è consentito conoscere: che pur essendo questi bambini le vittime, non rappresentano gli obiettivi principali, nonostante siano stati deliberatamente scelti. Sono diventati quelli che i nordamericani chiamerebbero collateral damage, i “danni collaterali” in una guerra politica in continua evoluzione. Donald Trump ha…

L’articolo di Joel Weickgenant prosegue su Left in edicola


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Portoricana e socialista: chi è Alexandria Ocasio-Cortez, la millenial Usa che ha scosso l’establishment dei dem

NEW YORK, NY - JUNE 26: Progressive challenger Alexandria Ocasio-Cortez is joined by New York gubenatorial candidate Cynthia Nixon at her victory party in the Bronx after upsetting incumbent Democratic Representative Joseph Crowly on June 26, 2018 in New York City. Ocasio-Cortez upset Rep. Joseph Crowley in New York’s 14th Congressional District, which includes parts of the Bronx and Queens. (Photo by Scott Heins/Getty Images)

Ha 28 anni, origini portoricane, una laurea in Economia e Relazioni internazionali ma, soprattutto, non ha paura di essere di sinistra. Alexandria Ocasio-Cortez ha appena vinto le primarie del Partito democratico americano nel XIV Distretto congressuale di New York, battendo a sorpresa Joseph Crowley, membro storico dell’establishment e titolare di tale seggio al Congresso da 19 anni. Questa volta, invece, i quartieri di Queens e Bronx (ai quali corrisponde l’area coperta) hanno preferito la novità alla certezza: il 57% dei voti è andato alla rappresentante supportata dai Democratic socialist of America.

Alexandria Ocasio-Cortez è quella che tecnicamente si definisce una outsider: fino a nove mesi fa faceva la barista in un ristorante messicano a Union square per aiutare sua madre a mantenersi. La politica, però, è da sempre una sua grande passione, della quale le proposte “ultraliberal” della sua campagna sono state buona testimonianza. Ha rifiutato i finanziamenti delle lobby, mettendo insieme 300mila dollari di donazioni dei sostenitori di cui la maggior parte sotto i 250. Sul suo sito internet gioca con l’assonanza tra “Ocasio” e l’inglese “occasion”, trasformando il suo cognome in uno slogan e stampandolo su magliette e sacchette di tela che si possono ricevere in cambio di piccoli contributi economici. Fa sorridere l’ultima sezione della pagina, nella quale i volontari possono offrire il proprio aiuto scegliendo tra varie opzioni, tra cui c’è “bussare alle porte”. Un metodo vecchio stampo che si è rivelato essere ancora funzionante, soprattutto in quartieri popolari come Bronx e Queens.

La nuova candidata al Congresso ha fatto del Medicare-for-all, l’assistenza sanitaria gratuita per tutti, uno dei punti focali del suo programma. Un tema che era stato già portato avanti da Bernie Sanders durante le primarie presidenziali del 2016, campagna alla quale Ocasio-Cortez ha partecipato attivamente come assistente. Sanders era riuscito a imporsi sulla scena dei Democratici nonostante le sue proposte di stampo socialista, una corrente politica che negli Stati Uniti non è mai riuscita ad avere grossa eco. L’errore che gli analisti del settore tendono a imputargli è quello di aver puntato troppo sulla lotta ai miliardari e troppo poco su questioni che riuscissero ad attirare anche i voti degli elettori dell’ala più moderata, i quali hanno finito per dare la loro preferenza a un membro dell’establishment come Hillary Clinton. Ocasio-Cortez è riuscita invece ad allargare campo, puntando su temi cari alla popolazione di ceto medio-basso e cercando di darsi più visibilità possibile, facendo largo uso dei social network e acconsentendo a farsi intervistare da testate note come Vogue. La sua giovane età ha contribuito a rendere la strategia efficace, facendola apparire al passo con i tempi e non frutto di un mero artificio elettorale.

Una missione con un potenziale così evidente, quella di Ocasio-Cortez, da spingere lo stesso Sanders a concederle il suo aperto appoggio, inserendola nell’organizzazione Our revolution di cui fanno parte tutti i candidati di stampo sandersiano appartenenti a quella che i media americani chiamano “l’onda blu” (dal colore tipico dei Democratici) che sta attraversando gli Usa. Il sito dell’organizzazione rivendica la vittoria di più della metà dei propri candidati nei distretti di Maryland, Oklahoma e New York.

Questa fase del mid-term, infatti, sta dimostrando come l’elettorato americano si stia polarizzando, facendo registrare vittorie tra i candidati Democratici esponenti del “Sandersism” oppure tra quelli appartenenti all’ala trumpista dei Repubblicani. Un’osservazione appoggiata anche dall’ex responsabile della campagna di Hillary Clinton, Jack Sullivan, il quale ha dichiarato che i Democratici hanno bisogno di abbracciare un’idea più radicale di governo, se vogliono ritornare a vincere. Ocasio-Cortez lo ha decisamente fatto non solo con il suo programma, ma anche in merito alle posizioni sui rifugiati, quando si è recata in Texas per protestare personalmente contro la crudele politica di separazione portata avanti da Trump nei confronti dei migranti provenienti dal confine con il Messico.

Con i suoi ideali di uguaglianza e di pari opportunità che fanno eco alla sinistra europea, Ocasio-Cortez è fortemente parte della corrente avviata da Sanders nel 2016. Da quella campagna ha preso in prestito alcuni temi e alcune forme di comunicazione, raccogliendo migliaia di consensi. In un momento politico dalle tinte fosche, l’emergere di figure come quella di Alexandria Ocasio-Cortez spinge a sperare che questa “onda blu” possa travolgere anche il resto del Paese, riportando in auge persone ricche di umanità come questa ventottenne che ha organizzato la sua festa di attesa dei risultati in una sala da biliardo e si è commossa in diretta quando ha scoperto di aver compiuto un’impresa che sembrava impossibile.