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Nessun partito (o quasi) oggi si salva dal fascismo culturale

March in memory of Valerio Verbano in Rome, Italy, on Thursday, February 22, 2018. Valerio Verbano was an Italian leftist activist assassinated in his home by three unidentified killers on February 22, 1980 in uncertain circumstances, in what it is believed was a political killing. Until today no judicial truth has been established. (Photo by Michele Spatari/NurPhoto via Getty Images)

Il fascismo esiste ancora? Oppure è un fenomeno da ascrivere solo ad un ben determinato periodo storico, che è ormai passato, morto e sepolto? Anche se in Italia il dibattito si accende solo in periodo elettorale, le scienze sociali, soprattutto all’estero, hanno sviluppato da diversi anni un’accesa discussione sul tema. Diciamo subito che gli studi sul fascismo, oltre ad essere difficili da realizzare, a causa della rilevanza del tema e delle sue numerose ripercussioni dal punto di vista politico e sociale, sono impegnativi anche per alcune ragioni che potremmo dire “metodologiche”, in quanto legate alla definizione stessa del fenomeno.

Fino a quando infatti non si definisce un fenomeno, non si può individuarlo, analizzarlo, né – ovviamente – si può dire se esiste o meno. I problemi legati alla definizione di fascismo sono principalmente due: il primo è che non esiste una teoria del fascismo (come invece accade per altre dottrine politiche), il secondo è che il fascismo ha una sua caratteristica intrinseca, il sincretismo: mescola insieme culture tra di loro molto diverse, spesso in apparente contraddizione reciproca. Ad esempio, nazionalismo e socialismo, populismo ed elitismo, anti-capitalismo e anti-socialismo: sono tutti oggetti culturali molto diversi tra loro che, però, nel totalitarismo tedesco e in quello italiano trovavano originali forme di sintesi. Il sincretismo rende il fascismo difficilmente decifrabile in modo preciso e univoco attraverso l’osservazione empirica.

Ad ogni modo, in termini molto generali, possiamo distinguere oggi almeno due tipi di fascismo: uno storico, esplicito, spesso “orgoglioso” e (almeno per la legge formale italiana) criminale e un altro fascismo che potremmo definire quasi “antropologico/psicologico” legato ad un modo di pensare e di vedere il mondo. Il primo viene studiato considerandolo un fenomeno legato principalmente o esclusivamente ad un ben determinato periodo storico (il Ventennio, parlando dell’Italia). E, con riferimento ai giorni nostri, riguarda…

Charlie Barnao è docente di Sociologia all’università Magna Grecia di Catanzaro. Il suo articolo prosegue su Left n. 17, in edicola dal 27 aprile 2018

 

Resistere oggi è (anche) non permettere di intossicare la Storia

Il corteo organizzato dall'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, per il 25 aprile, 25 aprile 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Piuttosto che scrivere sul 25 aprile oggi, di questi tempi varrebbe la pena leggere, studiare, ostinatamente ricordare, ricordare ad alta voce, resistere all’intossicazione che qualcuno insiste nel propagare per rammollire la Storia e così anche i valori di quella Storia e della Resistenza.

Nel 2004 Giorgio Bocca scriveva:

«C’è da mesi una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall’alto, coltivata dai cortigiani. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l’uso dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell’accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che evidentemente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l’armistizio, hanno chiuso decine di migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena. L’argomento delle nostre deportazioni è talmente poco conosciuto che il presidente del consiglio Berlusconi può permettersi di parlare di un Mussolini che «mandava gli antifascisti in vacanza sulle isole». L’uso dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni si equivalgono a quelle per cui morirono gli altri è inaccettabile. La pietà per i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a piangerli, ma non è dei morti che si giudica, ma di quando erano vivi e stavano al fianco degli sterminatori nazisti. Ricostruiamo l’unità della patria, dicono, dimentichiamo la guerra civile, sostituiamo alle fazioni la unità della democrazia. Ma la democrazia dov’è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro Paese? Ai suoi sostenitori basta che il governo non apra i suoi lager, che non fucili gli oppositori, che non soffochi tutte le voci critiche per gridare che la democrazia è salva. Ma la mutazione autoritaria è sotto gli occhi di tutti, anche dei rassegnati o indifferenti: i personaggi della televisione invisi al potere cacciati o tacitati, gli autori di libri all’indice berlusconiano esclusi dalla televisione e ignorati dai giornali (…). E anche la corruzione più pesante e sfacciata, i prestiti bancari, i ricatti della pubblicità, le concorrenze mafiose».

Lo scriveva 14 anni fa. Se notate che sia ancora terribilmente attuale avete il senso di quanto ciò che abbiamo fatto non sia abbastanza.

Buon 25 aprile.

Un milione di case popolari e affitti a misura di lavoratore. Ecco il “piano Corbyn” contro l’emergenza abitativa

epa06678983 Labour Leader Jeremy Corybn launches his party's Housing Review - 'Housing for the Many' during a press conference in London, Britain, 19 April 2018. EPA/ANDY RAIN

Il partito laburista ha lanciato un piano per affrontare l’emergenza abitativa in Gran Bretagna, una delle principali fonti di disagio per i ceti più poveri e, soprattutto, per le nuove generazioni, sostanzialmente costrette a considerare un miraggio l’idea stessa di acquistare un’abitazione. Il piano, presentato in questi giorni, si articola in tre proposte piuttosto ambiziose.

La prima è la volontà del partito guidato da Jeremy Corbyn, una volta al governo, di costruire in dieci anni un milione di nuove case. Ma, ed ecco il secondo punto, il Labour non si propone solo di costruire centomila abitazioni all’anno, ma di ridefinire il concetto stesso di casa popolare. Il prezzo degli affitti delle case popolari non verrà più stabilito in base ai criteri di mercato ma indicizzato in base agli stipendi reali. In città come Londra ma non solo, infatti, calmierare il prezzo delle case popolari indicizzandolo al prezzo di mercato, le rende comunque inaccessibili per i ceti più bassi considerando che la speculazione selvaggia porta i prezzi del mercato abitativo a prezzi esorbitanti.

Esistono a Londra migliaia di appartamenti vuoti, acquistati solamente a fini di investimento, un tipo di speculazione edilizia che mantiene il prezzo degli immobili e degli affitti a livelli inaccessibili non solo ai ceti popolari, ma a grandissima parte del ceto medio, tanto che possedere una casa a Londra e sinonimo di spropositata ricchezza. Utilizzando il salario disponibile, invece, si renderanno veramente disponibili anche per i più poveri e per le giovani coppie queste nuove abitazioni che verranno costruite.

Il terzo e forse più importante punto è l’istituzione di un fondo statale che abbia il compito di acquistare i terreni da privati al loro prezzo reale: prima della concessione edilizia. Una delle principali fonti di speculazione sul mercato edilizio è infatti proprio quella del prezzo dei terreni che, prima che vengano considerati edificabili, valgono quasi sempre un decimo del loro valore. Tramite questo fondo apposito lo Stato provvederà ad acquistare i terreni al loro valore reale prima che vengano destinati al mercato delle costruzioni: in questo modo si abbatteranno anche i costi per poter costruire case popolari e in generale il mercato edilizio.

Un piano, come si è detto, molto ambizioso che ha l’enorme merito di mettere finalmente nel cassetto l’idea che lo Stato, soprattutto in un ambito cruciale come quello edilizio, possa solo agire da regolatore del mercato ma che possa riprendere a svolgere un ruolo attivo e da protagonista.

Le case pignorate ai più poveri: continua la protesta in Grecia

People protesting homes' auctions clashed with police at an Athens court of appeals as foreclosures continue as part of reforms under Greece's bailout plans. Athens, Greece 20 December 2017. (Photo by Dimitris Lampropoulos/NurPhoto via Getty Images)

A Stella A. a gennaio hanno detto che rimanevano 30 giorni per raggiungere un accordo con la compagnia idrica le cui bollette non riusciva a pagare. Oppure la casa dove è cresciuta sarebbe stata requisita e venduta. Dopo l’acqua, l’elettricità. «Abbiamo fatto affidamento su amici e parenti», ha detto ad Aljazeera, parlando dei prestiti che ha chiesto in giro per pagare le bollette. Alternativa non c’era: la casa dove vive con i genitori in pensione sarebbe finita sul mercato, all’asta. «Abbiamo sempre paura che arrivi un impiegato della compagnia e ci tagli la corrente, che arrivi una lettera che annuncia che la nostra casa non è più nostra».
Proteste e scontri, tafferugli da Atene a Tessalonica, proseguono da novembre a questa primavera per le case pignorate ai greci più poveri e per la politica del governo di Alexis Tsipras: una delle sue promesse elettorali era cancellare l’austerity, proteggere le classi più deboli e, soprattutto, le loro case dal pignoramento. Non è stato così.

Per la classe operaia greca le aste sono diventate il simbolo della remissività del loro governo verso le misure economiche imposte dall’Europa. Nel 2018, si è calcolato, saranno 18mila le case che appartenevano ai greci che non sono riusciti a pagare mutui, debiti contratti, semplici bollette, e che andranno vendute al miglior compratore. È parte del processo obbligatorio del programma di salvataggio voluto da Bruxelles: la Grecia ripagherà anche così i suoi debiti. È una delle misure richieste dai creditori nell’eterna crisi economica che attanaglia il Paese e accade secondo l’accordo approvato da Ue e Fmi per Atene.

Uomini dal volto coperto hanno fatto irruzione nel suo ufficio ad Atene, sfondando la porta con una mazza. Con lo stesso bastone hanno distrutto stampanti, computer e documenti. Per Barbara Sgoura, notaio, è stato il “giorno più scioccante” della sua carriera. «Sono rimasti meno di tre minuti, ma hanno fatto migliaia di euro di danni», racconta al Financial Times. La polizia è arrivata ad investigare, ma nessun arresto è seguito. È una Grecia fatta di rabbia e ribellione quella che lotta contro il pignoramento delle case di chi non riesce a sopravvivere sull’orlo della povertà. Panagiotis Lafazanis, l’ex ministro dell’energia di Syriza, uscito dai ranghi del partito di Tsipras nel 2015, è a capo delle proteste che ogni settimana tentano di impedire il lavoro dei notai che procedono con la vendita dei beni all’asta. «Queste aste sono una disgrazia, un ritorno all’autoritarismo» ha detto un mese fa Lafazanis, mentre la polizia disperdeva la folla con i gas lacrimogeni.

Niente fermerà questo processo nei mesi a venire. La prossima data è la beffa di un simbolo. Le aste online inizieranno il primo maggio, giorno della festa dei lavoratori.

La supercazzola progressiva ma flat

Danilo Toninelli nella Loggia d'Onore durante il secondo giorno di consultazioni al Quirinale per la formazione del nuovo governo, Roma, 4 aprile 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

L’ultima puntata di questa perdibile saga che sono questi cinquanta giorni di consultazioni sono i patetici tentativi di raccontare simili programmi elettorali che si contraddicono con iperboli oratorie che sono degne dei pacchisti che si incrociano nei parcheggi di qualche autogrill. L’ultimo in ordine di tempo è il capogruppo al Senato del Movimento 5 stelle Danilo Toninelli che in scioltezza ha aperto alla flat tax leghista con una dichiarazione che lascia basiti: «La semplificazione fiscale è anche una nostra priorità. Una flat tax che non svantaggi le fasce più deboli e rispetti il criterio della progressività scolpito nella nostra Costituzione per noi va bene», ha detto Toninelli.

E fa niente che una flat tax che «rispetti la il criterio della progressività scolpito nella nostra Costituzione» valga più o meno come augurarsi un pollo capace di librarsi in volo: l’importante è scovare formule retoriche per rendere potabile tutto ciò che serve per tentare di non innervosire i propri elettori. Così la flat tax che fino a qualche mese fa veniva bollata come «incostituzionale», «che scassa i conti dello Stato», «una bufala» (tanto da meritarsi sul blog di Grillo il nomignolo «flop tax») ora diventa «semplificazione fiscale». Fantastico.

La politica, quando non si è capaci di farla, diventa un esercizio retorico per nascondere sotto le metafore i propri fallimenti. Così ci tocca pure sentire Salvini che apre al reddito di cittadinanza, il M5s apre alla flat tax, i distanti fingono di essere simili per annusarsi e poi reagiscono offesi se il corteggiamento non funziona. E ora, dopo averci detto per settimane quanto si assomigliano di là a destra, proveranno per qualche giorno a simularsi di centrosinistra. Di governo, nemmeno l’ombra.

Buon martedì.

Federica Messa aka Mèsa, l’affresco in note di una generazione che sogna forte

Fino a ieri, la si poteva incontrare nei locali di tendenza di Roma, ma anche nei giardini privati, invitata a suonare per dilettare una serata: «Mi bastavano un divano o una sedia e io cantavo le mie canzoni. Posso ancora farlo, in realtà». Adesso, dopo un Ep, Federica Messa, in arte Mèsa («con l’accento aperto, mi raccomando!») ha pubblicato il suo primo album di inediti: Touché. Una stoccata, la sua, con la chitarra, che suona da sempre e imbraccia con enorme disinvoltura, per proporre musiche e testi che scrive rinchiusa nella sua cameretta.

Cantautrice a tutto tondo, anche se supportata dalla band con cui si esibisce con uno show più elettrico, e meno intimo: il 27 aprile sarà all’Ohibò di Milano, poi la vedremo ospite al prestigioso Mi ami in quel dell’Idroscalo stavolta, il 26 maggio, e poi in tournée per tutta l’estate. Siciliana di origine, ma romana di nascita, anche se fa di tutto per sviluppare, dice lei, un livello di romanità convincente: «Sono cresciuta al Torrino, in una zona periferica di Roma, fin quando non ho iniziato a fare serate in zone molto più centrali come San Lorenzo, il Pigneto, San Giovanni, dove capitavo per caso ogni tanto, non avevo questa conoscenza approfondita della mia città. In questi ultimi anni sto diventando più romana. Amo molto Roma, soprattutto adesso che inizio a fare questo mestiere, sono fortunata a essere qui».

Una laurea in Lettere, che oggi le permette di dare lezioni private a giovani studenti e, contemporaneamente, di iniziare a fare questo mestiere: «Certo – ironizza – ho unito due cose molto remunerative: la musica e la letteratura». Una passione, fin da piccola per la musica americana, con la scoperta dei Nirvana, per poi approdare ad altri generi: «…la musica punk, in generale, poi ho scoperto il cantautorato americano, mi sono appassionata a Elliott Smith, ma anche a Joni Mitchell, se vogliamo prendere una grandissima figura femminile. Più tardi, è arrivato il cantautorato italiano e mi sono appassionata tantissimo a Dalla, De Gregori e Battisti».

Ad accorgersi di lei è Bomba dischi, etichetta discografica dal gran fiuto, quella di Calcutta per intenderci, ed esce, lo scorso 2 marzo, con questo disco dal titolo francese. I brani, tutti prettamente autobiografici, sono ben undici, e, rievocando il titolo, ogni canzone sembra un incontro di scherma dove non importa tanto chi vince o contro chi si gareggia, quanto il non aver paura di gridare «touché». «Di solito, più che una ricerca, è un modo per capire quello che è successo in un determinato periodo, in un momento particolare della mia vita. Scrivo dopo che nella realtà sono successe delle cose davvero e poi è un mio modo per mettere un punto, mettere a fuoco le cose. Non è un voler ricercare, piuttosto un voler dare un nome alle cose, nelle canzoni. Nasce tutto da quelle che sono le relazioni che ho, di vario tipo: sentimentali, d’amicizia».

Infatti, i suoi testi sono un ventaglio variegato di pensieri sussurrati, anzi cantati, che Mèsa fa conoscere in tutta la loro verità. Un disco al quale bisogna predisporsi, molto poco pop, un po’ in controtendenza, ammette lei. Piccoli pezzi di vita, spesso introdotti da periodi musicali non convenzionali o molto suonati, che colpiscono subito però. Come nel brano “Tutto”, in cui ci appare da sola con la sua chitarra e sullo sfondo c’è questa Roma che prova a fare sempre più sua, elencandoci una ridda di situazioni, da ventiseienne e non. In “Oceanoletto” è la storia di un amore finito, di un rimpianto, a farci scoprire una delle sue più belle melodie.

Rapporti, momenti vissuti, ma anche riflessioni sul mondo che ci circonda: «Nel brano “Un esercito orizzontale” difendo la mia generazione, che, ci dicono, è quella di chi non ha voglia di fare, che comunque si accontenta, però non c’ha il lavoro, non ha “la linea retta” della vita. Quella che, per esempio, avevano i miei che hanno studiato, si sono sposati, hanno avuto i figli. La mia generazione si arrangia, ma forse sogna un po’ più forte e in questo pezzo ho voluto dare valore al sogno, che poi alla fine è più concreto. Noi ci sbattiamo molto per concretizzarlo questo sogno, non stiamo lì ad aspettare che succeda qualcosa, nonostante non abbiamo il posto fisso o abbiamo impiegato un po’ di più a laurearci».

Ha le idee chiare questa giovane rivelazione, che, mi piace, si sia formata nei giardini, nei locali, in questi tempi di talent e programmi in cui apparire sembra l’unica qualità. Federica, ce lo ha detto, sogna forte, anche di fare questo mestiere: «L’ho sempre saputo, in qualche modo, che volevo fare questa roba qui, ma forse ho deciso di iniziare a provarci seriamente due o tre anni fa. Perché ho iniziato a scrivere in italiano, mi sono focalizzata in maniera più metodica, più seria anche sul discorso del suonare in giro live, del trovarmi un nome, di mettere insieme dei pezzi da proporre dal vivo. Ho sempre suonato, avuto progetti in questo senso: ho sempre scritto e cantato».

Due cose interessanti di lei. Aver abbandonato l’inglese, appunto: «Ho sempre ascoltato la musica inglese, per me era naturale approcciarmi in quel modo là, però poi ho pensato che se volevo parlare in maniera più diretta, avrei dovuto usare la mia lingua, anche per chi, nel mercato italiano ascolta è sicuramente più facile. Volevo che arrivasse, oltre alla melodia, quello che scrivo». Poi questo nome particolare: «Mio nonno aveva un documento antico, sai quelli sui cognomi delle famiglie, e c’era scritto che la mia famiglia, chissà quanti mila anni fa, era di origine spagnola e che in Italia fosse stata aggiunta una esse. Non so se è vera questa storia, ma alla fine mi è parso carino chiamarmi Mèsa, anche se genera un po’ di fraintendimenti e a Roma diventa “me sa’” e la cosa mi diverte anche».

Molise, le elezioni del déjà vu con i soliti nomi: vince il centrodestra e vola l’astensione

Una foto tratta dal profilo Facebook di Donato Toma +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Il vecchio che avanza. Più che il centrodestra, a vincere in Molise sono stati i vecchi volti della politica regionale. Fa niente se, nel frattempo, sono intercorse condanne o bocciature a precedenti elezioni. L’italiano è un popolo che dimentica, dopotutto. E così, ad esempio, rientrerà in consiglio regionale l’ex governatore e ras del centrodestra Michele Iorio, che aveva già provato prima di ora la scalata al Senato, salvo essere bocciato il 4 marzo. Ma non si è perso d’animo: ha fondato una lista tutta sua (“Iorio per il Molise”) a supporto del candidato di centrodestra Donato Toma e si è ributtato nella mischia, conquistando un posto in consiglio regionale. Ma non da subito: a gennaio è stato condannato in appello, complessivamente dovrà scontare una sospensione di 18 mesi e forse cederà il posto ad un altro. Bazzecole. Così come lo è il fatto che Vincenzo Niro e Vincenzo Cotugno, i due presidenti del Consiglio regionale uscente che si sono succeduti nel corso dell’amministrazione della giunta di Paolo Di Laura Frattura (centrosinistra), con un bel salto carpiato hanno messo su due liste civiche candidandosi anche loro con il centrodestra. Ebbene, entrambi rientreranno in consiglio. Tutto come prima, dunque, salvo la casacca diversa. E forse non c’è nemmeno da sorprendersi visto che Cotugno è, incidentalmente, il cognato di un altro pezzo da novanta di Forza Italia in Molise, l’europarlamentare Aldo Patriciello. Parenti e partito, insomma. Da sempre: alle politiche del 4 marzo il candidato del centrodestra alla Camera era Mario Pietracupa, anche lui, manco a dirlo, cognato dell’euro-onorevole.
In una competizione serrata ma a tratti grottesca sono state determinanti le liste più che i partiti, i nomi più che i programmi. Non è un caso che il centrodestra si sia presentato con un plotone di 180 candidati che, per una regione piccola come il Molise, è tutto dire. Un esempio su tutti: la lista del già citato Cotugno, “Orgoglio Molise” (riedizione di “Rialzati Molise” con cui Cotugno si presentò nel 2013 col centrosinistra) ha raccolto più voti di Lega e Fratelli d’Italia e soltanto circa mille preferenze in meno rispetto a Forza Italia.
A gestire, dunque, la cosa pubblica si ritroveranno gli stessi artefici di quello che il Molise è oggi: sanità commissariata dal lontano 2009, disoccupazione al 14,6%, quella giovanile al 47,3% e Pil pro capite pari a un terzo della media nazionale.
Il centrosinistra, invece, avrà tanto da riflettere sulla sua definitiva Caporetto dato che è riuscita a fare anche peggio delle politiche del 4 marzo, non raggiungendo nemmeno il 18%, nonostante l’alleanza Pd-Liberi e Uguali. Il Movimento 5 stelle resta, invece, primo partito, esattamente come per le politiche: magra consolazione per chi, dopo la Sicilia, ha visto sfumare ancora la tanto agognata “Regione a 5 stelle”. Il Movimento, dati alla mano, è crollato, nel giro di poco più di un mese, dal 44% delle politiche al 31% delle regionali.
E ora, inevitabile, va in scena il gioco delle parti, col Molise-Ohio tirato in ballo o respinto a seconda della convenienza. Luigi Di Maio ha già chiarito che la piccola regione non potrà incidere sulla formazione di un governo. Tutto giusto, se non fosse per il fatto che fino a venerdì scorso il pentastellato diceva esattamente l’opposto; Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, invece, più che alla formazione del governo guardano alla leadership interna, esaltando il determinante risultato ora di Forza Italia, ora della Lega. Salvo, poi, essere sbugiardati dai numeri: il primo con il 9,4% resta, seppur di poco, primo partito della coalizione ma in netto calo dal 16,1% delle recenti politiche, mentre la Lega si ferma poco sotto il risultato del voto del 4 marzo all’8,3% (da 8,7%).
Al di là delle dichiarazioni di circostanza (anche la Meloni parla di «fondamentale contributo di Forza Italia» col suo 4%…), diventa difficile che il centrodestra possa sfaldarsi in vista di un governo. Tutto resta appeso. Come prima, più di prima. A meno che non sia il Pd a giocarsi la carta di un governo con i 5 stelle, magari con l’alibi della “responsabilità” in ossequio a Sergio Mattarella, nel tentativo di resuscitare dalle nere ceneri in cui è sprofondato.
Resta però un vuoto, colossale, su cui tutti dovrebbero riflettere, vincitori e vinti: a votare è andato solo un cittadino su due (affluenza al 52,2%, contro il 71,6% delle politiche di marzo). La politica è sempre più sinonimo di sfiducia. Ed è questo il dato, ultimo, che fa più terrore.

Stephen Lawrence ucciso per il colore della pelle: la Gran Bretagna fa ancora i conti con il razzismo

epa06662288 (FILE) - A handout photo made available by the London Metropolitan Police Service in London, Britain on 03 January 2012 showing Stephen Lawrence. The London Metropolitan Police (MPS) on 11 April 2018 state that as it approaches 25 years since the tragic night that Stephen Lawrence was murdered, the MPS is reviewing the status of the investigation. Despite previous public appeals: rigorous pursuit of all remaining lines of enquiry: numerous reviews and every possible advance in forensic techniques, the Met investigation team is now at a stage where without new information the investigation is unlikely to progress further, and this was explained to the family earlier this year. Stephen was stabbed to death by a group of six white youths in an unprovoked racist attack as he waited at a bus stop on Well Hall Road in Eltham, London, Britain on 22 April 1993. EPA/LONDON METROPOLITAN POLICE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES *** Local Caption *** 52934991

Murdered because of the color of his skin, ucciso per il colore della sua pelle. Stephen era solo un teenager che passeggiava per le strade del sud est di Londra, quando è stato ammazzato a Eltham la notte del 22 aprile 1993 durante un’aggressione a sfondo razziale. Venticinque anni dopo il fratello Stuart lancia di nuovo l’allarme: «Temo per la mia vita».

Ma cos’era accaduto in quell’aprile del 1993? «L’omicidio che ha cambiato la nazione», come lo chiama la Bbc che ne fa una storia accurata, tappa per tappa, risale a 25 anni fa, ed è un caso giudiziario che ha segnato per sempre la storia del Paese. La Gran Bretagna fu costretta a confrontarsi con il suo razzismo, quello dei suoi cittadini, ma soprattutto quello delle sue istituzioni che intralciarono le indagini, nel 1993. Un quarto di secolo dopo la morte di Stephen Lawrence i conti col passato non sono ancora chiusi. Eppure è tempo che accada, dice la madre del giovane, Doreen.

Il 23 aprile 1993, un giorno dopo l’omicidio di suo figlio, una lettera anonima con i nomi dei sospetti assassini viene lasciata in una cabina telefonica a Eltham. Accanto al numero 1 cerchiato c’è il nome di Neil Acourt. Segue quello di Dave Norris, Jamie Acourt e il numero 4: Gary Dobson. La polizia comincia a sorvegliarli quattro giorni dopo. Il 4 maggio però la famiglia di Lawrence è delusa: non si sta facendo abbastanza per trovare i responsabili della morte del ragazzo. Le conferenze che tengono via via per denunciare i ritardi della giustizia sono pubbliche, durante una di queste c’è un ospite illustre: Nelson Mandela.

Arriva il giugno del 1993: i due fratelli Acourt, Neil e Jamie, il numero uno e tre della lista, vengono arrestati, insieme a David Norris e Gary Dobson. Neil e un altro membro della gang, Luke Knight, vengono identificati come responsabili dell’omicidio, ma respingono le accuse. Le prove non sono abbastanza, vengono scarcerati. Ma la battaglia dei Lawrence continua: nel settembre 1994 lanciano una private prosecution, un procedimento privato contro le stesse persone, che però fallisce di nuovo. I tre sono a piede libero, acquitted, assolti. La disputa legale va avanti per anni ed anni. Fino al 1998, quando il giudice sir William Macpherson conclude che le indagini svolte erano state intralciate dalle forze dell’ordine stesse, perché Stephen era nero. Razzismo dei killer, razzismo della società, ma soprattutto delle autorità: chi doveva rendergli giustizia, il Crown Prosecution Service, non lo aveva fatto abbastanza, perché si trattava di un cittadino di colore e non di un bianco. Oggi si riferiscono tutti al rapporto Macpherson come a «una delle decisioni più importanti della giustizia criminale della storia moderna britannica». Perché per la prima volta la questione non veniva taciuta e nascosta con ipocrisia.

I membri della gang che hanno ucciso Stephen sono finiti in prigione solo nel 2012, 19 anni dopo le ferite letali inferte al giovane, ucciso per strada quando aveva 18 anni solo perché aveva la pelle nera e passeggiava nei dintorni, quella notte ad Eltham. Altro motivo non c’era.

Neville Lawrence ha ormai i capelli bianchi. I fiori che lascia sul marciapiede dove è stato ucciso suo figlio sono dello stesso colore. Dice di aver perdonato i killer di Stephen. Quello che gli è successo, è, in qualche modo, successo all’intero Paese.

La storia di Stephen è diventata il simbolo della battaglia contro il razzismo in Gran Bretagna e il Paese in questi giorni lo ricorda. Il fratello di Stephen, Stuart, ha portato avanti questa battaglia e la sua memoria, ma tutti sanno dove abita. Sia la famiglia della gang, sia i membri della polizia, che «dovevano servire e proteggere, ma hanno protetto e servito solo se stessi e i criminali, questo è assolutamente diabolico». Stuart ha paura di morire e di essere ucciso come suo fratello, perché forse le cose non sono cambiate del tutto, ma dice di avere una cosa più importante da fare, un esempio di lotta per la giustizia da continuare a mostrare a suo figlio.

Il coraggio di Anna

Pentirsi dall’interno di un’organizzazione criminale è sempre un passo difficile. Pentirsi in ambienti ‘ndranghetistici è ancora più complicato per i rapporti di sangue che spesso intercorrono all’interno del clan e che “pesano” nel trasformare un pentimento in un tradimento, ed è comodissimo per i boss.

A Catanzaro c’è una donna che da qualche tempo sta raccontando tutto quello che sa sui rapporti criminali che stanno dietro alla maxi rapina al caveau della Sicurtransport (8,5 milioni di euro il bottino totale) che il 4 dicembre 2016 una banda foggiana ha messo a segno con la collaborazione delle ‘ndrine (attraverso un uomo della cosca degli Arena).

Una rapina da film: auto e furgoni incendiati per bloccare il passaggio e isolare la zona, quindici persone armate con strumenti ad alta tecnologia, una ruspa con martello pneumatico per sfondare il caveu, un dispositivo inibitore di frequenze per impedire qualsiasi possibilità di conversazioni telefoniche.

Anna Cerminara era la compagna di Giovanni Passalacqua (una delle menti del colpo) e di fronte ai magistrati ha raccontato tutti i particolari dell’azione, della sua preparazione, tutti i nomi e i cognomi. Nonostante le pressioni del suo ex compagno dopo che lei ha deciso di entrare nel programma di protezione testimoni e nonostante le continue minacce rivolte anche al figlio Anna ha proseguito il suo percorso di collaborazione con i magistrati della DIA di Catanzaro. Era entrata nel programma di protezione ma poi la paura aveva preso il sopravvento: “O ci pensi tu, o ci pensiamo noi” dicevano a Passalacqua pretendendo che lei dicesse tutto quello che aveva raccontato alla Polizia. Poi Anna ha ritrovato le forze per chiedere aiuto e protezione allo Stato. E ha detto tutto.

E a me sembra una storia che infonde speranza, in questo lunedì.

La passione e l’impegno di Louise Michel nella Comune di Parigi

In uscita per la casa editrice Elèuthera, un racconto polifonico della più celebre «incendiaria» parigina. Ne “Il tempo delle ciliegie”, lo scrittore e musicista Marco Rovelli racconta l’epopea dell’anarchica Louise Michel, e il suo impegno nella Comune di Parigi, che pagherà con la deportazione in Nuova Caledonia. Vi proponiamo qui un estratto dell’opera:

[divider]Il tempo delle ciliegie[/divider]

Henri, giardiniere del castello di Vroncourt

Dicono che sia stata lei a incendiare Parigi. Le notizie qui a Vroncourt arrivano tardi, sempre che arrivino: ma stavolta pare che da Parigi un giudice abbia chiesto direttamente al sindaco informazioni su Louise. Dicono che a Parigi non si faccia che parlare di lei ovunque. L’incendiaria, dicono. Ma io non ci credo. Me la ricordo bene, Louise, al castello.

Chissà come deve star male chiusa dentro la cella della prigione. Me la ricordo bene, sapete, si doveva sempre correrle dietro per tenerla a bada, non poteva star ferma. Era attratta dal bosco. E dai lupi. Per i lupi aveva una vera e propria passione. Nel cortile del castello, che poi era una grande casa squadrata e tozza, con quattro torri agli angoli, arrivavano i lupi, d’inverno, durante le tempeste.

Ululavano nel cortile in mezzo alla neve, e Louise stava alla finestra, incantata, a cercare di decifrare le ombre. Ovvio, le facevano paura, a quale bambina non fanno paura i lupi? Ma era proprio quella paura a stimolarla. Era proprio per quella paura che li cercava. I lupi per lei non hanno mai rappresentato il Male, non c’erano lupi cattivi per lei. O meglio, c’erano, ma erano gli uomini-lupo, quelli che pur dotati di ragione facevano il Male. Che poi per lei il Male era una cosa semplice. Avere un pezzo di pane e non spartirlo con una bambina incontrata per la strada, quello era il Male. Non glielo aveva insegnato nessuno, era proprio qualcosa che aveva dentro dalla nascita. Chissà poi, io non sono istruito, so appena leggere e scrivere, non ne capisco di queste cose da filosofi . Ma che tipo era Louise, questo lo so bene.

Sua madre lavorava per i Demahis, come il sottoscritto. Il padre non venne mai rivelato. Ma noi lo sapevamo bene che era stato il figlio dei padroni, Laurent, a mettere incinta la serva. Marianne, che era proprio una bella ragazza, bionda con gli occhi azzurri. Louise non le somigliava, purtroppo. Sì, nei castelli della nobiltà era un fatto comune, la serva è una proprietà che si usa per apprendere certe arti amatorie: ma io me lo ricordo che tra Laurent e Marianne c’era stato del tenero. Forse fu per questo che lui se ne andò a vivere altrove, non poteva sposarla, ma non poteva continuare a convivere sotto lo stesso tetto, chissà. Io almeno me la sono sempre immaginata così. Qualcuno invece dice che fosse il padrone a essere il padre di Louise, ma io non ci credo. Fatto sta che furono Monsieur Étienne-Charles e Madame Charlotte a prendersi cura della piccola. La allevarono come una nipote, o una figlia se volete, le diedero un’educazione: erano nobili illuminati, loro, volterriani, laici. Le volevano bene. Vi dico, nei dintorni Louise era conosciuta come Mademoiselle Demahis. Mi ricordo che un giorno la figlia, che si era sposata e ogni tanto tornava al castello, si arrabbiò perché loro le facevano prendere lezioni di musica: «Ma siete impazziti», urlò, «si dimenticherà la sua posizione!». Insomma, Louise aveva una mamma e due nonni. Dalla mamma prese la devozione: Louise era molto religiosa, da piccola. Dicono che non lo sia più, ma io mica ci credo.

Il prato, sapete, ho spesso pensato che fosse quella la sua casa. Non era una ragazza da castello, Louise, per quanto sapeva sempre ben comportarsi, s’intende. Ma appena poteva andava a girare nei prati. C’erano un sacco di animali, attorno al castello. Cani, gatti – un sacco di gatti, che lei ci parlava di continuo! – e una vecchia asina che Louise e Monsieur Étienne seppellirono sotto un’acacia. E poi i cavalli che venivano nella corte, e lei gli dava sempre da mangiare… Mi ricordo che odiava il modo in cui i contadini trattavano gli animali, o gli altri bambini che si divertivano a torturarli.
Che se è vero che adesso la deporteranno in Nuova Caledonia come dicono, di sicuro per lei sarà molto meglio della prigione. Tra le foreste e i selvaggi, quello sarà un posto che amerà.

Sapete, mi toccò pure rimproverarla perché rubava frutta, e pure dei soldi, al castello, per darli a dei bambini che secondo lei ne avevano bisogno… Li vedeva vestiti male, scalzi, e allora andava da loro e gli diceva: «Prendi». Io un paio di volte la afferai e la feci rientrare, ma poi non me la sentii, lasciai che facesse i suoi regali. Certo che quella volta che tornò senza le scarpe perché le aveva date a un povero, beh quel giorno anche i suoi nonni si arrabbiarono.
Mi spiace non potermi immaginare tutto quello che avrà sofferto in questo periodo. Se potessi, andrei da lei e me la abbraccerei. Ormai sono alla fine, ma prima di morire mi sarebbe piaciuto rivederla e riabbracciarla. Temo che dovrò morire senza averlo fatto, però. (….)