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La Biblioteca di New York, fucina culturale anti Trump

Da oltre cinquant’anni Frederick Wiseman, il decano dei documentaristi premiato con l’Oscar alla carriera nel 2017, è impegnato in un lungo viaggio con l’obiettivo di esplorare funzioni, ruolo sociale e meccanismi interni delle istituzioni americane. Il suo non è un approccio didascalico o didattico tipico di una certa scuola documentaristica, ma di scoperta. Per il pubblico a cui Wiseman si rivolge, ma anche e soprattutto per lo stesso regista. Con il suo nuovo film, Ex Libris, in uscita proprio in questi giorni (23-25 aprile), Wiseman si confronta con il mondo delle biblioteche pubbliche, e nello specifico quella di New York, con i suoi 92 distaccamenti sparsi per la città.

Il primo aspetto che salta all’occhio, e che la distingue da gran parte delle altre istituzioni prese in esame in precedenza dal regista, è la straordinaria atmosfera di serenità, solidarietà e collaborazione che vi si respira tra le persone. «C’è effettivamente qualcosa di allegro e l’umore alto è contagioso» ci racconta Wiseman, che con questo film che ora esce in sala è stato in concorso a Venezia dove ha vinto il Premio Fipresci. «Lo staff alla New York Public library è creativo e generoso. Certo, sarebbe irreale che non vi fossero mai dissapori. Solo che a me non è capitato di assistere a questi momenti», dice sorridendo il regista.

A Wiseman preme, con il suo documentario, «enfatizzare la missione della biblioteca, l’offerta di un certo tipo di servizi alle persone». Non è che la New York Public library riesca a offrire una soluzione per tutto ciò che in America non funziona, racconta, «ma è magnifico che esista una tale istituzione». In genere, l’idea che si ha delle biblioteche è quella di un luogo principalmente destinato alla salvaguardia, all’archiviazione e alla lettura di testi di varia natura. Ciò che invece emerge da Ex Libris è come la biblioteca pubblica sia in realtà un apparato organico in grado di offrire un’ampia gamma di opportunità ai cittadini.

È un luogo sì di apprendimento, ma anche di…

L’articolo di Marco Cacioppo prosegue su Left in edicola


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La monarchia assoluta che piace all’Occidente

TOPSHOT - Members of Saudi Arabia's Crown Prince Mohammed bin Salman's delegation leave 10 Downing Street, in central London on March 7, 2018. British Prime Minister Theresa May will "raise deep concerns at the humanitarian situation" in war-torn Yemen with Saudi Crown Prince Mohammed bin Salman during his visit to Britain beginning Wednesday, according to her spokesman. / AFP PHOTO / DANIEL LEAL-OLIVAS (Photo credit should read DANIEL LEAL-OLIVAS/AFP/Getty Images)

Incontrando a Parigi il presidente francese Macron lo scorso 10 aprile, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman era stato chiaro: «Se l’alleanza con i nostri partner lo esige, risponderemo “presente” all’azione militare contro Damasco». Quattro giorni dopo, una pioggia di missili lanciati da Usa, Inghilterra e Francia sarebbe piovuta su Homs e Damasco colpendo il centro ricerche di Barzeh nella capitale siriana, un sito militare e un centro di comando a Homs che, secondo il Pentagono, erano utilizzati dal governo di Bashar al-Assad per la produzione e lo stoccaggio di gas. Riyadh non ha preso parte all’offensiva, ma il sostegno della monarchia wahhabita all’attacco è stato immediato: «Una risposta al continuo uso da parte del regime di armi chimiche contro civili tra cui donne e bambini» ha detto in una nota il ministero degli Esteri.

Riyadh sa perfettamente che quanto accaduto il 14 aprile è un evento che gioca a suo favore. Che si sia trattato o meno di uno show di Usa, Francia e Inghilterra – attacco limitato e al momento isolato, Russia informata in anticipo e non colpita dai missili, danni irrilevanti per il regime – resta il fatto che il messaggio mandato dal fronte anti-Assad a Russia e Iran è concreto: il conflitto siriano non può terminare con la vittoria dell’asse Mosca-Teheran-Damasco. Notizie incoraggianti per una monarchia, quella saudita, che nel conflitto in Siria ha inviato armi e denaro a gruppi di «opposizioni moderate» nel tentativo di far cadere il presidente siriano sostenuto dall’arci rivale Iran e dalla Russia.

Un progetto che…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Le incognite della guerra fredda 2.0

Participants of the Conference on International Security gather together near a big screen showing a Russian warplane unloading its weapons over target in Syria, prior to the session in Moscow, Russia, Wednesday, April 4, 2018. Top Russian defense and security officials on Wednesday launched diatribes at the West, accusing it of fomenting a new Cold War in a bid to retain waning influence in global affairs. (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Un decano della diplomazia come Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, ha recentemente dichiarato che oggi la situazione nei rapporti tra gli Stati è «peggiore di quanto non fosse nella classica guerra fredda, perché allora si osservava un certo decoro mentre ora gli occidentali ricorrono apertamente alle menzogne, alla pura e semplice diffusione di fake news». Un acuto osservatore della politica internazionale come Sergio Romano ha perfino scritto un libro intitolato In lode della guerra fredda sostenendo che in fondo quell’ordine, quei «cinquant’anni trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale erano stati la pace più lunga del continente euroasiatico dai trattati di Vestfalia ai nostri giorni». Ma è veramente così? Davvero la guerra fredda fu un’epoca di pace e di rapporti tra gli Stati basati sul mutuo rispetto?

Per molti giovani di oggi la guerra fredda è qualcosa che hanno studiato a scuola, ma per chi ha qualche anno in più si è trattato di un orizzonte geopolitico e culturale, di un sistema di relazione tra gli Stati, di uno scontro ideologico che ha permeato un intero periodo storico. Nello scontro tra i blocchi contrapposti tra occidente e oriente, tra capitalismo e comunismo, tra democrazia e dittatura ogni individuo era chiamato a schierarsi, ad appoggiare la Nato o il Patto di Varsavia. La sinistra italiana e internazionale (salvo le piccole minoranze eretiche e della nuova sinistra) ne rimase schiacciata: da una parte i comunisti che sostenevano più o meno criticamente il blocco sovietico e dall’altra i socialdemocratici che pur con qualche distinguo appoggiavano l’alleanza occidentale.

Attraverso scontri diplomatici, guerre per procura (come quella coreana del 1950 o quella vietnamita degli anni 60-70), spionaggio politico, industriale e militare si dipanò un confronto che durò quasi mezzo secolo.
Il simbolo della guerra fredda fu il muro di Berlino che divideva l’ex capitale del Reich in due zone di influenza. Lungo 155 km, era stato fatto costruire dai russi nel 1961 per frenare la fuga di tedeschi – soprattutto forza-lavoro qualificata – dell’Est verso l’Ovest. Uno dei principali fondamenti della guerra fredda non fu che un mito: non si trattò di uno scontro tra due blocchi più o meno equivalenti.

In realtà…

Il reportage di Yurii Colombo da Mosca prosegue su Left in edicola


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L’ira dei siriani: «Perché vi indignate solo ora?»

A picture taken on April 16, 2018 in the rebel-held Syrian town of Binnish shows 45-year-old Syrian artist Aziz al-Asmar drawing a graffiti, with a caption next to it reading in Arabic: "Abu Ivanka, may God guide you, your strike is like a roosters fart." The graffiti, which refers to US President Donald Trump as "Father of Ivanka", shows three missiles being spewed out of a rooster's backside. It was painted on a wall in the town of Binnish, in a rebel-controlled area of the northeastern Syrian province of Idlib, in the aftermath of April 14 missiles strikes on Syrian regime targets by the United States, France and Britain. "It was like a useless cry," al-Asmar said of the strikes launched in response to an alleged chemical weapons attack on the rebel town of Douma, near Damascus. The graffiti "is a message to the US administration and Trump that our people has really been disappointed by the US administration's policies. It would have toppled Bashar al-Assad by now if it had really wanted to," he said. / AFP PHOTO / OMAR HAJ KADOUR (Photo credit should read OMAR HAJ KADOUR/AFP/Getty Images)

Sono stati cinque giorni febbrili sui social network, quelli intercorsi tra l’attacco chimico contro l’enclave ribelle di Douma, alla periferia di Damasco, e le incursioni “punitive” di States e alleati. Molto contraddittori – come di consueto – i commenti dei siriani, segnati o da una amara ironia, o da un grande allarmismo. Ad aver paura erano soprattutto gli abitanti del centro di Damasco, e di altre aree sotto il controllo del regime di Assad, poco abituati ad assistere ad incursioni aeree.

Dall’“Assadistan” giungono i timori della gente comune e le denunce arrabbiate dei sostenitori del regime, nelle quali si parla di «invasione», «rischio terza guerra mondiale», perdita di «sovranità nazionale»… Di tutt’altro tono, invece, i commenti di chi vive nelle aree fuori dal controllo di Assad, dove le battute sugli avventurosi tweet del presidente statunitense andavano per la maggiore: «Vai Abu Ivanka! Colpisci la bestia, colpiscila forte!» («Abu Ivanka», papà di Ivanka, è il nomignolo con cui viene ironicamente chiamato Trump da molti siriani sui social, nda).

Se, da una parte, erano davvero in pochi a sperare che l’attacco alleato avesse un impatto degno di nota, e potesse spostare gli equilibri militari o far vacillare le alleanze che tengono in piedi il regime, dall’altra erano in tanti a sperare che l’attacco avesse potuto ridurre, almeno temporaneamente, la capacità di bombardare dell’aviazione del regime. Le speranze di questi ultimi sono svanite dopo l’attacco, durato solo 70 minuti, diretto verso depositi, laboratori e centri studi a Damasco, obiettivi ritenuti legati al programma chimico siriano. Un attacco preannunciato alle forze russe, quindi anche al regime, che ha avuto tutto il tempo per evacuare uomini e mezzi.

Al punto che la temutissima «aggressione imperialista che ci porta…

L’articolo di Fouad Roueiha prosegue su Left in edicola


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L’essere umano che compare alla nascita

È uscito qualche giorno fa l’ennesimo articolo sensazionalistico su Repubblica che annuncia la scoperta “definitiva”: trovate le aree del cervello responsabili della schizofrenia! Sarebbe infatti il malfunzionamento di queste aree, una parte di cervello che si rompe, che determinerebbe i sintomi schizofrenici: dissociazione, rapporto con la realtà alterato, delirio, catatonia…

D’altra parte Repubblica è lo stesso giornale che pubblica gli interventi di Recalcati, interventi in cui sembrerebbe in gioco un pensiero e non solo il funzionamento chimico-biologico del cervello. Anche se poi quale sia questo pensiero e soprattutto come funzioni è difficile se non impossibile da capire, almeno dalle parole di Recalcati. In entrambi i casi però rimane fondante un’idea di pensiero oppure di un meccanismo di funzionamento del cervello che è sostanzialmente scorrelato da ciò che gli accade intorno. Non si ipotizza mai che possa esistere un’influenza esterna che modifichi il pensiero o il funzionamento biologico del pensiero. Viene quindi da chiedersi come questi signori possano fare psicoterapia: se il pensiero non si modifica a cosa serve la psicoterapia? Perché chiamarla terapia se non è possibile modificare alcunché?

È incredibile come Repubblica continui da decenni a ripetere sempre lo stesso mantra: il pensiero è immodificabile, il pensiero è il funzionamento biologico dell’organo cervello, la malattia mentale è ascrivibile interamente al funzionamento biologico del cervello. Perché? Perché questa pervicacia a insistere ad annullare e far sparire sempre, insistentemente il fatto che in Italia, nel 1971, è stata scoperta la causa della malattia mentale, inclusa la schizofrenia. È la scoperta contenuta in Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli, dove viene tra l’altro raccontato il percorso di cura e guarigione di un grave caso di schizofrenia. Fagioli ha scoperto e compreso dove nasce la fantasia, cosa la nutre e cosa la uccide. Ha scoperto e compreso che cosa è la malattia e come lo psichiatra può affrontarla per eliminarla definitivamente. Come per le malattie organiche in cui per eleminare la malattia si elimina la sua causa, nelle malattie mentali, scoperta la causa la si può eliminare per eliminare la malattia. La causa non è organica perché riguarda il pensiero che è una realtà non materiale.

Se si considera il pensiero come monade a se stante, non influenzabile dall’esterno, realtà eterna e non modificabile, allora non esiste malattia e non esiste cura. Ma non c’è nemmeno rapporto tra esseri umani. La scoperta della malattia mentale è stata la simultanea scoperta della fisiologia della mente umana, ossia del suo funzionamento “sano”. Ed è stata la scoperta della verità dell’essere umano che è il rapporto con gli altri. Quando c’è la malattia quello che non funziona più è il rapporto con gli altri. È quella realtà che va in crisi. La bravura del medico psichiatra è capire quali sono i segnali che indicano un problema psichico. La malattia è l’esito finale della reazione psichica a rapporti d’amore deludenti. Il bambino appena nato cerca l’amore della madre e offre con tutto se stesso l’amore del suo essere.

Essere che si è formato come reazione alla realtà inanimata aggressiva. La reazione, la prima reazione è di far sparire l’aggressione violenta e la creazione di un pensiero, un’idea, di rapporto totale con un altro essere umano. La reazione allo stimolo nuovo (la luce) è la pulsione di annullamento. Con essa e insieme alla vitalità del corpo, il neonato realizza l’esatto opposto della realtà che lo aggredisce: elimina l’inumano per fare qualcosa di totalmente umano, il primo pensiero, ciò che Fagioli chiamò inconscio mare calmo. Elimina la violenza per fare qualcosa di totalmente opposto a essa: una reazione che è amore e tendere verso l’altro. È la capacità di amare, la forza del cuore, che ogni neonato ha e che gli fa amare senza condizioni l’altro essere umano. La malattia viene quando questo amore totale del neonato viene negato e annullato. La cultura propalata da Repubblica e da tanti altri grandi media è l’annullamento dell’identità del bambino. Essi sostengono che il bambino nasce perverso e violento. Pensi solo a se stesso. Non ha rapporto con gli altri. Non ha capacità di amare. Sono proiezioni. È quella cultura che non ha la minima idea di cosa voglia dire amore per gli altri né tantomeno ha la più pallida idea di cosa sia la fisiologia o patologia mentale. Perché annullare una realtà significa non vedere. E non vedere significa non capire. Dopo di ché accade che la propria incapacità di vedere diventa volere che gli altri non siano e non sappiano, che gli altri non vedano.

Il commento di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Chi protegge i preti pedofili? Lo Stato fa finta di niente

Pope Francis is greeted by Italian Prime Minister Paolo Gentiloni during an audience with the leaders of EU countries at the Vatican City on the occasion of the celebrations to mark 60th anniversary of signing the Treaty of Rome, 24 March 2017. ANSA/L'OSSERVATORE ROMANO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

«Chi vede un bambino non vede nulla»; «Felice chi ha dei figli, ma non infelice chi non ne ha»; «Piccolo è il bambino, piccolo è il lutto»; «Non si deve dire un segreto a una donna, a un pazzo o a un bambino». Si tratta di una breve antologia di detti popolari coniati nell’attuale Europa tra il XV e il XVI secolo e raccolti dallo storico Jean Delumeau in uno dei suoi saggi più famosi, Il peccato e la paura (Il Mulino, 2006). «Quando ebbe inizio l’età moderna europea – spiega Delumeau – l’atteggiamento d’incomprensione nei riguardi dell’infanzia si rivela ancora largamente diffuso e riveste due aspetti tra loro complementari: la scarsa sensibilità per la freschezza e l’innocenza del fanciullino, la scarsa emozione per la sua fragilità; e la tendenza a vedere il fanciullo in età scolare (come diremmo noi oggi) come un insieme di difetti, un essere cattivo e maligno che occorreva necessariamente disciplinare affinché non diventasse adulto malvagio».

Questa antologia di proverbi, «per quanto contenuta, ci fa capire che il bambino non era riconosciuto come tale. Si tratta di una creatura che acquisterà valore solo quando sarà stata disciplinata, diventando uomo», osserva lo storico francese. La sua chiave di lettura del rapporto del mondo adulto con quello dell’infanzia nella cultura occidentale e cristiana al termine del Medioevo, può essere utile per osservare anche alcuni fatti di estrema attualità. L’annullamento dell’identità umana del bambino non è infatti una dinamica che appartiene solo al passato, né tanto meno – purtroppo – è stata definitivamente consegnata alla Storia della nostra civiltà. L’idea violentissima che scaturisce dalla “fusione fredda” tra il logos – il bambino non è un essere umano finché non entra nell’età della ragione (paideia) – e il pensiero religioso cattolico – il bambino è malvagio per natura (peccato originale) -, ne porta con sé un’altra altrettanto criminale: se non è essere umano, lo si può uccidere tranquillamente.

Va ricercata qui, in estrema sintesi, la radice “culturale” della pedofilia, della sua giustificazione e della protezione riservata ai pedofili ad esempio dai gerarchi vaticani, di cui tanto spesso si sente parlare nel caso dei sacerdoti stupratori. Non solo. Contro questo crimine orrendo tante parole vengono spese e tanti impegni sono presi a livello istituzionale, ma poi, nei fatti, raramente si traducono in qualcosa di concreto. È questo il caso dell’Italia, e del nostro governo e Parlamento, in particolare quando c’è di mezzo la Chiesa cattolica.

Veniamo ai fatti. Nel 2016, per primi su Left (n. 50 del 10 dicembre) denunciammo con l’avvocato Caligiuri del foro di Roma, la violazione della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, ratificata dall’Italia nel 2012. Ci si riferiva allora alle…

L’inchiesta di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


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«Il 25 Aprile non può essere una celebrazione di parte», il comune di Todi esclude i partigiani dalla festa di Liberazione

Il corteo organizzato dall'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, per il 25 aprile, 25 aprile 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Festa della Liberazione con i liberatori in disparte. A Todi, in provincia di Perugia, il Comune ha tolto il patrocinio e il logo dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) dalle celebrazioni per il 25 Aprile. È la prima volta che succede nella storia della città e forse anche in Italia. «L’imprevedibile e sconcertante presa di distanza avviene a soli cinque giorni dalla ricorrenza e lascia tutti senza parole» racconta l’Anpi in una nota emessa subito dopo aver preso atto dell’esclusione.

«L’amministrazione comunale ha inteso predisporre un programma delle celebrazioni, che sia quanto più istituzionale possibile, evitando, quindi, di aderire a programmi e celebrazioni che abbiano una impostazione di parte» questa la motivazione con cui il Comune di Todi ha giustificato il no all’assegnazione del patrocinio. Una scelta assolutamente inaspettata, stando alla ricostruzione dell’Anpi.

Tutto ha inizio il 27 marzo, quando la sezione locale dell’Anpi ha presentato all’amministrazione comunale il programma delle celebrazioni e fatto richiesta di spazi, patrocinio e di poter apporre il proprio logo. Il 5 aprile, il presidente, Camilla Todini, si è incontrata in comune con il sindaco Antonino Ruggiano e con il consigliere comunale Claudio Ranchicchio per discutere del programma proposto. Da quell’incontro «nulla ha lasciato intendere che la condivisione della celebrazione fosse in qualche modo o per qualche motivo a rischio e, non essendosi mai verificato tale fatto, niente poteva farlo supporre» si legge nel comunicato. Tutto si è svolto come sempre, infatti il Sindaco aveva già incaricato la sua segretaria di invitare le autorità per partecipare alla commemorazione.

Convinti della collaborazione del Comune, i membri dell’Anpi avevano già cominciato ad affiggere manifesti e locandine in giro per la città e per le frazioni. Il sindaco era al corrente del fatto che i manifesti e le locandine fossero già state stampate, in quanto si era coordinato con l’associazione dei partigiani affinché su manifesti e locandine comparisse anche il logo dell’orchestra che avrebbe suonato alla festa.

L’amara sorpresa arriva nel tardo pomeriggio del 19 aprile, quando il Comune decide di negare il patrocinio.  L’Anpi, continua il comunicato, definisce «a dir poco grave» la decisione del Comune, e non esita a chiamarla «un attacco alla storia e alla memoria di questo Paese, un oltraggio alla Costituzione». «Certo, siamo di parte, siamo partigiani, siamo e saremo sempre dalla parte dell’antifascismo» si legge ancora nella nota, ma «si può celebrare il 25 Aprile stando da un’altra parte?». «Le istituzioni devono essere pienamente antifasciste come chiesto dalla Costituzione italiana, – ricorda l’associazione dei partigiani – una celebrazione istituzionale non può che essere pertanto antifascista anch’essa». Questa è la parte da cui si schiera l’Anpi, dalla parte dell’antifascismo, della Costituzione, della pace e dell’uguaglianza, temi che verranno affrontati nel corso delle celebrazioni. Quale di queste quindi è «la “parte” a cui l’amministrazione comunale non vuole aderire?». Considerare “sbagliata” la parte da cui si schiera l’Anpi, «la dice lunga sulle idee dei nostri amministratori» osserva l’associazione dei partigiani. «Mancare di rispetto all’Anpi equivale a mancare di rispetto alle istituzioni.» Quando l’associazione dei partigiani fu invitata alla Camera, in occasione del 70esimo anniversario della liberazione dal nazifascismo, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini si rivolse così ai partigiani presenti: «Voi non siete qui come ospiti ma siete qui come padroni di casa». Nonostante lo sconcerto, l’Anpi sarà comunque in piazza del Popolo a festeggiare.

Ricordiamo che in tutte le iniziative organizzate dall’Anpi nazionale per la festa della Liberazione sarà possibile firmare in favore della campagna “Mai più fascismi”, un appello alle istituzioni affinché si attivino contro le manifestazioni di razzismo e gli atti di violenza a sfondo neofascista che si stanno moltiplicando in Italia.

Tra i principali eventi del 25 Aprile, segnaliamo il corteo che sfilerà a Roma fino a Porta San Paolo, e quello di Milano, a cui parteciperà Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi.

L’attualità del giovane Marx (podcast). Gli interventi di Don Pasta, Alessandro Portelli e Francesco Valerio della Croce

Da giorni, è sbarcata nelle sale italiane una pellicola che ha aperto un vivace dibattito a sinistra: Il giovane Karl Marx, primo film dedicato alla vita e al pensiero del ventenne filosofo, teorico del comunismo.
Un film diretto dal regista e documentarista haitiano Raoul Peck – tra le sue ultime opere, I’m not your Negro, 2016, con cui ha affrontato in modo magistrale la questione della genesi del razzismo negli Stati uniti – che arriva a 200 anni dalla nascita di Marx, e a 170 dalla pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, in un momento di crisi della sinistra.

Un film che mostra quanto siano attuali le intuizioni del primo Marx, il Marx romantico, ancora profondamente legato alla critica della alienazione religiosa, quello appassionato e voglioso di trasformare il mondo oltre che interpretarlo, parafrasando le celebri Tesi su Feuerbach.

Left è stato invitato dal distributore, Wanted, ad intervenire alla prima romana del film al cinema Farnese. Al termine della proiezione, sono intervenuti lo chef e scrittore Don Pasta, Alessandro Portelli, professore di letteratura angloamericana e giornalista, e Francesco Valerio della Croce, Segretario nazionale della Federazione giovanile comunista italiana. A Left on air, vi proponiamo i loro tre interventi, le loro letture a caldo del film, incalzati dalle domande di Alessandro Tiberio, organizzatore della serata e distributore della pellicola.

Buon ascolto

In Pakistan il movimento dei giovani Pashtun si ribella alla violenza dei militari

Demonstrators of Pashtun Protection Movement gather at a public rally in Peshawar on April 8, 2018. In a rare public challenge to Pakistan's powerful armed forces, thousands of Pashtuns rallied April 8, in the northwestern city of Peshawar to call for an end to abuses by police and troops.The crowd chanted anti-military slogans as speakers took to the stage demanding an end to forced "disappearances" and harassment by authorities. / AFP PHOTO / ABDUL MAJEED (Photo credit should read ABDUL MAJEED/AFP/Getty Images)

Pashtun contro la guerra. Contro i talebani, contro gli islamisti, ma anche contro l’esercito pachistano. Un nuovo movimento secolare si sta espandendo nel Nord del Paese, guidato da un giovane attivista, Manzoor Pashteen, 26 anni. Molti altri ragazzi lo seguono perché «abbastanza è abbastanza. Questa regione non è un campo di battaglia».

Si chiama Pashtun Tahafuz Movement, movimento per la protezione dei Pashtun, in tre lettere: Ptm. Nato quattro anni fa, chiedeva lo sminamento della regione del Waziristan, Pakistan nord-ovest.
Dopo anni di silenzio, a gennaio 2018, è rinato, rinvigorito da un’altra scia di lotta civile: stesso nome, forze e istanze diverse, che stanno scuotendo la società pachistana. I membri del Ptm chiedono diritti e sicurezza, si battono affinché i colpevoli della violenza contro la loro minoranza paghino per quello che compiono quotidianamente. Vogliono che Islamabad metta fine ad omicidi illegali, sparizioni forzate, arresti sommari delle forze dell’ordine.

Non ci sono bandiere alle loro manifestazioni: solo ritratti, fotografie, nomi. Di chi è morto, scomparso o arrestato senza accuse o prove, e non è mai più tornato a casa. Il Ptm è un movimento rinato nel sangue, dopo la morte di un gruppo di uomini di un’area tribale Pashtun, ammazzati a gennaio a Karachi dalla polizia, accusata di aver messo in scena una finta sparatoria per questi assassini extragiudiziali.

Il movimento chiede la fine «delle sparizioni forzate, costante insulto al popolo Pashtun, fine della violazione dei nostri diritti», dice il membro del movimento Ali Wazir: «riceviamo minacce dalle istituzioni statali, proprio come dai “buoni talebani”. Un altro leader del movimento, Moshin Dawar, ha detto che parlare apertamente delle azioni «dei militari in Pakistan è un suicidio», definirli oppressori e condannare checkpoint e il coprifuoco imposto alle aree tribali è più che pericoloso, come parlare dell’Isi, servizi segreti del Paese, ad alta voce. «Abbiamo passato gli ultimi due mesi a difenderci dalle accuse di essere agenti stranieri e di lavorare per gruppi di potere. Ma tutto quello che possiamo fare è mantenere il morale alto, il nostro primo errore sarà anche l’ultimo» ha detto Pashteen.

Sono migliaia quelli che in tre mesi hanno cominciato a partecipare alle marce, portando per le strade i ritratti dei cari morti, scomparsi o detenuti dalle istituzioni senza prove o processo. Per quanto li tollereranno le autorità? Se lo chiedono ogni volta che occupano le strade, hanno paura ma anche coraggio. Lo scorso 8 aprile diecimila persone hanno marciato a Peshawar, nel Nord del Paese. Il capo delle forze armate, il generale Qamar Javed Bajwa, ha già dichiarato che «queste proteste pianificate minacciano gli sforzi dell’antiterrorismo nazionale militare degli ultimi anni».

I Pashtun costituiscono il 15 per cento della popolazione del Pakistan, 204 milioni di persone. «Migliaia di giovani Pashtun sono scomparsi nell’ultimo decennio, prelevati dalle loro case, dalle università, dalle strade» dice un attivista del Movimento Farhad Ali. Eppure nessuno lo dice, lo scrive, lo ribadisce.

Nessun titolo dei giornali del Paese è dedicato al Ptm, nessun reporter locale è presente alle loro manifestazioni, scriverne vuol dire «varcare la red line per la sicurezza dell’establishment del Paese», scrive il New York Times. «In buona parte si tratta di auto-censura, non puoi chiedere a singoli individui, singoli giornalisti di diventare martiri della libertà di espressione» ha detto Saroop Ijaz, rappresentante Human Rights Watch. Censure, minacce, violenza. Ma, dice Pashteen, per i nostri diritti «non c’è altra opzione, dobbiamo continuare, è l’ultima nostra possibile opzione».

Il grado di civiltà di un Paese (e le sue bugie) si misurano osservando le sue carceri

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire e se non fossimo il Paese in cui nessuno si risparmia di condividere sui social almeno un aforisma al giorno verrebbe da pensare che la frase non l’abbia mai letta nessuno vista la situazione carceraria in Italia.

I numeri del rapporto dell’Associazione Antigone lasciano pochi dubbi: nel 2017 quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123). C’è un luogo, nella civilissima Italia, in cui il suicidio è la causa principale di morte. E quei 52 sono solo un piccola parte dei 1123 tentativi di suicidi avvenuti durante l’anno.

Gli atti di autolesionismo sono 9510, con picchi altissimi in alcuni penitenziari: ad Ivrea, tanto per citare un esempio, 109 su 224 detenuti hanno ceduto al farsi del male. E forse non è il caso che nel carcere di Bollate (conosciuto per il regime “a celle aperte”) siano solo 87 su 1216.

Ma c’è altro: diminuiscono i reati (e non ditelo a Salvini altrimenti gli tocca trovare un lavoro) e aumentano i detenuti. Scrive bene l’Associazione Antigone: “E’ evidente come l’aumento del numero delle persone presenti nelle carceri italiane, registrato negli ultimi due anni, nulla abbia a che vedere con la questione criminalità, ma sia figlio di un sistema politico che per accrescere i propri consensi ha fatto leva sulla paura dei cittadini e agitando lo spettro della sicurezza. Elementi, questi, tipici del populismo penale e dell’utilizzo dello stesso diritto penale in senso repressivo e antigarantista, senza – come detto – nessuna efficacia nel prevenire i crimini.”

Il 39% dei detenuti rientra in carcere entro i successivi 10 anni. Il carcere rieducativo, insomma, continua a essere un miraggio. Non c’è un’emergenza stranieri, non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere: negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, gli stranieri residenti in Italia sono più che triplicati mentre il tasso di detenzione degli stranieri è diminuito di tre volte. È bassissimo il numero di carcerati fuggiti dalle guerre di origine siriana o afgana: 144 in tutto.

A guardare la situazione delle carceri in Italia, insomma, verrebbe voglia di condannare più le bugie degli uomini.

Buon venerdì.

 

Per approfondire, consigliamo la lettura di Left n. 3/2018


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