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Il grado di civiltà di un Paese (e le sue bugie) si misurano osservando le sue carceri

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire e se non fossimo il Paese in cui nessuno si risparmia di condividere sui social almeno un aforisma al giorno verrebbe da pensare che la frase non l’abbia mai letta nessuno vista la situazione carceraria in Italia.

I numeri del rapporto dell’Associazione Antigone lasciano pochi dubbi: nel 2017 quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123). C’è un luogo, nella civilissima Italia, in cui il suicidio è la causa principale di morte. E quei 52 sono solo un piccola parte dei 1123 tentativi di suicidi avvenuti durante l’anno.

Gli atti di autolesionismo sono 9510, con picchi altissimi in alcuni penitenziari: ad Ivrea, tanto per citare un esempio, 109 su 224 detenuti hanno ceduto al farsi del male. E forse non è il caso che nel carcere di Bollate (conosciuto per il regime “a celle aperte”) siano solo 87 su 1216.

Ma c’è altro: diminuiscono i reati (e non ditelo a Salvini altrimenti gli tocca trovare un lavoro) e aumentano i detenuti. Scrive bene l’Associazione Antigone: “E’ evidente come l’aumento del numero delle persone presenti nelle carceri italiane, registrato negli ultimi due anni, nulla abbia a che vedere con la questione criminalità, ma sia figlio di un sistema politico che per accrescere i propri consensi ha fatto leva sulla paura dei cittadini e agitando lo spettro della sicurezza. Elementi, questi, tipici del populismo penale e dell’utilizzo dello stesso diritto penale in senso repressivo e antigarantista, senza – come detto – nessuna efficacia nel prevenire i crimini.”

Il 39% dei detenuti rientra in carcere entro i successivi 10 anni. Il carcere rieducativo, insomma, continua a essere un miraggio. Non c’è un’emergenza stranieri, non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere: negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, gli stranieri residenti in Italia sono più che triplicati mentre il tasso di detenzione degli stranieri è diminuito di tre volte. È bassissimo il numero di carcerati fuggiti dalle guerre di origine siriana o afgana: 144 in tutto.

A guardare la situazione delle carceri in Italia, insomma, verrebbe voglia di condannare più le bugie degli uomini.

Buon venerdì.

 

Per approfondire, consigliamo la lettura di Left n. 3/2018


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Dove sono i pacifisti?

ROME - FEBRUARY 15: Peace demonstrators hold rainbow peace flags as they participate in an antiwar protest in Venezia Square February 15, 2003 in downtown Rome, Italy. Approximately one million peace protesters gathered to protest a possible U.S.-led war on Iraq. (Photo by Marco Di Lauro/Getty Images)

Lo chiamavamo anche «Oceano pacifico» (Liberazione nel 2003), e perfino «Seconda potenza mondiale» (il New York Times). E colorava le città di bandiere arcobaleno, riempiva le piazze, bloccava i treni, occupava le banchine dei porti, assediava le basi. Discuteva, marciava, era trasversale. Nulla, sembrava, sarebbe stato come prima. Invece nulla è come allora.

Il 22 febbraio 2003, contro il conflitto in Iraq, si mobilitarono in 24 milioni in Europa, 3 milioni a Roma e 110 in 603 città di tutto il pianeta. «Il ciclo delle grandi mobilitazioni altermondialiste, la rivolta per le aspettative tradite dalla globalizzazione, si tramutò nel grande movimento contro la guerra e fece paura più del Sessantotto con percentuali di consenso altissime nella società – spiega Loris Caruso, sociologo dell’Università di Firenze – ma poi la crisi ha funzionato come azzeramento delle aspettative». Come dire: più speri, più ti mobiliti. «Ma le situazioni cambiano, i movimenti sembrano sempre esplodere dal nulla».

Dove sono oggi i pacifisti in un Paese che partecipa a 32 missioni “di pace” e “ospita” 113 tra basi e installazioni Usa e Nato? «La crisi della mobilitazione pacifista è la stessa delle altre grandi mobilitazioni di massa, a partire da quelle sindacali e della sinistra», spiega a Left Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio disarmo. Quella che non è in crisi è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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L’articolo 11 non tollera attacchi mirati né bombardamenti come avvertimento

20090131- VICENZA - BASE VICENZA: ATTIVISTI 'NO DAL MOLIN' OCCUPANO AEROPORTO. Attivisti del movimento 'No Dal Molin' occuppano i terreni dell'aeroporto vicentino, dove deve sorgere la nuova base militare Usa. I manifestanti, alcune centinaia, intendono protestare cosi' contro l'avvio dei lavori nel Dal Molin, dove da alcuni giorni sono tornate in azione le ruspe per abbattere le vecchie strutture dell'aeroporto e preparare l'area per la Camp Ederle 2. ANSA / BOLZONI - DAL MASO/ JI

Gli amici dei miei nemici sono miei nemici. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Gli amici dei miei amici sono miei amici. Se vi sembra un adagio superficiale, semplicistico e piuttosto stupido mettetevi il cuore in pace perché in quelle tre frasi c’è tutto lo spessore della politica estera vista dalla politica italiana, l’Italia condannata alla conclamata irrilevanza internazionale e europea che negli ultimi anni ha deciso di osservare il resto del mondo dalla lente distorta dei “patti firmati” rinunciando completamente a sviluppare un’analisi critica (e propria) sui fatti internazionali.

Ora si tratta della guerra in Siria ma è solo l’ultimo capitolo di una storia che viene da lontano e che ha spinto il governo (e tutte le sue diverse “voci” che siano stampa, internet o televisione) a dividere la realtà in tutto bianco e tutto nero, rinunciando alla complessità e al dovere di costruire una propria chiave di lettura.
La guerra in Siria racconta sotto le mentite spoglie di un “attacco mirato” e di un “avvertimento” è un altro capitolo della truffa internazionale che ciclicamente viene perpetrata in cui sempre decidiamo consapevolmente di cadere e che spesso la storia smentisce qualche anno dopo.

Per riuscire a far digerire la guerra ormai anche la narrazione è più o meno la stessa: si prende una zona calda del mondo in cui viene facile illustrare il deterioramento dei diritti (e in Siria basterebbe la successione famigliare al potere di Assad padre con Assad figlio per richiamare subito alla successione dinastica che funziona sempre perfettamente), si costruisce un allarme imprescindibile che diventa un alto rischio per la comunità internazionale (ultimamente funzionano moltissimo le armi chimiche che non richiedono nemmeno lo sforzo di essere documentate), si evita accuratamente di utilizzare il vocabolario bellico fermandosi alle “azioni dimostrative” e ci si prepara agli attacchi rivendendoli come rimbrotti.

Non conta fermarsi sulla narrazione della complessità o interrogarsi sulla chiave di lettura collettiva che si vuole dare alla Storia: i pro-Trump magnificano l’attacco in Siria in nome del fascino decisionista del presidente americano, a loro basta quello, i macronisti esultano per l’azione poiché garantisce Trump, in Gran Bretagna si applaude la May per lo sgarbo a Putin, esultano perfino i principi sauditi che hanno visto sempre in Assad un nemico da abbattere urgentemente.

Intanto, dall’altra parte, i guerrafondai per definizione, quel pezzo di destra che in Putin ha individuato da sempre l’uomo forte e sovranista da guardare con ammirazione, improvvisamente diventano pacifisti: non c’è analisi della situazione politica, gli basta sapere che la Russia non condivide l’attacco per decidere da che parte stare. È la politica internazionale (anche quella) vissuta come tifo, divisi non per differenza di pensiero e di valori ma semplicemente per appartenenza. È ancora una volta la politica che diventa una partita di calcio, un campo in cui ci sono i buoni che sono buoni e i cattivi i che sono sempre irrimediabilmente cattivi. Nessun tono intermedio, nessuna concessione alla conoscenza della storia o alla natura geopolitica della zona. Tutti siriani o tutti putiniani, tutti filo Assad o tutti a urlacciare contro il dittatore. In mezzo, niente.

Se c’è qualcosa che più di tutto ha relegato l’Italia all’irrilevanza internazionale forse è proprio questo muoversi per partito preso e mai per partito scelto. Il pacifismo, l’intervento bellico e le crisi internazionali sono solo campi diversi su cui giocarsi partite locali e localistiche. Un provincialismo naïf senza né capo né coda risibile nello scacchiere del mondo. Poi ci sarebbe la Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Il pacifismo insomma non è la paturnia di una certa sinistra fuori dal tempo e fuori dal mondo ma è un principio costituzionale che non prevede l’utilizzo della forza come soluzione delle controversie internazionali: la questione non è ideologica ma strettamente politica. In quel parlare (spesso a proposito) di rispetto della Costituzione solo quando torna utile pro domo sua i nostri dirigenti politici perseverano nel dimenticare che l’articolo 11 della nostra Costituzione non prevede e non tollera “attacchi mirati”, bombardamenti come avvertimento e tantomeno la violenza in risposta alla violenza. Ma anche su questo, statene certi, verrà presto il momento che sarà da buonisti invocare la pace. E continuerà la guerra, contro ogni disperato abbastanza disperato da non riuscire a fare sentire la propria voce.

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola


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Armi italiane in Yemen. Giorgio Beretta: «L’Italia rischia una condanna per favoreggiamento»

epa06629560 Yemenis walk past a building allegedly destroyed by recent airstrikes, on the third anniversary of the Saudi-led military campaign on Yemen, in Sana'a, Yemen, 25 March 2018. The Saudi-led military coalition continues its airstrike campaign against the Houthi rebels and their allied forces across war-affected Yemen since March 2015, claiming the lives of more than 10 thousand people and displacing more than three million. EPA/YAHYA ARHAB

«L’Italia potrebbe essere condannata per favoreggiamento di crimini di guerra». Questa la dura accusa di Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni. Beretta collabora con l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia che fa parte della Rete italiana per il disarmo (Rid).

Tre ong sostengono di avere le prove che delle bombe italiane sono responsabili della morte di alcuni civili nello Yemen. Lo European center for constitutional and human rights, la Mwatana organization for human rights, la cui sede è nello Yemen, e la Rete italiana per il disarmo hanno già presentato le prove ed un esposto  alla procura di Roma affinché accerti le responsabilità italiane nella morte di due bambini e di una donna in un bombardamento.

Quali conseguenze potrebbero esserci per l’Italia se venisse confermato che tra le armi che vendiamo all’Arabia Saudita ci sono le bombe che vengono sganciate sulla popolazione civile nello Yemen?

Già nel gennaio 2017 esperti dell’Onu hanno accertato che l’Arabia Saudita ha sganciato ordigni di fabbricazione italiana sulla popolazione civile e che questo potrebbe costituire un crimine di guerra. Le conseguenze potrebbero essere pesantissime per l’Italia, che potrebbe rischiare di essere condannata per favoreggiamento di crimini contro l’umanità. Già a suo tempo il governo americano, all’epoca guidato da Barack Obama, decise di non inviare alcuni equipaggiamenti militari ai sauditi perché questi li usavano in maniera indiscriminata. Fu l’ufficio legale del presidente a consigliare ad Obama di vietare la vendita di certi tipi di armi all’Arabia Saudita. I legali ricordarono ad Obama come nel processo a Charles Taylor – ex presidente della Liberia e criminale di guerra condannato – venne condannato anche chi gli fornì le armi, in quanto i venditori erano al corrente dell’uso che ne veniva fatto. Noi per ora abbiamo presentato un esposto alla procura di Roma ma non escludiamo di rivolgerci anche a corti sovranazionali.

Come mai si parla così poco della guerra nello Yemen?

Per due motivi: l’Italia non ha soldati sul territorio yemenita e lo Yemen è molto lontano, quindi i loro profughi non arrivano in Italia. Della guerra in Yemen, non si trova notizia sulle edizioni cartacee dei maggiori quotidiani italiani o nei telegiornali. Una delle poche volte che lo Yemen è finito in prima pagina o in televisione, è stato dopo che il New York Times diede la notizia che bombe italiane venivano sganciate sui civili. Tutto questo è sintomatico del fatto che non c’è interesse ad approfondire l’informazione sul conflitto da parte di certa stampa.

Il governo italiano è trasparente in materia di vendita di sistemi militari?

Come ho detto anche in una audizione in Commissione alla Camera lo scorso ottobre, l’Italia è stato l’unico Paese dell’Unione Europea ad avvalersi della clausola di riservatezza nell’ultima relazione presentata all’Onu sulla compravendita di armi.
L’Italia aderisce al trattato internazionale sul commercio delle armi e quindi ogni anno è chiamata a mandare un rapporto in cui bisogna certificare quali autorizzazioni alla vendita di sistemi militari sono state approvate, le consegne effettive e i Paesi destinatari. L’anno scorso, l’Italia, avvalendosi della clausola di riservatezza, ha omesso di riportare nella relazione annuale a Ginevra per l’Att, i Paesi destinatari delle esportazioni di armamenti. Sono convinto che l’Italia si sia avvalsa di quella clausola per non certificare in un documento ufficiale che l’Italia ha autorizzato la vendita di quasi 20mila bombe aeree del tipo Mk 82, Mk 83 e Mk 84 ai sauditi. Se non l’avesse fatto, quello  sarebbe stato il primo documento ufficiale a certificare che l’Italia ha autorizzato la vendita di questi ordigni all’Arabia Saudita, e un documento del genere potrebbe essere utilizzato in sede legale. Penso che il governo Gentiloni e Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) abbiano deciso volutamente di non rendere nota questa informazione. Sfido il ministro plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Uama, a smentirmi su questo.

Lo Stato italiano ha quindi deciso di aggirare il trattato?

Non si tratta di “aggirare il Trattato”. Si tratta di trasparenza e di esporsi al controllo pubblico. Escluso infatti l’ultimo governo Prodi, che in materia era abbastanza trasparente, in generale a tutti i governi degli ultimi dieci anni ha sempre dato fastidio dover fornire informazioni sulle esportazioni di armi. Vogliono continuare a fare affari indisturbati, senza fornire informazioni precise a nessuno. Sono informazioni importanti perchè possono essere usate dal Parlamento e dalla società civile per esercitare la loro funzione di controllo sull’operato del governo. Governo che in questa materia si trova qui in chiaro conflitto di interessi con sé stesso. Perché, da una parte, lo Stato è il maggiore azionista di Leonardo (ex Finmeccanica) e Fincantieri, le due industrie che più di tutte producono armamenti e il governo ne promuove l’esportazione. D’altra parte dovrebbe assicurarsi, attraverso la Uama, che queste esportazioni non finiscano a Paesi in guerra. Prevale sempre però chiaramente la logica del profitto. Dietro a tutto questo ci sono poi interessi politici, economici ed anche elettorali. Per esempio, quando il governo decide di fornire navi agli Emirati Arabi o al Qatar, mette al lavoro la Fincantieri di Genova, collegio elettorale dove era candidata il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Pinotti evidentemente sperava in un ritorno elettorale che poi non c’è stato ed è infatti stata eletta perchè “ripescata” in un altro collegio.

Che si può fare per limitare la compravendita delle armi?

Basterebbe attuare i trattati che già ci sono e in Italia applicare la legge 185 del 1990. C’è tutta una serie di divieti nella nostra legge e nel trattato internazionale sul commercio delle armi che dovrebbero essere applicati in maniera rigorosa, come quello di non vendere armi a chi si rende colpevole di violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.

In Somaliland è vietato parlare di unità nazionale. Giornalisti, poeti e scrittori finiscono in carcere

Naima, Mohamed, Ahmed. Poeti, scrittori, giornalisti in prigione. Spesso le parole, in Somaliland – Paese che si affaccia sul golfo di Aden, non riconosciuto dalla comunità internazionale -, portano in carcere.

La cella della poetessa Naima Abwaan Qorane è stata chiusa a gennaio. Lì rimarrà per tre anni, dice la sentenza del tribunale, per «attività anti-nazionale», per «aver portato la nazione in uno stato di discredito». È stata arrestata quando è tornata da Mogadiscio, capitale della Somalia, dove aveva letto un testo «sull’unità somala». Dopo una guerra civile brutale, il Somaliland è divenuto indipendente dalla Somalia nel 1991, col collasso del regime di Mohamed Siad Barre. Dice il suo avvocato che dal giorno del suo arresto Naima è stata ripetutamente minacciata di stupro ed omicidio, mentre veniva interrogata dalle forze dell’ordine. Il prezzo delle sue rime sono state le sbarre.

Mohamed Kayse Mohamoud invece è stato condannato lo scorso lunedì. Era stato arrestato il 7 febbraio scorso. Mohamed ha 31 anni e per i prossimi 18 mesi della sua vita rimarrà in cella per «aver offeso l’onore del presidente». L’intero capo d’accusa nel processo che è stato imbastito contro l’autore sta tutto in una sola frase, scritta in un post su Facebook, che diceva questo: «Il presidente è un locale». Ha leso l’autorità: «Il presidente è nazionale», ha detto il giudice che lo ha condannato, ricordando che Muse Bihi Abdi è stato eletto l’anno scorso dall’intero Paese.

Nell’ex protettorato britannico dallo scorso dicembre sempre più giornalisti, autori, attivisti pagano le parole con la prigione. Lo scorso gennaio due giornalisti, Ahmed Sa’ed e Abdirahman Mohamed Ege, sono stati arrestati con l’accusa di «propaganda» e «fake news» riguardanti Abdishakur Mahmoud Hassan, il sindaco di Berbera, una città portuale molto povera. Per la loro liberazione si batte il Cpj, Committee to protect journalist. La coordinatrice dell’ong responsabile per l’Africa, Angela Quintal, ha fatto appello al presidente Abdi: «Dovrebbe cogliere l’opportunità per mettere fine a questi tentativi sfacciati di intimidazione contro i giornalisti, fare della libertà di stampa una priorità per la sua amministrazione».

Prima di Ahmed e Abdirahman, una storia simile si è ripetuta il 5 dicembre 2017, quando è finito in manette Abdirisak Dayib Alilil per un articolo scritto per il Gabiley news: accusava il sindaco di Gabiley, Mohamed Omar, di attività criminali. Ma Abdirisak nega di averlo fatto: non lavora per quel giornale dal 2015, ora è direttore di un’altra testata, la Haldoornews. Le accuse cadono, la verità resta, ma le celle delle prigioni in Somaliland rimangono chiuse.

45 giorni di niente

Italian Senate Speaker Maria Elisabetta Alberti Casellati leaves after meeting with Italian President Sergio Mattarella at the Quirinal Palace in Rome, Italy, 18 April 2018. President Mattarella has given Senate Speaker Casellati the task of "verifying the existence of parliamentary majority between the parties of the centre-right coalition and the M5S", the head of State department's Secretary General Ugo Zampetti said after talks between the two on Wednesday. Casellati had been requested to give "an agreed-on indication for the awarding of a mandate of premier to form the government. "The president asked the Senate Speaker to report back by Friday". ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Provando a semplificare: dice il Movimento 5 Stelle che non se ne fa niente con Silvio Berlusconi (ma in realtà pronunciando “Berlusconi” si riferisce a tutta Forza Italia tranne, chissà perché, alla Casellati che dice la Taverna che va rispettata in quanto “seconda carica dello Stato” ma lo stesso concetto non valeva per Laura Boldrini che per loro evidentemente è peggio degli sgherri di Berlusconi); dice Salvini che non può “scaricare” Berlusconi (e anche lui si riferisce a Forza Italia perché sa benissimo che senza di loro sarebbe poco o niente); il PD dice al Movimento 5 Stelle e alla Lega “fate voi” godendosi lo stallo e sapendo bene che stare all’opposizione sarebbe un inaspettato balsamo contro il crollo dei propri consensi; Fratelli d’Italia, Liberi e uguali (a cui non scappa una parola, un’azione, una novità che sia una) e gli altri piccoli sono praticamente ininfluenti.

Tutto fermo. Tutto bloccato: 45 giorni di niente. E non sono tanto i 45 giorni passati (la media in Italia nel dopoguerra è di 51 giorni dalle elezioni per formare il governo, quindi la straordinarietà dei tempi lunghi è di fatto una falsa notizia) ma piuttosto è l’attacco militare in Siria e i suoi sviluppi, è lo storico processo finito male dei fattorini di Foodora che si sono accorti di vivere in un Paese in cui mancano le leggi per richiedere i diritti, sono gli urlacci di Macron che ora lancia addirittura l’allarme su un tracollo imminente dell’Europa, sono gli ultimi richiami dell’Europa all’Italia per stringere ancora di più la cinghia e sono i dati economici del Paese che andrebbero interpretati e discussi, tutti questi accadimenti danno il senso del niente di tutti questi 45 giorni.

45 giorni in cui i commenti sui fatti nazionali e internazionali (dopo una campagna elettorale in cui anche la cronaca nera era diventato un generale tema di dibattito politico) sono scomparsi. Ci si riduce a dire banalità insipide per non scontentare i potenziali futuri compagni di governo, che sono un po’ tutti. E così la classe dirigente si mostra tutta nella sua piccolezza: sventolare valori in campagna elettorale per essere sempre pronti a smussarli (o smentirli) appena si materializza l’occasione di un posto al sole. Ora tutti buoni, tutti zitti, tutti scodinzolanti.

Avanti così.

Buon giovedì.

La rivoluzione di velluto infiamma l’Armenia, proteste contro il premier Sargsyan e feriti tra i manifestanti

Armenian protesters shout anti-government slogans during a protest rally against a hike in electricity prices in Yerevan, Armenia, Wednesday, June 24, 2015. A standoff between police and demonstrators protesting a hike in electricity prices blocked the central avenue in the Armenia capital on Wednesday for the third day running. (Hrant Khachatryan/PAN Photo via AP)

«La situazione è rivoluzionaria. Le persone non andranno a lavoro, è cominciato lo sciopero generale». Siamo in Armenia, dove Nikol Pashinyan, leader dell’opposizione, ha dato il via alla disobbedienza civile: «Do l’annuncio dell’inizio della rivoluzione di velluto in tutta la Repubblica, dobbiamo paralizzare l’intero sistema statale, il potere deve andare al popolo. Il premier Serzh Sargsyan deve vedere che non ha alcuna Armenia su cui governare». Nella capitale, Erevan, il traffico è bloccato, le strade del centro occupate, le squadre antisommossa pronte. C’è già sangue: di manifestanti feriti o arrestati a piazza di Francia, Yerevan. Le bandiere che sventolano i manifestanti sono quelle nazionali, mentre si canta: «Un’Armenia senza Serzh».

Chi protesta la chiama «la presa di potere» di Serzh Sargsyan. Superato il limite di due mandati presidenziali, nominato tra i fischi della piazza, con l’appoggio del partito repubblicano al potere, l’ex presidente, dopo un decennio, è diventato primo ministro e rimane ancora al comando del Paese. Dieci anni fa, con il sangue di otto morti negli scontri delle proteste per i brogli elettorali, iniziò la sua presidenza nel 2008. Dieci anni dopo, il suo mandato da primo ministro comincia con arresti e urla che pretendono che vada via. C’è già il filo spinato. Scudi di ferro della polizia. Barricate. Volti arrabbiati della protesta. Per disperderla scie di lacrimogeni piovono dal cielo bianco del Caucaso del sud.

I Sargsyan sono due. Non parenti, ma alleati. Il secondo è Armen Sargsyan, ex ambasciatore in Gran Bretagna, che ha giurato da presidente la settimana scorsa. Sostituirà Serzh,ma avrà un ruolo puramente rappresentativo, dopo gli emendamenti costituzionali approvati nel 2015 con un referendum di transizione da repubblica presidenziale a parlamentare. «Un cambiamento di sistema avvenuto per favorire lui solo: Serzh», criticano gli avversari politici.

Quando l’opposizione è scesa per strada a protestare, il popolo l’ha seguita. Le nuove barricate caucasiche «violano l’articolo 33 sulla libertà di raduno. I manifestanti mettano fine alle azioni illegali per evitare conseguenze indesiderate». È l’ultimatum delle forze dell’ordine. Cinque giorni fa erano centinaia a protestare, adesso sono migliaia. La campagna di «disobbedienza totale» è iniziata, ha detto ancora Pashinyan, del blocco avversario al premier, Elk. Gli armeni sono in strada, da Yerevan fino a Gyumrin. Fino a Vanadzor. Le autorità fanno sapere che i manifestanti «violano la legge sul raduno pubblico», e prenderanno «legittime misure per assicurare il normale funzionamento delle strutture statali». È arrivato già l’appello di Human right watch per non ricorrere alla forza contro chi protesta pacificamente, una «cattiva pratica tradizionale» della repubblica, ma 40 manifestanti e 6 poliziotti sono già finiti in ospedale.

Quel verminaio dietro la morte di Stefano Cucchi

Ilaria Cucchi mostra la foto del fratello Stefano dopo la sentenza della corte d'appello sul processo Stefano Cucchi, Roma, 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

Se non vi è bastato tutto lo schifo che è uscito in questi anni sulla morte di Stefano Cucchi (ammazzato di botte e vituperato dagli individui peggiori della classe politica di certa destra) preparatevi ad aggiungere un altro disgustoso capitolo che arriva direttamente dalla caserma dei carabinieri di Tor Sapienza, Roma, quello stesso quartiere che qualche tempo fa manifestava contro il “pericolo sicurezza” degli stranieri e che oggi scopre di avere avuto carabinieri mendaci e terribilmente insicuri.

Nell’udienza di ieri del processo a carico di cinque carabinieri avvisati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia si è scoperto che le relazione sullo stato di salute di Cucchi sono state ritoccate per cercare di sollevare gli uomini dell’Arma dalle loro responsabilità. Nella prima relazione si legge che Cucchi “riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare” tanto da dover “essere aiutato” anche per salire le scale mentre veniva portato all’udienza preliminare per la convalida del suo arresto mentre nella seconda versione spariscono i dolori e  si legge che Cucchi “era dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto”.

A compilare la relazione è stato il carabiniere Francesco Di Sano (e ci sono anche due relazioni quasi identiche del piantone di Tor Sapienza peccato che il piantone dica davanti al giudice che la seconda non l’ha mai firmata) ma le correzioni (lo hanno raccontato gli stessi carabinieri ieri in aula) sarebbero state richieste dai loro superiori. Avete letto bene: dai loro superiori.

Ogni capitolo di questa storia è un verminaio. Sono passati anni ma piano piano si infiltrano verità. E ora, come scrive la sorella Ilaria, ora qualcuno comincia a tremare davvero. Stefano Cucchi tremava per la paura e le botte, ora questi tremano per lo spiraglio di giustizia.

Buon mercoledì.

Diritti delle donne e dei bambini, l’Italia è ultima in Europa

Aumentano in Italia i bambini che vivono in povertà assoluta. E non sempre la suola riesce a colmare il gap socio-economico che c'è tra loro e chi è più fortunato. E' l'allarme che lancia Save the Children, attraverso l'Atlante dell'infanzia a rischio "Lettera alla scuola", presentato il 14 novembre 2017 a Roma e pubblicato da Treccani. Nel 2016, ricorda Save the Children, un bambino su otto vive in condizioni di povertà assoluta, il 14% in più rispetto all'anno precedente. E le diseguaglianze sociali "continuano a riflettersi sul rendimento degli alunni". Il tasso di ripetenze è 6 volte maggiore nelle scuole che presentano un indice socio-economico e culturale più basso: più di un quindicenne su 4 (27,4%) contro una quota di quasi uno su 23 (4,4%) negli istituti con indice alto. Una differenza di 23 punti percentuali, contro una media Ocse del 14,3%. ANSA/ UFFICIO STAMPA SAVE THE CHILDREN +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Sei una bambina, un bambino, un adolescente o una donna che vive in Italia? Peggio per te. Nella classifica del livello di inclusione di donne e popolazione sotto i 18 anni in 171 Paesi, l’Italia è scesa al 27esimo posto, ultimi tra i Paesi Ue. Questa è la situazione fotografata dai dati dello studio redatto da WeWorld, una onlus impegnata nella difesa dei diritti di donne e bambini in tutto il mondo.

La ricerca rivela in modo impietoso un’Italia peggiora: la stessa ricerca condotta nel 2015 ci aveva posto alla 18esima posizione. In due anni abbiamo perso nove posizioni, la peggior regressione di classifica per una nazione Ue. Il Bel Paese è peggiorato sotto ogni punto di vista: il contesto in cui donne e bambini vivono è meno sicuro, il numero delle persone colpite da disastri naturali è aumentato e l’impoverimento delle famiglie pregiudica il benessere dei minori.

In Italia, secondo i dati di WeWorld, solo l’8% dei figli di genitori senza diploma si laurea, contro il 68% di chi invece è figlio di genitori laureati. Nel mezzogiorno inoltre, la dispersione scolastica è superiore al 20% e un milione e 292mila giovani sotto i 18 anni vive in condizioni di povertà. Ancora più a rischio di dispersione scolastica i giovani privi di cittadinanza italiana, che rappresentano il 9,4% del totale degli studenti. In Europa, meglio di noi fanno anche l’Estonia, la Repubblica Ceca, la Lettonia, la Lituania e la Polonia. Anche se prendiamo in esame i Paesi del G20 la situazione non migliora, siamo infatti tra i sei Paesi con la peggior performance.

Lo studio è stato condotto identificando 17 indicatori, divisi in tre categorie, che rappresentano tutti gli aspetti che partecipano allo sviluppo della persona, sia professionale che personale, e la sua inclusione nella società. Nella categoria contesto troviamo gli indicatori: ambiente, abitazione, conflitti e guerre, potere e democrazia, sicurezza e protezione, accesso all’informazione e genere. Delle restanti due categorie, una si riferisce alle donne e l’altra a bambini e adolescenti. Per le donne, gli indicatori valutati sono: salute, educazione, opportunità economiche, partecipazione politica e violenza di genere. Nel caso di bambini e adolescenti, sono stati presi in considerazione: la violenza sui minori, il capitale economico, il capitale umano, l’educazione e la salute.

L’aspetto su cui più si è concentrata la ricerca è l’educazione. Elemento fondamentale per lo sviluppo della persona, lo studio sottolinea come l’istruzione sia un aspetto cruciale nel miglioramento di un Paese. Un’istruzione migliore e più diffusa è imprescindibile se si vogliono appianare le differenze, che sussistono tra uomini e donne, bambini e adolescenti, nella garanzia dei diritti fondamentali di eguaglianza e pari opportunità.

WeWorld ha identificato cinque barriere principali da eliminare per assicurare l’accesso ad un’educazione inclusiva. La scarsa nutrizione, che limita o impedisce del tutto la possibilità di frequentare la scuola. La discriminazione di genere, sia quella presente nelle leggi di alcuni Stati, sia quella dovuta ad arretratezza culturale. La violenza nelle relazioni sociali e familiari. La migrazione, che interrompe gli studi. Infine c’è la barriera della povertà educativa, con cui si intende non solo la qualità dell’insegnamento, ma anche la possibilità di svolgere attività educative che non sono limitate allo studio scolastico, come può essere visitare siti archeologici e musei o leggere libri. In combinazione con la povertà economica, la povertà educativa porta all’ereditarietà delle condizioni di esclusione sociale.

Il Paese più inclusivo, secondo WeWorld, è l’Islanda, seguita dalla Norvegia, poi Svezia, Danimarca, Slovenia e Finlandia. Le grandi potenze occidentali come Germania, Regno Unito, Francia, Canada e tutto il resto d’Europa – ad eccezione di Portogallo e Spagna – sono tutte tra le prime venti posizioni. L’unica grande potenza che non compare tra le posizioni più alte della classifica sono gli Usa, che condividono con noi italiani la 27esima posizione.

All’altra estremità della graduatoria troviamo tutta l’Africa, il Medio oriente e gran parte del Sud Est asiatico. In fondo alla classifica c’è la Repubblica centrafricana e, subito sopra, Ciad, Mali e Sud Sudan. Su 171 Paesi monitorati, in 100 di questi WeWorld ha identificato forme insufficienti di inclusione o gravi forme di esclusione, e in questi Paesi si concentra il 59% della popolazione mondiale.

È interessante notare come la maggior parte dei migranti sbarcati sulla nostra penisola nel 2017 – stando ai dati dell’Unhcr – provengano da Paesi che occupano alcuni tra gli ultimi posti della classifica. La maggior parte dei migranti proveniva dalla Nigeria, che troviamo alla posizione 156. Ci sono poi gli ivoriani, il cui Paese natale occupa la 155esima posizione, e infine quelli che provengono dalla Guinea, il loro Paese è il 154esimo.

Investire nell’istruzione – come conferma il report – è il modo migliore per portare fuori dalla povertà le persone, ed evitare che il fenomeno diventi ereditario.