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Udienza Cucchi, si aprono squarci nella versione ufficiale dei carabinieri

+++ RPT CON DIDASCALIA CORRETTA +++ L'avvocato della famiglia Cucchi, +++RPT+++ Fabio Anselmo +++RPT+++, mostra delle foto durante il dibattimento del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi, a Roma 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

Non sembrò affatto sorpreso, il carabiniere Tedesco quando vide arrivare Stefano Cucchi malconcio in tribunale, la mattina dopo il suo arresto. Era il 17 ottobre 2009. Invece il suo collega Schirone, che gli fece presente le gravi condizioni del ragazzo, era «turbato», fin da quando aveva prelevato Stefano alla stazione Tor Sapienza dell’Arma, dopo una notte in guardina, dolorante al punto da persuadere il piantone a chiamare il 118. «Era evidente che fosse stato picchiato», conferma Schirone che, quando incontrò in Tribunale i colleghi che avevano operato l’arresto, ne chiese conto a Francesco Tedesco che conosceva bene. Tedesco è uno dei tre accusati per il pestaggio di Stefano, gli altri sono Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro sempre della stazione Appia, tutti per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità. E poi ci sono altri due imputati, il maresciallo Roberto Mandolini, che risponde dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.

«Gesticolando Tedesco mi disse che la sera prima Cucchi non era stato affatto collaborativo». E lei s’è accontentato di questa risposta? gli chiederà il giudice. No. La testimonianza di Schirone è così inusuale in casi di malapolizia che diversi legali lo ringraziano “a scena aperta” mentre la difesa dei Cc punta a screditarlo costruendo un’antipatia tra i due, per questioni di donne, che Schirone smentisce con vivacità. Viene fuori, invece, oltre alle istantanee di un Cucchi visibilmente dolorante, claudicante, sofferente, con gli occhi cerchiati da ematomi, anche il ritratto di un carabiniere «esaltato», Tedesco, «che si fomenta facilmente», magari perché aveva a che fare con «delinquenti di spessore», «all’epoca ci fomentavamo tutti». Ma questo spiegherebbe anche perché Cucchi, ritrovandoselo in aula, per la convalida, poche ore dopo l’arresto, fosse visibilmente agitato. Diciamo pure incazzato.
Ma Stefano quella notte avrebbe rifiutato il ricovero. Perché? Stefano disse subito di stare molto male, appena andò via Nicolardi. Perché solo il 13 febbraio 2010 verrà scritto che si sarebbe rifiutato di firmare il verbale del proprio arresto? E perché il mancato fotosegnalamento che pure è obbligatorio in ogni arresto?

L’udienza appena conclusa oggi 17 aprile nell’aula della Corte d’assise di Piazzale Clodio, riformula i misteri del caso ma, finalmente, apre i primi impressionanti squarci nella versione ufficiale che, per otto anni, era riuscita a conservare i carabinieri nel cono d’ombra che all’epoca sembrò quasi essere stato ordinato dall’allora ministro della difesa di Berlusconi, Ignazio La Russa. Fu lui ad “assolvere” preventivamente i militari e l’Arma. L’inchiesta del pm Barba li tenne fuori con accuratezza e la commissione d’inchiesta del Senato si occupò solo del versante malasanità di questa storia. Ma non c’è solo la testimonianza di Schirone. Il suo collega d’equipaggio Mollica ricorda che all’andata chiesero entrambi a Stefano se volesse passare in ospedale, e tornarono «turbati» da Piazzale Clodio: «ho pensato che qualcuno l’avesse “toccato”, evidente che fosse stato qualcuno con cui aveva avuto a che fare prima di noi». A differenza di Schirone, però, Mollica prese parte a una riunione di quasi tutti i Cc coinvolti nel caso convocata da una serie di ufficiali. Avvenne nella sede del comando provinciale a cavallo della metà di novembre del 2009, due-tre settimane dopo la morte di Cucchi. Una riunione strana, ciascuno avrebbe fornito la propria versione in plenaria, di fronte a tutti gli altri. Una strana indagine interna. Ma a otto anni dai fatti Mollica ricorda poco o niente. Solo che quel giorno non fece menzione del proprio turbamento. Dopo la prima deposizione al pm della prima inchiesta, Schirone venne convocato dal colonnello Casarsa. Subì pressioni? «Può darsi, in maniera velata, forse non me ne sono accorto. Non me ne ricordo».

Prima di loro ci sono state le testimonianze di due appuntati sul giallo delle due annotazioni con lo stesso codice informatico. «In teoria è impossibile», ha detto l’appuntato Di Sano al banco dei testi. Fatto sta che sia lui, sia il collega Colicchio, entrambi in servizio a Tor Sapienza quella notte tra il 16 e il 17 ottobre 2009, hanno firmato due dichiarazioni apparentemente identiche con piccole modifiche che servono solo a minimizzare la gravità delle condizioni di Cucchi.
Le note sullo stato di salute di Stefano Cucchi, dunque, nelle ore successive al suo arresto «sono state modificate» e almeno una potrebbe essere potenzialmente falsa. Gianluca Colicchio ha ricordato in aula perfettamente il report nella quale scriveva che Cucchi «dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia» ma non ha riconosciuto come sua l’annotazione (riportante uguale data e numero di protocollo) nella quale si legge che l’arrestato «dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio».

Colicchio in aula ha detto di ricordare «di avere fatto una sola relazione; la seconda è strana perché porta la mia firma, ma io non la ricordo. Nella seconda ci sono dei termini che io non uso, non la riconosco». Ancora più anomale sono le due annotazioni di servizio a firma del carabiniere Francesco Di Sano. Nella prima, si legge che Cucchi «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare»; nella seconda annota che il geometra dichiara di «essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola da letto». «Mi chiesero di modificarla perché la prima era troppo dettagliata. Ho eseguito un ordine». E chi l’avrebbe ordinato a sua volta al superiore dei due appuntati?

Ultimo teste l’avvocato Giorgio Rocca che partecipò come difensore d’ufficio di Cucchi all’udienza di convalida dell’arresto anche se Stefano aveva indicato un suo legale di fiducia. Finalmente Rocca lo ammette in aula. «Ricordo che lui aveva un atteggiamento ostile nei confronti dei carabinieri perché riteneva di essere stato arrestato ingiustamente. Prima dell’udienza ebbe battibecchi continui con loro, non era calmo. Mi disse che non l’avevano maltrattato, ma che lui era fatto così». Ma Rocca sembra non essersi accorto delle difficoltà del suo assistito a camminare, delle macchie di sangue sui jeans. Non è mai stato da solo con Stefano e solo le domande insistenti del Pm Giovanni Musarò, di Fabio Anselmo e degli altri legali di parte civile, riusciranno a fargli ricordare che Stefano non era seduto in una postura corretta, quasi sdraiato da un fianco, appoggiato sul gomito. Il viso gonfio e la voce strascicata. In aula Ilaria, sua sorella, i genitori Rita e Giovanni e gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa. Prossime udienze 15 e 31 maggio, 12 e 27 giugno.

Brema diventa la capitale del jazz internazionale

Jazzmenia Horn

Il jazz dell’Est Europa non è più una sorpresa. Anzi è una realtà consolidata. Lo dimostra il fatto che una nazione come la Polonia sia il paese partner di jazzahead!, la fiera internazionale del settore che si tiene nella città tedesca di Brema dal 19 al 22 aprile, giunta alla sua 13a edizione. La rassegna ha raggiunto lo scorso anno il traguardo dei 60 paesi rappresentati. I partecipanti professionali hanno superato quota tremila (3169, per l’esattezza) mentre rispetto al 2016 sono stati mille i visitatori in più, attratti dai concerti all’interno della fiera di Brema. E uno degli esponenti del jazz polacco, il pianista Marcin Wasilewski, sarà sul palco per ben due volte a guidare una pattuglia motivata a fare bella figura. Walilewski è un pianista classico nell’ impostazione, con una grande vocazione alla melodia ma anche al ritmo. Un groove molto marcato che trasmette ai musicisti che lavorano con lui: il contrabbassista e in alcuni casi arrangiatore Slawomir Kurkiewicz e il batterists Mical Miskiewicz. Il trio ha recentemente inciso l’album Spark of life per l’etichetta Ecm di Monaco di Baviera, a simbolo di un livello musicale eccellente.
Anche il Jazz di casa è presente lungo tutta la manifestazione. All’interno di jazzaehad! infatti si terrà il German Jazz Expo dove saranno presentate le realtà emergenti del paese. Ma tra queste c’è un progetto trasnazionale che comprende anche Ungheria, Francia e Regno Unito. È la Velvet Revolution, una rivoluzione di velluto che ruota attorno al sassofonista di Wolsfburg Daniel Erdmann e che ha trovato due partner ideali nel vibrafonista inglese Jim Hart e nel violinista e violista francese Théo Ceccaldi. Il loro disco A Short Moment Of Zero G,inciso dall’etichetta ungherese Bmc presenta una serie di tracce dove forme del passato rivivono in chiave moderna come nella ballata con momenti contrappuntistici quale è la traccia titolo. Un titolo tutt’altro che banale e di grande interesse.
Tre le ospiti a Brema anche la rivelazione dell’ultimo Umbria Jazz Winter. È  Jazzmeia Horn ( in foto) da Dallas, forte delle vittoria dei premi dedicati a Thelonious Monk e a Sarah Vaughan. Jazzmeia ha una tecnica di altissimo livello nell’ambito di un registro medio alto, presentando brani originali costruiti per questa voce. Maestra dello scat, dà maggiori emozioni quando vira verso sonorità soul. Nell’album A Social Call (Prestige / Egea) si può apprezzare maggiormente quelle sfumature che una cantante già matura può regalare con i suoi brani. Molto del repertorio di questo disco d’esordio ha non solo una funzione strettamente musicale, ma anche sociale (appunto social) per tenere sempre alta l’attenzione sui problemi del mondo con testi di denuncia.

Slovacchia, il caso Kuciak fa dimettere il ministro dell’Interno

epa06608560 People turn on the lights of their mobile phones as they participate in a rally called 'Let's stand for decency in Slovakia' in Bratislava, Slovakia, 16 March 2018. Mass street protests in Slovakia started after the murder of journalist Jan Kuciak and his fiance Martina. Protesters are asking for an independent investigation into the murders and new, trustworthy government that will not include people suspected of corruption EPA/CHRISTIAN BRUNA

A febbraio il giornalista Jan Kuciak è stato ucciso insieme alla sua fidanzata Martina. Ad aprile Bratislava non l’ha ancora dimenticato. Migliaia di persone sono tornate in strada per chiedere le dimissioni di Tibor Gaspar, il capo della polizia responsabile delle indagini del duplice omicidio. Una testa del potere slovacco cade, ma non è la sua. Si dimette infatti Tomas Drucker, ministro dell’Interno.

Dopo essersi opposto alla revoca di Gaspar, Tomas Drucker ha lasciato ieri l’incarico proprio perché si è rifiutato di licenziare il dirigente delle forze dell’ordine. Era quello che chiedeva la piazza indignata dall’assenza di progressi nelle indagini del caso Kuciak. Tre settimane: è quanto è rimasto  al governo Drucker dopo la sua nomina, sostituiva infatti Robert Kalinak, ex ministro del governo dimissionario di Robert Fico.
Alla conferenza stampa dell’ormai ex ministro c’erano pochi giornalisti, uno stemma della Slovacchia in una piccola stanza, un podio di legno: rimanere in carica vuol dire non migliorare la situazione, ma «polarizzare ulteriormente la società del nostro Paese – ha detto Drucker -. Non ci sono più le circostanze adatte che mi permettono di svolgere il mio incarico».

Drucker dice di aver chiuso con la politica per sempre, vuole ritirarsi a vita privata: «ho deciso di dimettermi e lasciare spazio ad un’altra persona che affronti la questione, è più importante la mia integrità della mia posizione». Il presidente della Repubblica, Andrej Kiska, aveva ripetutamente chiesto che Gaspar fosse rimosso dall’incarico per riguadagnare la fiducia dell’opinione pubblica, ma Drucker aveva ribadito il suo no perché le indagini di Gaspar «non erano ancora giunte al termine».
Alcuni degli articoli di Jan riguardavano la più grande compagnia di sicurezza del Paese e gli accordi fatti con il governo. Il proprietario di questa agenzia è legato al capo della polizia, Gaspar.

«La corruzione, non il coraggio, va punita» è l’urlo della folla dei trentamila scesi in piazza dopo sette settimane dalla morte di Jan. Chiedono giustizia per lui, ma anche per il resto del Paese, attanagliato nella morsa della corruzione sulla quale indagava il giornalista. I suoi ultimi articoli riguardavano eventuali legami tra la ndrangheta calabrese e gli esponenti del governo slovacco del partito Smer di Robert Fico.
Non solo Gaspar: Bratislava vuole anche le dimissioni di Dusan Kovacik, il procuratore speciale incaricato di perseguire casi di abusi di potere e corruzione tra i politici e i dipendenti pubblici. Secondo i dati raccolti dal suo ufficio l’anno scorso, Kovacik ha supervisionato 61 casi di corruzione tra il 2009 e il 2017, ma non sono mai arrivati in tribunale. Nessuna accusa penale è stata mai mossa. Nessun politico è mai finito in prigione in Slovacchia per corruzione, scrive Transparency International.

Adesso l’obiettivo di Peter Pellegrini, nuovo premier di Bratislava, dopo le dimissioni di Robert Fico, è ripulire l’immagine del Paese: «non siamo uno stato mafioso», ha detto pochi giorni fa ai giornalisti durante una visita a Bruxelles. L’omicidio di Jan è stato «compiuto da professionisti» e per questo è difficile da risolvere, nonostante un «numero senza precedenti di poliziotti stia lavorando per trovare i colpevoli». Troppi giorni sono trascorsi tra l’omicidio e la scoperta dei cadaveri dei due giovani per capire la verità: «gli assassini hanno quattro giorni di vantaggio su di noi, l’omicidio è stato compiuto un mercoledì, i corpi sono stati rinvenuti una domenica. È troppo per un caso di assassinio».

Le proteste della piazza proseguiranno forse più velocemente delle indagini negli uffici. Il risveglio della società civile di Bratislava è senza precedenti, anche se per questa primavera slovacca a pagare col sangue è stato il giovane reporter 27enne. Proiettili e parole. Kuciack è il primo giornalista assassinato nel Paese. Scrive Tom Nicholson su Politico che è «il giorno più buio per il giornalismo slovacco: nemmeno durante gli anni turbolenti che sono seguiti alla fine del comunismo nel 1989, i reporter venivano uccisi in Slovacchia».

Le scritte sui cessi

L’annoso problema delle scritte sui cessi, sui cessi delle scuole o sui cessi dell’autogrill o sui cessi dei bar o sui cessi delle discoteche, è qualcosa che non meriterebbe nemmeno due righe su un giornalino di quartiere o su un notiziario della scuola. Niente.

Che le scritte sui cessi oggi siano un argomento di discussione perché apparse (anzi, incise, poiché non appaiono le scritte sui cessi ma sono vergate dalla mano consapevole di chi si prende la briga di calcare con cura) in uno dei bagni di Montecitorio fotografa perfettamente il momento. E, attenzione, non staremo qui a discutere del presunto onorevole che si è preso il disturbo di incidere un verso fascista («Es braust unser panzer», che tradotto significa «Il nostro carro armato sta ruggendo»: il verso è tratto dal Panzerlied, tra i canti più diffusi durante la Seconda guerra mondiale tra i soldati della Wehrmacht) poiché come si affrettano a chiarire dalla Camera dei deputati quel bagno è accessibile anche a giornalisti, funzionari e scolaresche in gita (e facciamo finta di crederci) ma ci interessa di più sapere che il cesso da violare ora diventa il cuore delle istituzioni e soprattutto che inneggiare al fascismo, per fortuna, è una moderna forma di pornografia.

È una coerente fotografia di questo tempo: le istituzioni sono il luogo in cui si nota ancora di più se si grida forte, ancora più forte. Non sono mica i luoghi dove esercitare le proprie nobiltà ma la vetrina perfetta per dare sfogo alla propria stupidità, stolidità, fatuità.

Bene, direi. Avanti così.

Buon martedì.

In Montenegro il ritorno del vecchio leader Djukanovic mentre l’opposizione denuncia brogli

epa06672126 Montenegro's former Prime Minister and Democratic Party of Socialists leader Milo Djukanovic (C) speaks during a meeting with his supporters in Podgorica, Montenegro, 15 April 2018. Montenegro's pro-West ruling party has won the most votes in the small Balkan country's parliamentary election, according to unofficial results, with an election campaign focused on choosing closer ties with the European Union (EU) and the North Atlantic Treaty Organization (NATO). EPA/BORIS PEJOVIC

Il Montenegro ha scelto il suo presidente, Milo Djukanovic è tornato. Ha vinto con il 54% dei voti, sventolando la bandiera blu con le stelle dorate a Podgorica e ripetendo soprattutto due parole in campagna elettorale: “Europa” e “stabilità”. «Questa è la conferma che la decisione del Montenegro è quella di continuare il suo percorso europeo, questo ci condurrà alla piena adesione all’Unione». Sono state queste le sue prime parole alla folla riunta per festeggiarlo in strada, appena la tv nazionale ha mostrato i risultati elettorali nella serata di domenica 15 aprile.

Tra segnalazioni di violazioni e denunce di irregolarità elettorali, – firme false, tessere con lo stesso numero di serie, dispositivi elettronici per il riconoscimento non funzionanti -, ad urne appena chiuse, il vecchio leader Djukanovic ha riconquistato il potere in Montenegro. Accusato da tempo di essere l’autocrate del piccolo stato sull’Adriatico – con poco più di 600mila abitanti-, le parole degli avversari politici, filo-russi quanto filo-europei, non hanno tuttavia scalfito il suo ritorno né fermato la sua corsa elettorale. Ex comunista ed ex alleato di Milosevic fino al 1998, a capo dei Dps, partito democratico dei socialisti, Djukanovic, dopo essere già stato sei volte primo ministro e una volta presidente, sostituirà l’alleato Filip Vujanovic.

Il Montenegro ha votato il 15 aprile per la prima volta dopo l’adesione all’Alleanza atlantica e per la terza volta da quando lo Stato è diventato indipendente nel 2006. Ora il vecchio-nuovo presidente promette che lo condurrà anche «ad essere un membro effettivo dell’Unione Europa».
Djukanovic è stato assente per due anni dalla scena politica balcanica, che ha però saputo influenzare per oltre un quarto di secolo. Aveva promesso di ritirarsi nel 2016, quando le elezioni parlamentari furono messe a rischio da un presunto golpe filorusso che tentava di prevenire l’ingresso del Montenegro nella Nato. Poi, per quello che ha definito “senso di responsabilità”, Djukanovic ha deciso di candidarsi di nuovo lo scorso marzo.

Il candidato indipendente Mladen Bojanic, ex parlamentare supportato dalla maggioranza dei partiti d’opposizione e dal blocco filorusso del Paese, è arrivato secondo con quasi il 34% dei voti. Non è riuscito a porre fine a quello che chiama il “regno del dittatore”. «Il Montenegro ha scelto quello che ha scelto»: ha detto dopo la sconfitta Bojanic, che ha però anche aggiunto che il risultato delle urne è frutto di «ricatti e pressione», che il neoeletto «non è la soluzione, perché è il creatore dell’instabilità e del caos». Rimane in politica con una promessa: «Continuerò a lottare per un Montenegro libero da Djukanovic e dalla sua dittatura». Draginja Vuksanovic, prima donna a correre da candidata per il piccolo partito democratico sociale del Paese, è arrivata terza, con poco più dell’8% dei voti.

Nepotismo, legami con la criminalità organizzata, sistema clientelare, corruzione cronica: sono le quattro colonne portanti del potere di Djukanovic secondo le accuse dei sette candidati che lo hanno sfidato nella campagna elettorale, tutti usciti sconfitti in queste ultime elezioni vinte al primo turno. Secondo il rapporto Freedom House, “Nation in Transit 2018: confronting illiberalism”, pubblicato la settimana scorsa, i diritti democratici e civili a Podgorica, quanto a Belgrado, sono in declino.

Più che elezioni presidenziali, per gli analisti questo è stato un test per confermare il potere personale di Djukanovic e un referendum sull’orientamento europeo del Paese. L’opposizione vuole “ridurci a provincia russa”, ha ripetuto in campagna elettorale Djukanovic, conquistandosi simpatie e voti delle minoranze croate, bosniache e albanesi della nazione. Presentatosi come bastione anti russo in Europa, come alfiere balcanico che volta le spalle al Cremlino agli occhi dell’ovest, Djukanovic ha convinto la popolazione che il Paese alle urne ieri non stava solo scegliendo un presidente, ma una direzione: Ovest oppure Est. E un’orbita: Bruxelles oppure Mosca.

Proprio a Mosca, Putin ha detto pochi giorni fa che l’amicizia tradizionale con il Paese balcanico occidentale è andata perduta: «lo stato attuale delle relazioni tra Russia e Montenegro non corrisponde a quello dell’amicizia fraterna e all’affinità spirituale tra i nostri popoli che dura da secoli». Il presidente neoeletto ha ribadito invece che vuole «relazioni normali con la Russia», ma «se la Russia è pronta ad averle con noi».

Ieri ed oggi, Est ed Ovest nei Balcani: dalla dissoluzione della ex Yugoslavia, alle manovre d’entrata nel blocco dell’Unione Europea. Non aveva neppure compiuto trent’anni quando è diventato il premier più giovane d’Europa. Oggi ne ha quasi sessanta, ma in Montenegro il vecchio volto del potere ha ancora la sua faccia.

I cittadini russi sempre più contrari alla guerra in Siria: «Basta, ritiriamo le truppe»

FILE - This file photo released on Thursday March, 22, 2108, by the Syrian official news agency SANA, shows Syrian government forces overseeing the evacuation by buses of rebel fighters and their families, at a checkpoint in eastern Ghouta, Syria. In the spring of 2015, the Army of Islam rebel group held a massive military parade that included thousands of opposition fighters marching in formation and a striking display of tanks and armored vehicles in the town of Douma, at the doors of the Syrian capital. Now, the Army of Islam stands alone in eastern Ghouta, its fighters facing a stark choice: Surrender or die. (SANA via AP, File)

Molti osservatori, negli ultimi giorni, si sono giustamente arrovellati per capire quale sia la strategia di Putin in Siria. Ma nessuno si è chiesto cosa pensino i russi dell’intervento dell’Armata Rossa in quel Paese. Se si dovesse valutare in relazione alle chiacchiere della gente nei bar o sulla base delle confidenze dei taxisti non ci sarebbe dubbio: “bring back our boys” (“portiamo a casa i nostri ragazzi” come rivendicavano i pacifisti americani durante la guerra del Vietnam) è l’opinione generalizzata. Domenica scorsa nelle grandi manifestazioni popolari nella provincia di Mosca contro l’inquinamento e i depositi di immondizia a cielo aperto (su cui torneremo) sono circolati manifesti polemici in cui è ritratto un bambino russo che si chiede retoricamente: “Aiutiamo i bambini siriani… e io chi sono?!”
I mass-media russi hanno sempre diffuso con timidezza i sondaggi d’opinione sull’intervento russo in Siria. Nell’ultima rilevazione dell’autorevole agenzia “Levada” di Mosca dell’agosto 2017 è emerso che il 49% degli intervistati è per il ritiro delle truppe, il 30% per la prosecuzione dell’intervento mentre il 21% non prendeva posizione. Una maggioranza isolazionista che la dice lunga sugli umori della popolazione, in un Paese dove i telegiornali sono controllati ferreamente dal governo e dove l’opinione pubblica è largamente anti-americana.
La linea di faglia contro l’ intervento si è sicuramente allargata negli ultimi mesi, se anche – sempre meno timidamente – giornali e deputati della Duma mostrano sempre più perplessità. Forse Putin dovrebbe iniziare ad ascoltare di più i propri cittadini che preferirebbero “meno cannoni e più burro”.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Ma che dice l’Europa di Macron?

epa06671917 French President Emmanuel Macron (C) poses on the TV set before an interview with RMC-BFM and Mediapart French journalists at the Theatre national de Chaillot in Paris, 15 April 2018. Macron releases the interview after United States, Britain and France decided to launch air strikes in Syria in response to a suspected chemical weapons attack on 14 April 2018. EPA/FRANCOIS GUILLOT / POOL

Sarebbe curioso sapere che ne pensa l’Europa di Emmanuel Macron, che decide di fare Stato autonomo e indipendente per attaccare la Siria compiacendo Trump, gli Usa e tutto il resto. Sarebbe curioso sapere anche che ne dice Macron del suo finto europeismo da quattro spicci (utile finché poteva essere utile per sconfiggere la «guerrafondaia» Le Pen, come disse Macron), che ha sventolato per mesi e che qui in Italia ha eccitato un certo centrosinistra inconcludente e confuso.

Sarebbe curioso sapere che ne dice l’Onu di Macron. Se prima o poi ha intenzione di spiegarci come funzioni un’Organizzazione delle Nazioni Unite che non riesce a tenere uniti i propri Stati membri, come uno di quei ristoranti che non rispetta l’insegna e i menù messi solo per attirare turisti.

Sarebbe curioso sapere che ne pensa il Parlamento francese di questo Macron, che decide di fare la guerra senza concedersi il disturbo di informare la propria assemblea e giustificando tutto questo con l’urgenza di una situazione che si trascina da anni e che faceva comodo lasciare passare inosservata.

Sarebbe curioso anche sapere cosa si siano detti Macron e il principe saudita Mohammed bin Salman, dinastia sunnita storicamente nemica della Siria e dell’Iran, che si sono incontrati pochi giorni fa in un faccia a faccia definito «strategico» da entrambe le parti e che è coinciso con la decisione dell’attacco alla Siria.

Sarebbe curioso sapere che ne dicono i macronisti di noialtri che l’hanno celebrato per mero calcolo elettorale nazionale e senza nessuna conoscenza favoleggiando sulla sua capacità politica e di mediazione. E questo si è messo a fare la guerra.

Buon lunedì.

La fake news di Corbyn antisemita

LONDON, ENGLAND - JUNE 30: Labour Party Leader Jeremy Corbyn attends Anti Semitism inquiry findings at Savoy Place, on June 30, 2016 in London England.The Labour leader said there was no acceptable form of racism as he was speaking after the launch of a report by the former director of Liberary, Shami Chakrabarti. (Photo by Jeff J Mitchell/Getty Images)

Nel 2012 Mear One, un artista americano noto per i suoi controversi murales, dipinse una delle sue pungenti opere in cui rappresentava alcuni banchieri ricchi e privi di scrupoli. Il dipinto venne accusato di contenere alcuni chiari elementi di chiave antisemita per la rappresentazione dei banchieri con sembianze ebraiche. Il sindaco della municipalità di Londra in cui il murales era stato dipinto ne ordinò la rimozione. In un post su facebook un semi sconosciuto parlamentare inglese, tale Jeremy Corbyn, scrisse a commento del post di Mear One: «E perché vogliono rimuovere la tua opera d’arte?».

L’opera, in generale, è una critica al classismo della società moderna e Corbyn, facendo riferimento a questo, paragonò l’episodio a quella volta in cui Rockefeller fece cancellare un’opera di Diego Rivera per la presenza di Lenin. Cinque anni dopo una parlamentare laburista di religione ebraica, ha ritrovato questo commento al post di Mear One e ha chiesto a Corbyn conto di quella che – nel frattempo – era diventata una manifestazione di solidarietà ad un artista antisemita…

Da questo episodio è nata lo scorso anno una nuova ondata di proteste per il problema di antisemitismo all’interno del Partito laburista. Un’ondata ovviamente rilanciata dalla stampa britannica, per larga parta controllata dal mondo finanziario, che non vedeva l’ora di attaccare nuovamente il Labour nel vivo di una campagna elettorale che si preannunciava difficile per i conservatori di Theresa May, in netta difficoltà a causa del caos nelle trattative per la Brexit. Ora la storia si ripete. Nei giorni scorsi Corbyn ha definito «inumane e illegali» le violenze dei soldati israeliani contro gli abitanti di Gaza in occasione delle celebrazioni del Giorno del ritorno, durante le quali 17 palestinesi sono stati uccisi da cecchini. Tanto è bastato per…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola


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Leggere “L’amica geniale” a Brasilia. In chiave politica

People peruse books at a book-sharing stand set up by Marcio Mizael Matolias, 44, an artist who lives inside a sand castle at Barra da Tijuca beach in Rio de Janeiro, Brazil, on January 18, 2018. For the last 22 years, Matolias has lived inside his sand castle surrounded by books, golf clubs and fishing poles. Neighbors and friends call him "The King". / AFP PHOTO / MAURO PIMENTEL (Photo credit should read MAURO PIMENTEL/AFP/Getty Images)

Il successo dei romanzi di Elena Ferrante in Brasile continua a sorprendere: decine di migliaia di copie vendute a ogni nuova traduzione proposta. A ciò vanno aggiunti gli articoli di giornale, le interviste ai traduttori, i dibattiti. Se l’espressione Ferrante fever, titolo del documentario diretto lo scorso anno da Giacomo Durzi, rinvia al boom editoriale nordamericano, nei tropici lusofoni si parla di febbre Ferrante, a indicare il susseguirsi di discussioni sui media, tesi di laurea, studi accademici sulla produzione della scrittrice italiana.

Non è un caso che nella città di Fortaleza, in Brasile, si terrà il prossimo novembre un congresso internazionale sull’autrice de L’amica geniale. (Tutta la sua opera è pubblicata da Edizioni e/o ndr) Fin dal titolo Elena Ferrante, um olhar subalterno -“uno sguardo subalterno” – risulta evidente la dimensione politica dell’operazione, che intende analizzare i libri della Ferrante dalla specola della subalternità, geografica e culturale. A promuovere l’evento è il programma Pgp-letras dell’Universidade federal do Ceará, una delle maggiori università pubbliche del Paese sudamericano. L’iniziativa riunirà ricercatori locali, così come studiosi italiani, quali Andrea Mazzucchi e Matteo Palumbo dell’Università di Napoli Federico II, tutti interessati a mettere a fuoco di opere come L’amore molesto o I giorni dell’abbandono la dimensione meridionale. L’aggettivo richiede una precisazione. Il convegno, infatti, sposterà il baricentro critico a occidente del Mediterraneo. E meridione, sotto la linea dell’Equatore, non significa Sud d’Italia, ma Sud del mondo.

È proprio sulla base di tale concezione “globale” del meridione che i testi della Ferrante vengono letti e interpretati nel Brasile attuale delle rivendicazioni femministe, dell’impennata dei conflitti di genere, delle nuove modalità di lotta di classe. È facile, insomma, immedesimarsi in personaggi relegati alla subalternità in un Paese nel quale violenza e ingiustizia sono una piaga costante. Anche perché si tratta di punti di vista – quello, ad esempio, di Delia ne L’amore molesto o quello di Olga de I giorni dell’abbandono – che…

L’articolo di Yuri Brunello prosegue su Left in edicola


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Sicurezza urbana, breve storia di una legge-vergogna

Agenti di polizia Municipale in piazza di Spagna, Roma 29 marzo 2018. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Non solo spacciatori, ma anche persone che chiedono l’elemosina, ubriachi, prostitute o senzatetto i cerca di un giaciglio. In virtù del decreto Minniti Orlando sulla “sicurezza urbana” – convertito in legge il 17 aprile 2017 – queste categorie di persone si sono rapidamente trasformate, agli occhi dello Stato, da esseri umani in difficoltà, da sostenere, in nemici giurati dell’ordine pubblico e del decoro, da far sparire il più possibile dai centri urbani, dagli sguardi di chi passeggia davanti le vetrine delle nostre città. Per farlo, è stata data carta bianca ai sindaci. Via libera quindi alla modifica dei regolamenti di polizia urbana, per poter comminare tempi rapidi provvedimenti di allontanamento e sanzioni a chi è considerato complice del degrado. In che modo? Anche solamente stazionando in alcune “zone rosse”, individuate dai sindaci.

E così, moltissime amministrazioni hanno colto la palla al balzo, da quelle di centrosinistra a quelle di centrodestra, senza soluzione di continuità. Come testimoniano i dati raccolti grazie al paziente impegno di Meno di zero, l’osservatorio «contro la guerra agli ultimi» nato alcuni mesi fa, grazie alla sinergia di alcuni militanti, provenienti da diverse realtà di attivismo a Roma. «Nel provvedimento di Minniti, la sicurezza urbana viene definita come “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città”, da perseguire attraverso “riqualificazione urbana”, “eliminazione di fattori di marginalità”, “prevenzione della criminalità”, e “affermazione di più elevati livelli di coesione sociale”. Ci si aspetterebbe dunque una legge piena zeppa di misure di welfare dunque, no? Invece è una legge ad personas, che criminalizza alcune categorie di persone». A raccontarlo è Federica Borlizzi, attivista del collettivo che tiene in piedi l’osservatorio.

«Per contrastare il dispositivo – spiega – abbiamo deciso di non essere ideologici e partire dai dati, mappando i vari provvedimenti, dai mini daspo che dispongono un allontanamento dal centro di quarantott’ore, ai daspo veri e propri di sei mesi e più, e poi le multe. Indicando in ogni caso chi sono i soggetti bersagliati da queste misure». Un lavoro che ha portato alla…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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