Home Blog Pagina 752

Budapest si ribella a Orban. Decine di migliaia di giovani in piazza

Una manifestazione pacifica per la democrazia. “Stop Orban”. Cartelli con scritte esplicite, slogan forti e decisi contro il presidente reduce dalla vittoria schiacciante alle elezioni dell’8 aprile. “Dittatore”, “L’Ungheria si ribella alla truffa”, “Orban vattene”, questo gridano decine di migliaia di cittadini di Budapest che si sono dati appuntamento davanti al Teatro dell’Opera, luogo simbolo della cultura e amatissimo nella capitale ungherese.

(Foto di Francesca Zappacosta)

Da lì per via Andrassy, completamente piena, in direzione del Parlamento. Sono giovani ungheresi, soprattutto, ed esponenti dell’opposizione che nei giorni precedenti la manifestazione hanno denunciato brogli elettorali. Sarebbero scomparse infatti migliaia di schede. Per questo motivo l’opposizione ha chiesto l’intervento dell’Unione europea e dell’Onu perché fosse di nuovo possibile il conteggio dei voti. I cittadini di Budapest sono indignati per il modo in cui Orban ha vinto con il premio di maggioranza che lo ha portato a controllare il 67% del Parlamento.

(foto di Francesca Zappacosta)

La manifestazione di oggi, sabato 14 aprile, è nata spontaneamente in rete e coinvolge migliaia di giovani che non vedono di buon occhio la politica di Orban e la svolta sempre più reazionaria del suo governo. Una politica che opprime soprattutto le nuove generazioni, ricordiamo che migliaia di giovani ungheresi ormai vivono all’estero.
A Budapest, tra l’altro, Orban non ha vinto. E la prova è data dalla  forza di questa protesta spontanea. La popolazione di Budapest si è ribellata con una fortissima indignazione.

(video di Francesca Zappacosta)

La scuola sia pubblica, laica e gratuita

Un momento dello sciopero e della manifestazione per il boicottaggio delle prove Invalsi organizzata a Roma davanti al ministero dell'Istruzione, 12 maggio 2016. US FRONTE DELLE GIOVENTU' COMUNISTA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Pubblica, laica, pluralista, democratica. Aggettivi semplici, a cui non dobbiamo cessare di assegnare l’alto valore di principi irrinunciabili, ciascuno con la propria portata di profonda civiltà, e che vanno associati ad un altro, altrettanto fondamentale: gratuita. È il ritratto di una scuola che è stata costruita intenzionalmente come strumento dell’interesse generale perché, solo grazie a quelle peculiarità, essa risponde al mandato che la Costituzione le assegna: formare cittadini consapevoli, in grado cioè di compiere delle scelte motivate dalla conoscenza e dalla capacità di selezionare informazioni e di metterle utilmente in relazione; configurare, sulla scorta del comma 2 dell’art. 3 della Carta, lo strumento privilegiato che la Repubblica ha in mano per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Leggere e riflettere su queste peculiarità altissime e significative rappresenta quotidianamente uno stimolo per non cessare di mobilitarsi sul tema dell’istruzione, pur – o, forse, soprattutto – nella consapevolezza di quanto la normativa degli ultimi 20 anni abbia intenzionalmente decostituzionalizzato la scuola, prona come è stata alla logica (che investe tutto lo Stato sociale) del pensiero unico dettato dall’Europa: giustapporre criteri economici e di profitto ai diritti fondamentali delle persone. Se il 4 dicembre 2016 abbiamo difeso la Costituzione, lo abbiamo fatto anche perché i principi in essa contenuti abbiano un’attuazione concreta. Perdere su questo fronte, assecondare l’oblio del senso profondo di quegli aggettivi, ridurli a orpello retorico e non a esigenza irrinunciabile significherebbe non solo tradire le premesse della nostra storia nazionale, ma arrenderci ad…

Il parere di Marina Boscaino prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Riprendiamoci la poesia civile di Rodari

Con Gianni Rodari abbiamo riso già da piccolissimi, ci siamo immedesimati in Giovannino Perdigiorno o Gip nel televisore. Ci ha fatto riflettere parlando della guerra e della pace, dell’ecologia e della musica, ci ha posto delle domande negli anni in cui, tra i banchi, imparavamo a leggere e a scrivere. Abbiamo cercato di imitare le sue rime scrivendo anche noi bizzarre filastrocche e grazie a lui non ci siamo mai sentiti sbagliati nel commettere qualche errore. Lo sentivamo dalla nostra parte.

Gianni Rodari – di cui il 14 aprile ricorre l’anniversario della scomparsa – è stato un intellettuale vicino alle giovani generazioni, a cui dà sempre la massima considerazione aprendo con loro un dialogo di scambio e partecipazione. Scrisse per la scuola, per gli insegnanti e i genitori. I temi che affrontò su Paese Sera con i suoi articoli e la rubrica “Dialoghi con i genitori” e sul mensile Il giornale dei genitori, di cui fu direttore dal 1968 al 1977, aprono vasti campi di ricerca. Il contributo che ha dato su questo versante è significativo; da giornalista impegnato sul fronte della scuola, si batte per una sua gestione autentica e democratica, non risparmiando critiche verso chiunque ne impediva o cercava di frenare il suo principio fondante, che è quello laico, inclusivo e solidale.

La mancanza di importanti riferimenti a Rodari nei più rinomati libri della letteratura italiana fa riflettere. Un’assenza che si sente, che pesa, quando nell’indice, tra gli autori che iniziano con la R, non si trova il suo nome. Carmine De Luca che curò nel 2013, portandole alla ribalta, le prime prove del giornalista-scrittore nel libro Il giudice a dondolo, conferma che c’è una sorta di «disattenzione e pigrizia di buona parte della critica letteraria, poco disponibile a prestare orecchio alla letteratura per l’infanzia, in generale, e a Rodari in particolare». Eppure illustri professori come Tullio De Mauro e Alberto Asor Rosa hanno scritto saggi e articoli sottolineando l’importanza della sua ricerca nella letteratura per l’infanzia e nella linguistica italiana. Proprio attraverso la linguistica egli rifiuta quell’ordine costituito in cui vede riflesso un ordine politico e sociale per lui inaccettabile. Questo rifiuto lo porterà a tentare di costruire un nuovo ordine, più solidale, che parte dalla riorganizzazione dell’universo linguistico e suggerisce una nuova dimensione di rapporti umani e sociali. I giochi verbali, i rovesciamenti, la parodia, l’umorismo, ma anche quella utopia concreta che traspare nelle frasi e nei racconti, confermano poi l’influenza delle avanguardie del Novecento. Anche per questo Rodari fu uno scrittore forse troppo rivoluzionario sia per il partito comunista, sia per quel mondo cattolico che vedeva attraverso le sue favole, incitamenti al cambiamento, la possibilità di una trasformazione culturale che si distanziava dai prodotti “confezionati” pensati fino ad allora per i bambini.

Dal dopoguerra agli anni Settanta scrive molti romanzi, e attraverso questa costruzione realistica del presente, mediante però una vena fantastica, ha la possibilità di trovare nella favola gli ideali pedagogici e civili, dall’attivismo alla collaborazione, i temi, cioè, su cui poesie, filastrocche, storie e favole prenderanno corpo. È nelle onomatopee, nel gioco spiritoso di varianti che Rodari apre lo spazio ad una scrittura leggera che sottolinea quella matrice surreale conosciuta anni prima attraverso i surrealisti d’oltralpe e il futurismo di Palazzeschi. I suoi versi e le sue storie spingono a cambiare il mondo, a volerlo migliore, a sognare sempre in grande. Antonio Faeti, nel libro Le provocazioni della fantasia, lo definisce “poeta civile”. Non a caso Grammatica della fantasia, il saggio in cui rivendica l’importanza del processo creativo e dell’invenzione, nasce dagli incontri con una cinquantina di insegnanti di Reggio Emilia nel marzo del 1972. Un’altra opera, il surreale racconto La torta in cielo, prende corpo invece dai suoi incontri in una scuola della periferia romana, al Trullo, dove Rodari trascorre alcune mattinate insieme agli alunni della quinta elementare della maestra Bigiaretti, conosciuta in occasione dei convegni nazionali del Mce (Movimento di cooperazione educativa). Nella scuola elementare Rodari stabilisce un rapporto amichevole con i bambini che poi si riflette nella scrittura. Nel suo libro La scuola anti trantran, la maestra Bigiaretti ricorda quell’incontro memorabile: mai si sarebbe aspettata di vedere Rodari, lì, sulla porta della classe, divertito nell’averle fatto una sorpresa.

Il titolo della favola nasce dalla combinazione di due parole o “duello di parole”, come più comunemente l’autore di Omegna era solito proporre, cioè un esercizio per far nascere l’incontro di immagini che potessero dare inizio ad una storia. A dare lo spunto fu la conversazione con un suo amico: con l’espressione pie in the sky, traducibile in “castelli in aria”, Rodari lasciò vagare i suoi pensieri, fino all’incontro giusto. In quella classe del Trullo, tra lo scrittore e i ragazzi inizia così un rapporto che lo anima, per così dire, suggerendogli idee sui personaggi e i luoghi, facendo crescere a poco a poco il romanzo ambientato proprio nella borgata. La torta in cielo è un romanzo di fantascienza, pacifista, ecologico e antimilitarista. L’elemento scientifico ritorna come indagine doverosa a distanza di circa vent’anni dalla bomba atomica, è il tempo infatti della Guerra fredda. La critica mossa da Rodari verso gli scienziati, che non dovrebbero accettare di costruire strumenti di morte, è chiara nel discorso in cui il protagonista Paolo espone le sue perplessità: «- Scusi, ma non si risparmierebbe di più se le bombe atomiche non si fabbricassero nemmeno? – Sono cose che tu non puoi capire. È politica, io non mi interesso di politica. Io sono soltanto uno scienziato. Anzi, ahimè, lo ero…».

 

Al di là di situazioni proprie della favola classica, la trama è moderna per le questioni di attualità che tocca, su cui Rodari interviene anche con le simpatiche bizzarrie suggeritegli dagli alunni. La torta in cielo è un’operazione letteraria di “abbassamento” verso la cronaca, raccontando un tema così delicato come la minaccia di una nuova bomba atomica. Ma l’obiettivo è far arrivare ai più piccoli un messaggio chiaro e aperto alla ricerca.

Dapprima non si parlò di torta ma di pizza (perché al Trullo la parola si usa sia per la pizza al pomodoro che per la torta al cioccolato). Gli ingredienti furono subito suggeriti a raffica dai bambini – ovviamente era consentito qualsiasi gusto – e tutte le golosità vennero concentrate in quella “bomba”. Crema, panna, gelato, savoiardi, croccantino, ciliegie candite e molte altre leccornie. Rodari generosamente utilizzò tutti i suggerimenti e la torta fu veramente preparata da tutta la classe. Poi una mattina lo scrittore andò a leggere loro le ultime due righe della storia che auguravano l’arrivo di un giorno in cui «ci sarà un pezzetto di torta per tutti, quando si faranno le torte al posto delle bombe». La maestra Bigiaretti racconta che a quelle parole, le bambine e i bambini, emozionati, scoppiarono in un lunghissimo applauso e quel momento rimase vivissimo in tutti loro.

«La coscienza del dovere che abbiamo di cambiare il mondo in meglio senza accontentarci dei mediocri cambiamenti di scena che lasciano tutto come prima». Bastano queste parole per comprendere lo spessore umano e culturale di Gianni Rodari, che, senza alcun dubbio, appartiene alla letteratura del Novecento.

.

L’articolo di Ilaria Capanna è stato pubblicato su Left 13 aprile 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Perché riscoprire Gramsci fa bene alla scuola

Schoolboys looking at a mural of Antonio Gramsci School children looking at a mural portraying Antonio Gramsci. Orgosolo, 1975

«Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata». Queste frasi non sono estrapolate da uno dei tanti dibattiti sui media a proposito della Buona scuola, né vengono da pedagogisti o intellettuali che ciclicamente discettano sulle sorti dell’istruzione in Italia. L’autore è Antonio Gramsci, che le ha scritte in una nota dei Quaderni del carcere in cui sottolinea l’importanza dello studio del latino e del greco, lingue tutt’altro che morte, anzi formative perché aprono alla riflessione e alla prospettiva storicistica.

Poco più in là Gramsci aggiunge un altro concetto. La scuola che ha come unico obiettivo la preparazione al lavoro, fintamente considerata “democratica”, «è destinata a perpetuare le differenze sociali».
Come si vede, in poche parole si accenna a un nodo cruciale dell’istruzione contemporanea, il dissidio cioè tra due visioni contrapposte: la scuola che forma cittadini dotati di spirito critico e la scuola schiacciata sul mercato del lavoro, di stampo neoliberista. La conclusione è che quest’ultima, la scuola finalizzata al lavoro, non fa altro che perpetuare le diseguaglianze esistenti a livello sociale.

Gramsci ha scritto migliaia di pagine sulla scuola, tra articoli di giornale, note carcerarie e lettere. Eppure questo immenso patrimonio è stato messo da parte, quando non addirittura annullato. L’alone di estraneità che circonda l’autore dei Quaderni investe soprattutto l’aspetto pedagogico del suo pensiero, cioè il nucleo della sua elaborazione teorica. Un unicum. È difficile, infatti, nel panorama italiano, trovare un intellettuale e un politico che abbiano prestato tanta attenzione alla formazione degli esseri umani. Per questo motivo è

Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli hanno scritto per l’Asino d’oro edizioni Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, in uscita il 20 aprile

L’articolo di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Migrazioni: una sfida culturale, politica e scientifica

20070612- LAMPEDUSA - CLJ - IMMIGRAZIONE: 5.347 I RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI NEL 2006. In questa immagine di archivio alcuni immigrati nel CPT di Lampedusa. Sono 5.347 le persone accolte nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) nel 2006, il 20% in piu' rispetto all'anno precedente. Il dato presentato stamani nel rapporto annuale stilato da Anci e Censis che e' stato illustrato al teatro Capranica a Roma. ANSA / ETTORE FERRARI / FRR /DC

Rispetto al tema delle migrazioni umane, «l’evidenziarsi di posizioni diverse e anche contraddittorie, che suscitano confusione in chi cerca di orientarsi, ci ha spinto a cercare di fare chiarezza su alcuni problemi a nostro giudizio fondamentali, derivanti da una serie di idee errate e ingannevoli sulla realtà umana radicate nella nostra cultura che, sebbene spesso nascoste, possono avere contenuti manifestamente razzisti».

Così scrivono le psichiatre e psicoterapeute Rossella Carnevali e Valentina Mancini nell’introduzione alla nuovo numero della rivista scientifica Il sogno della Farfalla in uscita il 16 aprile. Un numero monografico, interamente dedicato, quindi, a un argomento di estrema attualità in diversi ambiti, non solo socio-politici, come quello dei flussi migratori. «Esso infatti – osservano le due curatrici – viene ormai trattato a tutti i livelli, a volte in modo approfondito, più spesso con molta approssimazione, ed è oggetto di ricerca di numerose discipline: politologia, economia, sociologia, antropologia, medicina, filosofia e arte».

Nelle oltre 140 pagine, l’aspetto divulgativo e quello scientifico si fondono, consentendo con un linguaggio preciso, rigoroso e chiaro anche al lettore non “specializzato” di entrare in possesso di una chiave di interpretazione del fenomeno priva di pregiudizi e zavorre culturali. Nell’articolo di apertura, dedicato alla storia della ricerca psichiatrica transculturale, Carnevali e Mancini, raccontano come «i principali autori che si sono succeduti nello studio di tale materia abbiano tentato senza successo di trovare un’universalità nell’eziopatogenesi delle malattie mentali». Le due autrici si interrogano poi sull’effettiva necessità di una «psichiatria etnica», dedicata cioè alle culture diverse dalla nostra.

Nell’articolo seguente, la docente di filosofia Elisabetta Amalfitano spiega come le radici dei pregiudizi nei confronti dello straniero in quanto “diverso”, affondino nella storia del pensiero filosofico e come possano essere divelte. La psichiatra e psicoterapeuta Claudia Battaglia si concentra, a sua volta, sul tema dell’adolescenza, «considerando che in questa delicata fase della vita la condizione di migrante può rappresentare uno specifico fattore di rischio per lo sviluppo di patologie mentali». Lo sfoglio sulle migrazioni prosegue con due interessanti sezioni di interviste: «La prima – raccontano Carnevali e Mancini – è dedicata agli psichiatri impegnati in questo ambito, restituisce un’idea del panorama psichiatrico internazionale; la seconda raccoglie i contributi dei migranti stessi, che raccontano la loro esperienza, le difficoltà e le possibilità di integrazione nella nostra società.

Un altro articolo, basato sulle testimonianze degli operatori che lavorano quotidianamente a contatto con i migranti, fornisce un resoconto diretto delle criticità presenti nel sistema di accoglienza». Nei due interventi conclusivi, il giornalista di Left Federico Tulli esamina la storia delle politiche di accoglienza in Italia, alla luce del contesto europeo, evidenziandone l’impatto sulla vita dei migranti; mentre gli psichiatri Francesco Fargnoli e Domenico Fargnoli, nel loro articolo di cui riportiamo un estratto qui di seguito, «scardinano la comune convinzione che ci sia una correlazione fra immigrazione e terrorismo».

***

Il 14 aprile, la rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla, in occasione dell’uscita del numero dedicato ai migranti, organizza con il settimanale Left il convegno “Migrazione e salute mentale: una nuova prospettiva”. All’incontro partecipano alcuni autori del numero monografico, il direttore della rivista, lo psichiatra Andrea Masini,  la direttrice di Left, Simona Maggiorelli, oltre a politologi, artisti e operatori sociali che si occupano di immigrazione, sia da un punto di vista teorico generale o dell’attualità, sia da quello clinico e pratico della gestione dei problemi concreti connessi all’accoglienza. Teatro Puccini di Firenze, ore 10-17.30; ingresso libero. Info e prenotazioni: [email protected]

Pena di morte, diminuiscono le esecuzioni nel mondo. Gli Usa al decimo posto nella classifica degli omicidi di Stato

Un momento del flash mob di Amnesty International a Piazza del Popolo a Roma contro la pena di morte, oggi, 10 ottobre 2011. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Iran, Arabia saudita, Iraq e Pakistan. In questi quattro Paesi nel 2017 sono state eseguite l’84% delle condanne a morte sommarie nel mondo. Nel complesso, a livello planetario lo scorso anno sia le condanne che le esecuzioni per mano dello Stato sono diminuite. Sono questi i due dati principali che emergono dal nuovo Rapporto di Amnesty international sulla pena di morte nel mondo. Entrando nel dettaglio, le esecuzioni sono state almeno 993 in 23 Paesi, in calo del 4% rispetto alle 1032 del 2016. Il risultato del 2017 diventa ancora più significativo se paragonato a quello del 2015, l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di esecuzioni dal 1989. Lo scorso anno sono state il 40% in meno rispetto a due anni prima (1634).

Per quanto riguarda le sentenze di condanna alla pena capitale nel 2017 sono state 2591 in 53 Paesi diversi, vale a dire 526 in meno rispetto alle 3117 del 2016. Per il secondo anno consecutivo diminuisce dunque anche il numero dei Paesi in cui si condanna a morte: erano 61 nel 2015 e 55 nel 2016.

I dati sin qui elencati sono però parziali e i numeri reali sono sicuramente più grandi. Amnesty infatti sottolinea l’impossibilità di riportare cifre esatte rispetto a quei Paesi in cui la stampa e questo tipo di informazioni sono sottoposte a censura oppure che si trovano in guerra, come Corea del Nord, Laos, Siria, Libia, Malesia, Vietnam, Bielorussia, Yemen e Cina. In particolare «dalle informazioni disponibili, emerge chiaramente che ogni anno in Cina avvengono migliaia di condanne a morte ed esecuzioni». Dal 2009, Amnesty international invita ogni anno il governo di Pechino a rendere pubblici i dati sull’applicazione della pena di morte, ma non ha mai ricevuto una risposta ufficiale perché sono soggetti a segreto di Stato.

I numeri in diminuzione delle condanne e delle esecuzioni note sono inversamente proporzionali a quelli relativi agli Stati in cui la pena capitale non è più presente. A fine 2017 agli Stati abolizionisti si sono aggiunte Guinea e Mongolia, così dai 104 del 2016 si è passati a 106. Se si prendono invece in considerazione anche i Paesi dove la pena di morte è prevista dal codice penale ma non viene applicata da diversi anni, il numero degli Stati in cui non è più presente sale a 142.

«Questi dati confermano l’andamento globale verso l’abolizione della pena capitale» sottolinea l’organizzazione umanitaria. Amnesty osserva inoltre che sono rimasti solo quattro Paesi nel mondo ad applicare sistematicamente la pena di morte. Il problema è che «sono responsabili dell’84% di tutte le esecuzioni registrate nel 2017». Si tratta di Iran, con almeno 507 esecuzioni confermate, Arabia saudita (146), Iraq (125) e Pakistan con 60 esecuzioni confermate. In questa classifica dell’orrore il primo Paese occidentale sono gli Stati Uniti al nono posto, con 23. Insieme al Giappone, gli Usa di Trump sono stati gli unici due Paesi del G8 a eseguire sentenze capitali nel 2017.

Asifa, otto anni. Violentata e uccisa in India perché musulmana. E l’ultradestra indù difende gli accusati

epa06553047 Kashmiri people hold placards during a protest calling for justice in the murder case of 7 year-old Ashifa Bano in Srinagar, India, 22 February 2018. Bano was the raped and murdered in Kathua district of Jammu region in January 2018. EPA/FAROOQ KHAN

Città di Kathua, in Kashmir, India del Nord. È il gennaio 2018. Asifa sta portando in giro i suoi cavalli al pascolo. Ha un vestito viola e otto anni. Un uomo la avvicina e lei lo segue tra alberi e cespugli. Poi uno stupro di gruppo. Poi un omicidio brutale. E Asifa è stata ritrovata morta nella foresta.

La società civile indiana, indignata, è tornata a riempire le strade: per chiedere ancora una volta sicurezza contro la violenza sessuale ai danni di donne e bambini e assicurare gli assassini alla giustizia. Uno dei tre sospetti dell’omicidio di Asifa è un funzionario dell’ufficio delle imposte: Sanji Ram aveva ordinato a suo nipote di rapire la bambina dalla comunità di nomadi musulmani Bakerwal a cui apparteneva, nel distretto induista di Jammu.

La bambina è stata avvicinata, drogata e rinchiusa in un tempio induista. Per quattro giorni è stata ripetutamente violentata più persone. Poi è stata strangolata e ancora violentata. Il suo cadavere è stato abbandonato poco lontano dal tempio, tra gli alberi della foresta, con il vestito sempre viola, ma anche rosso del suo sangue. Era il 17 gennaio scorso.

Le indagini dal giorno della sua morte sono andate a rilento. Anand Dutta, un membro delle forze dell’ordine indiane che si occupava del caso, ha accettato una tangente di seimila dollari per insabbiare tutto. Per eliminare le tracce degli uomini, ha lavato gli indumenti di Asifa. Tentava di cancellare le prove, ha riferito la stessa polizia in seguito. Ora è in manette insieme ad altri otto coinvolti nel crimine. Tutti i sospettati sono induisti. Ma, se una parte dell’India protesta contro di loro, un’altra parte occupa le strade per il loro rilascio.

Se a Delhi donne e uomini chiedono giustizia per la vittima, nel distretto del Kashmir la richiedono per i carnefici. I gruppi della destra induista e l’associazione degli avvocati locali, in seguito all’arresto degli accusati, – tutti membri della loro comunità –, con fuoco e bastoni, non hanno permesso che la polizia depositasse le accuse contro i sospetti, bloccando il loro ingresso alla corte.

Il conflitto nel distretto di Jammu tra induisti e musulmani va avanti da tempo, soprattutto da quando molte delle tribù musulmane sono diventate stanziali. Il funzionario Ram era contro “le colonie” dei nomadi Bakerwals a Kathua e con lo stupro voleva “mandare un messaggio” ai musulmani del territorio. Per Talib Hussain, della comunità locale islamica, «il crimine è stato pianificato per diffondere paura tra i musulmani di Kathua e farli andare via dalle loro case, in una regione prevalentemente induista; la situazione è peggiorata da quando Narendra Modi, il primo ministro indiano, ha vinto le elezioni nel 2014».

«Immaginate cosa passa per la testa di una bambina di otto anni, mentre viene drogata, tenuta prigioniera, violentata da una gang per giorni e poi uccisa. Se non chiedete giustizia per Asifa, appartenete al niente» ha detto lo scrittore e cantante Farhan Akhtar, insieme a centinaia che chiedono adesso in tutto il paese #JusticeforAsifa.

Swati Maliwal, della Delhi commission for women, è entrata in sciopero della fame per chiedere che le indagini facciano il loro corso. Rahul Gandhi, a capo principale partito di opposizione al Congresso, ha partecipato alla marcia di ieri notte nella capitale indiana, dove si reclamava no more shielding of rapist, basta protezione agli stupratori. Chi chiede giustizia per la bambina, vuole giustizia per tutte le donne uccise e violentate in India ogni giorno. Chi difende gli stupratori, fa sventolare nelle sue marce la bandiera indiana e il simbolo del partito nazionalista Bharatiya Janata.

«Lo stupro di Asifa, umanità perduta e ritrovata», titola il quotidiano Greater Kashmir, descrivendo le due nazioni scese in piazza in queste ore. L’incidente sembrava un altro «orribile ed isolato episodio di violenza sessuale in India, perpetuato ai danni di una bambina indifesa da parte di uomini brutali. Ma nei momenti che si sono susseguiti dall’omicidio di Asifa, il caso è diventato l’ultimo terreno di battaglia nella guerra di religione indiana», scrive il New York Times.

«C’è un solo motivo per cui questi uomini accusati di un crimine così macabro hanno il supporto pubblico: come la maggior parte delle persone a Kathua, sono induisti, mentre la ragazza era musulmana» ha scritto Samar Halarnkar su Scroll.in. «Ci sono, nelle vite di ogni nazione, momenti definitivi, soglie e Rubiconi attraversati, linee rosse violate, precedenti stabiliti. Uno di questi momenti avviene oggi in India nel distretto di Kathua nello stato di Jammu e Kashmir».

La resistenza del Quadraro diventa festival

Un’altra data importante, oltre al 25 aprile, è quella del 17 aprile. È il giorno che rimanda ai tristi fatti del 1944, noti come il rastrellamento del Quadraro. Furono 750 i deportati, scovati dai nazisti in un quartiere soprannominato, dagli stessi tedeschi, “Nido di Vespe” per l’odio nutrito nei loro riguardi dagli abitanti, visibile nell’urbanistica del quartiere. Nei dedali di quel territorio, i soldati, su ordine del comandante Kappler, stanarono uomini tra i quindici e i cinquant’anni, violando fortemente la resistenza partigiana romana. Conosciuta col nome in codice “Operazione Balena”, la vigliacca azione militare ebbe, altresì, lo scopo di inviare manodopera in fabbriche chimiche, minerarie o a scavare trincee, in Germania con il noto e triste epilogo. A ricordare quei tragici avvenimenti, avvenuti nel cosiddetto “Quadraro vecchio”, che oggi si estende anche al “nuovo” territorio, al di là della Tuscolana a ridosso di Porta Furba, l’arco che si forma nell’incrocio tra la via in questione e l’acquedotto Felice, un festival per non dimenticare tutti quegli uomini strappati ai loro affetti e alla sana resistenza. Per il settantaquattresimo anniversario, cinque giornate ricche di attività, iniziative, mostre, arte e concerti, dislocati in tutto il territorio dell’attuale V municipio, dal 13 al 17 aprile.
A promuovere l’atteso evento, il centro sociale occupato Spartaco, l’associazione Officina Via Libera, l’associazione Punto di Svista, ASD Quadrato. Con loro tante realtà e altrettanti luoghi, ormai certezze culturali del quartiere, come la Biblioteca interculturale Cittadini del mondo. Tutti confluiti nel logo “Q44”: un’identità che raccorda varie associazioni quando si tratta di commemorare il rastrellamento del Quadrato, con l’obiettivo di mantenere viva la memoria e il significato profondo dell’identità e dei valori antifascisti del quartiere.
Gli appuntamenti sono molti e tutti con uno spessore elevatissimo. Si inizia venerdì 13, con un workshop del Liceo artistico Argan, mentre al Csoa Spartaco, di via Selinunte, ci sarà la presentazione del libro “Sovversive ad Honorem” di Pasquale Grella. Sabato 14, presso la menzionata biblioteca ormai, centro di aggregazione e scambio culturale, sarà visibile la mostra fotografica di Marco Santi. Tra gli altri appuntamenti, anche quello che si terrà presso Moggio Vineria per la mostra “Foto storiche del Quadraro raccontate”, a cura di Riccardo Sansone. Ci sarà martedì 17, giornata conclusiva del festival, la deposizione delle corone alla lapide in memoria dei rastrellati, presso il Parco 17 aprile 1944 di Piazza dei Tribuni. Che siano strade, locali o altri contesti, tutti si prestano, in questi cinque giorni, al ricordo di quella terribile alba, da riportare nei libri di scuola.
A raccontarci di questa iniziativa, con orgoglio e passione, è Maria Anna Tomassini. Archivista e attivista di ogni iniziativa dedicata alla memoria di quel giorno, residente al Quadraro, nonché corista del “QuadraCoro”, coro amatoriale del quartiere, formato da ben 60 elementi, diretti dal maestro Francesco Giannelli, affiancato dalla maestra di pianoforte Sabrina De Carlo. Ad illustrarci il fitto, e variegato, programma è proprio Maria Anna che mi porta, idealmente, in giro per le strade e la storia del quartiere e che alterna il ricordo toccante della maledetta deportazione al racconto delle tante iniziative che animeranno questi giorni. Tra queste, anche l’installazione interattiva che l’artista Ugo Spagnuolo ha creato per l’occasione, che si affianca al murale “Vuoti di memoria”, dallo stesso realizzato, visibile alla stazione della metropolitana di Porta Furba. Non dimenticare è il motto, l’idea che deve accomunare tutti, al Quadraro e tutto intorno, e Anna Maria è orgogliosa di non dimenticare e di non far dimenticare: “Vivo al Quadraro e fin dal primo giorno, per me è stato un tarlo l’idea di dover ricordare; mi sono appassionata a rendere viva la memoria del quartiere. Questa è la borgata ribelle! Io abito in via dei Quintili, in una via tramortita dal rastrellamento; il mio civico risponde, a livello di urbanistica, al nido di vespe: un luogo che proteggeva i partigiani e chi svolse attentati di ogni genere per sabotare i nazifascisti. Entri nel cortile e ti trovi dieci palazzi e non sai dove si entra, c’è proprio l’idea di fuga e di rifugio. Oggi faccio parte del QuadraCoro e il mio impegno, che metto come opera di servizio, mi rende un punto di riferimento per la memoria e la condivisione”.
Nel 2014 Maria Anna, insieme a un’altra componente del coro, Valentina Calderone, hanno realizzato un video-appello con la partecipazione di attori e artisti, come Valerio Mastandrea, Moni Ovadia, per un’altra nobile causa, quella che i noti fatti fossero inseriti nei libri di testo delle scuole e ci sono riuscite: “Questo è il valore vero del collettivo” ribadisce più e più volte Maria Anna!
Quest’anno, il Festival è dedicato a Sisto Quaranta, un deportato scomparso lo scorso ottobre. Uno degli ultimi sopravvissuti.
La cosa straordinaria è che ogni Q44 viene ricordato qualcuno. Purtroppo Sisto Quaranta è morto da poco e noi pensiamo che sia uno degli ultimi “rastrellati”, ma il problema è che non sappiamo quanti sono stati a tornare, non sono mai stati quantificati. Non c’è una vera conoscenza storica, sono sempre stati undici, dodici quelli che si sono esposti sempre, andando nelle scuole. Sisto è sempre stato il più capace a coinvolgere i giovani e le future generazioni. Quando ho comprato casa al Quadraro, ho iniziato subito a interessarmi a questi fatti perché ho conosciuto lui e mi ha detto che voleva che questa storia fosse conosciuta da tutti prima che lui morisse. Sisto denunciava una certa dimenticanza dei fatti del Quadraro, da parte delle istituzioni, perché, lui diceva, è un quartiere proletario, mentre se fosse accaduto ai Parioli se lo sarebbero certamente ricordato! Lui lo dice in modo forte, in un video che fa parte di uno spettacolo teatrale che è stato già portato al Valle occupato.
Si tratta dello spettacolo “Nido di vespe” che porterete di nuovo in scena lunedì 16 aprile.
Sì, presso il teatro Off Off di via Giulia. Nel 2013, quando per la prima volta fu proiettato il video in cui Sisto parla, arrivò tutto l’orgoglio che si può provare a raccontare questo avvenimento. Lui era un grande comunicatore e non si è mai risparmiato. Questo spettacolo, ci tengo a dirlo, è il risultato di una numerosa raccolta di racconti e testimonianze dirette dei rastrellati e dei testimoni di quella tragica alba del ‘44. Il regista e attore protagonista, Daniele Miglio, è il nipote della donna che nel video-appello fa un gesto bellissimo con le mani, che sbattono sul tavolo, per spiegare il rumore dei passi dei nazifascisti. Si tratta di un lavoro preziosissimo anche dal punto di vista storico e della condivisione del valore della memoria, e ha sempre girato nelle scuole del quartiere anche nella sua versione reading, che sabato 14 verrà presentata presso un luogo ideale per bambini e ragazzi, che è “Baracca e Burattini” in via dei Furi.
Le iniziative sono sparse in tutto il territorio del quartiere, nelle scuole o altri locali, ma ha il suo fulcro in Piazza dei Tribuni, dove c’è il mausoleo.
Quello del mausoleo è un giardino che si chiama proprio “Parco 17 aprile 1944”, che, di recente, è stato oggetto di vandalismo e questa cosa non era mai accaduta. Hanno disegnato svastiche, simboli del degrado, come del resto è il fascismo, che è sempre stato figlio del degrado, al pari del razzismo. Le istituzioni da qualche anno sono sempre più assenti, mentre dieci anni fa, almeno fino al 2014, c’era l’orgoglio dell’amministrazione comunale a essere presenti. Addirittura firmammo un protocollo di intesa tra gli, attuali, municipi V e VII, con Zingaretti, perché il 17 aprile fosse equiparato al 25 aprile. Adesso, al degrado del parco in onore dei rastrellati coincide un degrado di valori circa l’importanza dell’antifascismo come valore attuale. L’evidenza su questo parco merita. Le svastiche sono state cancellate in quattro giorni. Avevo subito chiesto proprio a Spagnuolo di cancellarle, ma poi ho avvertito le associazione e abbiamo fatto scoppiare il caso attraverso i giornali. Però ho scritto al presidente del municipio chiedendogli di prendersi come impegno personale quello di tutelare questo parco, che è un’eccellenza. Questo parco va curato ogni giorno.
Tra i molti contributi, appunto la possibilità di ammirare le opere di Ugo Spagnuolo che mantengono vivo il ricordo. Lui lo ha fatto in due modi originalissimi.
Sì, oltre al murales, ci sarà un’altra opera che verrà presentata il 17 aprile, in concomitanza con il concerto del QuadraCoro all’Istituto J. Piaget Diaz di via Diana. È un’opera anche sonora. Si vede questa bottiglia inserita in un marchingegno di cavatappo che ha dentro un piccolo registratore che elenca le 750 persone rastrellate. Un vero e proprio appello di tutti i nomi dei rastrellati, che sono stati presi dall’elenco di don Gioacchino Rey, che sta nelle ultime pagine del libro di Walter De Cesaris, “La borgata ribelle”. Rappresenta il primo atto di memoria del rastrellamento che è avvenuto qualche giorno dopo lo stesso, grazie a questo prete, che comunque era antifascista, e che ha cominciato a trascrivere i nomi di quelli che erano stati presi, con via, numero civico. È un primo atto di memoria, un documento importantissimo. Questo elenco, quando lo si ascolta, è un flusso, come una nenia, ma si può interrompere e a quel punto si ascoltano dei cori che inneggiano al “mi ricordo”. Francesco Giannelli e Ugo Spagnuolo si sono messi insieme a realizzare questa parte sonora: una drammatizzazione che fa tremare la voce ed emozionare tanto.
Con il QuadraCoro attingerete al vostro prezioso repertorio che contiene una canzone dedicata a questa giornata.
Eseguiremo otto brani e sì, anche la canzone che si intitola proprio “17 aprile 1944” ed è tratta da una poesia di Aldo Poeta, mentre la musica è del nostro direttore. Aldo Poeta era un comunista di quelli che hanno fatto tanto per il Quadraro e la sua poesia la si può trovare all’interno del libro di De Cesaris. Un libro importante, il primo che raccontò nel dettaglio, e con moltissime testimonianze, la storia del rastrellamento, senza tralasciare il contesto storico nel quale avvenne questa terribile azione per mano dei nazifascisti guidati dal comandante Herbert Kappler, “er maledetto” come lo definì Aldo Poeta nella sua poesia “17 aprile 1944 Unternehmen Walfisch-Operazione Balena (Li mortacci loro)”.

Il link per consultare il programma di Q44 Festival della memoria e della resistenza del Quadraro è: https://q44alquadraro.wordpress.com/2018/04/01/q44-2018/#more-80

nella locandina una foto di i Sisto Quaranta uno dei pochissimi rastrellati che  poté tornare a casa, scomparso l’anno scorso

 

Tra 8 per mille e esenzione Ici, quei privilegi fiscali che fanno la fortuna della Chiesa

Volete sapere che fine fa il vostro 8 per mille? La Uaar, Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, ha lanciato la campagna Occhiopermille, il cui scopo è informare gli italiani sul malfunzionamento della ripartizione dell’8 per mille. La stessa campagna viene portata avanti ogni anno dal 2007. La Uaar si fa carico di informare i cittadini sull’argomento in quanto, come aveva segnalato già la Corte dei conti nel 2014: «scarsa è l’informazione posta in essere dalle amministrazioni su tale peculiare modalità di attribuzione» si legge nella relazione della corte sul sistema dell’8 per mille. Concetto ribadito anche nella relazione del 2016, sempre della Corte dei conti, le cui conclusioni sono quasi immutate rispetto a quella di due anni prima .

L’8 per mille è il modo con cui lo Stato finanzia le confessioni religiose, ed è stato istituito nel 1985, in sostituzione della “congrua”, cioè la somma che lo Stato italiano versava alla Chiesa cattolica come risarcimento dei beni confiscati allo Stato vaticano e per il mantenimento dei preti. Come fanno notare sia la Uaar che la Corte dei conti, il metodo di attribuzione dell’8 per mille non è di immediata comprensione. Nella relazione della Corte, il sistema dell’8 per mille viene definito così “peculiare” che perfino «i cittadini – anche dotati di diligenza media – possono essere indotti a ritenere che solo con una scelta esplicita i fondi vengano assegnati».

E invece non avviene così. Come funziona quindi l’8 per mille?
Quando si compila la dichiarazione dei redditi, si può decidere di destinare appunto l’8 per mille della propria quota Irpef incassata dallo Stato ad una confessione religiosa o allo Stato stesso. Fin qui nulla di strano, ma se si decidesse di lasciare vuoto il campo dell’8 per mille nella dichiarazione dei redditi? In tal caso, la quota viene assegnata lo stesso e proporzionalmente in base alle scelte di chi invece ha deciso la destinazione della propria quota. Il grafico qui sotto fa chiarezza su questo meccanismo.

Grafico della percentuale di ripartizione tra le diverse confessioni religiose e lo Stato dell’8 per mille

A sinistra, le scelte contenute nelle dichiarazioni di reddito del 2013, consultabili sul sito del ministero di Economia e finanza. A destra, la ripartizione delle quote nel 2017. Come si vede, più dell’80% dell’8 per mille finisce alla Chiesa cattolica. L’8 per mille può sembrare una cifra irrisoria, ma è stato calcolato che si aggira attorno ad un miliardo di euro.

È evidente che questo metodo di ripartizione favorisce la Chiesa cattolica, ma non è l’unico problema.
Nella sua relazione del 2014, la Corte dei conti boccia in toto il sistema dell’8 per mille. Nato per garantire il sostentamento del clero, col passare degli anni «il flusso di denaro si è rivelato così consistente da garantire l’utilizzo di ingenti somme per finalità diverse, non finanziate, in precedenza, con le risorse statali» si legge nel rapporto. Questo flusso di denaro ha portato ad un «rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana». «Le difficoltà di autofinanziamento della Chiesa cattolica non possono gravare sulle finanze pubbliche» continua la Corte, e aggiunge inoltre che «le risorse provenienti dall’8 per mille non possono essere intese come l’assicurazione di una sorta d’impegno dello Stato a provvedere alle necessità della Chiesa». La stessa relazione non usa mezzi termini quando si tratta di andare nel merito dei problemi di questo sistema, definito opaco nella raccolta, ripartizione ed erogazione. Mancano inoltre verifiche sull’utilizzo che viene fatto dei fondi, ci sono carenze nelle rendicontazioni e non esiste alternativa per il contribuente che vorrebbe destinare una parte della propria imposta a fini sociali ed umanitari, pur senza finanziare nessuna particolare confessione religiosa. L’intero sistema agisce «in violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione». Come se non bastasse, la relazione fa notare che i fondi destinati alla religione sono «gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati».

Non c’è però solo critica nel rapporto della Corte dei conti: l’8 per mille viene confrontato con il 5 per mille, che risulta «più rispettoso dei principi di proporzionalità, di volontarietà e di uguaglianza», «più inclusivo e democratico».

C’è poi un’ultima criticità nell’8 per mille segnalata dalla Corte: la mancanza di «controlli sulla correttezza dell’agire degli intermediari», in particolare quelli «collegati ad alcuni beneficiari». Già nel 2014 la Uaar aveva messo in dubbio la correttezza proprio di alcuni intermediari, riportando la testimonianza di un contribuente che aveva deciso di destinare otto e cinque per mille rispettivamente allo Stato e alla Uaar. Ricontrollando la copia della dichiarazione che gli era stata rilasciata dal centro di assistenza fiscale a cui si era recato, ha però notato che il suo 8 per mille risultava a favore della Chiesa cattolica, mentre la destinazione del 5 per mille era stata riassegnata alla onlus Operatori di misericordia, sempre associata alla Chiesa cattolica.

A sinistra, il modulo che era stato compilato al Caf. A destra, la copia consegnata al contribuente con i campi alterati

Tornato al Caf, il contribuente ha poi fatto correggere l’errore, tra l’imbarazzo e le scuse dell’operatore, che ha comunque pubblicizzato la onlus cattolica. La Uaar esprime inquietudine ed un certo sospetto riguardo al supposto “errore”, in quanto l’Associazione cristiana lavoratori italiani e il Movimento cristiano lavoratori gestiscono centinaia di Caf e sono anche tra le maggiori destinatarie del 5 per mille.

C’è poi un’altra questione che riguarda da vicino la Chiesa cattolica: l’imposta comunale sugli immobili, l’Ici. A riguardo si è pronunciato l’avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, il belga Melchior Wathelet. Wathelet ha raccomandato alla Corte di giustizia di capovolgere un precedente sentenza del Tribunale Ue con cui si esentava lo Stato italiano dal dover recuperare l’Ici non pagata dalla Chiesa.

Fino ad oggi la Chiesa è riuscita a non pagare l’Ici grazie ad una sentenza del 2016 in quanto, sebbene si tratti di un aiuto di Stato illegale da parte dell’Italia nei confronti della Chiesa, la corte aveva riconosciuto l’impossibilità da parte dello Stato italiano di riuscire a stimare con precisione l’importo che la Chiesa dovrebbe versare. Secondo l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, la Chiesa deve alle casse dello Stato italiano una cifra che si aggira tra i 4 e i 5 miliardi. Per Wathelet, per quanto difficile sia arrivare ad una stima precisa, questo non giustifica una deroga alle norme sugli aiuti di Stato.

Tutto comincia nel 2006 con una serie di denunce, tra cui quella della scuola Montessori e di un bed and breakfast, pervenute alla Commissione europea. Dopo una serie di indagini, nel 2012, Bruxelles pubblica un documento in cui chiarisce: il «sistema italiano di esenzioni all’Ici concesse a enti non commerciali per scopi specifici tra il 2006 e il 2011 era incompatibile con le regole Ue sugli aiuti di Stato», ma allo stesso tempo «non deve essere disposto il recupero dell’aiuto, avendo l’Italia dimostrato l’impossibilità assoluta di darvi esecuzione».

Nel 2013, la scuola e il B&b presentano allora un ricorso al Tribunale Ue e tre anni dopo viene respinto. A quel punto i denuncianti si rivolgono alla Corte di giustizia Ue, la più alta corte europea, di cui ora attendiamo la sentenza.

Tutta questa fatica per diventare Salvini, il cameriere di Berlusconi

Vedrete che non basterà nemmeno questo per convincere i salviniani più duri e puri. Nemmeno la scenetta goffa, patetica e bassissima che ieri è avvenuta davanti ai giornalisti assiepati fuori dall’ufficio del presidente della Repubblica in cui Silvio Berlusconi, con fare da padrino più che da padre, ha voluto interpretare la figura dell’anima nobile di un centrodestra che nei fatti non è mai stato una coalizione eppure continua a simulare unità, consapevole di essere uno sgangherato gruppo di partiti che da soli conterebbero come il due di bastoni con la briscola a coppe. Berlusconi ha introdotto il discorso di Salvini (recitato con la convinzione di un bambino intento a proferire la poesia natalizia) e ha poi voluto prendersi la scena in coda alla conferenza stampa per lanciare strali (sempre con la sicumera del vecchio zio un po’ rimbambito) contro il Movimento 5 Stelle.

Il senso del suo discorso, tanto per sintetizzare, è che i grillini non dovrebbero permettersi di chiedere che lui venga messo da parte: non sia mai che si dica che Berlusconi è un corrotto (sentenza passata in giudicato), amico della mafia con Marcello Dell’Utri come tramite (sentenza passata in giudicato) e salvato da qualche processo grazie alle sue stesse leggi.

Ciò che conta però non è tanto Berlusconi che continua a fare il Berlusconi ma piuttosto il Salvini che ci ha messo tutto questo tempo a diventare l’autoritario, autonomo e indipendente leader di una coalizione in cui alla fine si ritrova ancora una volta ad essere il patetico portaborse. Successe a Bossi, dipendente di Berlusconi, poi successe a Maroni e ora tocca a Salvini. Tutti questi anni a fare il duro per poi vederlo scodinzolare di fronte al padrone Silvio.

Buon venerdì.