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A scuola da Gramsci

«I clericali parlano spesso e volentieri di libertà della scuola. Ma non si ingannino i lettori. La parola libertà acquista nelle loro bocche un significato tutto suo che non coincide affatto col concetto che della libertà possono avere gli uomini pensanti che non sono clericali». Così scriveva Antonio Gramsci il 13 aprile del 1917 nell’articolo I privilegi della scuola privata che ora si può leggere anche nella agile raccolta di scritti gramsciani Odio gli indifferenti (edita da Chiarelettere).

Sono passati più di cent’anni e quelle parole di Gramsci suonano più attuali che mai.

Soprattutto riguardo all’urgenza di una scuola pubblica, democratica, gratuita e laica, che trasmetta ai ragazzi passione per la conoscenza, che li stimoli a sviluppare un proprio pensiero critico, libero, autonomo. Su questo tema hanno scritto pagine molto importanti Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, autori di Gramsci per la scuola, in uscita per L’Asino d’oro edizioni, di cui proponiamo una anticipazione che aiuta a leggere in profondità i problemi della scuola italiana oggi.

Ma torniamo ancora per un attimo alla viva voce di Antonio Gramsci, che in quello scritto Per la libertà della scuola e per la libertà di essere asini (questo era il sottotitolo) denunciava senza infingimenti: «Libertà della scuola significa propriamente per i clericali libertà di essere asini col godimento di tutti i diritti che sono riconosciuti a chi ha studiato».

La formula: “Per la libertà della scuola” – spiegava il pensatore e politico – «è una bandiera che copre, o dovrebbe coprire, una lucrosissima speculazione economica e di setta». Allora come oggi: «Le scuole private clericali sono floridissime in Italia. Nessuna legge ne inceppa lo sviluppo e la libera esplicazione. Esse possono fare la concorrenza che vogliono alla scuola di Stato»… Poiché «lo Stato riconosce il diritto di comprare la merce istruzione dove si vuole… Ma la merce istruzione vale poco in Italia, quantunque costi discretamente». Poco dopo Gramsci precisa: «Abbiamo usato un linguaggio economico appunto per mettere meglio in vista il fatto che la questione per cui si agitano i clericali è prettamente economica. Essi vorrebbero vendere allo Stato quanta più merce avariata possono. Vorrebbero conquistare una libertà che sarebbe solo un privilegio per loro, un privilegio per gli studenti che frequentano le loro scuola, a danno della collettività».

Allora come oggi. Drammaticamente.

Per l’involuzione che ha subito la scuola pubblica, causata da continui tagli (e al tempo stesso regalie milionarie alle scuole confessionali), da infauste politiche neo liberiste, e innumerevoli e dannose riforme, che hanno umiliato le competenze degli insegnanti e svuotato di contenuti i programmi. A cominciare dalla riforma stilata da Luigi Berlinguer che sancì l’autonomia scolastica e sdoganò le paritarie private, con la legge 62/2000. Da qui indirettamente si aprì la strada a ciò che – via Moratti, Gelmini e Renzi – è diventata la scuola oggi. Con presidi “capo azienda”, alternanza scuola lavoro, e l’istruzione trattata come una merce qualsiasi. Nel gennaio scorso abbiamo dedicato una storia di copertina a questo tema, proponendo l’abolizione della Buona scuola di marca renziana. Speravamo che potesse diventare argomento centrale di discussione pubblica durante la campagna elettorale. Così non è stato.

Ma non ci arrendiamo. Insieme ai promotori della legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione (Lip) rilanciamo la proposta oggi, con determinazione, certi che la scuola sia il cuore pulsante della società, il settore cruciale su cui investire per uscire dalla crisi, che in Italia non è solo economica, ma politica e culturale. Con questa nuova cover story a più voci – realizzata con la collaborazione di insegnanti, pedagogisti, ricercatori, giornalisti e attivisti – non ci limitiamo alla pars destruens ma avanziamo una proposta concreta invitando a rileggere Gramsci, per ripartire dalle sue idee sulla scuola rimaste inattuate e dal concetto chiave di egemonia culturale. Lo facciamo in un momento cruciale, mentre l’anno scolastico volge al termine (in tutti i sensi) con le prove Invalsi; mentre i principali partiti, persi in una parossistica ridda di alleanze, offrono il quadro desolante di un vuoto assoluto di proposta politica. In questo immobilismo, però, il dimissionario governo Gentiloni ha trovato il modo di fare ulteriori regali alla Chiesa: schierandosi in difesa del codice Rocco di epoca fascista (nel processo che vede imputato Marco Cappato per aver aiutato Dj Fabo) e regalando altri soldi alle scuole private. Tra gli ultimi atti del Miur guidato dal ministro Valeria Fedeli, infatti, c’è il decreto del 22 marzo che assegna nel 2018 alle scuole paritarie quasi 500 milioni di euro. Lo stesso governo, nel 2017, ne aveva stanziati 570.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Jeremy Corbyn avverte Theresa May: «Niente attacchi in Siria, basta con le stragi»

epa06656894 Labour Leader Jeremy Corbyn delivers a speech during Labour's local election campaign launch in London, Britain, 09 April 2018. Local government elections are scheduled for 03 May 2018 with all London boroogh councillor seats to be elected. EPA/ANDY RAIN

Dove il conflitto non è mai finito, ci si prepara ad una nuova escalation di violenze. Ma c’è chi vuole che rimanga fredda, la guerra tra Russia e America over the skies of Syria, nei cieli sopra la Siria, e ritiene che sia giusto attendere. Che servano indagini, inchieste, prove. Il leader labour Jeremy Corbyn chiede al suo Paese di non intervenire nel massacro siriano. La soluzione è nei tavoli e colloqui diplomatici, non nelle bombe.

Corbyn “il rosso” respinge l’idea degli attacchi aerei in preparazione nella capitale, tutte le controparti coinvolte nel conflitto regionale devono sedere around the table, allo stesso tavolo dei negoziati a Ginevra per trovare una soluzione politica, non militare, alla guerra di Damasco.

Mentre a Downing street si riunisce il war cabinet e Consiglio nazionale di sicurezza, – gabinetto britannico, al quale partecipano esperti dell’intelligence e vertici militari, richiamati per emergenza dalle vacanze pasquali -, Corbyn dichiara: «Aspettate le Nazioni unite, aspettate di sentire cosa ha da dire il segretario generale Onu, cominciate l’inchiesta sulla fonte e l’uso delle armi chimiche ma soprattutto, fate sedere ogni Paese coinvolto, compresi i confinanti, attorno al tavolo dei negoziati a Ginevra, per una soluzione politica. Non possiamo permettere che muoiano a centinaia di migliaia e altri milioni diventino rifugiati».

Per la May, l’attacco con armi chimiche a Douma – del cui utilizzo sono accusate le truppe di Assad -, non può rimanere unchallenged, incontrastato, e il Paese lavora «con i suoi più vicini alleati», con Trump e Macron, America e Francia. Come il presidente francese, la premier è ready to act, pronta ad gire, con l’Europa che entra in guerra. Alla May, Corbyn chiede che sia la maggioranza a decidere e non lei, che si metta ai voti l’azione militare, che il governo non scelga da solo sull’intervento: «Il Parlamento dovrebbe sempre dire la sua sulle azioni militari, c’è bisogno di un processo politico».

Sopra la terra e sotto. I sottomarini della Marina reale britannica, armati di missili da crociera, si stanno muovendo, come la Raf alla base di Cipro, ad Akrotiri, riferiscono fonti militari ai media britannici. Non solo Corbyn. Anche Julian Lewis, capo del Defence select committee, ha dichiarato che «quando si contemplano interventi militari in conflitti altrui, il Parlamento va consultato prima. In Siria nessuno merita il nostro supporto». Ma le parole non fermano il volo dei caccia.

«Quello che è accaduto è terribile, ma non vogliamo un bombardamento», ha detto ancora il leader labour contro questa escalation. Corbyn si era già opposto all’intervento in Siria nel 2015 contro lo Stato islamico. Oggi la bandiera del “rosso” rimane bianca: «Bombardamenti aerei non hanno fermato questi attacchi in precedenza, non daranno in futuro una soluzione a lungo termine per mettere fine alla guerra».

Dipendono ma non sono dipendenti

La protesta dei 'riders' di Foodora, i ragazzi che consegnano il cibo a domicilio, davanti alla sede torinese. Torino, 10 ottobre 2016. ANSA/ AMALIA ANGOTTI

Sono tracciati in ogni loro movimento. Il datore di lavoro ha un controllo totale sugli orari e può modificarli senza preavviso. Se qualcuno di loro ha dei problemi fisici si sente rispondere dal suo responsabile che gli dispiace ma non può fermarsi. Ovviamente non c’è nessun diritto alla malattia. Se qualcuno di loro risulta troppo lento può capitare che si senta dire “sei lento, sei più lento delle femminucce”. Non timbrano ma devono fare il “login” all’interno dell’app. I padroni delle aziende per cui lavorano si sforzano di convincerci di avere “inventato” un lavoro “agile e con il sorriso” mentre invece i fattorini fanno uno dei mestieri più antichi del mondo.

Sono dipendenti nel senso 2.0: dipendono in tutto e per tutto dall’algoritmo e dalle decisioni dei capi (che incitano la delazione interna in cambio di un progresso di carriera) ma non hanno diritti. I nuovi dipendenti della “new economy” (su cui anche una certa sinistra sembra avere perso il senso della misura)  sono allevati così bene che trovano incredibile rivendicare diritti.

Così ieri i sei rider di Foodora che sono stati “licenziati” (ma non è un licenziamento vero, perché non è un lavoro vero, secondo la legge) dopo avere protestato per la paga troppo bassa in tribunale a Torino hanno capito che la simpatia e la disponibilità non hanno valore legale. E chissà che qualcuno oggi non cominci a pensare che per questo servirebbero contratti seri con diritti seri e magari anche intermediari (quei sindacati che oggi quasi tutti osteggiano) che vigilino sui rapporti di lavoro. E chissà che magari anche qui da noi la politica cominci a rendersi conto (a destra e a sinistra) che quando qualcuno parla di “nuove professioni” è urgente fare due cose subito subito: capire che non siano le vecchie professioni travestite con meno diritti e, in caso contrario, sapere che servono nuove leggi. Politica, appunto.

Buon mercoledì.

Scuola, democrazia a rischio

Presidio di studenti contro il DDL ''Buona Scuola'' sotto la sede del PD, Roma 5 Maggio 2015. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Piange di rabbia, Francesca. Nonostante siano passati ormai otto mesi, lo sconforto resta immutato. Dopo aver dedicato una vita intera all’arte e al suo insegnamento, dopo aver vagato per anni nelle scuole del tarantino vittima di un asfissiante precariato, ritrovarsi oggi a essere inserita come insegnante di sostegno lascia senza parole. «Me l’hanno comunicato qualche settimana prima dell’inizio dell’anno scolastico – racconta – senza che avessi alcuna formazione nel sostegno. L’unica preparazione che hanno dato, a me e a chi era nella mia stessa condizione, è stato un corso di aggiornamento. Come se per prendersi cura dei ragazzi più difficoltosi bastasse questo».

Adele, invece, insegna a Frosinone. Qualche mese fa, lascia un commento critico su un blog contro la riforma scolastica del governo Renzi. Una sua collega lo stampa e lo consegna alla dirigente scolastica, che sospende per alcuni giorni Adele. La vicenda viene denunciata anche in un’interrogazione parlamentare. Il ministro Valeria Fedeli però ha preferito non rispondere. A Carpi, invece, protagonista è uno studente. La sua colpa? Quella di aver usato in un post su Facebook parole perplesse rispetto all’alternanza scuola-lavoro per la quale stava svolgendo uno stage presso un’azienda. La risposta è stata un sei in condotta.

Facce diverse di una stessa medaglia, quella della Buona scuola. «Prima di Renzi uno studente non sarebbe mai stato punito per un commento su Facebook», spiega il segretario dell’Unicobas, Stefano D’Errico. «Ma è anche vero che la legge 107 chiude un ciclo. Renzi ha portato a termine un percorso trentennale di distruzione sistematica della scuola, operato sia dal centrodestra che dal centrosinistra». Nel 1993, ricorda D’Errico, con la cosiddetta «privatizzazione del pubblico impiego», l’allora governo Amato definisce il dirigente scolastico «datore di lavoro». Il primo passo verso l’aziendalizzazione della scuola. «Da decenni – spiega Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil – il principio che si segue è che un mercato senza regole governi tutto, in un’ottica profondamente neoliberista. E Renzi ha confermato questo piano ideologico». Il risultato è stato un fallimento su larga scala, con una precarizzazione sempre più diffusa e una mancanza di democrazia interna.
Eppure, come spiega Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda, «uno degli obiettivi era quello di ridurre il precariato». Ma, invece di…

L’inchiesta di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola


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Alla scoperta dell’antenata dell’aspirina. Viaggio nel Belpaese dei rimedi medicinali

È iniziato tutto a Roma. Con più precisione, a Trastevere. Ad essere proprio puntuali, all’interno di una botte, conservata in un antico laboratorio ospitato da una chiesa del rione. È un tiepido autunno romano e una ricercatrice inciampa in questo contenitore di marmo e ottone, custode dell’ultimo residuo al mondo di un farmaco messo a punto da Andromaco il vecchio, medico di Nerone. Si chiama “teriaca” ed è una panacea miracolosa. La sua ricetta, giunta sino a noi grazie al passaparola, per oltre due millenni ha dato sollievo a donne e uomini affetti dalle malattie più disparati e fino a pochi anni fa era richiesta e somministrata. Considerata l’antenata dell’aspirina, la teriaca è composta da 51 elementi (compresa la vipera!) e di norma veniva miscelata in pubblica piazza il 24 giugno di ogni anno.

La scoperta sorprende ed entusiasma la ricercatrice. Quali altre ricette, formule, parole, pozioni e riti di guarigione tramandati nei secoli continuano a vivere e a essere praticati nel nuovo millennio? Il contenuto della botte e il suo odore inebriante diventano l’ispirazione per un lungo viaggio, dalla Val d’Aosta alla Campania, sulle tracce di chi conserva tradizioni e conoscenze antiche, mantenendo intatti i significati del passato e arricchendone i contenuti grazie all’utilizzo delle moderne tecnologie.

Così da una ricerca durata circa due anni emergono conoscenze, storie, saperi connessi alla salute e al benessere degli esseri umani che si tramandano da secoli, quasi esclusivamente per tradizione orale. Sono ricette, preghiere e formule “magiche” che hanno impreziosito la cultura e le tradizioni dell’Italia, sopravvivendo al corso della storia ufficiale grazie alla capacità di rotolare di bocca in bocca, di adattarsi, di trasformarsi e – quando necessario – di nascondersi per ricomparire nel momento opportuno.

La ricerca è oggi raccolta in una piattaforma multimediale: sei puntate radiofoniche, realizzate dagli audio documentaristi  Marco Stefanelli e Andrea Cocco (con Marzia Coronati autrice di questo pezzo ndr) e musicate da Dario Coletta, decine di fotografie di luoghi e personaggi, scattate da Cristina Panicali, Gabriele Lungarella e Noemi De Franco, interviste extra, bibliografia e sitografia per approfondire, il tutto disponibile in un sito: ilterzopaesaggio.com, un progetto reso possibile dall’associazione Sabrina Sganga e dal contributo dell’associazione Wwoof.

Perché “Il terzo paesaggio”? La definizione è presa in prestito da uno scrittore e giardiniere francese, Gilles Clement, che ha dedicato interi libri all’elogio delle piante spontanee, quelle che secondo lui costituiscono un terzo paesaggio, un luogo dove la natura può sfuggire ancora per un po’ al progetto umano… Come le erbe incolte, così anche la storia raccontata c’è da sempre, è fondamentale per lo sviluppo dell’umanità, è costituita di fibra forte e tenace.

Ascoltate le puntate e approfondite. È possibile che al termine dell’indagine anche i più sospettosi di voi arrivino a intuire che queste conoscenze dalla lunga storia, a un primo sguardo quasi primitive, potrebbero convivere con le nozioni scientifiche di oggi, innescando un processo fruttuoso per la salute tutta.  «Il problema – ha spiegato l’antropologo Tullio Seppilli, forse il più grande studioso italiano in materia, discepolo di Ernesto De Martino – non è di contrapporre un’altra medicina a quella ufficiale, ma di allargare gli orizzonti della medicina ufficiale […]. Il modo in cui il sistema nervoso centrale arriva alle varie parti degli organismi con i suoi stimoli è ormai un problema di anatomia e fisiologia, non più un fatto misterioso da negare per chissà quale paura».

Il primo effetto dell’intesa tra M5s e Lega nord? Affossata la riforma penitenziaria

20060727 - ROMA -POL- INDULTO: SI' DELLA CAMERA CON I 2/3, IL TESTO VA AL SENATO- IL carcere di Rebibbia a Roma. IL provvedimento e' stato approvato con la maggioranza richiesta dalla Costituzione. I voti a favore sono stati 460, quelli contrari 94, 18 gli astenuti. Ora il testo va in Senato. Di MeoAnsa -PAT

«Il Parlamento sembra aver dimenticato del tutto che lo Stato italiano sia stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti», questa la dura accusa lanciata dall’ex deputata del Partito radicale Rita Bernardini, in seguito alla mancata inclusione della riforma carceraria tra i temi da trattare nelle commissioni speciali di Camera e Senato per gli atti urgenti di governo. A votare contro la discussione dei decreti della riforma sono stati M5s, Lega, Fi e Fdi.

Il compito delle commissioni speciali è quello di occuparsi degli atti del governo, in attesa che si chiarisca la composizione di maggioranza e opposizione parlamentari, e possano dunque insediarsi le commissioni permanenti. Al Senato, l’organo è presieduto da Vito Crimi, senatore M5s, mentre per la carica omologa alla Camera i pentastellati avevano espresso la volontà di convergere su un nome della Lega nord, e le indiscrezioni danno come favorito il leghista Nicola Molteni (fino a martedì, il favorito era Giancarlo Giorgetti).

Le commissioni si sarebbero dovute limitare a fornire un parere obbligatorio ma non vincolante sulla riforma, che sarebbe poi tornata in mano al governo, che avrebbe potuto approvare definitivamente il testo, esercitando  così la delega fornita dal Parlamento.

«Ai fautori di “più gogna per tutti” – continua Bernardini – in nome della “sicurezza”, ricordo che la pena da infliggere ai colpevoli non deve essere esclusivamente il carcere che crea recidiva; si possono prevedere altre misure. Misure alternative che sono più efficaci per un futuro reinserimento sociale». Bernardini sottolinea come la necessità dell’introduzione di pene alternative, come previsto dalla riforma, sia supportata da diversi studi e raccomandata anche dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (un’organizzazione sovranazionale separata dall’Ue, ndr) che «in un pronunciamento del 2017, prevedeva espressamente che il diritto interno di ogni Paese comunitario persegua la riduzione del ricorso alle pene detentive in carcere, attraverso la disciplina di sanzioni e misure che non privino il soggetto della libertà personale».

Ma per Bernardini, e per tutti coloro che hanno manifestato il proprio impegno per l’approvazione della riforma, come l’Unione delle camere penali italiane, giuristi, associazioni e gran parte della comunità penitenziaria, la battaglia non finisce qui. La promessa, lanciata da Bernardini, è quella di continuare a presentare ricorsi e dossier alle corti italiane ed europee, per denunciare la sistematica violazione dei diritti umani nelle carceri italiane.

Anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, è intervenuto sulla questione: «Negare un passaggio meramente consultivo finale – ha detto – che non prevede possibilità di intervento di merito denota una disattenzione grave rispetto all’ampio mondo di coloro che tale provvedimento da tempo attendono». Il garante esprime amarezza per la decisione della commissione, e fa notare come anche l’Europa avesse lodato l’iniziativa della riforma: «L’Europa, pur partendo da una prospettiva di sanzione nel 2013 per condizioni detentive irrispettose della dignità della persona, è giunta a riconoscere i passi che l’Italia ha compiuto per sanare tale grave criticità». Ma, con tale decisione, il Parlamento esprime la volontà di interrompere questo percorso, col rischio che la riforma finisca nel dimenticatoio.

La scuola sempre più abbandonata negli Usa. In rivolta gli insegnanti in Oklahoma

OKLAHOMA CITY, OK - APRIL 9: Teachers continue their strike at the state capitol on April 9, 2018 in Oklahoma City, Oklahoma. Thousands of teachers and supporters continue to rally at the state Capitol as Oklahoma becomes the latest state to be plagued by teacher strife. Teachers are walking off the job after a $6,100 pay raise was rushed through the Legislature and signed into law by Gov. Mary Fallin. (Photo by J Pat Carter/Getty Images)

Centodieci miglia a piedi per protesta, da Tusla a Oklahoma City. It’ s for the kids, don’t give up. È per i ragazzi, non mollate: 125 insegnanti americani hanno marciato per sette giorni no stop, quando si sono accorti che i fondi statali non sarebbero stati stanziati. Né per loro, né per i loro studenti. Né per le loro scuole, né per le loro famiglie. E allora tutti i professori d’Oklahoma hanno iniziato a scioperare.

Sedie vuote, in aule vuote, in classi vuote. In Oklahoma non si va a scuola. Molte rimangono chiuse da due settimane nei più grandi distretti della regione per il walkout, lo sciopero selvaggio indetto dai professori per carenza di fondi assegnati. È la seconda settimana che i teachers fanno pressione ai legislators per ottenere più finanziamenti per progetti scolastici e per l’aumento dei loro salari.

Secondo il Bureau of Labor Statistics, gli insegnanti dello Stato del centro sud degli Usa vengono pagati 20mila dollari in meno rispetto alla media degli insegnanti del resto della nazione. L’ultimo aumento approvato ammontava a 6.100 dollari annui, ma per i professori non è abbastanza: ne richiedono almeno 10mila, quanto basta per non doversi trovare un doppio lavoro. Il salario degli insegnanti in Oklahoma è il terzo più basso nel Paese: solo in Mississippi e South Dakota i professori guadagnano di meno. Nel loro Stato classi troppo numerose sono state accorpate in aule che vanno in pezzi, come le edizioni obsolete e non aggiornate dei libri di testo. Tutto è “unfit for learning”, tutto è inadatto ad imparare.

Secondo il report del Center on Budget and Policy Priorities, lo Stato americano ha tagliato mille dollari di finanziamento per ogni studente negli ultimi nove anni, ovvero il 28 per cento; dopo aver dimezzato le tasse per le compagnie petrolifere e del gas, i legislatori hanno ridotto il fondo destinato all’educazione. Nel resto d’America 29 Stati per i loro studenti hanno stanziato nel 2015 meno fondi che nel 2008.

Seguendo l’esempio dei colleghi in Arizona, Kentucky, West Virginia, – dove i salari dell’anno scolastico 2016/17 sono stati più bassi di quelli del 1999/2000 -, gli insegnanti di Oklahoma city hanno deciso di scioperare «perché siamo lavoratori dello Stato, ma lo Stato lavora contro di noi». E quando torneranno in aula non è chiaro.

Tornando alla “march for education”, ad Oklahoma City hanno partecipato almeno 50mila persone.  Alicia Priest, del sindacato degli insegnanti e presidente dell’associazione per l’educazione in Oklahoma, ha detto: «gli insegnati sono qui, i genitori sono qui, la comunità è qui fuori, perché pensano che le cose possano cambiare. The “momentum” is on our side, è dalla nostra parte».

La Sarabanda postcomunista di Nina e le sue amiche

Nina ha 33 anni, è una ragazza dolce, malinconica, ironica, a tratti triste, una ragazza viva. Suona la viola e con le parole e la sua musica ti porta in posti lontani della sua memoria. Irida Gjergji anche lei ha 33 anni, suona la viola e attraverso Nina riesce ad andare in quei posti lontani della memoria. Irida è nata nell’Albania comunista. Tra i suoi ricordi d’infanzia ci sono i balletti di Stravinskij che guardava in tv, il caos dopo la caduta del regime e la pubblicità della Coca Cola. Di quando era adolescente ricorda la passione per la viola, le schegge di proiettile che volavano a destra e a sinistra e la sua amica Albana. Anni dopo Irida si è trasferita in Italia e si è diplomata al Conservatorio di Pescara. Ha voluto inseguire i suoi sogni e non è voluta sottostare a un progetto di vita già scritto come ogni brava ragazza albanese. In Italia ha anche inseguito la sua passione per il teatro. Nina è il personaggio del suo progetto Sarabanda postcomunista che nasce come sua autobiografia per parlare della condizione di immigrato, ma senza rinunciare alla musica e al folklore albanese. È un concerto spettacolo dove il contrabbasso si intreccia con il pianoforte, la batteria, la viola e la voce di Nina. Un gruppo di jazzisti italiani che si sono lasciati trascinare da quei ritmi irregolari tipici dei Balcani e che hanno formato insieme a Irida l’Hora Quartet. Irida canta in albanese, ma nonostante le parole siano in una lingua sconosciuta, la sua musica fa vibrare la pelle. Non c’è bisogno di capire, bisogna solo lasciarsi andare e sentire. I suoi racconti celano tristezza, gioia, dolore, ironia tutti sentimenti che si esprimono subito dopo con la sua musica.

«Scrivere questo testo è stato catartico» racconta Irida, e aggiunge: «Non è facile parlare degli anni 1990 e del 1997, sono anni che ti segnano. Scrivevo tutto quello che mi veniva in mente e poi toglievo le cose troppo patetiche e dolorose creando leggerezza e ironia. Non era facile rileggere il tutto soprattutto quando ti ispiri al tuo vissuto. Attraverso il personaggio di Nina ho cercato di prendere le distanze». Nina parla delle peripezie avute nel rinnovo del permesso di soggiorno, del suo essere giovane donna albanese, del rapporto difficile con il papà e di Albana, la sua amica delle superiori. Un giorno un ragazzo che conoscevano aveva proposto loro di salire in macchina, Albana è salita nonostante Irida cercava di convincerla del contrario, da quel giorno Irida non l’ha più rivista. È un racconto difficile quest’ultimo e Irida lo affida a Nina. Lei non è voluta salire in quella macchina. La sua viola l’ha salvata.

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Al teatro Tor Bella Monaca a Roma, giovedì 12 aprile (ore 21)
Con Irida Gjergji Mero voce e viola – Andrea Di Giampietro pianoforte – Emanuele Di Teodoro contrabbasso – Walter Caratelli batteria. Collaborazione alla drammaturgia alla messa in scena Andrea Cosentino | musiche originali Diego Conti, Giacomo Salario

Il museo in crisi mette in vendita papiri antichi per non chiudere

epa05018119 A student of the Cologne Institute of Conservation Sciences (CICS) unfolds a 2,500 year old papyrus scroll using steam among other aids in Cologne, Germany, 09 November 2015. The about four meter long papyrus was unfolded on behalf of a art collector using a special technique. EPA/ROLF VENNENBERND

«Vendesi 20 frammenti di papiri risalenti a 1.500 anni fa, se interessati contattare il Museo del Papiro Corrado Basile di Siracusa». Questo l’annuncio, in seguito rimosso, che campeggiava sul sito e sulla pagina Facebook del museo siciliano.

L’annuncio col quale alcuni frammenti di papiri greci e demotici del Museo del Papiro venivano messi in vendita

I 20 papiri riportano testi in greco e in “demotico”, la scrittura che gli egizi usavano per redarre i documenti destinati al popolo. Si tratterebbe di scritti dalla provenienza accertata, inediti, acquistati una decina di anni fa dall’istituto.

Nonostante sia di proprietà privata, il museo si avvale di finanziamenti erogati dalla Regione Sicilia. Anna di Natale, fondatrice e direttore del museo, ha spiegato che la scelta di vendere parte del proprio patrimonio è dovuta proprio al dimezzamento dei contributi da parte della Regione. «Vendiamo perché abbiamo bisogno di liquidità per andare avanti», ha dichiarato senza mezzi termini  Corrado Basile. E l’inusuale iniziativa non è passata inosservata al mondo della cultura.

«Una grande importanza è riservata alla didattica rivolta agli studenti: mi chiedo che tipo di messaggio il museo pensi di trasmettere alle nuove generazioni, vendendo manoscritti antichi di cui il museo medesimo dovrebbe infatti essere custode», ha scritto Roberta Mazza, professoressa di storia classica e antica e ricercatrice presso l’università di Manchester, oltre che curatrice onoraria della collezione egizia del museo dell’ateneo inglese. Il museo siculo fa infatti dei percorsi formativi rivolti alle scuole uno dei suoi punti di forza.

Il polo siculo ospita inoltre l’Istituto italiano per la civiltà egizia, trasferitosi da Torino a Siracusa proprio per la rilevanza, anche internazionale, della galleria siciliana. Nel 1995, era stato selezionato tra i finalisti dello European museum of the year award, nonostante le dimensioni molto contenute del museo. «Mi domando cosa pensino i membri di questo istituto della vendita» aggiunge Roberta Mazza.

Il museo del papiro non è però l’unico luogo di cultura in Italia dal futuro incerto.

Basti pensare al caso della biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte di Palazzo Venezia a Roma. La legge di bilancio di quest’anno ha autorizzato il ministero per i Beni culturali a creare une fondazione privata ad hoc per la gestione dell’istituto. Biblioteca di rilevanza culturale e storica, l’unica in Italia interamente dedicata a queste due materie di studio, fra le cui mura si sono formati generazioni di archeologi e storici. Fondata nel 1922, l’inventario della biblioteca conta ben 370mila volumi, 3mila e 900 testate di periodici e 20mila e 700 unità di materiale grafico, tra fotografie, incisioni e disegni.

Un patrimonio immenso che ora potrebbe passare nelle mani di una fondazione privata che in quanto tale deve produrre utili, mentre fino ad ora la stessa biblioteca è sopravvissuta interamente grazie ai fondi pubblici, non avendo entrate autonome. Così facendo, però, lo Stato verrebbe meno alla sua responsabilità nei confronti della Costituzione stessa, che all’articolo nove recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

«Una fondazione di diritto privato infatti non garantisce la trasparenza della conduzione né gli standard qualitativi necessari ad assicurare il servizio di alto livello che l’istituzione richiede», spiegano i professori Fulvio Cervini e Marcello Guaitoli, presidenti – rispettivamente – della Consulta universitaria di Storia dell’arte e di quella di Topografia antica, in una lettera a novembre 2017. «Nemmeno si vede – proseguono – come potrebbe (una fondazione privata, ndr) garantire la sua sostenibilità economica, in quanto una biblioteca pubblica non ha entrate autonome derivanti da biglietti o servizi aggiuntivi e dipende totalmente dal finanziamento pubblico».

La formazione storico-artistica è uno dei fiori all’occhiello del nostro Paese, primo al mondo per numero di siti Unesco, ma 19esimo tra i paesi Ue per numero di persone impiegate nel settore della cultura.

Può la scienza salvare la democrazia?

A fine gennaio scorso, a oltre 20 anni dalla nascita della pecora Dolly, l’Istituto di neuro-scienze di Shanghai ha reso noto d’aver clonato Zhong Zhong e Hua Hua, le prime scimmie create con la stessa tecnica usata per l’ovino britannico. Secondo il New Scientist i due macachi dovrebbero rendere possibile la creazione di popolazioni di scimmie personalizzabili e geneticamente uniformi per accelerare la ricerca per curare il morbo di Parkinson, l’Alzheimer e il cancro. Questa nuova tecnica consentirà agli scienziati di modificare i geni dei primati clonati per monitorare come questi alterano la biologia degli animali e confrontarla poi con esseri geneticamente identici tranne che per le alterazioni. Nel 2000 erano state clonate altre scimmiette ma con una tecnica che divideva un embrione dopo che questo era stato fertilizzato producendo quindi solo un gemello geneticamente identico.

Secondo quanto sviluppato dal dottor Qiang Sun dell’Accademia cinese delle scienze di Shanghai, l’ottimizzazione della tecnica utilizzata per Qiang Sunpotrà rendere possibile produrre un numero teoricamente illimitato di cloni.
Ancora prima del merito dei suoi risultati, la scienza necessita attenzione critica per la velocità con cui produce cambiamenti. La ricerca, la clonazione riproduttiva o terapeutica, gli interventi sul genoma umano, animale o vegetale, gli investimenti attorno a tutto quello che chiamiamo intelligenza artificiale e la gestione dell’enorme mole di dati che tutto ciò produce richiedono un quadro normativo chiaro, puntuale, condiviso globalmente, conoscibile, la cui applicazione ed efficacia siano monitorabili. In caso di limitazioni, o patenti violazioni, dei diritti fondamentali o dello Stato di diritto internazionale, tanto la ricerca quanto il suo prodotto devono poter esser messe in dubbio, modificate e controllate affinché non creino discriminazioni e disuguaglianze. Non si tratta di proibire arbitrariamente, bensì di governare fenomeni di portata epocale sulla base delle norme codificate dalla Comunità Internazionale dal secondo dopoguerra a oggi.

Negli ultimi 25 anni, la Repubblica popolare cinese ha dedicato ingenti risorse umane e finanziarie affinché i dipartimenti di ricerca scientifica e ingegneria delle proprie università arrivassero a competere con quelli americani ed europei. Nello stesso periodo Pechino, molto spesso grazie proprio alle innovazioni tecnologiche che ha copiato o prodotto in casa propria, ha rafforzato un sistema autoritario che ha limitato fortemente il dissenso, creato un’identità nazionale forte e promosso un nazionalismo e suprematismo razziale anche al proprio interno che controlla chiunque non ne faccia parte geneticamente o culturalmente. Se all’inizio degli anni Novanta il miglior centro di ricerca cinese era all’altezza di un medio dipartimento in Occidente che studiava le stesse materie, oggi Shanghai e Pechino hanno creato poli di eccellenza che ancora (forse) non attraggono presenze internazionali di rilievo ma che sicuramente offrono prospettive certe per scienziati, ingegneri e fisici cinesi che si son specializzati altrove.

Un progresso scientifico promosso al netto della libertà individuale o della salute e benessere pubblici può consolidare tecnocrazie che stabiliscono cosa possa o non possa esser fatto senza alcuna possibilità di appello da parte di chi ne subisce le conseguenze – anche se queste apparentemente sono tutte di segno positivo. Per evitare che la scienza divenga il più potente alleato dell’autoritarismo, occorre che gli strumenti internazionali sui diritti umani vengano applicati alle nuove frontiere della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche. Le decine di trattati, convenzioni, patti e documenti che contengono gli elementi che qualificano i diritti individuali e collettivi stabiliscono precisi obblighi per i Paesi che incorporano queste norme universali nei loro sistemi nazionali. Dall’Afghanistan allo Zimbabwe, passando per le nostre belle e ricche democrazie occidentali, i governi nazionali son tenuti ad adottare leggi che rispettino quanto contenuto nei documenti internazionali che hanno ratificato. Tra i vari diritti previsti a livello globale ve n’è uno che dobbiamo iniziare a chiamare con il suo nome: “diritto alla scienza”: dalla libertà per i ricercatori di far il proprio lavoro al diritto di tutti di poter beneficiare del frutto delle ultime scoperte scientifiche, questo diritto alla scienza deve rientrare tra le preoccupazioni, e occupazioni, di chi ha a cuore il futuro della libertà e della democrazie perché racchiude implicazioni e le ripercussioni strutturali per il futuro dell’umanità.

All’inizio dell’anno, la National science foundation degli Stati Uniti ha calcolato che nel 2016 il numero di pubblicazioni scientifiche cinesi ha superato per la prima volta quelle made in Usa: 426mila contro 409mila. Con 496 miliardi di dollari spesi, gli Stati Uniti restano il primo Paese in assoluto per investimenti in ricerca, spendendo il 26% del totale mondiale, ma la Cina segue con un incremento del 18% annuo dal 2000 (gli Usa erano solo il 4%) raggiungendo i 408 miliardi di dollari (il 21% del totale globale). Il dato significativo è che nel 2016 la Cina ha totalizzato anche 34 miliardi di dollari investiti da privati in venture capital.

C’è chi ritiene che quantità non significhi qualità, ma è certo che la Cina, come il resto dell’Asia orientale, può ormai competere con scoperte originali e non solo duplicare quanto prodotto in Occidente – la clonazione delle due scimmiette ne è la riprova. La Svezia e la Svizzera producono le pubblicazioni scientifiche più citate, seguite dagli Stati Uniti e altri stati membri dell’Unione europea, ma se gli studi cinesi son quelli meno ripresi dalla comunità scientifica globale e il vantaggio cinese sugli Usa in termini di risultati di ricerca non è valido in tutti i campi – i ricercatori statunitensi ed europei producono più studi (e brevetti) nelle scienze biomediche – la Cina è ormai leader nella ricerca ingegneristica necessaria al potenziamento dell’intelligenza artificiale.

L’estate scorsa, il Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese ha adottato un piano ambizioso per cui, entro il 2030, il Paese dovrà divenire il “principale centro mondiale per l’innovazione dell’intelligenza artificiale”. Secondo alcuni esperti, nel prossimo decennio l’industria nazionale cinese che s’interessa d’intelligenza artificiale potrebbe avere un giro d’affari di 150 miliardi di dollari. Negli ultimi mesi, il governo e l’industria cinese hanno lanciato decine di iniziative relative all’intelligenza artificiale – tra le più importanti la costruzione di un parco tecnologico da 2,1 miliardi di dollari alla periferia di Pechino per ospitare 400 imprese attive nel settore. Secondo la Reuters, il parco si concentrerà su tecnologie emergenti tra cui big data, deep learning, cloud computing e l’identificazione biometrica; il giro d’affari previsto è di 7,68 miliardi di dollari all’anno. Gli investimenti della Cina nel calcolo quantico e i microchip di nuova generazione stanno crescendo in modo talmente esponenziale che l’amministrazione Trump sta bloccando fusioni e acquisizioni di imprese strategiche perché teme per la propria sicurezza nazionale e tiene sotto costante e strettissimo controllo tutto ciò che ha a che fare cogli interscambi nell’industria dei semiconduttori.

L’applicazione di scoperte e invenzioni in un contesto in cui non è possibile un controllo pubblico delle finalità, oltre che dei processi, crea sicuramente molte zone grigie che s’inscuriscono in modo preoccupante per tutto ciò che riguarda la ricerca e sviluppo che confonde obiettivi e priorità civili e militari. Oltre ad assistere e facilitare molte attività umane, i progressi nell’intelligenza artificiale possono esser utilizzati per aumentare a dismisura la sorveglianza indiscriminata o la censura culturale e politica, allo stesso tempo l’intelligenza artificiale fa ormai parte integrante delle tattiche e strategie militari in zone di conflitto molto lontane dai centri di comando. Se è ormai noto l’uso di droni di ricognizione e armati da parte degli Usa e della Nato, meno conosciuto è il piano del governo cinese che sta finanziando lo sviluppo di nuove capacità militari basate sull’intelligenza artificiale nelle decisioni sul campo di battaglia e nelle armi autonome con regole d’ingaggio sconosciute e al di fuori dei codici militari vigenti e internazionalmente riconosciuti. Questi sviluppi tecnologici creano situazioni del tutto al di fuori del diritto umanitario internazionale senza che via un nucleo di Paesi che si stia organizzando per proporne una regolamentazione – e la crisi patente del sistema multilaterale non lascia per sperare per il futuro.
Ma esiste un modo per ingaggiare i governi democratici e non nel tentativo di arrivare al rispetto di regole condivise che consentano, nel caso di specie, la piena applicazione del diritto alla scienza e quindi la promozione e protezione di diritti individuali e collettivi di miliardi di persone?

Da qualche l’Associazione Luca Coscioni ha iniziato ad agire perché questa possibilità possa esistere, posto naturalmente che ci sia a livello istituzionale chi se ne fa carico e che chi predica pratichi. Quanti sono i Paesi democratici che consentono che la ricerca pura vada avanti senza doversi imbattere quotidianamente con divieti ideologici o ostacoli amministrativo-burocratici, croniche mancanze di fondi o assenza di meccanismi meritocratici? Per fornire un primo assaggio di chi fa cosa e come, l’Associazione ha iniziato a compilare un Indice per la libertà di ricerca scientifica e l’autodeterminazione che raccoglie informazioni pubbliche su decine di Paesi relativamente alla ricerca sulle cellule staminali embrionali e sugli embrioni, la procreazione medicalmente assistita, la salute riproduttiva e le scelte di fine vita. L’incrocio dei dati analizzati dal team guidato dal professor Andrea Boggio della Bryant university dimostra come, per esempio, investire in ricerca non implica necessariamente promuoverla e che, tutto sommato, alcuni Paesi europei molto ricchi hanno tassi di libertà di ricerca simili a quelli dell’America latina. Allo stesso tempo, grazie al professore Cesare Romano e a suoi studenti della Loyola Law school di Los Angeles, i dati elaborati dall’Indice consentono la presentazione di rapporti indipendenti che evidenziano ulteriormente il (precario) stato dell’applicazione del diritto alla scienza a livello statuale con tutto quello che questo comporta.

Questo lavoro di monitoraggio e denuncia della violazione del diritto alla scienza dovunque nel mondo vuole esser un contributo perché, a partire dalle Nazioni unite, si ritenga la scienza parte integrante dei diritti umani. Riteniamo che l’effettiva applicazione del “diritto alla scienza” – dovunque nel mondo – possa rappresentare una risposta, tanto a casa nostra che altrove, per evitare che le democrazie liberali vengano travolte dagli sconvolgimenti in corso a causa del progresso tecnologico e per consentire loro di riuscire a migliorare o rafforzare il funzionamento istituzionale. Il combinato disposto della modifica genetica di precisione su vegetali e animali, e dunque anche sugli esseri umani, dell’intelligenza artificiale e della possibilità di intervento sul funzionamento della mente umana, avrà come effetto già nei prossimi decenni un cambiamento dei modi di manifestarsi della natura umana, con la prospettiva alla lunga anche di cambiarne alcuni tratti. L’illusione di rispondere attraverso proibizioni e barriere “etiche” è destinata ad aggravare il dominio di logiche di mero interesse economico/egoistico, le quali, se non governate, porterebbero verso una umanità geneticamente migliorata, o “aumentata”, solo per chi se lo può permettere o secondo direzioni decise illiberalmente dai governanti stessi. Il principio dell’uguaglianza dei cittadini alla nascita diventerebbe definitivamente lettera morta, ponendo una pietra tombale sulla possibilità stessa di esistenza di una democrazia liberale. Ma le democrazie devono aprire un dibattito laico e inclusivo su questi temi. Urgentemente.

Dall’11 al 13 aprile prossimi l’Associazione Luca Coscioni ha convocato la quinta riunione del Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca Scientifica al Parlamento europeo di Bruxelles, il titolo che abbiamo dato all’incontro è “La Scienza per la democrazia“, abbiamo chiesto decine di scienziati, ricercatori, politici, malati e militanti dei diritti umani, di condividere con noi le loro esperienze e le loro raccomandazioni certi che nei prossimi mesi occorrerà portare questo pensiero e le successive azioni in giro per il mondo mobilitando un’alleanza internazionale per il diritto alla scienza per garantire un futuro di libertà e sviluppo sostenibile per quante più persone possibile.