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Bomba o non bomba

Nella giornata di ieri, mentre tutti discutevano delle baruffe tra Salvini e Di Maio e la stampa si riempiva di editoriali zeppi di consigli su cosa dovrebbe fare il Partito democratico una bomba dentro la sua auto ha maciullato Matteo Vinci, 42 anni, e gravemente ferito il suo settantacinquenne padre. Una bomba come quelle che da noi si osavano solo nei tempi peggiori quando vigeva prepotente il senso di impunità se non addirittura la convergenza di interessi con lo Stato. Matteo Vinci, secondo le prime ipotesi della Procura, avrebbe avuto un diverbio con un vicino parente di qualche cognome importante. Le parole degli inquirenti lasciano pochi dubbi: “le cosche stanno alzando il livello”, hanno dichiarato. Una bomba, di quelle vere, che esplodono davvero e che procura un dolore e un rumore che tutti dovrebbero girarsi a guardare, parlarne, cercare di capire.

Ieri in Calabria sono stati arrestati Carmelo Ficara, Francesco Andrea Giordano, Michele Surace e il figlio Giuseppe, tutti nomi che contano nel campo delle costruzioni a Reggio Calabria e in provincia. “Imprenditori”, come si fanno chiamare. Eppure sono accusati di essere i prestanome e i riciclatori della cosca dei Tegano, una famiglia mafiosa che nonostante passino le generazioni non sempre perde lo “smalto”.  Hanno cementificato la provincia reggina. Gli hanno sequestrato beni per un valore di cinquanta milioni di euro. Cinquanta milioni di euro.

Ieri a Palermo è stato arrestato Pietro Formoso, fratello dei due Formoso che furono condannati per la strage mafiosa a Milano nel 1993. Secondo le indagini Formoso deciderebbe (a nome di Cosa Nostra) quali filetti devono stare sulle nostre tavole. Dalle intercettazioni si capisce anche che il latitante Matteo Messina Denaro preferisce invece investire sull’olio extravergine. Quello che mangiamo, noi.

Aspettiamo con ansia e poca speranza l’indignazione e le soluzioni da parte di chi brama il governo per risolvere “le paure degli italiani”. Aspettiamo con ansia che di mafia, anche solo per sbaglio, se ne senta parlare anche da parte dei papabili leader. Aspettiamo con ansia che questo Paese non abbia bisogno delle carneficine per svegliarsi magari tenendo conto anche di tutte le carneficine che già sono state. Aspettiamo con ansia che qualcuno si occupi del tema delle mafie e magari che faccia in modo che le mafie smettano di occuparsi di noi.

Buon martedì.

Armi chimiche: «Con l’attacco su Douma, Assad lancia un avvertimento ai suoi alleati»

«Penso che a bombardare con le armi chimiche la popolazione di Douma sia stato il regime di Assad». A parlare è Lorenzo Declich, esperto del mondo islamico. Declich cura il blog Tutto in trenta secondi ed è autore tra gli altri dei libri Siria, la rivoluzione rimossa  (ed. Alegre) e Islam in 20 parole (Laterza). Left lo ha intervistato per cercare di fare chiarezza sui motivi dell’utilizzo di armi chimiche sulla popolazione di Douma, nella Ghouta orientale, a circa 20km ad est di Damasco.

Che idea si è fatto sull’attacco del 7 aprile scorso?

L’area colpita è l’ultima parte della Ghouta orientale ancora in mano ai ribelli. La Ghouta orientale è stato uno dei fulcri della sollevazione popolare del 2011. Inizialmente era una zona prevalentemente agricola, poi col tempo hanno cominciato a stabilirvisi molte famiglie poverissime che poi hanno appoggiato la ribellione al regime.

Diversi analisti hanno trovato similitudini tra questo ed altri attacchi chimici che ci sono stati in Siria. Se prendiamo inoltre in considerazione il tempismo con cui è avvenuto, mi viene da pensare che sia stato di nuovo il regime a colpire. Con questo attacco Assad cerca di farsi spazio al tavolo a cui siedono le potenze regionali che si stanno spartendo la Siria, spartizione che è già in corso.

Al bombardamento chimico è poi seguito l’attacco israeliano su una base militare siriana ad Homs, area molto importante dal punto di vista militare. Le uniche notizie su questo ultimo attacco vengono però da agenzie siriane, che sono profondamente influenzate dalla propaganda di regime, quindi prenderei questa notizia della responsabilità israeliana con le pinze. È pur vero però che Israele ha condotto diversi raid aerei in territorio siriano, con lo scopo di, stando al governo di Tel Aviv, limitare il traffico di armi dirette ad Hezbollah, suo nemico diretto.

Sono anni che le armi chimiche vengono usate in Siria. Cosa si può fare per impedirne l’uso?

Già nel 2013 l’allora presidente americano Barack Obama tracciò la famosa “linea rossa”, la linea oltre il quale il conflitto siriano non doveva spingersi, ovvero l’uso delle armi chimiche. Le armi chimiche vennero poi usate ma la risposta americana non ci fu. A quel punto era chiaro che i limiti che si cercava di imporre al conflitto potevano essere tranquillamente superati. Assad ora si sente sempre più libero di portare avanti questo genere di azioni militari, il cui scopo è sempre quello di mandare un messaggio, non solo ai ribelli suoi nemici, ma anche ai suoi alleati principali, Iran e Russia. E il suo messaggio è «io posso generare caos, posso creare indignazione nell’opinione pubblica mondiale come e quando voglio, quindi anche io voglio poter dire la mia sulla spartizione della Siria».
Neanche da parte della comunità internazionale c’è alcuna volontà di voler fermare gli attacchi chimici o bloccare questo processo di ripartizione del Paese. Gli effetti devastanti che questa inazione sta avendo su quel poco di popolazione civile rimasta in zone controllate dai ribelli sono sotto gli occhi di tutti.

Secondo lei è scontato che Assad a fine conflitto resterà a capo del regime siriano?

Penso proprio di sì, e mi sembra che la cosa sia stata accettata come un dato di fatto da tutti. La Russia è l’unico Paese che davvero potrebbe spingere verso un cambio dei vertici del governo di Damasco, che così facendo andrebbe però contro gli interessi dell’Iran, il più stretto alleato di Assad, il quale ha tutto l’interesse a che Assad resti al suo posto.
La sorte di Assad è nelle mani dei suoi alleati, e più volte ho detto che il dittatore siriano è un fantoccio. Assad ha svenduto completamente il suo Paese per rimanere al potere: sia la Russia che l’Iran stanno infatti facendo tutto ciò che vogliono in Siria, sia in termini militari che economici.
La Russia ha ben cinque basi militari nel Paese, di cui una a Laodicea (nota anche come Latakia, ndr), la principale città portuale siriana, in cui c’è una notevolissima presenza di cittadini russi.
L’Iran si sta invece muovendo molto sul fronte economico ed è molto impegnato nella ricostruzione delle aree a maggiore presenza sciita, già da adesso, a conflitto ancora in corso.

Cosa ci possiamo aspettare da Trump, ora?

Fino a ora la risposta Usa è stata assolutamente inefficace. Un attacco singolo, alla base aerea da cui sarebbero partiti gli aerei che hanno sganciato le bombe chimiche, senza alcuna strategia dietro. I danni sono stati minimi e l’effetto sul conflitto nullo, si trattava solo di uno specchietto per le allodole nel classico stile di Trump: mostrare i muscoli per un attimo e poi continuare a farsi gli affari propri.
Staremo a vedere se anche il bombardamento del 7 aprile spingerà gli Stati Uniti a reagire e se sarà un altro attacco fine a sé stesso o se questa volta ci sarà una strategia più ampia dietro. Avendo visto com’è la politica estera di Trump, non penso che la seconda ipotesi si realizzerà.

Il conflitto è nato a seguito delle proteste di piazza del 2011, nel contesto della primavera araba che stava attraversando diversi paesi medio-orientali. Nonostante la contestazione al regime siriano godesse del supporto di una grande porzione di popolazione, al punto da sfociare nella guerra civile, la comunità internazionale non intervenne, al contrario di quanto fece in altri paesi come la Libia. Come mai secondo lei?

La Libia è innanzitutto un Paese con riserve petrolifere e quando si tratta di combustibili, l’occidente è in prima fila a tutelare i propri interessi. Infatti, una volta che la primavera araba è arrivata anche lì, c’è stata una corsa ad intervenire.

In Siria, la comunità internazionale si è accorta tardi di quanto fosse forte il desiderio di cambiamento nel Paese, poiché la rivolta è sbocciata lentamente. È iniziata a marzo, ma le grandi manifestazioni di massa sono cominciate solo a luglio, tre mesi dopo, nonostante una repressione mostruosa, che nel tempo ha fatto migliaia di morti. Inoltre la Siria ha sempre gravitato dal lato orientale della cortina di ferro, e una volta caduto il muro di Berlino, le potenze di quella parte del mondo hanno subito cercato di guadagnare influenza per portare avanti i loro interessi nel Paese medio-orientale.

In questa situazione, tra interessi incrociati delle potenze locali e mancanza di percezione della portata della rivoluzione in atto, la comunità internazionale è rimasta un po’ a guardare, senza supportare le istanze dei rivoluzionari. Sono così subentrate le potenze della regione che hanno cominciato a finanziare i gruppi ribelli di stampo fondamentalista islamico, piuttosto che le forze democratiche che avevano dato il via alla ribellione.

Potrebbe questa inazione essere dovuta anche ad un fraintendimento di fondo della natura della ribellione al regime?

Un altro fattore che è stato spesso frainteso nelle analisi della rivolta sono le persone che l’hanno condotta. Molti giornalisti e analisti, per capire cosa stava succedendo in Siria, si sono rivolti a dissidenti o leader di vecchi partiti e movimenti d’opposizione, che però non avevano nulla a che fare con le agitazioni in corso.
A protestare, c’erano invece le nuove generazioni, completamente slegate da queste vecchie formazioni e vecchie ideologie. Quello per cui manifestavano erano più diritti: economici, civili, politici e la possibilità di sviluppare appieno la propria individualità, cose che vengono completamente negate e osteggiate in una dittatura.

Da dissidente liberale a leader xenofobo: la parabola di Orban, signore e padrone dell’Ungheria

epa06650548 President of the ruling Fidesz party, Prime Minister Viktor Orban waves as he attends the final electoral rally of Fidesz in Szekesfehervar, some 63km southwest of Budapest, Hungary, 06 April 2018. Hungary will hold its general election on 08 April. EPA/ZSOLT SZIGETVARY HUNGARY OUT

Trent’anni anni fa, era il 1988, in Ungheria, c’era un dissidente liberale dai capelli lunghi. Nella sua lettera per richiedere la borsa di studio alla fondazione del magnate George Soros, il giovane scrisse che l’Ungheria, dalla dittatura, si sarebbe trasformata in una democrazia. Che «uno degli elementi principali della transizione è la rinascita della società civile». Il ragazzo fu premiato, usufruì dei fondi per andare a seguire i corsi ad Oxford. Lo studente Viktor, trent’anni dopo, è il premier Orban. L’alfiere dell’“Europa cristiana”, il signore della “patria bianca” dai confini filospinati, bastione contro l’islam, il nemico giurato di Soros e delle sue idee considerate “morbide” sull’immigrazione, è salito sul palco del successo elettorale da confermato premier d’Ungheria.

Fidesz è il partito scelto dal 49% degli ungheresi, con 134 seggi su 199 in Parlamento, ha la maggioranza costituzionale dei due terzi dell’Assemblea nazionale, una preferenza altissima, come l’affluenza a queste ultime urne, quasi da record: ha votato il 68,8% degli aventi diritto, l’8% in più di quattro anni fa, ovvero quasi sei milioni di elettori.

La notte del conteggio dei voti, per Orban, non è stata lunga. Chi si interrogava sulla maggioranza a rischio di Fidesz, ha dovuto confrontarsi, fin dalle prime ore dallo spoglio, con una vittoria schiacciante. Chi sperava che Orban rallentasse la sua corsa, nel day after deve fare i conti con velocità e successo raddoppiati.

«Con risultati come questo c’è bisogno di ricordare il saggio proverbio: sii modesto, perché ora hai ragione di esserlo, l’Ungheria non è arrivata ancora dove vuole, ma è in cammino». Sono state le prime parole del premier sul palco, tra gli applausi. Ha cantato vittoria, non per se stesso, ma per il suo Paese, per la sua politica e per la tradizione “bianca” e cattolica d’Ungheria, che ha promesso ancora una volta di difendere. È la terza vittoria consecutiva per Orban, la quarta in totale.

Sulle rive del Danubio, Fidesz è riunita alla Casa Bianca ungherese, è un partito stordito dal successo inatteso. Nella classifica elettorale, dopo Orban, si è posizionato Gabor Vona, 39 anni, a capo della formazione di estrema destra Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore). Vona arriva secondo a queste elezioni che, a suo avviso, avrebbero determinato «il corso del Paese non per i prossimi quattro anni, ma per almeno due generazioni». Insieme ai migranti, nemico numero uno dell’Ungheria per Vona è «il governo mafioso di Orban».

Con il 12% delle preferenze, in terza posizione, c’è l’alleanza di socialisti ed ecologisti di Georgely Karacsony. Ma alle elezioni, insieme ai 23 partiti d’opposizione, a uscire sconfitta è anche l’Unione europea, che vuole tutelare, solo a suon di sanzioni, valori e diritti che l’Ungheria viola. La burocrazia di Bruxelles non ha potuto niente contro la xenofobia muscolare di Orban. L’ultima parola gliel’ha data il suo popolo, alla fine ha vinto lui, di nuovo.

Qualcuno è andato in abiti tradizionali in cabina elettorale – i membri dell’“Associazione per la preservazione degli ussari ungheresi”, per esempio. Le urne dovevano essere chiuse alle sette di sera, ma lunghe file rimanevano ai seggi a sfidare le lancette dell’orologio. Poi al primo buio la città ha cominciato a ballare per strada. La massa plebiscitaria della “democrazia illiberale” ha scelto e se n’è andata a cantare di notte, tricolore, clacson e birra, per le strade di Budapest.

Insieme alla Merkel, Orban è il capo al potere in Europa da più tempo. Gli scandali di corruzione di amici, parenti e membri del suo partito, esplosi negli ultimi mesi, non l’hanno indebolito, grazie anche al ribaltamento operato da giornali e tv di regime, che li hanno dipinti come attacchi alla nazione stessa e al suo primo ministro. Capitalismo dell’oligarchia a lui compiacente, retorica xenofoba, dottrina da partito-stato unico: ha reso la nazione il suo monolite. Ha già cambiato quasi tutto nel suo Paese, dal sistema giudiziario, – ora in mano al suo governo -, fino a quello economico, che è in mano ai suoi parenti ed amici. Dal 2010, in cinque anni, con la maggioranza Fidesz in Parlamento, più di mille leggi sono passate dopo poche ore di dibattito.

Nel 1988 il “dissidente” Orban diceva di odiare il muro che sarebbe caduto un anno dopo; nel 2018 lo stesso uomo ne ha innalzati di nuovi, blindati, nazionali e personali. L’Ungheria che doveva trasformarsi in democrazia, come scriveva nei papers da studente, è diventata la “capsula di petri” d’Europa per l’autocrazia morbida di cui è autore. Era così già prima delle elezioni, ma lo sarà ancora di più da domani.

Ostracismo e pregiudizio. Politiche razziste contro i Rom

Malgrado l’attenzione dei media si sia concentrata sul flusso migratorio dell’ultimo biennio, la politica e l’opinione pubblica dalla questione rom, l’antiziganismo è purtroppo molto presente, in chiave razzista, nella società italiana. I 148 insediamenti formali, sparsi in 87 comuni italiani, rappresentano la più evidente cartina di tornasole di un pensiero comune, esemplato e incoraggiato dal linguaggio dei politici.
Ha scritto in un tweet il leader della Lega, Matteo Salvini, a commento degli scontri avvenuti tra alcuni abitanti del campo di via Gordiani a Roma e gli agenti della polizia, intervenuti ad arrestare un abitante dell’insediamento: “Questi zingari lavorano anche a Pasqua. Ho pronta una democratica e pacifica ruspa”.

Dal 2012 a oggi, a parte qualche tenue tentativo di amministrazioni virtuose di superare il sistema dei campi, sono stati spesi 82 milioni di euro per mantenerlo.
Una cifra e una politica che stridono con gli impegni dettati dalla Strategia Nazionale di Inclusione dei rom, presi dal governo italiano davanti all’Europa. E mai mantenuti. E poco o nulla smuove la Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Caminati che si celebra ogni anno l’8 aprile. A parte il presidente Mattarella, gran parte delle istituzioni e amministrazioni locali continuano a fare finta di nulla. Tanto che, ancora nel 2017, la situazione rimane immutata: scarsa esistenza e incidenza di strumenti per l’implementazione della strategia e una debole volontà politica hanno disatteso la sfida di andare oltre i campi monoetnici. Con il risultato di ricreare ciò che doveva essere superato.
E, così, anche nel 2017, per l’assenza di meccanismi di coordinamento e di monitoraggio (e per la carenza di un reale interesse all’inclusione) si è assistito al rifacimento, al mantenimento e alla costruzione di nuovi insediamenti per soli rom. Tra il 2012 e il 2017, nuove costruzioni alloggiative sono sorte tra Milano, Carpi, Merano e Moncalieri per ‘sistemare’ circa 240 persone; due a Pistoia e Roma, in cui è stato, anche, inaugurato un centro di accoglienza per soli rom, circa mille, proponendo una realtà (ghettizzante) unica in Europa, dove, al contrario, “le città stanno procedendo verso politiche di opportunità e integrazione: il tempo delle misure speciali, segreganti e discriminanti è definitivamente scaduto”, ha spiegato Tommaso Vitali docente dell’Università Sciences Po, intervenuto al dibattito, tenutosi in Senato, per la Celebrazione della giornata internazionale rom e sinti, e durante il quale è stato presentato il Rapporto annuale 2017, redatto dall’Associazione 21 luglio.
E, invece, nel Belpaese (dei campi), alla costruzione di nuovi insediamenti autorizzati corrispondono altrettante operazioni di sgombero forzato, condotte in modo discrezionale dalle autorità locali, in deroga alle tutele procedurali previste dal diritto internazionale. E che, soprattutto, non producono mai l’effetto di sanare l’inadeguatezza dell’alloggio, ottenendo l’esito opposto: replicarla altrove. Cosicché, in tutta Italia nel 2017, ne sono state eseguite 230 – 33 solo a Roma e 25 a Milano -, generando un riversamento degli abitanti di origine rom dalle baraccopoli informali ai microinsediamenti spontanei.
Sta di fatto che, a fronte di un totale stimato compreso fra le 120 e le 180mila presenze di cittadini rom e sinti, 26mila sono quelli in emergenza abitativa, di cui 16.400 (e il 43 per cento ha cittadinanza italiana) collocati in insediamenti autorizzati e 9.600, originari dell’ex Jugoslavia e per il 30 per cento a rischio apolidia, sistemati in baraccopoli informali.
Marginalizzazione spaziale e condizioni abitative al di sotto degli standard provocano ricadute a cascata nel mancato riconoscimento degli altri diritti umani e della loro identità. Perciò è necessario “un atto di riconoscimento di molte vite fatte di sofferenza e di tenuta morale, cioè di due elementi che raramente vengono accostati all’esistenza di rom e sinti perché la sofferenza viene interpretata, a volte, quasi fosse un dato antropologico e genetico e la forza morale, semplicemente, viene loro negata per lasciare spazio a quella che, così diffusamente, si propone come vera e propria riprovazione morale. E, come noto, quando si attua un meccanismo di riprovazione morale siamo al primo passo di un dispositivo che porta all’ostracismo. Che, tra le sue conseguenze, certo di minoranza estrema, può far immaginare il pogrom, cioè una volontà di sterminio”, ha dichiarato il direttore dell’Unar, già presidente della Commissione diritti umani del Senato, Luigi Manconi, intervenuto al dibattito. Quella volontà che manca, piuttosto, di superare un pensiero palesemente discriminatorio.

Hanno risolto il problema “migranti” e “violenze straniere”

The "North League" (LN) party's candidate for the post of the Prime Minister, Matteo Salvini, attends an electoral meeting in Turin, Italy, 28 February 2018. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Non so se vi è capitato di notare le prime pagine dei giornali, le notiziacce urlate a tutta pagina nella cronaca nera, i titoli dei telegiornali e i servizi allarmati delle trasmissioni del mattino, del pomeriggio e soprattutto della sera: non c’è più “sostituzione etnica”, non c’è più il pericolo costante “per le nostre donne”, non ci sono più le ondate di sbarchi zeppi di terroristi, non ci sono più pericolosi criminali stranieri, non ci sono pisciatori africani, non ci sono prime pagine di islamici e riti satanici (a dire la verità ne hanno arrestati davvero, di presunti estremisti, ma la notizia è durata il tempo di un soffio) e non ci sono drammi per le manifestazioni che non ci sono state (e che continuano a non esserci, tra l’altro) per Pamela Mastropietro.

L’emergenza nazionale che sembrava avere gettato il Paese nell’orrore e nella disperazione si è magicamente dissolta senza nemmeno prendersi la briga di formare il governo. È bastato il risultato delle elezioni perché certa informazione (meglio, propaganda travestita da informazione) tornasse nei binari della normalità togliendo il piede dall’acceleratore di un allarmismo prêt-à-porter che ora non serve più, anzi sarebbe dannoso.

Mediaset ha chiuso le trasmissioni di Belpietro e Del Debbio (che sul pericolo migranti hanno costruito un’epopea) e lo stesso Salvini, in mancanza di materiale buono per la sua disgustosa campagna elettorale permanente, ieri ha dovuto sfruttare la giornata internazionale di Rom, Sinti e Caminanti per non rinunciare alla dose giornaliera di veleno spanto.

Così basta guardarsi intorno per cogliere tutto il senso della melma a forma di giornalismo che ci ha inondato per mesi. A volte serve proprio il silenzio per riconoscere l’odore delle voci che sono state.

Buon lunedì.

Il declino inarrestabile dei nostalgici dell’Urss

Il declino del Partito comunista della federazione russa (Pcfr) è proseguito inarrestabile anche nelle ultime elezioni presidenziali del marzo 2018. La parabola del Pcfr nelle elezioni presidenziali non necessita di commenti. Nelle precedenti presidenziali Gennady Zjuganov aveva ottenuto queste percentuali: 32,0% (primo turno 1996), 40,3% (ballottaggio con Eltsin 1996), 29,2% (2000), 17,7% (2004), 17,1% (2012). Nel 2008 si era presentato il grigio uomo di apparato Nikolaj Charitonov raccogliendo il 13,7%. Nel 2018 Pavel Grudinin ha conquistato solo l’11,8%.
Il Pcfr nacque nel 1993 non come erede del disciolto Partito comunista dell’Urss, ma come un prodotto peculiare di diverse eredità e pulsioni presenti all’interno della transizione russa degli anni Novanta. Da una parte le tendenze più staliniane e burocratiche del Pcus. Per questo motivo Sergio Romano ha paragonato il partito di Zjuganov il Pcfr al Msi italiano. Così come il Msi esprimeva sì la nostalgia verso il fascismo ma nella sua espressione “repubblichina”, il Pcfr esprime la nostalgia non tanto verso l’Urss in generale (nostalgia che attraversa a vari livelli tutta la società russa) ma quella dell’epoca staliniana. D’altra il PCFR sin da subito fu anche il magnete per altre aspirazioni e tendenze che albergavano in Russia. Fu l’espressione di un forte richiamo nazional-patriottico che superava la contrapposizione della guerra civile tra bianchi e rossi, dell’esaltazione della missione storica della “Rus’” come impero euroasiatico, dell’antisemitismo strisciante da sempre presente nella società russa, del recupero del ruolo di collante della Chiesa Ortodossa. Tutto ciò nella Russia eltsiniana dominata dalla corruzione, dalla crisi sociale, della decadenza degli apparati statali si trasformò in un blocco sociale che probabilmente se non ci fossero stati i brogli e la mobilitazione di grandi interessi non solo su scala russa, sarebbe stato in grado portare Zjuganov a vincere le presidenziali del 1996.
L’ascesa di Putin che è diventato l’alfiere del sovranismo, della “dittatura della legge”, della ripresa economica con elementi redistributivi, dell’alleanza strategica con il patriarcato di Kirill, del nuovo protagonismo internazionale della Russia ha in gran parte prosciugato lo spazio sociale e politico del Pcfr. Che è sempre di più diventato un partito marginale che si limita a criticare questa o quella misura della governo putiniano senza essere in grado – prima di tutto per i suoi limiti culturali – di proporre un’alternativa al regime esistente.
Il Pcfr è arrivato alle presidenziali del 2018 in uno stato di completa prostrazione. Nelle elezioni per la Duma del 2016 aveva perso 6% rispetto alla tornata precedente. La composizione sociale e per classi d’età del partito del 2017 fornisce un quadro esplicito della sua situazione interna. L’età media dei 162mila iscritti è di 55,6 anni. I pensionati sono il 42,5% e i giovani fino ai 30 anni solo l’11,6%. Dal punto di vista sociale gli operai sono il 7%, gli impiegati il 6,5% mentre ben il 2,1% sono imprenditori o dirigenti d’azienda (i cosiddetti “direttori rossi”).
E tra quest’ultimi alla fine è stato scelto il candidato per le presidenziali del 2018. A dicembre nei sondaggi il candidato nominato dal comitato centrale del partito era ancora Gennady Zjuganov. I sondaggi lo davano al 5-6%, superato anche da Vladimir Zhirinovskij. Così proprio alla vigilia di Natale, le strutture del partito si riunivano nel disperato tentativo di mettere una pezza al disastro annunciato. E dal cilindro usciva il coniglio della candidatura di Pavel Grudinin.
Pavel Grudinin è un imprenditore del settore agroalimentare che ha avuto successo costruendo un’azienda modello vicino a Mosca grazie anche alla speculazione. Esordì in politica nei primi anni 2000 con Russia Unita e per qualche tempo fu poi vicino allo xenofobo Zhirininovskij per poi approdare all’area del Pcfr. E infatti si è presentato alle presidenziali dello scorso marzo in qualità di indipendente. Ha puntato sull’elettorato deluso da Putin perla crescente corruzione del suo apparato e sui settori sociali più puniti dalla crisi economica degli ultimi anni (intercettandoli soprattutto in Siberia). È cresciuto costantemente nei sondaggi negli ultimi due mesi prima delle elezioni, creando qualche grattacapo allo staff di Putin raccogliendo simpatia e interesse persino nell’area “liberal” (quella più moderata e nazionalista) dell’elettorato. Non ha potuto invertire la storica tendenza al declino del Pcfr ma raccolto settori dell’elettorato lontani culturalmente dalla sua tradizione. In questo senso il fatto di essere emanazione del Pcfr lo ha persino frenato. Nelle interviste si è richiamato sia alla socialdemocrazia del Nord Europa ma anche al modello cinese, ma è apparso imbarazzato e non a suo agio nella rivendicazione dello stalinismo.
Forse non sarà in grado di salvare il Pcfr dal suo destino storico ma potrebbe costruire nel prossimo futuro una coalizione politica e sociale intorno a sé che vada oltre il nostalgismo. Non sarebbe certo la sinistra di cui necessita questo Paese ma, forse, un (piccolissimo) passo avanti in quella direzione.

Buongiorno Mosca!
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Quale conoscenza se i manuali sono di parte

A migrant shows on an atlas where he comes from to an Italian woman, at the Franco-Italian border in Ventimiglia, Italy, Sunday, June 21, 2015. European Union nations failed to bridge differences Tuesday, June 16 over an emergency plan to share the burden of the thousands of refugees crossing the Mediterranean Sea, while on the French-Italian border, police in riot gear forcibly removed dozens of migrants. (AP Photo/Thibault Camus)

I manuali scolastici di storia del dopoguerra hanno continuato senza sosta a costruire un’identità nazionale, seppur sulle macerie della Seconda guerra mondiale. Spesso lo hanno fatto glorificando le atroci campagne dell’esercito italiano in Africa, ponendosi in una prospettiva del tutto italocentrica. Significativa questa frase da Storia e civiltà (Petrini, 1950) di Franco Landogna: «Era evidente dunque l’interesse (per la Libia ndr), e date le condizioni di barbarie, di miseria e di oppressione dell’elemento indigeno arabo cui il governo turco teneva quelle regioni, il diritto dell’Italia ad impadronirsene, per portarvi una più alta e alacre civiltà».

Solo negli anni 90, quindi in tempi relativamente recenti, il ritratto stereotipato del colonialismo è parzialmente venuto meno. Questo processo di “smemoratezza” collettiva ha lasciato tracce nel razzismo di oggi e in alcune forme di fascismo istituzionale. Ma le criticità dei manuali riguardano tutte le epoche storiche. Con le dovute eccezioni, dalla storia antica a quella contemporanea, i testi in uso nelle scuole italiane risultano monchi, superati ed eurocentrici. Quella di Cristoforo Colombo può essere definita ancora “scoperta”? Le missioni gesuite in Sud America sono state “civilizzatrici”? Che fine ha fatto la storia dell’Africa, dell’Asia, del Centro e del Sud America? Perché si parla di Islam solo nei box che titolano “terrorismo”? E perché si omettono le conseguenze dell’“italianizzazione fascista” in Istria e Dalmazia?

Per non parlare poi dei…

L’articolo di Maria Panariello prosegue su Left in edicola


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Francesca Fagioli: Gli adolescenti di oggi, una generazione matura

«Prima ancora degli psichiatri, sono gli artisti e i poeti che ci raccontano di quel mondo misterioso che è l’adolescenza. Un mondo pieno di turbamenti, di conflitti, di sogni e progetti ma anche di solitudine e tristezza» scrive la psichiatra Francesca Fagioli, dopo aver citato un brano di Bel-ami di Guy de Maupassant, in un suo articolo sulla rivista scientifica Il sogno della farfalla. A lei che è dirigente medico al servizio di Prevenzione e intervento precoce salute mentale della Asl Roma 1, ci siamo rivolti per provare a far emergere alcune delle mille sfumature che riguardano questa fondamentale tappa della nostra vita, troppo spesso giudicata attraverso una lente deformata dai luoghi comuni.

Cos’è l’adolescenza?

L’adolescenza è il tempo in cui si devono comporre come in un puzzle tutte le sensazioni, emozioni, affetti, immagini che ci portiamo dentro dai nostri primi giorni, mesi, anni di vita. E l’adolescente tante volte non sa darsi un tempo. È come se, il tempo della nostra vita che inizia alla nascita, in adolescenza si fermasse e si allungasse allo stesso momento. Il mondo indefinito di luci e ombre del neonato, che nel primo anno di vita non ha ancora la visione nitida delle cose, riemerge nell’adolescenza, in particolare in quella incertezza che l’adolescente ha nella ricerca di un altro da sé. Per cui l’identità che prima di tutto è da cercare e consolidare è quella sessuale. Ma essere atti alla sessualità con la pubertà non significa un immediato passaggio all’atto. Ognuno ha bisogno di un suo tempo, per poter cimentare la propria identità in un rapporto con un essere umano che è assolutamente uguale a se stessi ma è completamente diverso, ossia nel rapporto uomo donna. Per cui la sessualità diventa rapporto interumano, ricerca, realtà umana che deve portare con un sentire del corpo a costruire un’identità non a distruggerla.

Nel linguaggio comune si parla di crisi adolescenziale come di un fatto normale a cui tutti vanno incontro in questa delicata fase di cambiamento. Cosa distingue una crisi “fisiologica” da una che fisiologica non è?

L’adolescenza è crisi per definizione. Una crisi assolutamente fisiologica perché avviene in un periodo particolare di passaggio dall’essere bambino al diventare adulto. Questo tempo…

L’intervista di Federico Tulli alla psichiatra Francesca Fagioli prosegue su Left in edicola


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La fantasia dei ragazzi corre sul web

Come scrive con chiarezza Michele Cortellazzo nella voce della Treccani: «Per linguaggio giovanile si intende la varietà di lingua utilizzata nelle relazioni del gruppo dei pari da adolescenti e post-adolescenti, costituita principalmente da particolarità lessicali e fraseologiche (e, in misura minore, morfosintattiche e fonetiche)». Il linguaggio giovanile è quindi una varietà linguistica codificata e stratificata nel tempo che segue, come qualunque altra forma di una lingua storico-naturale, precise regole a livello della composizione delle parole (lessico), della loro organizzazione nella frase (sintassi) e del modo in cui tali elementi sono pronunciati (fonetica). La principale caratteristica di tale variante è l’età dei parlanti.

I linguisti hanno identificato un linguaggio giovanile in diversi periodi storici. Pensiamo ad esempio in italiano al linguaggio giovanile degli anni Cinquanta, quando con lo sviluppo economico i giovani avevano occasioni di svago prima impensabili. Tale prima fase finì bruscamente negli anni Sessanta, quando, con i movimenti politici, il linguaggio giovanile che si caratterizzava per l’età dei parlanti, cedette il posto ad un linguaggio tipico di un orientamento politico, usato da persone appartenenti a diverse fasce d’età. Pensiamo a tutta la fraseologia tipica di quello che è stato chiamato sinistrese, ad esempio il frequente intercalare di “cioè”, oppure “nella misura in cui”, ecc. Questo linguaggio univa le generazioni, ma creava separazioni a causa delle idee politiche.

Fu poi la volta del Riflusso, quando alla fine degli anni Settanta nacque un altro linguaggio giovanile, legato alla ricerca di risposte sul piano personale, piuttosto che politico. Si tornava ad una variante che tendeva a creare una distanza fra le generazioni e quindi serviva per identificare uno specifico gruppo e per distinguerlo da gruppi contigui. Ogni linguaggio giovanile si caratterizza quindi per l’uso di parole prese da diversi registri o contesti: ad esempio dall’italiano colloquiale viene “bestia”, dai dialetti…

L’articolo di Federico Masini prosegue su Left in edicola


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Violenza sulle donne, la convenzione di Istanbul compie 7 anni. Con quali risultati?

Un momento della manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne, Roma, 25 novembre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Il 7 aprile ricorre l’anniversario dell’approvazione da parte del Comitato dei ministri del consiglio d’Europa della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul. Approvata nel 2011, l’Italia l’ha ratificata il 19 giugno 2013 con voto unanime di entrambe le Camere. A gennaio 2018, i Paesi firmatari sono 46, più tutti gli Stati dell’Unione europea. La convenzione è entrata in vigore ed è diventata vincolante il primo agosto 2014.

Un provvedimento importante e significativo ma che ancora purtroppo, non ha portato grandi cambiamenti nella società italiana, come si evince anche dall’ultimo rapporto di Amnesty Italia come abbiamo scritto su Left.

Lo scopo della convenzione è quello di stabilire uno standard sovranazionale a cui si devono conformare le norme in materia di protezione delle donne da ogni genere di violenza o minaccia di violenza. La stesura del testo è iniziata nel 2008 ed è terminata nel 2010. Nelle ultime fasi della redazione del trattato, il Vaticano e la Russia hanno proposto delle modifiche che sono state criticate da Amnesty International. Le modifiche in questione prevedevano l’esclusione dalla tutela dell’accordo delle donne omosessuali, transessuali e bisessuali. Ma queste modifiche non sono state approvate e anche queste categorie oggi sono tutelate dall’accordo.

Quali sono quindi gli standard a cui si devono conformare le leggi di uno Stato firmatario?
Il trattato è basato su quattro P, che sono: protezione, prevenzione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate. Ad ognuno di questi aspetti è dedicato un capitolo dell’accordo.
Secondo la convenzione la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. È inoltre il primo trattato internazionale a contenere una definizione del concetto di “genere”, qui inteso come «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».
Gli Stati che aderiscono devono includere nei loro codici penali, qualora già non lo siano, una serie di reati: la violenza fisica, psicologica e sessuale, definita come qualunque atto sessuale non consenziente, la sterilizzazione forzata, la mutilazione genitale, le molestie sessuali, l’aborto forzato e il matrimonio forzato.

Uno degli articoli più importanti è il terzo, che definisce delle espressioni ricorrenti nel trattato. Con “violenza contro le donne” si intendono tutti gli atti che determinano o possono determinare un danno fisico, sessuale, psicologico o economico. Nella stessa definizione ricade anche la minaccia di tali atti. La “violenza domestica”, secondo il trattato, è costituita da tutte le azioni violente, da un punto di vista fisico, psicologico, sessuale ed economico che si verificano tra partner e coniugi, attuali o precedenti, indipendentemente dal fatto che l’autore abbia condiviso o meno l’abitazione con la vittima. Infine viene designata la “violenza contro le donne basata sul genere” come qualunque atto violento diretto contro una donna in quanto tale o che colpisce prevalentemente le donne.

Ad ulteriore tutela delle vittime, l’articolo quattro prevede che l’attuazione delle misure deve essere garantita indipendentemente dall’etnia, lingua, religione, opinione politica, orientamento sessuale, identità di genere e status di migrante o rifugiato e appartenenza ad una minoranza.