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Il cuore sul porto di Livorno

Vai a lavorare in vigna con la tuta blu del babbo e tieni lontani i pensieri cupi dal cuore. Ma poi un amico livornese ti chiama e dice che due operai sono morti al porto di Livorno, nelle cisterne, mentre facevano lo stesso lavoro di manutenzione di chi un tempo aveva indossato quella stessa vecchia tuta blu che tu ora indossi. E ti sale prima il magone e poi la rabbia. E fortunato te che con la tuta blu stai all’aria buona e non negli ambienti confinati dove tuo padre l’aveva portata, a sporcarsi di grasso, idrocarburi e polvere, a prendere il sentore del gas di saldatura e l’ossido ferroso della smerigliatrice. E al paradiso della classe operaia non ci credi più.

Ma scrivi, scrivi la vita di chi lavora, perché domani anche quei due morti di Livorno saranno dimenticati. E altri prenderanno il loro posto: un trafiletto nella cronaca locale, un foglio stampato sul muro del cimitero, e poi la notte e l’oblio. E allora scrivi con ogni mezzo necessario, con la forza della vite che piegata infili nel terreno, a costo di lacrimare linfa come un tralcio potato, col tremore del riso metallico che fa il fil di ferro quando stride sul filare, assicurato da un chiodo curvo. Nulla è sicuro ma tu, maremma cane, scrivi.

Prendete un operaio livornese, come quello a sinistra. Infilatelo in un serbatoio, come quello sullo sfondo. Provate a scrivere una storia senza usare le parole “incidente”, “esplosione”, “polmoni”, “malattia”.
Basta, è impossibile, lasciate stare.
Provate allora a raccontare…

Alberto Prunetti è uno scrittore e giornalista, autore di “108 metri, The new working class hero”, Laterza 2018

L’articolo di Alberto Prunetti prosegue su Left in edicola


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Ozlem Tanrikulu: Non fermeranno il nostro progetto politico in Rojava

A che punto è oggi la rivoluzione di Rojava?
Già prima della rivoluzione del Rojava la popolazione aveva un buon livello di organizzazione politica. Con la rivoluzione si è sviluppato il sistema democratico confederale. Parliamo di una zona geograficamente ampia, con un mosaico di lingue, culture ed etnie: per questo motivo era importante disporre di un sistema completo che abbracciasse questa ricchezza culturale e storica. Nel corso della storia, la lingua curda Suryani-sunnita e approcci nazionalistici sono stati usati per creare differenze nella regione. Costruire un sistema confederale democratico richiedeva dunque un’ampia consapevolezza da parte della gente e una organizzazione complessa. Per prima cosa sono stati creati rapidamente i gruppi (associazioni, comitati) e le istituzioni come struttura amministrativa del sistema. Di seguito gli interventi in economia e autodifesa, intesa questa non come forza militare ma come autodifesa sociale di base. Si tratta, vorrei ricordare, di una società che ha vissuto sotto la pressione di forze d’invasione per migliaia di anni e che veniva da una cultura feudale.

In cosa consiste il progetto?
Il progetto consiste nella formazione di una mentalità comune in settori come istruzione, cultura, salute, economia e autodifesa ed è a lungo termine. Il confederalismo democratico non è un modello rigido, ma si evolve sulla base delle esperienze acquisite. Per questo motivo era necessario sviluppare una ‘fiducia in sé’, nell’idea che la cultura e la consapevolezza storica e sociale sarebbero stati percorsi complessi da affrontare. Infatti puoi creare organizzazioni, far partecipare la popolazione dal basso, ma è importante renderla consapevole per prendere le distanze dalla natura del potere. Il sistema del confederalismo democratico richiedeva una mentalità flessibile: se questa non è formata sull’educazione comune, una società non può essere creata. Ora, con il tempo, si è capito la differenza tra il confederalismo democratico e l’organizzazione dello Stato-nazione. Il confederalismo democratico richiede uno sguardo profondo. Le organizzazioni sono importanti, ma ciò che muove internamente lo è ancor di più. È ciò che rende il sistema permanente.

Le pratiche di autogestione hanno modificato l’approccio dei singoli, sono state cioè uno strumento “educativo” verso una gestione equa delle risorse economiche, politiche, sociali?
La società è cambiata nella visione femminile perché era importante rappresentare equamente le donne e farle partecipare ai meccanismi decisionali. Questo processo ha reso più consapevole la donna della propria forza e capacità di agire. Grazie a questo cambiamento, oggi anche nei gruppi più lontani dalla mentalità democratica, i problemi vengono espressi e risolti con il dialogo. È cambiata anche la mentalità a proposito di giustizia sociale: la società trova le soluzioni dei propri problemi familiari, sociali e personali attraverso, appunto, metodi di dialogo. In questo modo oltre l’80 per cento delle dispute sono state risolte nei comitati territoriali per la pace.

L’economia è stata l’area di sviluppo che invece ha presentato maggiori difficoltà. Dopo la rivoluzione le proprietà statali governative sono state distribuite alle comunità e sono state costituite cooperative agricole. Ma il problema era gestirle con la mentalità giusta: le cooperative infatti non sono solo imprese economiche, sono complessi sanitari, sociali, educativi. Ogni cooperativa è uno spazio vivente, uno spazio organizzativo.

L’attacco contro Afrin e l’intenzione della Turchia di procedere verso Manbij, Kobane, il confine con l’Iraq, mette in pericolo (anche sul piano del consenso della base) il confederalismo democratico e la sua natura multietnica e multiculturale?
C’è un attacco totale al sistema del confederalismo democratico da parte delle grandi potenze, non solo della Turchia. È un sistema che ha prodotto ricerche nelle società arabe del Medio Oriente, potrebbe diffondersi in tutto il mondo. Il capitale globale vuole bloccarne la diffusione perché teme che metta in discussione il suo potere. Gli attacchi sono stati vari. Ad esempio, hanno voluto definire il sistema come Stato-nazione o ridurre i nuovi modelli di organizzazione etichettandoli come rapida via per la libertà, cercando di imitarli. Ognuno, dal proprio punto di vista, ha cercato di imporre il proprio sistema di valori, dimostrando la necessità di una lotta più elaborata e comune. Se vuoi mantenere vivo il confederalismo democratico hai bisogno non solo di difenderti sul piano militare e politico ma soprattutto di dare risposte culturali. Per quanto riguarda Afrin, è nota per il suo patriottismo, la sua dipendenza dalla terra. Un centro dove vivono culture diverse. L’invasione e gli attacchi feroci dello Stato turco hanno causato la morte di centinaia di persone e la fuga di centinaia di migliaia di civili. Ma la popolazione che si è formata con questa esperienza finirà per portare il proprio progetto politico fin sulla luna. È impossibile annientare solo con un attacco fisico un sistema che si è costruito sulla cultura.

L’intervista di Chiara Cruciati a Ozlem Tanrikulu è tratta da Left n. 13 del 30 marzo 2018


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L’impresa detta legge e la politica obbedisce

MATTEO RENZI GIULIANO POLETTI 2015-03-18 Titolo: MATTEO RENZI Didascalia: MATTEO RENZI GIULIANO POLETTI

Da tempo c’è chi va dicendo in giro che la classe operaia è morta e quel che ne rimane sta scomparendo. Forse non hanno granché torto a leggere quotidianamente i numeri sulle morti sul lavoro: sono tutti operai, del porto, della logistica, della chimica, delle aziende per mangimi. Una lenta morte collettiva, fulminante a livello individuale. Ma di fronte a una strage silenziosa e quotidiana, il cinismo non aiuta la storia. E forse non è neppure il caso di parlare di numeri, sebbene siano esorbitanti, così da evitare il rischio di assuefazione o nel peggiore dei casi di non sentire la stessa violenza anche quando e se questa strage silenziosa dovesse ridursi.

La sicurezza nei luoghi di lavoro è un “non tema” nel dibattito pubblico, politico ed istituzionale in Italia. A livello politico istituzionale se ne discute solo nelle formali note di cordoglio dopo l’ennesima morte che acquista la propria dignità solo quando per qualche ora se ne ritrova notizia sulla homepage dei grandi quotidiani nazionali. Molto più di frequente però, i morti, caduti sul lavoro, si ritrovano solo nelle pagine interne di qualche edizione locale. Operai morti le cui storie non vengono mai raccontate, dove il come e perché è spesso affidato alla voce di chi, solo dopo, si presenta in quei luoghi a decretare cause ed effetti. Dichiarazioni spesso sbrigative per non ledere l’immagine delle aziende coinvolte. Inchieste che si chiudono in 48 ore per evitare che il mostro burocratico-giudiziario pesi sui profitti d’impresa.

Ed è da qui che tocca ripartire per…

L’analisi di Marta Fana prosegue su Left in edicola


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Il piccolo grande tesoro di Baghdad

Nel 1258 i mongoli invasero Baghdad, all’epoca capitale del califfato abbaside che si estendeva dall’Andalusia alla Persia. Cinsero d’assedio la città, uccisero centinaia di migliaia di persone e violarono la biblioteca, tesoro inestimabile di cultura, arte e pensiero: Dar al-Hikma, la casa della sapienza, era stata fondata come biblioteca privata dal califfo Harun al-Rashid nel IX secolo, poi ampliata dai successori fino a contare mezzo milione di volumi. La più grande biblioteca del mondo conteneva opere in greco, ebraico, copto, siriaco, persiano, sanscrito, arabo. Tanto grande e ricca da ospitare un’università.

I mongoli alla guida di Hulegu, nipote di Genghis Khan, entrarono, presero i libri e li gettarono nel Tigri. Ne distrussero centinaia di migliaia, così tanti che il colore del fiume – si narra – divenne nero per l’inchiostro che abbandonava le pagine. Di quei libri se ne salvarono pochissimi, recuperati dalla gente dall’acqua del Tigri. Uno, un testo del XIII secolo di interpretazione del Corano e dell’Islam, è oggi tra gli scaffali della biblioteca al-Qadiriyya. È sopravvissuto a un’altra distruzione, otto secoli dopo: quella del 2003.

Con l’invasione statunitense dell’Iraq e il caos di bande armate che…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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Adolescenti di oggi, una generazione matura (podcast). Intervista alla psichiatra Francesca Fagioli

I ragazzi oggi sono davvero come vengono dipinti dai media mainstream? Restiamo sbalorditi quando leggiamo su La Repubblica che sarebbero tutti “sdraiati”, svogliati, fatui, quasi dei potenziali delinquenti.

Per capire e smontare questa visione stereotipata e per provare a far emergere alcune delle mille sfumature che riguardano questa fondamentale tappa della nostra vita, troppo spesso giudicata attraverso una lente deformata dai luoghi comuni, ci siamo rivolti alla psichiatra Francesca Fagioli, dirigente medico al servizio di Prevenzione e intervento precoce salute mentale della Asl Roma 1.

Potete ascoltare la nostra intervista nella nuova puntata di Left on air, il consueto podcast di approfondimento dei temi trattati sul nostro settimanale.

Buon ascolto

Un’intervista alla psichiatra Francesca Fagioli, a cura di Federico Tulli, è stata pubblicata su Left n. 14 del 6 aprile 2018


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Gli atei perseguitati in Iraq, ma la Costituzione tutela la libertà di opinione

In Iraq tre persone sono ricercate e una quarta è stata arrestata con l’accusa di “organizzare seminari per promuovere l’idea della non esistenza di Dio e per diffondere l’ateismo”, nella provincia di Garraf, a circa 30 km da Nassirya nel sud del Paese. A riportarlo sono il sito d’informazione specializzato in medio oriente, Al Monitor, e altri fonti arabe.

Dhidan al-Ekili, un magistrato locale, ha raccontato alla stampa l’arresto è stato eseguito l’11 marzo. Sempre secondo Ekili, le forze dell’ordine hanno ricevuto dal tribunale locale l’ordine di perseguire con fermezza il «fenomeno dell’ateismo».

Ma per l’analista ed esperto di politica irachena Ali Jaber al-Tamimi «non esistono articoli nel codice penale iracheno che puniscano l’ateismo», intervistato sempre da Al Monitor. «La Costituzione irachena tutela la libertà di credo e di opinione» ha continuato Tamimi. Anche sui social network la notizia non è passata inosservata, in molti hanno infatti criticato la decisione della magistratura.

Lo studio più recente sulla diffusione della religione in Iraq è stato condotto da Gallup nel 2012. Stando al sondaggio, l’88% della popolazione irachena si dichiara religiosa. L’Iraq si posiziona così al settimo posto al mondo per diffusione della religione.

Molti quotidiani ritengono che la diffusione dell’ateismo sia dovuta alla corruzione presente nei partiti islamici e alla loro incapacità di amministrare il Paese negli ultimi dieci anni. Questi partiti sono arrivati al potere dopo l’invasione americana del 2003.

Sull’argomento, Al Monitor ha chiesto di fare luce al giornalista Safaa Khalaf: «L’ateismo in Iraq nasce per motivi politici e ha conseguenze economiche e sociali. L’ateismo si è fatto largo nel malcontento creato dal fallimento dei partiti di matrice islamica nel governare lo stato e gestire i servizi. I metodi di comunicazione moderni hanno poi cambiato lo stile di vita di molti iracheni, in particolare dei giovani, avvicinandoli all’ateismo e al laicismo». Khalaf, che da tempo segue le problematiche sociali irachene, ha poi aggiunto: «In Iraq, c’è molta confusione tra pensiero religioso e pensiero politico. Il laicismo è considerato nemico dello stato nella retorica proposta dai partiti islamici, al punto che è completamente sparito dal dibattito politico dal 2003. Addirittura il Partito comunista iracheno ha sostituito il termine “laico” con il termine “civiltà”». «Questi errori nell’etichettare i diversi comportamenti e pensieri, questo analfabetismo, fa gioco alle autorità, perché facilità il loro compito nel reprimere le voci di dissenso, in particolare quando criticano la religione e il clero» ha poi concluso Khalaf.

Ancora scontri tra studenti e polizia indiana per l’indipendenza del Kashmir

epa06647097 Kashmiri student shout slogans during a protest against the recent killings in south Kashmir, in Srinagar, the summer capital of Indian Kashmir, 05 April 2018. Reports state police fired dozens of tear smoke shells to disperse the stone throwing students at Amar Singh College in Srinagar. Schools in Kashmir valley re-opened after four days, however, students protested in many parts of Kashmir valley against militant and civilian killings in south Kashmir that left 20 dead. EPA/FAROOQ KHAN

Fuoco, polvere e lacrimogeni in Kashmir. Nuovi scontri tra gli studenti e la polizia indiana nella città di Srinagar. Pietre, canti per l’indipendenza della loro terra e slogan anti-indiani, dopo il primo aprile, il giorno più sanguinoso degli ultimi mesi: gli studenti universitari sono tornati a marciare per le strade dei distretti meridionali contro il governo indiano ed induista. La loro terra rimane in bilico nella disputa tra New Delhi e Islamabad.

Il primo giorno d’aprile 3 soldati indiani, 13 combattenti separatisti, 5 civili hanno perso la vita negli scontri a Shopian, nei villaggi di Dragad e Kachdoora. Dopo questo spargimento di sangue, gli esami sono stati rimandati e le università e scuole sono state chiuse. È stato un tentativo del governo centrale per mettere fine alla protesta degli studenti, ma il 5 aprile i ragazzi sono ritornati per strada con pietre e bandiere dopo una settimana di tensioni. Le dimostrazioni contro l’esercito indiano infatti dopo il 1 aprile sono state di massa e diffuse nel territorio, decine di persone sono rimaste ferite. Da quando il comandante dei ribelli Burhan Wani è stato ucciso nel 2016, 200 separatisti sono morti nelle operazioni dei militari indiani nella polveriera del Kashmir del sud.

La regione a maggioranza musulmana è una delle più militarizzate del mondo, contesa da India e Pakistan, sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, arrivata nel 1947. I ribelli separatisti hanno cominciato a combattere contro il potere indiano nel 1989, per l’indipendenza della loro terra. Sia il Pakistan che l’India rivendicano il territorio himalayano e hanno combattuto tre guerre nella regione montuosa. Dal 1990, decine di migliaia sono le vittime, perlopiù civili.

L’ennesimo governo “non eletto dal popolo”

Non so se qualcuno è sfuggito ma il prossimo governo (se ci sarà, se si riuscirà a formare) sarà l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”.

Le frasi virgolettate sono state scritte (così, pari pari) da dirigenti dei partiti che oggi si sono presentati da Mattarella e che fino a poche settimane fa fingevano di non sapere di essere in una Repubblica parlamentare in cui la maggioranza se non esce netta dalle elezioni deve essere trovata in Parlamento.

È importante ricordarselo perché sia che il prossimo governo sia M5s-Lega oppure M5s-Pd oppure qualsiasi altra combinazione possibile si ritroverà ad essere espressione diversa da quella uscita dalle urne.

E quindi sarà un “inciucio”, l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”, come dissero loro.

Oppure potrebbe succedere che questa volta non se ne lamenti nessuno e allora sarebbe ancora peggio poiché non sarebbe il governo il problema ma piuttosto l’infantile polemica a comando di chi si lamenta delle modalità solo per giustificare la propria assenza.

E per tutti quelli che diranno che servirebbe piuttosto una legge elettorale diversa con un più alto premio di maggioranza vale la pena ricordare che la coalizione che ha preso più voti (e solo dopo il partito che finge di avere vinto ma che è arrivato secondo) non è stata votata da 2/3 degli italiani. E quindi sarebbe un  “inciucio”, l’ennesimo governo “non eletto dal popolo”, “non votato da nessuno”, “deciso nelle segrete stanze”, voluto “dai poteri forti” e figlio di una “forzatura voluta dal Presidente”.

Buon venerdì.

Morire di lavoro ai tempi del Jobs act

Due donne si abbracciano commosse dopo l'esplosione che ha causato la morte di due operai nel porto industriale di Livorno, 28 marzo 2018. I due operai, dipendenti della Labromare di Livorno, morti nell'esplosione di un serbatoio che aveva contenuto acetato di etile, secondo una prima ricostruzione stavano lavorando all'esterno. Uno dei due operai era più esperto, l'altro più giovane. Stavano effettuando lavori di manutenzione e il serbatoio era stato svuotato. ANSA/ ALESSIO NOVI

Sono morti a Treviglio, il giorno di Pasqua, Giuseppe Legnani e Giambattista Gatti, due figli a testa, operai della Ecb, fabbrica di pet food nella bassa bergamasca. Alcuni residenti si sono lamentati per il cattivo odore e loro sono stati chiamati per un sopralluogo. Li ha uccisi, esplodendo, l’autoclave di un serbatoio. Dicono, invece, che abbia un “gradevole odore fruttato” l’acetato di etile respirato da Lorenzo Mazzoni, 25 anni, e Nunzio Viola di 53, tre giorni prima a Livorno. Doveva essere solo una «routinaria operazione di pulizia di un serbatoio vuoto» ma questo solvente per vernici è un liquido volatile e infiammabile così tanto che basta una scintilla per provocare un’esplosione. Lavoravano nei cantieri Neri per conto di Labromare (aziende dei Fratelli Neri) che cura lo smaltimento dei rifiuti del porto. E il 29 marzo un operaio di 56 anni, Carmine Cerullo, è rimasto folgorato vicino a Bologna su un traliccio dell’alta velocità, mentre Nunzio Industria è precipitato nel Mugello: aveva 52 anni, ed era salito da Napoli per un appalto di Vodafone.
Livorno Nord, il parco industriale è spuntato negli anni 50. Darsene, una dopo l’altra, nel canale industriale del porto, asservite alle operazioni di chimichiere, petroliere, per Gpl e altro materiale stoccato nei depositi costieri. Sono 211 i serbatoi tra la via Aurelia e il Tirreno e, dodici miglia al largo, sulla piattaforma off shore, con la sua ragnatela di condotte sottomarine, situata in una zona che doveva servire alla protezione delle balene. Una città di torri abitate da sostanze tossiche, esplosive, cancerogene, e 1.500 lavoratori. È un’«area a elevato rischio di incidente industriale rilevante». Mostri peggiori si trovano solo nei porti di Genova, Ravenna, Marghera, Napoli o nei nuclei industriali di Trecate e Filago (rispettivamente in provincia di Novara e di Bergamo, ndr).
Scrivo i nomi di chi è morto per lasciare una traccia, perché già domani si ricorderanno di loro solo i compagni e i familiari, gli omicidi “bianchi” provocano assuefazione in un’opinione pubblica lacerata dalla crisi e distratta da altre paure fabbricate ad arte. Dall’inizio dell’anno gli infortuni mortali sono già 151 secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna – un numero superiore ai 113 dello stesso periodo del 2017 – mentre l’Inail non ha ancora finito i conti del 2017, il dato provvisorio è di 1.029, +1,1 per cento, e 119 sono stranieri, i più sfruttati di tutti.
Tornando a Livorno: negli ultimi 30 anni, seminando orfani e vedove, sono morti in venti, sulle banchine del porto, nelle stive o nei cantieri, chi precipitato, chi schiacciato da un vagone o da un muletto o da un carrello, tranciato da un’elica, colpito da un tubo di 16 metri, stritolato tra i fusti.
Sì, ci sono il lutto cittadino, il gonfalone del Comune, la fascia nera al braccio dei calciatori della squadra locale, il cordoglio delle aziende che si mettono a disposizione degli inquirenti, ma poi la vita continua. Anzi, continua la morte, anche quella “in itinere”, di chi crepa mentre va o viene dal lavoro, anche quella lenta di chi è esposto all’amianto o ad altre sostanze tossiche. E non è “morte da lavoro” il suicidio di Ivan Simion, carpentiere che si è impiccato a Orbassano due giorni dopo la strage di Livorno, perché da mesi l’azienda non lo pagava?
Il governatore toscano Enrico Rossi, di quel pezzo di Leu che viene dal Pd, ha detto: «Mattanza frutto di lassismo». Ma è lo stesso dei tagli alla sanità e dell’accorpamento delle Asl, una deterritorializzazione che ha complicato la programmazione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il piano sanitario prevede che il 5 per cento della spesa serva alla prevenzione ma non è mai stato attivato. Né a Livorno, né altrove in Italia. Negli ultimi dieci anni, il dipartimento prevenzione di Livorno ha dimezzato, in linea col trend nazionale, gli operatori dedicati alla vigilanza. In tutta Italia…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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Non chiamatele morti bianche

Foto LaPresse - Vince Paolo Gerace 19/01/2018 - Milano (MI) Cronaca Il leader di Leu, Pietro Grasso, a Milano ha raggiunto il raduno alla manifestazione per dire no alle morti sul lavoro e ha brevemente incontrato i manifestanti alla testa del corteo in piazza San Babila. Alla manifestazione presenti Fiom e sindacati metalmeccanici. Nella foto: la manifestazione per ricordare i morti della Lamina, 4 morti sul lavoro a Milano

Sicurezza. È stata la parola più usata durante la campagna elettorale. Non solo da esponenti del centrodestra leghista e xenofobo. Ma anche dal centrosinistra. Con il ministro dell’Interno Minniti, il governo Gentiloni ne aveva fatto la propria parola d’ordine. Paventando invasioni (inesistenti) di migranti, Lega, Forza Italia, Pd e M5S, all’unisono, hanno sostenuto la necessità di maggiori controlli prospettando soluzioni emergenzialistiche e securitarie. Non uno che abbia usato la parola sicurezza in senso proprio, riguardo alla sicurezza che davvero manca in Italia, quella sul lavoro. Con quali conseguenze lo denunciamo già in copertina attraverso l’opera dell’artista Alessio Ancillai dal titolo Testo unico sulla sicurezza del lavoro con scarpe. Solo nei primi tre mesi del 2018 sono già 151 gli operai che hanno perso la vita sul lavoro. Non chiamatele morti bianche, ci ricorda lo scrittore Marco Rovelli che nel 2008 ha dedicato a questo tema un toccante libro reportage, Lavorare uccide. Non si può parlare di fatalità. Le morti sul lavoro sono omicidi. Le cause sono da cercare nell’accelerazione dei cicli di produzione, in nome della massimizzazione del profitto. Si nascondono in politiche che hanno imposto la flessibilità e la precarietà, attraverso contratti a tempo determinato che ostacolano la formazione perché le aziende in quel caso la considerano una spesa inutile.

Le cause sono da cercare in un sistema industriale italiano che, in tempi di crisi, continua a produrre senza innovazione, con macchinari vecchi, per giunta risparmiando sulla sicurezza, approfittando degli scarsi controlli e del fatto che al più si rischia una multa. Sono pochissimi i casi in cui una denuncia porta all’apertura di un fascicolo e poi al processo. E anche quando si va a processo sono rare le cause vinte dai lavoratori e dai loro familiari. La disoccupazione è un’altra potente arma di ricatto. Chi ha un impiego anche se precario e sotto pagato, cerca di tenerselo stretto, anche accettando turni massacranti. Così chi ha un lavoro povero viene contrapposto a chi ne ha uno ancora più povero; come i migranti costretti a lavorare in nero, fino a condizioni di sfruttamento da schiavitù. Se il lavoratore protesta gli viene risposto che c’è un’intera fila in cerca di un posto come il suo. Così si viene spinti ad accettare condizioni di lavoro sempre più mortificanti, che negano la dignità, che impattano pesantemente sulla vita privata, sulle relazioni sociali, perfino su sogni e aspirazioni.

Pensiamo per esempio ai lavori a chiamata che non permettono di organizzare la propria vita. Oppure pensiamo ai giovani collaboratori delle piattaforme digitali che vengono considerati imprenditori di se stessi e per questo non avrebbero diritto neanche al sempre più fantomatico reddito di cittadinanza. Anche i giornali mainstream hanno riportato con evidenza il progressivo aumento dei morti sul lavoro. Nelle settimane scorse, a Catania due vigili del fuoco, a Livorno due operai, come a Treviglio, e drammaticamente la strage continua. Secondo l’ultima indagine del 2017, il 20% delle vittime sono agricoltori schiacciati dal trattore. Ma a morire più di tutti sul lavoro sono gli edili. Il 10% dei morti sul lavoro sono stranieri mentre il 25% delle vittime ha più di 60 anni. E aumentano anche le persone che preferiscono tacere, e non denunciare gli infortuni. Il quadro dettagliato e sconvolgente lo potete leggere in questo ampio sfoglio di copertina. Ci siamo interrogati sulle cause di questa drammatica e inaccettabile ecatombe ma ci siamo chiesti anche perché oggi prevalga la rassegnazione, che poi, troppo presto, diventa oblio.

Per contrasto torna alla mente il dolore, l’indignazione e l’incazzatura di cui raccontava Luciano Bianciardi dopo l’esplosione nelle miniere di Ribolla nel 1954. La disperazione delle famiglie si accompagnava a una vibrante denuncia da parte degli operai, con la ferma e determinata richiesta di un cambiamento. Dopo lo sciopero passarono all’occupazione dei pozzi della Montecatini. Il 28 giugno 1958 Bianciardi scriveva: «48 operai minacciati di licenziamento rimasero nel pozzo per 3 giorni. La polizia bloccò gli accessi, sperando di prenderli per fame, ma senza risultato. Allora l’azienda decise l’intervento armato, dirigeva le operazioni insieme al vice questore, il direttore della miniera, il dottor Riccardi, commercialista, direttore politico del gruppo delle miniere. Organizza circoli culturali per impiegati e tecnici, e ha istituito il prete di fabbrica, cioè un sacerdote che avvicina gli operai anche in fondo i pozzi e li “rieduca”. Anche il premio di crumiraggio è opera sua». Pretendevano giustamente quegli operai lavoro in condizioni di sicurezza. Allora non c’era la robotizzazione, ma oggi c’è, perché si continuano a mandare gli operai nelle cisterne? Allora non c’era ancora una avanzata legislazione sulla sicurezza, perché oggi non c’è una forte lotta per la sua piena applicazione?

Finita l’epoca fordista, il turbo capitalismo in cui viviamo ha portato con sé una frammentazione, atomizzazione della classe lavoratrice, mentre i sindacati sono stati bypassati da un centrosinistra che ha pensato di poter fare a meno della intermediazione. Basta tutto questo a spiegare l’indifferenza che circonda le morti sul lavoro in Italia? C’è molto su cui interrogarsi, molto da studiare e capire perché non si tratta di numeri ma di persone. Non ci arrendiamo all’idea che nel 2018 non si possa pensare un nuovo modello di società e di sviluppo che non sia basato sullo sfruttamento e sulla negazione dei diritti umani.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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