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Quella violenza fisica e psicologica che opprime le donne: il rapporto di Amnesty Italia

Qual è la percezione delle violenze fisiche e psicologiche nei confronti delle donne, delle persone Lgbti, dei minori? Per fornire un quadro dell’opinione dei cittadini c’è adesso il rapporto Gli italiani e le discriminazioni realizzato dalla sezione italiana di Amnesty international in collaborazione con Doxa. Lo studio è stato realizzato prendendo in esame un campione di persone tra i 18 e i 70 anni. Per sei italiani su dieci la violenza sulle donne è aumentata, ma il dato cambia se si va ad evidenziare il sesso di chi la pensa in questo modo. Sette su dieci sono donne, mentre appena la metà degli uomini intervistati la pensa così. Un altro fenomeno in crescita, rispetto al sondaggio, è quello del bullismo, lo è per 7 italiani su 10. La metà pensa però che ciò sia dovuto al clamore mediatico. Sulle unioni civili un italiano su due pensa che siano giuste. Ma le discriminazioni riguardano anche le persone Lgbti, di cui il 40 % sostiene di aver subito una violenza fisica o psicologica nel corso della sua vita.

La prima parte dello studio si è concentrato sul femminicidio e sulla violenza psicologica e fisica sulle donne. Nel 2016, in media una donna veniva uccisa ogni 60 ore. Cifre drammatiche, anche se le fredde statistiche registrano un miglioramento del 17,6% rispetto a dieci anni fa. L’anno terribile fu il 2013, con una donna uccisa ogni due giorni.

Questo dato però diventa molto più drammatico poi se messo in relazione con quello degli omicidi in generale. Gli omicidi nel complesso sono infatti in calo costante: sono diminuiti del 35% nella decade tra il 2006 e il 2016. Nello stesso periodo, gli uomini uccisi sono scesi del 42,8%, passando da una media annuale di 439 delitti a 252.

Se mettiamo in rapporto il numero dei femminicidi con quello degli omicidi in generale, emerge quindi che l’incidenza relativa dei femminicidi sul totale dei delitti è in costante aumento e rappresentano ogni anno una fetta maggiore degli omicidi. Il grafico qui sotto spiega la situazione.

Un dato che non stupisce ma che connota in maniera importante la questione del femminicidio è quello relativo agli assassini delle donne. Su 149 donne uccise nel 2016, 118 di queste, il 79,2% frequentavano il loro assassino. Nel 51% dei casi questi erano partner o erano stati partner della vittima. Inoltre, secondo un dato – ancora provvisorio – raccolto nel 2017, 110 omicidi di donne sono avvenuti tra le mura domestiche.  Solo nel 21% dei casi una donna è stata uccisa da uno sconosciuto, una percentuale completamente ribaltata nel caso degli uomini, per cui lo stesso dato sale al 76%.

Nel rapporto di Amnesty, si cita anche uno studio condotto nel 2014 dall’Istat, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, condotto su un campione di 25mila donne a cui è stato chiesto di riferire sulle violenze da loro subite negli ultimi cinque anni.

Secondo l’Istat, sarebbero 6 milioni e 788mila le donne a dichiarare di aver subito una violenza, fisica o sessuale nel corso della loro vita. Il 31,5% del totale delle donne in Italia. Fatto ancora più grave, di queste, un milione e mezzo afferma di aver subito uno stupro o un tentativo di stupro. Un numero pari agli abitanti di Milano, per esempio.

Una buona notizia viene dal calo delle violenze. L’11,3% delle intervistate ha dichiarato di aver subito una violenza fisica o sessuale, in calo rispetto al 13,3% emerso da un’indagine analoga condotta nel 2006. Per quanto riguarda le violenze psicologiche, si è passati dal 42,3% del 2006 al 26,4% del 2014. Secondo l’Istat, i cui dati sono citati nel rapporto Amnesty, il calo è da attribuirsi ad «una migliore capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di maggiore condanna della violenza».

Sempre confrontando la ricerca Istat condotta nel 2006 con quella del 2014, si nota un aumento delle denunce, passate dal 6,7% all’11,8%. Sono più che raddoppiate le donne che considerano reato un abuso, cresciute dal 14,3% al 29,6%. Le donne che hanno parlato delle violenze subite con qualcuno sono aumentate dal 67,8% al 75,9%. L’aumento di questi numeri denota come ci sia una maggiore consapevolezza da parte delle donne su che cosa costituisca un abuso e quindi un reato e un accresciuto desiderio di tutelarsi.

L’Istat fa notare, si legge nel rapporto, come al miglioramento della situazione possa aver contribuito un miglior lavoro da parte delle forze dell’ordine. Le donne che si dicono “molto soddisfatte” – secondo la classificazione dell’Istat – dell’operato delle forze dell’ordine sono passate da 9,9% al 28,5%, nel caso di violenze commesse da partner o ex partner. Sono invece cresciute dal 9,7% al 23,9%, nel caso di violenze commesse da estranei.

Situazione opposta se si vanno a guardare le violenze gravi, – l’Istat le definisce lo “zoccolo duro” della violenza – se nel 2006 erano il 26,3% le donne ad aver riportato ferite a seguito delle violenze di un partner o ex partner, nel 2014 sono diventate ben il 40,2%.

Già l’Organizzazione mondiale della sanità nel 2013 aveva condotto uno studio, il Global and regional estimates of violence against women, che ha analizzato 141 ricerche effettuate in 81 Paesi diversi. Da questo studio sono emersi dati inquietanti. Il 35% delle donne subisce una qualche forma di violenza nel corso della sua vita, la più comune delle quali viene perpetrata da mariti e fidanzati, di cui è vittima il 30% delle donne. Il 38% delle donne uccise, è vittima del proprio partner.

In questo scenario, l’Europa emerge come il continente più progredito, ma questo non dovrebbe essere motivo per festeggiare: più di un quarto delle donne europee subisce abusi fisici o sessuali da parte del partner.

In ultimo, un dato presentato dall’Oms è il costo degli abusi. Perché gli abusi sulle donne hanno un costo fisico e mentale, non solo per le donne che li subiscono, ma per tutti. Solo in Inghilterra e Galles è stato stimato che il costo degli abusi si aggiri sui 15 miliardi di sterline, sommando tutti i servizi che si attivano a seguito di un abuso. Il direttore dell’Oms, allora, nel presentare la relazione usò parole molto dure, arrivando a definire la violenza sulle donne «un problema sanitario di dimensioni epidemiche».

Il sei luglio scorso la Camera dei deputati ha approvato la relazione finale della commissione parlamentare Jo Cox (dal nome della deputata laburista assassinata) sui fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo, e fa luce sui pregiudizi degli italiani. Da qui si evince che  il 36,8% delle donne ha subito discriminazioni sul lavoro, contro appena il 6% degli uomini. Delle donne che hanno subito discriminazioni sul luogo di lavoro, il 44% è stata costretta a lasciare il proprio impiego.

Altro dato negativo, arriva dall’anno appena conclusosi: su 355 omicidi, 140 sono femminicidi. «Le discriminazioni, in ogni loro forma, sono ancora oggi all’ordine del giorno e sappiamo che c’è ancora tanto da fare» ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, nel corso della presentazione dello studio. «La nostra organizzazione si impegna quotidianamente per contrastare questi fenomeni, sensibilizzando l’opinione pubblica e le istituzioni e creando progetti specifici. I risultati delle nostre azioni iniziano a vedersi e questo viene confermato dall’indagine Doxa in cui emerge una maggiore consapevolezza dei nostri connazionali che vedono un cambiamento o, quanto meno, si iniziano a rendere conto del problema» ha poi concluso Noury.

Per approfondire, vedi il libro di Left Contro la violenza sulle donne

Gli scandali non fermano la volata di Viktor Orban verso la riconferma elettorale

epa06630335 Serbian Prime Minister Aleksandar Vucic (C-R) receives Hungarian Prime Minister Viktor Orban (C-L) ahead of the inauguration ceremony of the renewed local synagogue after its reconstruction in Subotica, northern Serbia, 26 March 2018. EPA/Szilard Koszticsak HUNGARY OUT

La «democrazia illiberale» – così è stata definita dal suo premier – è al voto. Domenica 8 aprile le urne ungheresi verranno aperte. Il difensore dell’«Europa cristiana e bianca», il nemico dei burocrati di Bruxelles e dell’integrazione, Viktor Orban, verrà con tutta probabilità riconfermato per il suo terzo mandato. Diventerà di nuovo primo ministro d’Ungheria, ma è già il leader di tutta quella “Nuova Europa orientale” che vira a destra, e non solo del suo Paese.

«Non vogliamo che il nostro colore si mischi con altri, non permetteremo ad un solo migrante irregolare di entrare in Ungheria» ha detto Orban a degli ufficiali a Veszprem, lo scorso 8 febbraio. Sono parole che hanno scatenato l’ira di Zeid Ra’ad al-Hussein, Alto commissario diritti umani Unhcr, che ha definito il premier «xenofobo e razzista», fomentatore di odio, «una forza combustibile, ma che non vincerà in Europa, non oggi». La risposta è arrivata dal ministro degli Esteri di Budapest, Peter Szijjarto, secondo cui al-Hussein è «capo di un organo estremista pro migranti» e dovrebbe dimettersi. «Il cristianesimo», è tornato poi a ribadire il premier, «è l’ultima speranza per salvare l’Europa».

Un’Europa a cui l’Ungheria non vuole assomigliare. Braccio destro di Orban, a capo dello staff presidenziale, ufficialmente «ministro dell’Ufficio del primo ministro», Janos Lazar ha appena vinto la sua diatriba con Facebook: ha recentemente postato un video sui «cristiani bianchi spariti da alcuni quartieri di Vienna». Nelle immagini vengono mostrate donne velate, uomini di colore per le strade. Lazar dice agli spettatori che è «quello che presto potrebbe accadere in Ungheria». In bilico tra hate speech e libertà d’espressione, Facebook ha deciso di rimuovere il video, ma poi lo ha reso di nuovo visibile.

I bersagli della campagna del premier e dei suoi ministri sono i soliti, vecchi nemici: l’Unione Europea, i migranti, le ong, George Soros. «Ci sono due strade: quella del governo nazionale, e non diventeremo un Paese per migranti, e quella delle persone di George Soros, e l’Ungheria diventerà un Paese per migranti», ha scandito più volte il premier, che da ragazzo usufruì delle borse di studio della Open society, la fondazione del magnate ebreo. Soros nei manifesti elettorali del partito di Orban, Fidezs, abbraccia in fotomontaggio gli avversari politici del primo ministro: tutti insieme, cesoie alla mano, tagliano la recinzione del confine ungherese. Orban ha già vinto, parlando dai microfoni dei palchi, da sud e nord del Paese, di migranti ad un paese senza migranti, riuscendo a distogliere l’attenzione dalla foschia degli scandali che, sempre più fitta, avvolge la sua cerchia.

L’Ungheria è nel mirino dell’Olaf, “Office européen de lutte antifraude”, ufficio anti-frode europeo, per alcuni dei 35 progetti che hanno ricevuto miliardi di finanziamenti dall’Unione europea. Di questi 35, 17 contratti dal 2013 al 2015 sono finiti alla Elios innovativ zrt, società che aveva tra i suoi proprietari Istvan Tiborcz, marito della figlia di Orban, Rahel, sposata nel 2013. L’ufficio rivuole indietro il 4 per cento dei soldi stanziati dal 2012 al 2015, perché, riferisce l’Olaf, si tratta di soldi «frodati o mal spesi», casi di «collusione, sospetti di conflitto di interessi, progetti dai costi gonfiati». L’ufficio ha chiesto alle autorità ungheresi di agire contro le «serie irregolarità» della società, ma sono scandali che finiscono poco sui giornali e in tv a Budapest e dintorni.

Lontano dalla Capitale, l’acqua è dolce al lago di Balaton, ma le informazioni che arrivano dal “mare magiaro” ad ovest del Paese e dall’inchiesta Reuters sono salate. I resort che sorgono a Keszthely, dove andavano a riposarsi gli apparatchiks comunisti e sovietici fino al 1989, ora sono zona d’investimento per favorire la crescita del turismo, ma chi capitalizza profitti sono gli Orbans. A marzo è nata la governativa Mtu, agenzia del turismo ungherese, un’entità creata per decreto, per implementare programmi e progetti, anche quelli finanziati dai soldi europei. A capo c’è il ceo Zoltan Guller, la sua consigliera sulla strategia di marketing è la figlia di Orban, Rahel. I miliardi che il governo ungherese ha stanziato per il turismo entro il 2030 sono 3: di questi, 1,4 finiranno a Balaton, ha annunciato Budapest. I soldi arrivano dalle tasse dei cittadini e per il 40% dai finanziamenti Ue, ma le mani sulle proprietà nella zona del lago sono dell’amico d’infanzia di Orban, Lorinc Meszaros, e del marito di Rahel Orban, il genero del premier, che ha diritto a metà dei profitti del resort più grande della zona.

Non solo. Il ministro senza portfolio, politico di Fidezs, Lajos Kosa, è l’ultimo uomo al centro dell’ennesimo scandalo ungherese. Sarebbe lui la chiave di volta di uno schema per il riciclaggio massivo di denaro sporco. Lo scoop è del giornale Magyar Nemzet, che fa parte della galassia mediatica di Lajos Simicska, oligarca e vecchio amico di Orban, che ora vive in esilio.

Simicska era membro del partito Fidezs dalla sua fondazione, data: 1988. Era l’uomo grigio dietro le quinte mentre cominciava l’ascesa politica del suo amico Viktor, nel 2014 è diventato uno degli uomini più ricchi e potenti del Paese. Dopo un litigio con il premier, ha cominciato a sostenere il partito di destra Jobbik, che non ha abbandonato le sue posizioni sulla questione dei migranti, ma ha fatto della lotta alla corruzione governativa il suo cavallo di troia per ottenere voti alla guerra delle urne di domenica.

L’opposizione, divisa in 23 partiti, con tutta probabilità non riuscirà a vincere, perché non è riuscita a coagularsi. A destra di Orban c’è Gabor Vona, a capo di Jobbik, a sinistra rimane il socialista Gergely Karacsony. In mezzo mancano gli elettori, una “contro narrazione” forte, un uomo che diventi un’alternativa al fondatore della «democrazia illiberale d’Europa», dove la retorica anti-migrazione continuerà anche dopo, ad urne chiuse. Le indagini contro l’élite dell’Orbanomics, forse, invece no.

A proposito di autobus

Ha insistito. Si è innervosito. E poi ha preteso che l’autobus non continuasse il suo viaggio. Un sessantenne di Civitella (provincia di Forlì-Cesena) pretendeva che venisse controllato il biglietto di alcuni  passeggeri stranieri. Se l’è presa con l’autista, gli ha chiesto di accostare e verificare di persona e quando quello si è rifiutato ha pensato bene di improvvisarsi controllore chiedendo agli stranieri di mostrargli il biglietto. Mica agli italiani, solo agli stranieri.

Quando quelli si sono rifiutati ha cominciato ad inveire costringendo l’autista a fermare la corsa e chiamare i carabinieri perché le focose intemperanze (razziste, si può dire?) dell’anziano non sfociassero in qualcosa di peggio. È l’aria che tira dalle nostre parti di questi tempi, qui dove in nome della xenofobia (che è razzismo travestito) molti disperati credono di trovare la giustizia sociale prendendosela con altri più disperati di loro. Qui dove stanare uno straniero senza biglietto è l’aspirazione di una moltitudine di sceriffi fai da te che s’imbruttiscono nel cercare conferme dei propri teoremi per poter dire che avevano ragione loro, che “non sono razzisti ma” e che l’invasione (e non la mala politica, i furbi, i mafiosi e i corrotti) è la causa di tutti i mali. Quando l’ultima spiaggia per resistere al proprio disagio è nell’inchiodare gli altri significa che la situazione è terribilmente infiammabile e lassù c’è una classe dirigente che prima o poi dovrà fare i conti con i mostri che ha creato.

I carabinieri hanno denunciato il sessantenne per interruzione di pubblico servizio (l’autobus è rimasto bloccato per più di mezz’ora).

E gli “stranieri” avevano tutti un regolare biglietto.

Buon giovedì.

Il sogno di Martin Luther King, a 50 anni dalla sua morte

epa04569755 Jerome Pride holds a sign depicting Martin Luther King Jr. during the annual Martin Luther King Day parade as it winds its way through downtown Memphis, Tennessee, USA, 19 January 2015. EPA/MIKE BROWN

Il 4 aprile di 50 anni fa moriva una delle figure più importanti nella lotta per i diritti civili, il premio Nobel per la pace Martin Luther King. Ispirato dai metodi di protesta non violenti del Mahatma Gandhi, King ha guidato il movimento per i diritti civili fino al suo omicidio nel 1968.

La lunga marcia per il riconoscimento dei diritti civili e per la fine della segregazione razziale negli Stati Uniti comincia nel 1955, con il famoso atto di ribellione di Rosa Parks, donna di colore che si rifiuta di lasciare il proprio posto sull’autobus ad un uomo bianco, come imponeva la legge dell’epoca. Rosa Parks viene arrestata, e questo spinge il movimento ad organizzare un boicottaggio del trasporto pubblico di Montgomery, la città dell’Alabama teatro della vicenda. Il boicottaggio durerà un anno e un mese, e nell’organizzarlo Martin Luther King si imporrà come leader del movimento. Negli anni successivi continua ad organizzare proteste ma con risultati alterni.

Momento cardine nella vita di King è la campagna di protesta organizzata a Birmingham, sempre in Alabama, nel 1963. King organizza sit in, marce e occupazioni di suolo pubblico di massa, in aperta violazione delle leggi razziali, con il dichiarato intento di creare un situazione critica al punto che l’unica opzione rimasta alle autorità sia negoziare con il movimento. La polizia reagisce arrestando i manifestanti, tra cui King stesso. Dalla sua cella scrive una lettera in cui rivendica la protesta, e rimarca che il suo movimento stava violando leggi ingiuste, facendo notare come il tanto celebrato Boston Tea Party del ‘700 – quando un gruppo di coloni americani gettò in mare il carico di tè di una nave diretta in Inghilterra – fosse un atto illegale all’epoca, mentre tutto quello che fece Hitler in Germania fu completamente legale.

Nello stesso scritto propone anche un’altra idea, una visione della lotta per i diritti civili inedita: il nemico, l’oppressore, non è il governo o il ku klux klan. Il nemico è l’uomo bianco medio, che sacrifica la giustizia sociale sull’altare dell’ordine pubblico. L’uomo bianco che da un lato dice di condividere il fine del movimento, mentre dall’altro guarda con paternalismo i neri dall’alto in basso e ne critica i metodi della protesta. “Dovete attendere un momento migliore” dice l’uomo bianco all’uomo di colore, si legge nella lettera.

La fama e la capacità di raccogliere attorno a sé così tante persone non passa inosservata al governo. L’Fbi, la Nsa e la Cia decidono di mettere sotto controllo il suo telefono in cerca di possibili legami con il regime dell’Urss, ovviamente senza successo. Perché battersi per la giustizia sociale, agli occhi del capitalismo a stelle e strisce, voleva dire automaticamente essere un pericoloso sovversivo.

L’evento che consacrerà King come figura non solo americana ma mondiale è anche uno dei momenti più iconici della storia: il discorso alla marcia su Washington nel 1963, il famoso «I have a dream». Una delle frasi più famose di sempre e simbolo della lotta per un mondo più giusto. Frase improvvisata sul momento, alcuni dicono ispiratagli dalla sua amica, la cantante gospel Mahalia Jackson, che mentre si trovava alle spalle di King avrebbe urlato «Tell them about the dream!», in italiano «Raccontagli del sogno!».

Il 1964 è un anno d’oro per King. Gli viene conferito il premio Nobel per la Pace per l’impegno nella lotta contro il razzismo attraverso la protesta non violenta, e il suo movimento ottiene una vittoria storica, con la firma da parte del presidente americano Lyndon Johnson del Civil rights act che pone fine alla segregazione razziale. Alla firma della legge, era presente anche King stesso. Ma King non lottava solo per le persone di colore, lottava per un mondo migliore. Negli ultimi anni si era espresso spesso contro la guerra in Vietnam e aveva organizzato iniziative di aiuto ai poveri.

Nel 1968 viene ucciso mentre si trova in un albergo a Memphis, e ovviamente le teorie complottiste sulla sua morte si sprecano. L’albergo fa oggi parte di un museo che celebra la storia dei diritti civili.

Diverse sono le iniziative che ne commemorano la vita. A Palazzo Blu a Pisa, fino a fine aprile, si può visitare la mostra Omaggio a Martin Luther King: breve percorso attraverso la sua storia. Anche a Milano, alla Casa di Vetro fino al 23 giugno, in mostra la storia dei diritti civili I have a dream. Infine Rai Radio 3 dedica al dottor King tre giorni di programmazione, ascoltabili anche su internet.

I cortili di Piter

La scorsa settimana ho visto due simpatiche commedie russe ambientate nella San Pietroburgo odierna (Piter FM del 2006 e Kokoko targato 2016). Ciò che mi ha colpito è quanto siano ricorrenti nei film ambientati nella “Venezia del Nord” i suoi cortili interni. Chi ha vissuto a “Piter”- così viene vezzeggiata dai suoi abitanti – o almeno non ci è passato solo di sfuggita, credo sappia cosa intendo.


I cortili interni di San Pietroburgo non sono particolarmente belli anzi, a prima vista appaiono spesso spogli. Vi si accede attraverso un tunnel non illuminato. Al loro interno sono spazi asfaltati da cui si accede alle diverse scale del condominio. Talvolta da un primo cortile si può passare a un secondo e a un terzo per poi sbucare in un’altra via della città: scorciatoie spesso note solo agli abitanti del quartiere. Qui spesso i bimbi del caseggiato trovavano modo – e trovano, ma sempre meno – di sfruttare al meglio questa piccola porzione di terra di nessuno, per giochi con la palla o con la corda. (Non gli adolescenti che preferiscono ritrovarsi sulle scale interne per fumare e chiacchierare). Nei cortili, subito dopo la guerra gli abitanti del caseggiato organizzavano anche feste e balli, ampliando ancora di più quella comunanza già dettata dalla vita nelle case in condivisione.


La notte i cortili diventano uno spazio più freak: luogo di ricovero momentaneo per gli ubriachi o del sesso clandestino di coppie improvvisate, mentre sui muri dei suoi tunnel vengono incollati manifestini di concerti punk.


Negli ultimi anni i cortili di San Pietroburgo sono diventati luoghi di culto. Si contano molti appassionati che organizzano veri e propri tour per visitare quelli più particolari. Ed esistono siti internet che hanno costituito un vero e proprio catalogo dei cortili. E se quelli del centro storico diventano tradizione, cresce però anche l’interesse per quelli delle periferie, dei nuovi caseggiati dei quartieri dormitorio. Sì perché anche lì spesso ha assunto sembianze peculiari, rimodellando il tessuto urbano. Anche lì i muri e i pavimenti si stanno impregnando di storie.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Una carovana di migranti dal Messico scatena l’ira di Trump

Central American migrants taking part in a caravan called "Migrant Viacrucis" towards the United States march to protest against US President Donald Trump's policies as they remain stranded in Matias Romero, Oaxaca State, Mexico, on April 3, 2018. The hundreds of Central Americans in the "Way of the Cross" migrant caravan have infuriated Trump, but they are not moving very fast -- if at all -- and remain far from the US border. As Trump vowed Tuesday to send troops to secure the southern US border, the caravan was camped out for the third straight day in the town of Matias Romero, in southern Mexico, more than 3,000 kilometers (1,800 miles) from the United States. / AFP PHOTO / VICTORIA RAZO (Photo credit should read VICTORIA RAZO/AFP/Getty Images)

Mille in marcia. In fuga da povertà, narcotraffico, persecuzione politica. Dal cuore delle violenze in Sud America. Partiti da Honduras, Guatemala, El Salvador. Si sono messi in cammino per raggiungere il confine della salvezza americano giorni fa, ma adesso sono stati fermati a Matias Romero, un villaggio povero nello stato poverissimo del sud, Oaxaca, Messico. La “carovana dei migranti”, fiume umano unito di centinaia di richiedenti asilo e rifugiati, oggi è stata fermata, smantellata, e dispersa dalle divise messicane.

I più vulnerabili riceveranno un visto umanitario di un anno, agli altri è stato chiesto di lasciare il Paese. Alcuni si sono arresi, altri sono in attesa di registrazione per i documenti temporanei, molti rimangono fedeli al sogno di quando sono partiti e stanno già proseguendo il cammino da soli, per attraversare il confine armato e arrivare nella terra promessa a stelle e strisce.

Da cinquant’anni i membri dell’organizzazione americana Pueblo sin fronteras, gli ideatori della carovana, aiutano i migranti in fuga: «Siamo un collettivo di amici che ha deciso di essere in solidarietà permanente con sfollati e apolidi, accompagniamo i rifugiati nel loro viaggio di speranza e richiesta di diritti umani, evitiamo che vengano avvicinati e sfruttati dai cartelli» durante il percorso verso il confine. La carovana viene organizzata ogni anno dal 2010 perché sono migrantes en la lucha, migranti in lotta.

Dall’altro lato del confine, a nord, servizi e reportage giornalistici sugli schermi e giornali americani negli ultimi giorni avevano titoli come questo: “Un’enorme carovana dal Centro America sta arrivando negli Stati Uniti e nessuno osa fermarla”, “Un’enorme sfida per la politica migratoria dell’amministrazione Trump e la sua abilità di gestire un gruppo di migranti organizzato”.

I tweet del presidente a cascata hanno risposto alla nazione: contro questa carovana il Congresso dovrebbe usare «l’opzione nucleare se necessario, per fermare il flusso massivo di droghe e persone». Trump ha poi promesso di nuovo di costruire il muro, ma anche di spedire l’esercito dalla Us border patrol al confine. Bersagli dell’attacco sui social sono diventati i suoi soliti nemici: «La debole legge americana», il Messico e i democratici.

“Non colpevoli” di stupro due campioni del rugby. Da Belfast a Dublino, le donne unite nella protesta

Irish rugby player Paddy Jackson (C) speaks to members of the media as he leaves court in Belfast on March 28, 2018, after being found not quilty of a charge of rape. Ireland rugby players Paddy Jackson and Stuart Olding were on Wednesday acquitted of raping a woman in Belfast in 2016. / AFP PHOTO / Paul FAITH (Photo credit should read PAUL FAITH/AFP/Getty Images)

Il processo è durato nove settimane alla corte di Laganside, a Belfast in Irlanda del Nord. Otto uomini e tre donne in giuria. Il caso: una festa studentesca, musica e alcol, finiti in uno stupro. Era la parola della vittima – 19 anni la notte del 28 giugno 2016, 21 anni in questo marzo 2018 – contro quella di due giocatori, due star del rugby irlandese.

Dopo aver deliberato per più di tre ore, il verdetto della corte per i due sportivi accusati di violenza sessuale è stato “not guilty”, non colpevoli. Paddy Jackson, 26 anni, e Stuart Olding, 25, sono stati assolti il 28 marzo. Anche gli altri due uomini coinvolti, Blane McIlroy e Rory Harrison, accusati di intralcio alla giustizia, sono stati ritenuti innocenti. Qualche ora dopo la decisione del tribunale della capitale dell’Irlanda del Nord, le proteste hanno varcato il confine con la Repubblica d’Irlanda.

E tutte le donne dell’isola, da Belfast a Dublino, in solidarietà con la vittima, hanno iniziato a urlare la stessa cosa: “I belive her”, io le credo. Ragazzi e ragazze, fiori gialli in mano, hanno protestato davanti alle sedi delle autorità in quattro città per “stand with survivors”, rimanere dalla parte delle sopravvissute.

«Che cosa indossava quella sera? Che cosa aveva bevuto? Nove settimane di umiliazione, ogni dettaglio di quella notte è stato scrutinato, fuori e dentro la corte. La sua biancheria intima macchiata di sangue veniva passata di mano in mano, la sua persona trascinata nel fango da pubblico e media» ha scritto della vittima Katie Goth sull’Indipendent. «Al processo la domanda non era mai “questi uomini sono violentatori?”, ma sempre “questa donna è una bugiarda?”».

Nel 2016 sono stati registrati in Irlanda del Nord 810 stupri e 30mila episodi violenti per abusi domestici. Negli ultimi 5 anni è aumentato del 40 per cento il numero delle violenze denunciate, ma solo un caso su dieci finisce per essere indagato dalle forze dell’ordine. Non va meglio nella Repubblica d’Irlanda dove peraltro, a differenza di quanto accade nel Nord (che fa parte del Regno Unito) la vittima dello stupro in caso di gravidanza conseguente alla violenza non può abortire. La legge vigente vieta del tutto l’interruzione volontaria di gravidanza anche in caso di incesto e anomalia fetale (si rischia una condanna a 14 anni di carcere). Non a caso la norma è sotto la lente delle Nazioni Unite perché viola i diritti umani. Come sappiamo, su questo fronte forse le cose potrebbero cambiare. Il 25 maggio si terrà il referendum per abrogare l’ottavo emendamento della Costituzione per liberalizzare l’aborto.

Sul referendum sull’aborto in Irlanda vedi articolo di Giulia Caruso su Left del 27 febbraio

Fino all’ultimo giorno, l’importante è uccidere Dj Fabo

Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, durante la conferenza stampa all'INPS sul reddito di inclusione (REI), Palazzo Wedekind, Roma, 28 marzo 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Dj Fabo non l’ha ucciso Marco Cappato, no. E non ha nemmeno agevolato il suicidio se davvero (come è vero) il diretto interessato ha inseguito quel gesto con il sospiro di chi arriva a una liberazione. Non l’ha ucciso la fidanzata, non l’ha ucciso sua madre e non l’ha ucciso nemmeno la pm che non è riuscita a trattenere le lacrime sostenendo l’accusa. Dj Fabo lo uccidono tutti i giorni i chiodi di un cattolicissimo benpensare che crocifigge chi si permette di credere che non ci sia una strada comandata per la libertà ma piuttosto che il diritto all’autodeterminazione sia sacrosanto (laicissimamente sacrosanto) nel momento in cui non danneggia nessuno.

E se è vero che la legge non sempre è giusta e soprattutto non sempre è al passo con la sensibilità dei diritti e dei tempi è altresì vero che gli stessi che si scandalizzarono quando Matteo Salvini disse sulla legge sul biotestamento che lui si occupa «dei vivi, mica dei morti» oggi ci spiegano che la scelta del Governo di difendere in Corte costituzionale il divieto del codice penale risalente agli anni 30 che norma il reato di cui è imputato Marco Cappato è una scelta “politica”.

Hanno aspettato l’ultimo giorno utile per difendere una norma liberticida (che andrebbe cancellata presto, piuttosto che difesa) riuscendo nella mirabile impresa di ridare fiato ai tromboni sempre impegnati a scegliere cosa sia giusto per gli altri (e di solito molto permissivi con se stessi).

Come dice Filomena Gallo, presidente dell’Associazione Luca Coscioni: «Per quanto riguarda Marco Cappato, il suo collegio di difesa che coordino e l’Associazione Luca Coscioni, il nostro obiettivo non cambia: vogliamo far prevalere, contro la lettera del codice penale del 1930, i principi di libertà e autodeterminazione riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalla Convezione europea dei diritti umani, nella convinzione che Fabiano Antoniani  avesse diritto a ottenere in Italia il tipo di assistenza che – a proprio rischio e pericolo – ha dovuto andare a cercare all’estero con l’aiuto di Marco Cappato».

Tutti consapevoli che il prossimo governo sarà ancora peggio.

Buon mercoledì.

L’odissea quotidiana di Api e degli altri: una vita in coda per il permesso di soggiorno

«Il mio nome è Api. Sono arrivato all’una di notte, ho trovato già quindici persone qui, prima di me. Ho dormito qui, ho incontrato tante persone qui… che vengono da una, due settimane o più. Vengono ogni giorno, ogni sera, dormono qui, fanno un fuoco. Questo perché la questura prende solo dieci, a volte dodici persone. Questo è molto brutto. È brutto specialmente perché la questura non dà a chi dorme qui neanche l’acqua. Non danno loro niente. Ed è certo che sanno bene che loro hanno dormito qui».

Api è uno dei tanti richiedenti asilo che, fra cartoni per passare la notte e fuochi per riscaldarsi, arrivano la sera davanti alla questura di via Patini a Roma. Con la speranza, prima ancora che di vedersi riconosciuto un diritto fondamentale come quello d’asilo, di potervi quantomeno accedere, la mattina successiva.

Sì, perché, oltre a non essere previsto un sistema di prenotazione o di regolamentazione della fila, vengono accolte, in prima istanza, non più di venti domande al giorno. E, siccome poi le donne hanno la precedenza, se ne entrano quindici va da sé che potranno presentare domanda solo cinque uomini. Gli altri, regolarmente respinti, andranno a ingrossare le file di quell’umanità disperata, perseguitata dalla lentezza e opacità della burocrazia e da procedure che, oltre a violare la dignità umana, non rispettano nemmeno i diritti garantiti dalla normativa nazionale e internazionale.

Per esempio, il decreto legislativo 25 del 2008, e successivamente il 142 del 2015, non prescrivono nessuna formalità sulla comunicazione del domicilio all’atto della domanda. E invece succede, non di rado, che nel caso della domanda di protezione internazionale, l’ufficio Immigrazione della questura romana neghi ai migranti la richiesta in assenza di un’abitazione stabile. Applicando una prassi del tutto illegittima: cioè, non basta esibire un’autocertificazione del richiedente recante l’indirizzo presso il quale intenda fissare il proprio domicilio, occorre possedere (e mostrare) o la cosiddetta “cessione di fabbricato” dichiarata da un privato o la “dichiarazione di ospitalità” certificata dal centro di accoglienza in cui sono accolti. Tenuto conto che buona parte dei richiedenti è fuori dai circuiti di accoglienza, l’ostacolo diventa insuperabile.

Dunque, negato l’accesso concreto agli uffici, ostacolato dal numero ridotto di istanze ammesse giornalmente, a limitare ingiustificatamente il diritto a chiedere protezione c’è pure la richiesta del passaporto: se si considera che la maggior parte dei soggetti intenzionati a richiedere asilo non ne ha mai posseduto uno oppure non è stato in grado di portarlo con sé al momento della fuga o gli è stato rubato durante una delle tappe del viaggio, questo atteggiamento della questura li costringe a rimanere nel limbo dell’irregolarità. Spingendo spesso alla decisione di rinunciare all’esercizio del proprio diritto a richiedere la protezione internazionale o il rinnovo del documento di soggiorno.

«Non ho il passaporto perché l’ho perso. Quando sono venuto qui l’agente mi ha chiesto “dove è il tuo passaporto?”. Io gli ho detto che l’avevo perso e lui mi ha risposto “vai fuori”. Io ho la denuncia della polizia, ho documentato lo smarrimento. Sono venuto qui prima, già sei volte. Cosa posso fare? Non lo so…», dice un richiedente asilo, sulle note di Ennio Morricone, nel video Questura aperta, realizzato da Baobab Experience e dalla Rete legale di supporto ai migranti in transito, durante due giornate di vigilanza e monitoraggio fuori dalla questura di via Patini. Dove, insieme a tanti Api, aspettava (inutilmente) il suo turno. E dove ritornerà. Forse.

Giornate Fai di primavera: la Buona scuola e quegli studenti “costretti” a fare i volontari

Come ogni anno anche nel 2018 si è svolta la bella iniziativa del Fai denominata Giornate di primavera, due appuntamenti in cui, grazie ai volontari del Fondo ambiente italiano, sono visitabili oltre mille luoghi d’arte e di cultura che il resto dell’anno sono chiusi e inaccessibili. Durante la seconda giornata, presso il museo mineralogico dell’università Federico II di Napoli, un gruppo di studenti al quinto anno del liceo classico Vittorio Emanuele II ha fatto emergere una realtà poco nota che mette in discussione uno dei punti cardine dell’iniziativa: la “volontarietà”.

I fatti sono questi: domenica 25 marzo un gruppo di ragazzi della VB è stato costretto a svolgere il proprio compito di guida turistica volontaria, assegnatogli nel contesto dell’alternanza scuola-lavoro introdotta con la cosiddetta Buona scuola. Costretti a fare i volontari? Esatto: la classe era tornata il giorno prima da una gita all’estero, ed aveva comunicato – con un mese di anticipo – la contrarietà a presentarsi per l’alternanza scuola-lavoro, perché, come si legge nella nota «…stanchi, perché abitiamo lontani dal centro, per pranzare in famiglia, per studiare», cioè condurre la vita di qualunque studente delle superiori.

In tutta risposta, la dirigenza della scuola ha minacciato sanzioni disciplinari nel caso non si fossero presentati. A quel punto i giovani hanno deciso di partecipare lo stesso nonostante tutto, ma con una differenza fondamentale: invece di indossare il cartellino del Fai che li identificava come volontari, hanno deciso di indossarne un altro, scritto da loro, dove veniva manifestata la protesta contro l’«alternanza scuola-lavoro sfruttamento». Stando a quanto dichiarato dai ragazzi nella nota e in una intervista rilasciata a Radio onda d’urto, la loro protesta ha riscosso grande successo tra i visitatori del museo. Attratti dal loro “badge”, molti si sono fermati a chiedere informazioni a riguardo. Secondo la ragazza intervistata, quasi nessuno dei visitatori sapeva in cosa consistesse realmente l’alternanza. Le stesse persone si sono poi complimentate con i ragazzi, in quanto hanno dimostrato il loro dissenso, senza però venir meno ai loro impegni. La giovane spiega, inoltre, come le ore di alternanza scuola-lavoro siano un requisito per accedere all’esame di maturità.

La protesta non ha riscosso lo stesso successo con la delegata del Fai, che ha cercato di strappare uno dei cartellini indossati dai ragazzi e minacciato gli stessi di non farli ammettere all’esame. Per la delegata, la loro protesta stava infangando il buon nome del Fai.

La vicenda era però ancora lontana dal terminare. Lunedì, la delegata del Fondo ambiente italiano è andata a scuola, a pretendere provvedimenti disciplinari dal preside: tutta la classe riceverà 7 in condotta a fine anno. «Ci sentiamo di fronte ad una gravissima negazione della libertà di espressione e soprattutto abbiamo finalmente constatato sulla nostra pelle cosa voglia dire che gli enti privati entrino nella scuola pubblica», si legge nella nota degli studenti. Oltre al danno, la beffa: nonostante abbiano lavorato, senza essere retribuiti, contro la loro volontà, sono anche stati sanzionati per aver espresso dissenso. La classe però rivendica la sua protesta, e anzi fa notare come non solo abbiano svolto il compito che si erano impegnati a portare a termine, ma hanno anche sensibilizzato molte persone su un problema che coinvolge tutti i giovani d’Italia.

Il comunicato pubblicato su Facebook dalla classe è stato condiviso più di 5mila volte ed ha ricevuto apprezzamento da più parti, anche se non è mancato chi ha accusato i ragazzi di essere dei pigri scansafatiche. Vista la risonanza che ha avuto la prima nota, la classe ha pubblicato ieri una seconda nota per fare ulteriormente luce sulla vicenda, e chiarire come la questione sia frutto di un equivoco. La protesta infatti, non era diretta al Fai e non aveva alcuna intenzione di infangarne il nome, bensì era rivolta contro l’alternanza scuola-lavoro. Riguardo le critiche di essere soltanto pigri, i ragazzi rispondono: «Noi accogliamo ogni opportunità – tant’è vero che quella domenica, in fin dei conti, eravamo lì a fare le guide – ma rifiutiamo l’obbligo e la non possibilità di scelta». Fanno poi notare come loro siano la prima generazione ad aver intrapreso questo programma, da tre anni a questa parte, e che il loro giudizio è una bocciatura su tutta la linea. Sebbene le opinioni differiscano leggermente da studente a studente, sono comunque tutti e tutte concordi nel dire che l’alternanza scuola-lavoro è «nel migliore dei casi una perdita di tempo, nel peggiore dei casi uno sfruttamento».

A fare ulteriore luce sul funzionamento dell’alternanza è Virginia: «Questo è il secondo anno che collaboriamo con il Fai, per un totale di 120 ore sulle 200 obbligatorie di alternanza. In due anni, le giornate in cui abbiamo fatto da guide come quella di domenica sono state appena tre. Le ore restanti le passiamo a scuola con un docente o a fare brevi sopralluoghi in alcuni musei, ma nessuna di queste attività comunque ci aiuta nell’accoglienza dei visitatori durante le poche occasioni di apertura. Ancora più assurdo, quest’anno doveva essere una professoressa di latino e greco a farci lezioni sui minerali, un campo che ovviamente non le compete».

Sia l’intervista che la nota, si concludono poi sottolineando come l’alternanza pesi molto sul tempo che gli studenti possono dedicare allo studio e alla vita privata. I giovani rivendicano poi la necessità di una scuola che formi persone, non forza-lavoro, in cui si dia più spazio allo studio, alla ricerca, ai dibattiti, tutte cose a cui l’alternanza toglie spazio.

In realtà, il Fai si era già attratto le critiche di Federico Giannini di Finestre sull’arte lo scorso 20 marzo. Nel suo articolo Giannini fa notare come dietro la narrazione entusiasta dei media delle giornate Fai di primavera, si celi una realtà ben diversa. Nonostante le giornate di primavera siano state lodate da figure istituzionali come il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini e dal suo sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, che hanno parlato delle giornate di primavera come un modello da imitare per valorizzare il patrimonio culturale e avvicinare i cittadini allo stesso, sono diversi i punti critici che Giannini ha identificato nelle giornate di primavera. Innanzitutto, dice Giannini, è sì giusto lodare l’iniziativa del Fai che rende visitabili luoghi altrimenti inaccessibili, ma allo stesso tempo il dibattito pubblico dovrebbe concentrarsi sul perché gli stessi luoghi restino chiusi i restanti 363 giorni. Giannini porta inoltre come esempio, negativo, quello di alcuni luoghi che anche nelle due giornate di primavere sono visitabili soltanto da soci Fai, o che hanno delle fasce orario a loro riservate.

C’è poi la questione in cui sono stati coinvolti gli studenti napoletani: quella dei volontari. Le giornate di primavera impiegano circa 40mila studenti volontari, i quali, oltre a non venire neanche ringraziati sul sito del Fai, sono costretti a sobbarcarsi il lavoro che invece spetterebbe a figure professionali che hanno studiato anni per prepararsi a tale compito.

In ultimo c’è la questione della collaborazione tra pubblico e privato, particolarmente lodata da Franceschini e Borletti Buitoni. Nell’articolo di Finestre sull’Arte, si fa anche notare come il modello che segue il Fai possa andare bene in situazioni d’emergenza, ma se ricorrere a lavoratori volontari per sostituire figure professionali diventa la norma, allora è tutto il sistema ad essere malato.

L’articolo di Giannini non è passato inosservato, ed ha stimolato la risposta del vicepresidente del Fai, Marco Magnifico. In un articolo apparso sul sito emergenzacultura.org il 21 marzo scorso, Magnifico rivendica la funzione di denuncia propositiva delle giornate di primavera, che nelle intenzioni degli organizzatori dovrebbero portare all’attenzione del pubblico e della politica quei luoghi d’arte e di cultura ad oggi non valorizzati, se non solo durante appunto le giornate di primavera. Stando a Magnifico, le giornate di primavera dovrebbero anche essere un’occasione per i giovani volontari di mettersi in gioco e di fare un’esperienza dall’alto valore formativo. Nella risposta si cita anche il fatto che sono sempre di più le amministrazioni locali che chiedono al Fai di aggiungere alcuni siti di loro competenza tra quelli visitabili durante le giornate di primavera.

La replica di Giannini non si è fatta attendere, e il 23 marzo scorso ha risposto a Magnifico. Secondo Giannini, l’aspetto di denuncia delle giornate di primavera passa del tutto in secondo piano, rispetto al trionfalismo con cui di solito viene trattato l’argomento. C’è poi sempre il problema dei volontari, per cui queste giornate rappresentano sì una occasione di formazione, ma che uno studente volontario non potrà mai sostituire un professionista formato appositamente per organizzare visite guidate che si rivolgono ad un pubblico adulto. Per tacere del fatto che per poter esercitare la professione che svolge un volontario, serve un’abilitazione. In ultimo, per Giannini non c’è da rallegrarsi se un’amministrazione locale chiede aiuto al Fai per valorizzare un sito: il primo a cui rivolgersi per un comune dovrebbe essere il Mibact, non un ente privato.

A concludere tutti ciò, si è inserito nel dibattito anche il collettivo di professionisti (o aspiranti tali) che hanno voluto rivolgere otto domande al Fai, attraverso un post apparso sul loro blog il 26 marzo scorso.