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Sotto i proclami un mese di niente

La combo, realizzata con due immagini di archivio, mostra Matteo Salvini e Luigi Di Maio (S). ANSA

È curioso che i due, Di Maio e Salvini, si trasformino improvvisamente in quieti adoratori delle istituzioni e sfegatati seguaci del presidente della Repubblica in vista delle prossime consultazioni. È curioso (e piuttosto pericoloso) che da ormai un mese riescano nel misero giochino del dichiarasi vincitori di elezioni che non ha vinto nessuno e pure insistano nel maramaldeggiare un incarico che gli spetterebbe – dicono loro – di diritto nutrendo grandi aspettative per il loro primo appuntamento con Mattarella come se fosse lui la chiave di volta di uno stallo che invece richiederebbe solo un po’ di concreta politica.

Di Maio insiste nel pretendere di essere presidente del Consiglio poiché era suo il nome sotto il simbolo del Movimento 5 stelle sulla scheda elettorale e fa niente che la legge elettorale non prevedesse nessuna indicazione in questo senso. A forza di continuare a insistere con la semplificazione (ma l’hanno fatto in molti, anche a sinistra) lo slogan pubblicitario è diventato un atto politico che dovremmo accettare come regola per la popolarità della consuetudine, evidentemente. Quando il Movimento 5 stelle presentò la squadra dei ministri qualcuno provò a dire che nonostante lo spettacolino funzionasse parecchio in questi tempi di confusa ignoranza delle regole e della democrazia esiste un iter consolidato e normato per costituire un governo, qualcosa di un po’ più complesso di un sfilata in stile calcistico a inizio stagione. Nelle prossime ore sarà Mattarella, a ripeterglielo.

Dall’altra parte Matteo Salvini non sa più cosa inventarsi per usurpare i voti di Berlusconi facendo finta che Berlusconi non esista. E così rivendica il risultato della coalizione di centrodestra (che è sicura e serena come un safari in cabriolet) fingendo che sia tutto suo e usa tutti questi ultimi giorni per imparare la parte del responsabile istituzionale sperando che ci si dimentichi in fretta dei suoi conati sparsi contro tutti in questi ultimi anni. Anche lui, ovviamente, ha scambiato un hashtag per una promessa che chissà chi dovrebbe concedergli e continua a farsi immortalare con la faccia tronfia di chi si apparecchia da premier.

Il punto è che nessuno ha la maggioranza parlamentare. Nessuno dei due. E Di Maio non vuole Berlusconi anche se si terrebbe volentieri Salvini e Salvini d’altro canto non può permettersi di fidanzarsi con Di Maio tenendo in disparte Berlusconi. Tutto esattamente come un minuto dopo le elezioni. Tutto fermo. Tutto uguale. È passato un mese, abbiamo assistito a una moltitudine di schermaglie e di foto in posa ma non è cambiato niente. Non è servito a niente. Sotto i proclami un mese di niente. E ora quelli del «rispettare la volontà del popolo» si affidano a Mattarella. Che gli dirà, con il solito garbo e con poco agio, che il popolo ha chiesto a Di Maio e Salvini di fare politica, oltre ai post su Facebook.

Buon martedì.

Cosa resta della questione palestinese dopo la strage della Giornata della terra

Da 42 anni il 30 marzo per noi palestinesi è giorno molto importante perché celebriamo la “Giornata della terra” per ricordare la protesta in Galilea contro la confisca di terra palestinese da parte dello Stato d’Israele che fu soffocata nel sangue con il massacro di 7 palestinesi ed il ferimento di centinaia. D’allora il popolo palestinese in questa data celebra la sua identità ed unità ricordando la sua lotta contro l’occupazione e denunciando i crimini contro la libertà e l’autodeterminazione che Israele purtroppo continua ancora a praticare .

Quest’anno per i palestinesi questo anniversario si colora di un significato particolare perché gli accadimenti degli ultimi e dei prossimi mesi hanno riportato all’attenzione della comunità internazionale la causa palestinese e soprattutto richiedono un necessario rafforzamento della sua lotta .

Infatti, lo scorso 6 dicembre Trump con la sua dichiarazione di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele ha riacceso i riflettori sul dimenticato conflitto israelo-palestinese, oscurato negli ultimi tempi da altri conflitti regionali, facendo un regalo sia al sionismo e agli israeliani ma anche noi palestinesi.

Ha fatto un regalo al sionismo che è da sempre alla ricerca di una legittimazione alle sue aspirazioni di occupare tutta la Palestina facendo di Gerusalemme la capitale eterna dello stato ebraico. Infatti, riconoscere Gerusalemme capitale di Israele significa riconoscere anche l’annessione degli insediamenti israeliani nei pressi di Gerusalemme e quindi anche l’annessine degli altri insediamenti israeliani nell’intera Cisgiordania nonostante siano giustamente considerati illegali dalla comunità internazionale in quanto sono una aperta violazione della IV Convenzione di Ginevra che vieta alla potenza occupante di trasferire parte della sua popolazione nel territorio occupato. Ma se Israele si annette Gerusalemme che da sola rappresenta un terzo dell’intera Cisgiordania ed i territori espropriati per la costruzione di insediamenti nella restante Cisgiordania, vuol dire nella ripresa di una futura trattativa ai noi palestinesi verrebbe concesso ben poco e di fatto verrebbe cancellata l’idea della costituzione di due Stati così come disegnata con la risoluzione 181.

Tutto ciò non è fantapolitica ma purtroppo sono previsioni molto attendibili dal momento che il primo gennaio il Likud (partito del primo ministro israeliano Netanyahu) ho votato quasi all’unanimità (1499 voti favorevoli contro 1) un documento che impegna i deputati del Likud a far approvare dal parlamento israeliano (knesset) una legge sull’annessione allo stato ebraico degli insediamenti in Cisgiordania, che sicuramente potrà contare anche sull’appoggio del partito di estrema destra xenofobo Baituna e dei partiti religiosi che rappresentano la lobby dei coloni.

La dichiarazione di Trump è stato un regalo al sionismo anche perché contribuisce far accettare dall’opinione pubblica internazionale come un dato di fatto che Gerusalemme è la capitale d’Israele, per cui se è riconosciuta come tale dagli Stati Uniti dovrebbe essere normale anche per gli altri Paesi riconoscerla e trasferirvi le loro ambasciate.

Inoltre, la dichiarazione di Trump è stato un regalo personale a Netanyahu, da mesi sotto incessante pressione da parte della magistratura perché accusato di corruzione e che lo scorso luglio aveva subito una pesante sconfitta politica e di immagine con la vittoriosa protesta dei palestinesi di Gerusalemme Est che sono riusciti ad ottenere la rimozione dei metal detector dagli ingressi della moschea di Al Aqsa. Grazie all’inatteso regalo di Trump Netanyahu può così tirare un sospiro di sollievo e restare alla guida di una coalizione che lo sta portando sempre più a destra.

Ma la dichiarazione di Trump ha contribuito a fare chiarezza, cioè con questa dichiarazione gli Stati Uniti sono usciti allo scoperto, hanno dimostrato a tutti la loro vera faccia, cioè quella di mediatori di parte nel processo negoziale, e lo hanno dimostrato anche a quei palestinesi che avevano creduto al processo di pace a guida Usa. Questa dichiarazione di Trump dimostra che gli Stati Uniti in tutti questi anni non hanno mai svolto il ruolo di mediatori imparziali, bensì quello di sponsor della politica colonizzazione e di occupazione di Israele, e come è stato detto da qualcuno, «di avvocati difensori d’Israele».

Non dimentichiamo che il congresso Usa aveva dato mandato al presidente Bill Clinton di farsi sponsor degli accordi di Oslo e che è lo stesso Clinton ad intavolare in mondo visione la sceneggiata della firma ufficiale degli accordi nel cortile della Casa Bianca il 13 settembre 1993 con un sorridente Arafat che stringe la mano di un riluttante Rabin consegnando alla storia una delle immagini più significative del novecento.

Ma è sempre Clinton che appena due anni dopo, l’8 novembre 1995 (dimenticando che Gerusalemme, secondo gli accordi di Oslo del 1993 doveva essere oggetto di futuri negoziati insieme ad altre questioni spinose quali quella dei profughi, e, secondo la risoluzione 181 del 1947 , che prevede la costituzione di uno stato ebraico accanto ad uno stato palestinese, doveva costituire un corpus separatum sotto il controllo internazionale), firma il cosiddetto Jerusalemm Embassy Act approvato dal Congresso con il quale , sostanzialmente, gli USA riconoscono di fatto, con un abile esercizio retorico, Gerusalemme come capitale di Israele («The United States conducts official meetings and other business in the city of Jerusalem in de facto recognition of its status as the capital of Israel») e prevedono il trasferimento dell’ambasciata consentendo però di rinviare la decisione sullo spostamento effettivo ogni sei mesi per «interessi di sicurezza nazionale» e così è avvenuto per 22 anni fino alla dichiarazione di Trump dello scorso 6 dicembre 2017.

La dichiarazione di Trump, sebbene illegittima ed inopportuna, ha avuto il merito di fare aprire gli occhi alla dirigenza palestinese e ai suoi sostenitori e riconoscere il fallimento di Oslo. Si è trattato, però, di un riconoscimento tardivo perché oramai gli accordi di Oslo sono un cadavere putrefatto, o meglio sono già nati morti perché sono stati una svendita dei diritti di libertà ed autodeterminazione del popolo palestinese, accettando il principio non del rispetto del diritto internazionale ma della trattativa con il soggetto più forte, lo stato d’Israele, che non poteva che imporre le sue condizioni.

Altro indiscusso merito della dichiarazione di Trump è stato quello di riaccendere la protesta popolare, dentro e fuori la Palestina occupata e della solidarietà internazionale, con le tante manifestazioni che si sono avute non solo nei territori palestinesi occupati ma anche nei Paesi arabi, Islamici ed in occidente.

Trump ha giustificato la sua dichiarazione dicendo che questa si limita a riconoscere “una realtà di fatto” dimenticando di dire che questa realtà è stata creata anche con il sostegno complice delle varie amministrazioni americane (da Clinton ad Obama fino ad arrivare a Trump) alla politica di occupazione israeliana, sostegno fornito non solo in termini di finanziamenti ma anche in termini di veto Usa contro la risoluzioni Onu di condanna di Israele.

Di fronte a questa realtà mentre Trump preme sull’acceleratore ricorrendo non solo alla diplomazia ufficiale ma anche ad una diplomazia di tipo casereccio affidando al genero Jared Kushner il compito di andare nei vari Paesi arabi per raggiungere un “accordo estremo” per Israele-Palestina e quindi creare una potente coalizione anti Iran con al centro Israele, Usa ed Arabia Saudita (particolarmente fruttuosi sono i contatti che Kushner sta avendo con il suo nuovo amico del cuore, il principe ereditario saudita Mohamed bin Salman), la dirigenza palestinese sembra guadagnare tempo, andando alla ricerca di consensi ed appoggi alla causa palestinese in mezzo mondo ed anche presso l’Onu.

Infatti, mentre a dicembre si parlava del trasferimento della ambasciata israeliana entro il 2019, a metà febbraio è arrivato l’annuncio dell’apertura il 14 maggio di una sede provvisoria nella struttura che attualmente ospita il consolato americano a Gerusalemme Ovest.

I motivi di questa accelerazione sono da ricercarsi non solo nella necessità di non sfarsi sfuggire una occasione simbolica dal momento che quest’anno la data del 14 maggio ricorderà 70 anni dalla proclamazione dello stato d’Israele che invece i palestinese considerano come la loro “Nakba” (catastrofe), ma anche nei finanziamenti messi a disposizione dal miliardario israelo-americano Sheldon Adelson, e, soprattutto, per motivi strategico-politici in quanto si dice che sia a breve la presentazione del cosiddetto “accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, cioè il piano di pace della Casa Bianca.

L’ambasciatrice Usa all’Onu Nikky Aley ha detto che questo «piano non sarà amato da entrambe le parti e non sarà odiato da entrambi le parti». Parole molto vaghe ma sicuramente il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele attribuisce agli israeliani un’arma in più nella futura contrattazione con i palestinesi, soprattutto se entrerà in gioco il fattore tempo (come è avvenuto per Oslo con trattative rimandate all’infinito), cioè se passa del tempo ed altri Paesi vi trasferiscono le loro ambasciate oltre agli Stati Uniti mentre Gerusalemme sarà accettata come dato di fatto come capitale d’Israele, questo, invece, sarà un incubo per i palestinesi dal quale sarà difficile uscirne per il principio che se si accetta il grosso, la perdita di Gerusalemme , perché non accettare il piccolo, l’annessione degli insediamenti in Cisgiordania. Sarà un incubo per i palestinesi soprattutto se verrà offerto loro il principio della compensazione dei territori, cioè al posto di Gerusalemme e degli insediamenti in Cisgiordania la costituzione di uno stato palestinese a Gaza, secondo la proposta del nuovo segretario della difesa nazionale Jhon Bolton, appena nominato da Trump.

L’“accordo del secolo” del presidente nordamericano nasce dall’esigenza di tutelare gli interessi strategici ed economici principalmente di Arabia Saudita, Stati Uniti ed Israele le cui diplomazie da mesi si sono messe in moto per costruire un fronte comune anti Iran.

Infatti, l’Arabia Saudita dell’ambizioso e spregiudicato principe ereditario Mohamed bin Salman vuole sempre più affermarsi non solo come unico punto di riferimento per il mondo islamico ma anche come moderna potenza economica. Lo scorso ottobre Mohamed bin Salam ha presentato il progetto Neom, un futuristico programma di rinnovamento dell’economia saudita che mira a garantirne la sopravvivenza anche dopo l’era dell’oro nero, puntando sulle energie alternative, sulle biotecnologie, sulle scienze tecnologiche e digitali. Il progetto Neom prevede investimenti per 500 miliardi per la costruzione di un gigantesco polo industriale sulle sponde del Mar Rosso, nei pressi del Golfo di Aqaba. Solo una parte degli investimenti (230 miliardi) è coperta dal Fondo Pubblico di investimenti saudita, gli altri dovrebbero provenire da investitori stranieri e si sa che i grossi investitori a livello internazionale sono in qualche modo legati ad Israele.

Gli Stati Uniti, già presenti nell’area con numerosi soldati in Siria, Iraq e Libano e basi militari nei Paesi del Golfo, voglio rafforzare e legittimare la loro presenza anche per contrastare il sempre maggiore ruolo che sta avendo la Russia in Medio Oriente. Vogliono inoltre soddisfare i loro interessi economici basti pensare che in occasione del viaggio di Trump in Arabia Saudita dello scorso maggio l’America si è impegnata a vendere armamenti per 350 miliardi in 10 anni (100 subito e gli altri a seguire).

Israele, invece, potenza occupante ma anche potenza nucleare, non accetta non solo chiunque osi criticare e condannare la sua politica di occupazione ma anche non accetta un’altra potenza rivale … L’Iran non è mai stato morbido nei confronti di Israele che ha bocciato l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato a Vienna il 14 luglio 2015, dopo più di 10 anni di trattative, da Theran e dal cosiddetto “5+1” cioè i Paesi membri del consiglio di Sicurezza con diritto di veto (Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) più la Germania, dimenticando che il programma nucleare israeliano non è sottoposto a nessuna forma di controllo nonostante già da anni Israele sia in possesso della bomba atomica. La bocciatura dell’accordo sul programma nucleare iraniano da parte di Israele è avvenuta fin dall’inizio ed ora, insieme alle potenti lobby ebraiche nordamericane che hanno sostenuto e sostengono Trump, preme sull’amministrazione statunitense affinché faccia altrettanto.

Dunque, Arabia saudita, Stati Uniti ed Israele per soddisfare i loro rispettivi interessi strategici ed economici hanno deciso di creare un fronte comune contro l’Iran cercando di coinvolgere però anche altri Paesi della regione (Egitto, Giordania, Paesi del Golfo). E per raggiungere questo obiettivo l’unica strada percorribile è la normalizzazione dei rapporti con Israele sapendo che tre cose gli israeliani non sono disposti ad accettare, cioè 1) la costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania accanto ad Israele e di più con Gerusalemme Est capitale; 2) lo status di corpus separatum sotto il controllo internazionale di Gerusalemme perché vogliono eliminare qualsiasi traccia di non appartenenza; 3) il ritorno dei profughi perché temono lo scoppio della cosiddetta bomba demografica palestinese.

Trump queste cose le conosce bene, ecco perché ha fatto la sua dichiarazione il 6 dicembre regalando Gerusalemme agli israeliani e successivamente ha prima minacciato di tagliare gli aiuti USA all’agenzia Onu (Unrwa) che assiste i profughi palestinesi poi li ha dimezzati perché non dare più soldi ai profughi palestinesi significa non riconoscere più loro lo status di profughi e quindi titolari di quel famoso diritto di ritorno riconosciuto invece dalla risoluzione 194 del 1948 dell’Assemblea generale dell’Onu. In questa ottica va letta la proposta americana, sostenuta da Israele, di sostituire l’Unrwa, agenzia appositamente istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 per i profughi palestinesi, con l’Unhcr cioè l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il che significherebbe equiparare i profughi palestinesi a tutti gli altri profughi, quindi scavalcare la risoluzione 194 e il diritto dei profughi palestinesi.

Trump sa che per favorire il processo di normalizzazione tra Israele ed i Paesi arabi occorre rimuovere l’ostacolo più spinoso, cioè la questione palestinese. Ecco perché per il presidente Usa l’importante non è la soluzione a due o uno Stato ma la soluzione ed ecco perché sta elaborando il suo cosiddetto “accordo del secolo”.

Per realizzare questo accordo del secolo Trump si sta circondando di uomini che condividono il suo pensiero, e per certi versi lo superano e lo esprimono senza pudore. Infatti (il 23 marzo) ha nominato come nuovo responsabile per la sicurezza nazionale John Bolton al posto del generale McMaster che in questi mesi di presidenza Trump aveva cercato, insieme al capo dello staff John Kelly e del Pentagono James Matthis, entrambi già sostituiti, di tenere a freno le mire guerrafondaie del presidente preferendo la via diplomatica per la soluzione delle varie crisi. Bolton, invece, è considerato un falco duro e puro, infatti, ha progettato la guerra all’Iraq quando era ambasciatore Usa all’Onu sotto la presidenza di George Bush, ed ora si è schierato apertamente per una guerra preventiva contro la Corea del Nord ed ha definito «un furto» l’accordo sul nucleare iraniano voluto da Obama. Per cui, secondo Bolton, gli Stati Uniti devono abbandonare l’accordo, reimpostare le sanzioni economiche contro l’Iran e rovesciare il regime di Theran. E sicuramente quando Trump il 9 aprile dovrà decidere se rinnovare o meno la firma all’accordo farà sentire la sua voce. Anche per quanto riguarda la questione palestinese Bolton si è già espresso ed in modo molto chiaro. Secondo Bolton, la soluzione a due Stati è morta, opinione condivisa anche dal nuovo capo del Pentagono Mike Pompeo e da tantissimi altri ma Bolton è andato oltre esprimendo la sua opinione per quanto riguarda la soluzione della questione palestinese, che secondo lui sarebbe un espediente di cui si servono i nemici di Israele, per minacciare la sua sicurezza. Per Bolton la soluzione è quella a tre Stati, cioè ovviamente Israele, Gaza che passerebbe all’Egitto e la West Bank (Cisgiordania) tornerebbe a far parte della Giordania, esclusi tre grossi blocchi di insediamenti che rientrerebbero nei confini dello Stato ebraico.

La soluzione di Bolton non prende minimamente in considerazione la posizione dell’Egitto né quella della Giordania che non l’hanno accolta con entusiasmo in quanto presi dai loro problemi interni dovuti anche alla presenza di numerosi profughi palestinesi. Ma soprattutto non prende in considerazione i diritti del popolo palestinese, la sua aspirazione ad avere Gerusalemme come sua capitale, il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato riconosciuto dalla famosa risoluzione Onu 181 votata anche dagli Stati Uniti.

Prima di Bolton, Trump per poter portare avanti il suo piano di pace, l’accordo del secolo, il 13 marzo ha licenziato via twitter il segretario di stato Rex Tillerson per nominare al suo posto il capo della CIA Mike Pompeo. «Siamo in disaccordo su tutto» si è giustificato Trump. Verissimo ma soprattutto perché Tillerson l’estate scorsa aveva raggiunto un accordo con il Qatar sul terrorismo internazionale di matrice islamica e sulle sue fonti di finanziamento suscitando l’ira dell’Arabia Saudita che invece accusava l’emiro del Qatar di appoggiare Hamas ed i Fratelli Musulmani e di aver descritto l’Iran come “potenza islamica”, cosa inaccettabile per il credo wahabita di Riad per il quale lo sciismo di Teheran è una sorta di peccato di apostasia e soprattutto perché la monarchia saudita è sempre più preoccupata dell’affermarsi del Qatar come potenza economica con il più grande giacimento di gas al mondo ed è preoccupata dei rapporti dell’emirato qatariota con l’Iran. Quindi il licenziamento di Tillerson va letto in questa ottica, cioè come regalo di Trump all’Arabia Saudita che si sta proponendo come rappresentante degli interessi strategici ed economici americani nella regione, affiancandosi quindi ad Israele in questo suo ruolo e questo lo si era capito già con l’accordo sulla vendita di armi dello scorso maggio, che è sembrato a tutti essere un accordo di più ampio respiro, una specie di investitura della leadership saudita come capofila del processo di normalizzazione dei rapporti con Israele in chiave anti iraniana voluto e sostenuto da Trump perché considerato strumentale per realizzazione dell’accordo del secolo.

Trump dunque sta preparando il terreno per la realizzazione del suo piano, infatti, dopo il suo viaggio in Medio Oriente dello scorso maggio, ha inviato nella regione suo genero Jared Kushner e il segretario James Mattis, e, in questi giorni è in ancora in atto la visita in America del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman e sono in calendario anche le visite del presidente egiziano Al Sisi e del re giordano Abdullah II e degli emiri dei Pesi del Golfo, tutti in sorta di pellegrinaggio a Washington alla ricerca della benedizione Usa.

L’Arabia Saudita vuole avere la benedizione nordamericana non solo per la sua politica estera ma anche per quella interna in quanto l’appoggio Usa permettere di oscurare la sanguinosa guerra saudita contro lo Yemen e la continua violazione dei diritti umani (ogni giorno l’aviazione di Riad bombarda ripetutamente il Paese yemenita, un Paese poverissimo, oramai ridotto all’estremo dove la gente muore perché non riesce a curarsi neanche una banale gastroenterite e per mancanza di viveri). Inoltre, l’appoggio americano alla guerra alla corruzione e all’ammodernamento della società saudita (ad esempio con il permesso finalmente riconosciuto alle donne di guidare o quello riconosciuto ai giovani, uomini e donne, di partecipare insieme a concerti) permette all’ambizioso e spregiudicato principe Bin Salman, da un lato, di sbarazzarsi in modo indolore dell’opposizione interna e, dall’altro, di guadagnarsi il consenso non solo delle nuove generazione ma anche delle frange più reazionarie della società saudita non indifferente però alla tutela dei propri interessi economici (se l’ammodernamento della società è il prezzo che si deve pagare per fare affari con gli americani che ben venga). Queste sono le cose che stanno a cuore a Bin Salman, ecco perché finora nei suoi vari incontri con diversi personaggi dell’amministrazione Trump e nelle varie conferenze non c’è stato nessun accenno alla questione di Gerusalemme, al riconoscimento americano dello scorso 6 dicembre di capitale di Israele.

Gli emiri dei Paesi del Golfo a loro volta andranno a Washington alla ricerca della benedizione americana per tutelare la loro posizione di potenze economiche e partner strategici in quando sedi di importanti basi militari americane, contro le mire egemoniche di Bin Salman che aspira a fare dell’Arabia Saudita con il suo futuristico progetto Neom l’unica superpotenza della zona. Pertanto anche per gli emiri dei Paesi del Golfo il ricevimento alla Casa Bianca sarà un’occasione per rinnovare alleanze e stringere nuovi accordi economici, non certo per discutere di Gerusalemme e sostenere le legittime rivendicazioni dei palestinesi.

Più delicata è la posizione del presidente egiziano Al Sisi e di re giordano Abdullah II in quanto più direttamente coinvolti con migliaia di profughi palestinesi che oramai fanno parte integrante delle loro rispettive popolazioni, pertanto sicuramente nel loro prossimo viaggio a Washington non potranno ignorare la questione palestinese alla luce del fatto che i loro Paesi sopportano il peso anche economico di questa situazione e alle luce anche del proposta di soluzione a tre Stati di Bolton. Sicuramente questi due Paesi, Egitto e Giordania, chiederanno e riceveranno aiuti e finanziamenti per fare tirare un sospiro alle loro povere economie, ma sicuramente gli aiuti ed i finanziamenti americani avranno un costo, cioè acconsentire alle richieste americane per la realizzazione dell’accordo del secolo.

Ecco perché Abbas prima che questo avvenga deve confermare, in modo netto e deciso, il suo no categorico all’accordo del secolo e chiamare in causa solo l’Onu affinché decida alla luce del diritto internazionale non solo su Gerusalemme ma sull’intera questione palestinese, condizionando così le posizioni degli altri Paesi arabi.

Allo stato attuale non si conosce nei dettagli la proposta del secolo americana ma molto probabilmente essa prevede che Israele fermi la costruzione di nuovi insediamenti in nuovi territori, ma questo non significa che Israele non possa migliorare e/o aumentare gli insediamenti già esistenti, e questo sarà una sorta di legittimazione dei vecchi insediamenti. Inoltre, si prevede che Israele restituisca alcuni territori della Cisgiordania. Nello specifico si parla dei territori rientranti nella cosiddetta area A (che rappresenta l’8% dell’intera Cisgiordania) ed area B (che rappresenta il 20% della Cisgiordania) al netto di Gerusalemme che gli Israeliani vogliono come capitale. Quindi al massimo ai palestinesi sarà restituito il 28% della Cisgiordania perché l’area C (che corrisponde al 72% della Cisgiordania) è già completamente sotto il controllo israeliano sia dal punto di vista amministrativo sia dal punto di vista della sicurezza, così come previsto dagli accordi di pace di Oslo, all’epoca di Arafat, prima della seconda Intifada. Oggi, invece, tutti i territori palestinesi sono, dal punto di vista della sicurezza, sotto il controllo israeliano, per questo Abbas nel suo discorso all’Onu ha detto che l’Anp è una «autorità senza authority, e i palestinesi lavorano per gli israeliani».

Ma se le cose stanno così la politica dilatoria intrapresa dall’Anp dopo la dichiarazione di Trump fa il gioco israeliano ed americano. Infatti, Abu Mazen partecipando al vertice straordinario dei Paesi della cooperazione islamica (Oic), convocato il 13 dicembre ad Istambul da Erdogan che ha condannato la decisione «pericolosa», «illegale» ed «illegittima» di Trump, ha sostenuto che «d’ora in poi i palestinesi non accetteranno più alcun ruolo di mediazione degli Usa nel processo di pace in Medio Oriente».

Questo concetto è stato espresso anche nel corso del Consiglio centrale palestinese (14 gennaio) dove Abu Mazen ha affermato che «gli israeliani hanno ucciso gli accordi di Oslo, perciò Oslo è finito». Di qui la necessità di fermare la collaborazione per quanto riguarda i coordinamento di sicurezza previsto appunto dagli accordi di Oslo .

Dopo la riunione del consiglio Centrale palestinese Abbas ha partecipato in Egitto alla conferenza di Al Azhar (17 gennaio) dopo di che, il 20 febbraio, ha tenuto un discorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel corso del quale ha chiesto che si organizzi una conferenza di pace per il Medio oriente entro la metà del 2018 con il compito di stabilire un meccanismo internazionale multilaterale che possa risolvere la questione palestinese.

Poi Abbas è andato presso i singoli Paesi europei ma nessuno di questi Paesi si è proposto come mediatore. Nessuno cioè ha detto di sì ma neanche nessuno ha detto no, perché nessuno di questi Paesi può fare pressione su Israele in quanto privi degli strumenti per fare pressione (come i finanziamenti delle potenti lobby ebraiche americane) e nessun Paese può fare da mediatore senza il consenso degli americani.

Trump non si muove neanche di una virgola dalla sua decisione anzi la rafforza con la decisione di inaugurare il 14 maggio l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme.

Abu Mazen, invece, sembra prendere e soprattutto perdere tempo, nella speranza forse che gli americani cambino qualche cosa, probabile che Trump per accontentare Abbas accetti la partecipazione di altri mediatori a condizione però che gli USA siano determinanti nella scelta di altri mediatori. Ma in confronto il sovrano non sarà più la legittimità internazionale ma la trattativa nella quale prevarrà una sola legge, cioè la legge del più forte, cioè Israele.

Per noi palestinesi, invece, per la difesa dei nostri diritti, in difesa di Gerusalemme e di tutta la sua terra illegittimamente occupata e devasta, senza perdere tempo, si dovrebbe:

  • Chiedere la cancellazione di Oslo e di tutti i suoi effetti,
  • Fare assumere ad Israele la responsabilità di gestire i territori occupati,
  • Rinviare l’intero fascicolo della causa palestinese all’Onu affinché venga affrontato dall’Onu alla luce del diritto internazionale,
  • Organizzare una conferenza internazionale per far si che decidano tutti i soggetti internazionali alla luce del diritto internazionale,
  • No a trattative dirette e al ruolo di unico mediatore degli Stati Uniti.

Stephon, 22 anni, nero, ucciso dalla polizia Usa perché aveva in mano un cellulare

epa06639757 People hold up signs at a rally for social justice following the fatal police shooting of unarmed Stephon Clark in Sacramento, California, USA, 31 March 2018. People are reacting after private autopsy results, released by the family, show that he was shot eight times, including six from behind. EPA/ELIJAH NOUVELAGE

Hanno sparato all’uomo disarmato otto volte, alla schiena. Lo dice un’autopsia indipendente, richiesta dalla famiglia di Stephon Clark, cittadino afro americano, 22 anni, due figli, e uno smartphone. Quello che la polizia ha scambiato per un’arma, prima di ucciderlo nei pressi della casa di sua nonna, il 18 marzo scorso. I poliziotti del dipartimento di Sacramento, California, hanno aperto il fuoco di notte.

Ora «beneath the grief, anger simmers». Sotto il dolore, la rabbia ribolle. C’è scritto sul Washington Post, vicino alla foto del funerale di Clark: «La fine di un uomo solo, ma l’inizio di una marcia di molti». In centinaia, infatti, si sono riuniti intorno alla sua bara tre giorni fa, il 30 marzo, e le proteste, iniziate nei giorni scorsi, non si sono ancora fermate. Durante l’ultima, il primo aprile, una manifestante, Wanda Cleveland, è stata investita dall’auto dello sceriffo. Questa settimana la comunità nera di Sacramento promette che non rimarrà a casa, la città continuerà a ricordare Clark, giorno e notte, anche quando tornerà la luce blu delle volanti al buio. «Hanno ucciso Stephon, continuano ad ucciderci. Continueremo a chiedere giustizia non solo per lui, ma per tutte le vite che abbiamo visto ingiustamente togliere dalle forze dell’ordine». Black lives matter. Nei loro pugni in aria, ora, c’è uno smartphone, in segno di lutto e lotta: Stephon è morto per questo, perché il telefono è stato scambiato per una pistola.

Dieci minuti per morire: Stephon avrebbe potuto, infatti, ricevere cure mediche adeguate ed essere salvato, dopo che è stato aperto il fuoco. Lo dice la seconda autopsia, una perizia indipendente richiesta dalla famiglia, che contraddice la prima e la narrazione della polizia californiana, che ha reagito alle nuove rivelazioni con dei vaghi «no comment». Dieci minuti è il tempo in cui Clark è rimasto vivo, a terra, nei pressi del cortile della casa dei suoi nonni, dopo che i proiettili l’hanno colpito – uno al fianco, uno al collo, sei alla schiena -, prima di chiudere gli occhi per sempre.

«L’autopsia conferma che non era una minaccia per la polizia, he was slain in another senseless police killing, Stephon è stato ucciso in un altro omicidio insensato della polizia, in discutibili circostanze» ha detto il rappresentante legale della famiglia Clark, Benjamin Crump, avvocato per i diritti civili, che si è già battuto per le cause di Travyon Martin e Micheal Brown. Clark è una delle 264 persone uccise dalle forze dell’ordine dall’inizio di quest’anno, 2018, in America; 987 persone sono state uccise nel 2017. Le divise dicono di essere intervenute quella sera del 18 marzo dopo una chiamata ricevuta per un furto d’auto.

Dalle telecamere sul corpo dei poliziotti e da un video di un elicottero con sensori notturni, la morte di Stephon è stata ripresa e da quando il video è stato pubblicato tensione e lacrime hanno ceduto il posto alla rabbia della comunità afro-americana locale.

Sarebbe una bella opposizione, quella agli indegni

+++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ Irruzione degli agenti della Dogana Francese nella sala della stazione di Bardonecchia dove opera Rainbow4Africa, 30 marzo 2018. Lo denuncia la stessa associazione, impegnata ad assistere i profughi che sempre più numerosi scelgono le Alpi nel tentativo di attraversare la frontiera. TWITTER

Che poi se ci pensate è soprattutto una questione di dignità. Dignità nel senso di misura, forma, etica e potabilità di ciò che è universalmente riconosciuto come ingiusto, falso o disonesto. Se improvvisamente diventasse obbligatoria la dignità – obbligatorio averla, obbligatorio pretenderla – il fumus con cui si giustificano azioni indegne non verrebbe preso in considerazione, nemmeno se sparato di grancassa su tutti i media: una bugia sarebbe una contraddizione che una volta svelata pretenderebbe la dignità di farsene carico e di agire di conseguenza.

Se la dignità fosse obbligatoria il problema del giorno non sarebbe Bardonecchia, lo sconfinamento e i pruriti nazionalisti ma piuttosto sarebbe il succo dell’azione, quello che è veramente successo, il perseguitare un disperato come se fosse una priorità nazionale e, se la dignità fosse obbligatoria, il ministro Minniti non potrebbe ergersi a maestro di politica estera e sicurezza senza che goccioli dappertutto il sangue libico con etichetta italiana. Se la dignità fosse uguale per tutti non ci sarebbe una gara su chi è più xenofobo, disumano e respingente. Ci sarebbero i degni e gli indegni e Minniti e francesi sarebbero nella stessa squadra.

Se la dignità fosse uguale per tutti, le parole avrebbero un peso oltre che un senso. Salvini e Di Maio avrebbero addosso tutte le frasi che si sono detti, uno contro l’altro, e un abboccamento non potrebbe avvenire senza prima disfarsi di loro: non è un “avvicinamento” ma è un cambio di linea politica. Ed è così indegno cavalcare il cambiamento dopo essersi intascati i voti per farsi la guerra.

Se la dignità valesse per tutti ci sarebbero i “senza diritti”, i “senza casa”, “i senza lavoro”, i poveri, gli umiliati, i “senza speranza”, i periferici che sarebbero una violazione della dignità come diritto. Ci si concentrerebbe sui carnefici e non sui disperati.

Se la dignità fosse obbligatoria i servetti di Berlusconi non potrebbero discettare di diritti delle donne, Salvini sarebbe (nella migliore delle ipotesi) colui che ha ricandidato Umberto Bossi condannato in primo grado a 2 anni 3 mesi per appropriazione indebita, Casaleggio non potrebbe discettare di democrazia digitale avendo provato a registrarne il marchio, una certa parte del Pd dovrebbe raccontarti del proprio recente passato piuttosto che disquisire di futuro, un pezzo di sinistra dovrebbe placidamente farsi da parte e qualche ministro dovrebbe chiedere scusa.

Se la dignità fosse obbligatoria si scriverebbe che una porzione di questo Parlamento, anche se ha ancora addosso il profumo di nuovo, si porta dietro l’odore della fogna, intriso com’è di promessi dimissionari mai dimissionati, di volgari provocatori sempre sull’onda, di incapaci e di bolliti.

Sarebbe una bella opposizione, quella agli indegni.

Buon lunedì.

Il Grande fratello nella versione di Pechino

BEIJING, CHINA - FEBRUARY 17: A Chinese police officer watches over a crowd of travelers as they board a train while leaving for the Spring Festival at a local railway station on February 17, 2015 in Beijing, China. Millions of Chinese will travel home to visit families in a mass migration during the Spring Festival holiday period that begins with the Lunar New Year on February 19. (Photo by Kevin Frayer/Getty Images)

Immaginate un Paese senza criminalità né terrorismo, dove i buoni vengono premiati e i cattivi puniti in base alla loro condotta in rete e offline. Nel giro di qualche anno, quel Paese potrebbe esistere davvero. È dal 2012 che la Cina lavora a uno dei progetti d’ingegneria sociale più imponenti mai realizzati: un sistema di rating dell’affidabilità finalizzato a raccogliere tutte le informazioni concernenti individui e società, in modo da indicizzare ogni soggetto sulla base dei crediti totalizzati in riferimento alla credibilità commerciale, politica, legale e sociale. Si comincia setacciando il flusso di dati generato online dagli oltre 700 milioni di utenti cinesi – che ormai acquistano e comunicano perlopiù in rete e via mobile – per poi incrociare i risultati con quanto rintracciabile negli archivi giudiziari e di polizia, registri bancari e documenti fiscali.

La filosofia che anima il piano prevede premi per i “bravi” e punizioni per i “cattivi”. Ergo, i punti accumulati influenzeranno l’accesso di una persona a una vasta gamma di servizi. Ti serve un prestito bancario? Vuoi comprare un biglietto aereo? Ambisci a mandare i tuoi figli nelle scuole migliori del Paese? Non è detto tu possa farlo, dipende dal tuo “credito sociale”. Ovviamente, l’inadempienza davanti a un debito, un atteggiamento critico verso il Partito-Stato o persino l’inosservanza della “pietà filiale” (l’obbligo morale verso i genitori) potrà costare ai “bad elements” un’erosione del punteggio finale. Ugualmente, un’azienda segnalata per aver infranto la fiducia dei consumatori verrà sottoposta a una sorveglianza quotidiana o a ispezioni random.

Appena pochi giorni fa la National development and reform commission ha annunciato che chi sarà pizzicato a commettere infrazioni di vario genere, come fumare in treno, diffondere rumors online e utilizzare biglietti scaduti, a partire dal 1 maggio rischia di…

L’inchiesta di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


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L’archeologo Paolo Brusasco: In Kurdistan è in atto un genocidio umano e culturale

Sin dai tempi della guerra del Golfo, l’archeologo Paolo Brusasco ha denunciato lo scempio del patrimonio artistico nell’antica Mesopotamia. Docente di archeologia del Vicino Oriente antico all’università di Genova e supervisore di importanti scavi archeologici in Iraq e in Siria, Brusasco è autore di numerosi saggi, a cui ora si aggiunge l’importante ricognizione Dentro la devastazione. L’Isis contro l’arte di Siria e Iraq (La nave di Teseo). A lui abbiamo chiesto di aiutarci a fare il quadro delle devastazioni del patrimonio archeologico in Kurdistan di cui nessuno parla.

«Per quanto riguarda l’area del Kurdistan iracheno le devastazioni sono state tutte concentrate nella piana di Mosul, a Ninive nella zona di confine», racconta Brusasco. «Ma è nel Kurdistan siriano che si sono concentrate le maggiori devastazioni. La feroce campagna militare turca nella zona di Afrin in Siria ha già visto gli attacchi al tempio neo ittita di Ayn Dara, a monumenti ellenistico-romani e bizantini di Cyrrhus e islamici a Jindaris. Attacchi che violano il diritto internazionale e la Convenzione dell’Aja del 1954. Secondo alcune fonti, i bombardamenti avrebbero colpito anche la celebre cattedrale di Julianos una delle più antiche e imponenti chiese cristiane della Siria del IV secolo.

Particolarmente colpita dalle truppe di Ankara è stata la regione del Rojava.
Stupisce il silenzio mondiale che avvolge questo micidiale attacco. Il presidente Erdogan oggi sta massacrando i curdi che nel 2014 hanno proclamato la nascita della federazione del Rojava, ovvero l’unico Stato democratico in Oriente. Parliamo di quegli stessi curdi che erano visti come eroi quando hanno liberato Kobane e Raqqa dall’Isis. Parliamo di un progetto politico che vede le donne come soggetto attivo con ruoli di responsabilità anche a livello strategico e politico. La confederazione si rifà a statuti e alle costituzioni democratiche di repubbliche confederali occidentali e riunisce arabi, turkmeni, cristiani. Oggi vengono bombardati e uccisi dall’esercito turco e del Free syrian army, che ormai non esiste più, poiché vi hanno fatto ingresso islamisti che si sono alleati con i turchi. Tutto questo avviene senza che il mondo dica nulla.

Contestualmente, la Turchia sta cercando di cancellare il patrimonio storico artistico curdo, bombardando anche siti patrimonio Unesco.
Proprio nei giorni scorsi Ankara ha bombardato…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Paolo Brusasco prosegue Left in edicola


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Verso un’Europa senza dio, i giovani decretano la fine della religione

Da quando il 13 marzo del 2013 Jorge Mario Bergoglio è diventato papa Francesco, subentrando a Joseph Ratzinger aka Benedetto XVI, lo sguardo dei media italiani è rimasto fisso sulla presunta opera riformatrice del gesuita argentino. Trasmettendo un messaggio parziale e alterato – della presunta opera di ammodernamento della Chiesa e di rottura con il passato che Bergoglio starebbe portando avanti – anche attraverso la continua pubblicazione di immagini che raccontano un papa in qualche modo più umano rispetto al suo algido predecessore, “semplice”, “diretto”, vicino ai suoi fedeli. Ovviamente le strette di mano, le carezze ai neonati, i selfie, le passeggiate nella folla, la valigetta in simil pelle, il viaggio in utilitaria e così via, tutto è costruito a tavolino. E il regista di questa operazione è proprio lui, il papa-parroco. Avvicinandosi alla gente sin dal famoso «buonasera» dal balconcino di piazza S. Pietro, Bergoglio è il primo e unico pontefice ad aver compiuto gesti finalizzati a rendere la sua figura più accessibile per veicolare un’idea di Chiesa di nuovo degna della fiducia pesantemente compromessa dalle responsabilità nei casi di pedofilia e negli scandali finanziari che hanno segnato la fine del pontificato di Ratzinger. Questo almeno nelle sue intenzioni, che poi papa Francesco sia effettivamente riuscito a tamponare l’emorragia di credenti o ad attirarne di nuovi è un altro paio di maniche. 

Un significativo campanello di allarme – dal punto di vista della Chiesa di Roma – risuona dando un’occhiata a un’interessante ricerca dal titolo Europe’s young adults and religion, condotta tra il 2014 e il 2016 da Stephen Bullivant, professore di teologia e di sociologia della religione presso la St. Mary’s University di Londra, e pubblicata sul quotidiano britannico The Guardian. Lo studio, focalizzato sui giovani di età compresa tra 16 e 29 anni in 21 Paesi del centro-nord Europa storicamente a tradizione cristiana, mostra come l’ateismo e il disinteresse totale nei confronti della religione sia prevalente nel campione osservato da Bullivant.

Entrando nel dettaglio, in 12 Paesi gli adolescenti e i giovani adulti non credenti risultano la maggioranza e in Repubblica ceca sono addirittura il 91%, in Estonia l’80% e in Svezia il 75%. In primo piano, in questa speciale fotografia che parla di un’Europa in marcia veloce verso una società post-cristiana, troviamo anche la Gran Bretagna (70% dei giovani sono non credenti) e la Francia (64%). Agli antipodi ci sono la Polonia (17%) e la Lituania (25%).

Secondo Bullivant, la tendenza è destinata ad acuirsi nei prossimi anni: «L’adesione “automatica” al cristianesimo, in Europa, è probabilmente cessata per sempre, o almeno per i prossimi 100 anni. L’identità culturale religiosa non viene più trasmessa dai genitori ai figli. Costoro semplicemente la ignorano. Anche se sono battezzati, molti di loro non varcheranno mai la soglia di una chiesa». Già oggi, stando alla ricerca, il 70% dei giovani cechi e il 60% degli spagnoli, olandesi, britannici e belgi ha dichiarato di non averlo mai fatto né intende farlo. Soltanto in Polonia, in Portogallo e in Irlanda più del 10% dei giovani dichiara di seguire le funzioni almeno una volta alla settimana. Tra i cattolici belgi lo fa solo il 2%, in Ungheria il 3%, in Germania il 6% e in Francia il 7%. Tra chi si è definito cattolico ci sono comunque grandi differenze nel livello dell’impegno. Oltre l’80% dei giovani polacchi si dichiara cattolico e il 47% frequenta la messa almeno un volta la settimana. In Lituania, dove il 70% di giovani adulti si dichiara cattolico, varca abitualmente la soglia di una chiesa solo il 5%. «Entro 20 o 30 anni, le chiese tradizionali saranno sempre più piccole, ma le poche rimaste saranno fortemente impegnate» osserva Bullivant.

Da segnalare il caso del Regno Unito (dove il 59% dei giovani non frequenta mai funzioni religiose), in cui solo il 7% dei giovani intervistati si definisce anglicano, e meno del 10% si caratterizza come cattolico. I giovani musulmani sono il 6%, stanno quindi per raggiungere i coetanei che si considerano membri della Chiesa ufficiale del Paese. I dati in parte si spiegano con l’immigrazione. «Un cattolico su cinque non è nato nel Regno Unito ed è noto che la natalità dei musulmani è maggiore rispetto al resto della popolazione. Inoltre l’Islam ha un tasso di appartenenza religiosa molto più alto della media degli altri monoteismi».

E l’Italia? I nostri giovani non sono tra quelli monitorati in Europe’s young adults and religion ma, scorrendo alcuni dati Istat sul tema dell’appartenenza religiosa, risultano sostanzialmente in sintonia con buona parte dei loro coetanei. Almeno per quanto riguarda la tendenza a partecipare alle funzioni religiose cattoliche si posizionerebbero a metà classifica e puntano verso le posizioni immediatamente a ridosso del vertice in quanto la messa li attira sempre meno. Nel 2014 il 19,8% dei giovani 14-24 anni andava in chiesa almeno una volta alla settimana, nel 2015 sono stati il 17,5% e nel 2016 il 16,7%; di contro, nello stesso lasso di tempo preso in esame, rispettivamente il 26,9% (2014), il 29,4% (2015) e il 30,3% (2016), non lo ha mai fatto. Considerando che stiamo parlando del periodo centrale del pontificato di Bergoglio nel Paese “epicentro” del cristianesimo, anche in Italia non c’è un gran risultato per il papa che viene dalla «fine di mondo» per rivoluzionare la Chiesa e per la grancassa mediatica che ne propaganda le gesta.

L’articolo di Federico Tulli è tratto da Left in edicola


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L’irresistibile ipocrisia dei film che solleticano gli euroscettici

Per molti europei, soprattutto italiani, la Gran Bretagna della british exit è un po’ come l’amante di un incontro occasionale che il mattino dopo si riveste in silenzio per poi dileguarsi, senza nemmeno lasciare uno straccio di numero. Davanti al benservito targato Brexit sono rimasti impietriti, come sotto shock. Dimenticando, o forse ignorando, che quarant’anni fa il Paese, dall’economia in ginocchio, era entrato implorante nell’allora Cee come “malato d’Europa”. Proprio loro, gli unici a vincere la guerra, avevano dovuto ripagare fino all’ultima sterlina i prestiti agli Stati Uniti anziché essere ricoperti di dollari in chiave antisovietica, come invece gli ex-fascisti italiani e tedeschi. Insomma, mentre noi uscivamo dalla mezzadria vendendo frigoriferi agli americani e crescevamo (parola magica) più della Cina di oggi, loro perdevano l’impero facendo la fila per i razionamenti (donde la leggendaria disciplina nel fare le file). Solo che alle spalle noi avevamo l’italietta nazionalista e fascista unificata nel 1860, loro il più solido e potente Stato-nazione europeo a vocazione imperialistica, per tacere di un’umiliante sconfitta e di un’inebriante vittoria. Questo spiega, almeno in parte, la psicologia del voto Brexit.

Pareva opportuno ricordarlo prima di parlare di almeno due recenti pellicole che, con tempismo a dir poco sospetto, fungono da commentario – appunto, politico – alla storia contemporanea. Si tratta naturalmente di Dunkirk e L’ora più buia: lungometraggi strapremiati (ben quattordici nomination agli Oscar tra i due) che, partendo da due fatti storici strettamente connessi della Seconda guerra mondiale, risuonano tutt’altro che misteriosamente nell’immaginario di un Regno che in fondo non si è mai sentito europeo e che dopo quarant’anni di problematica convivenza ha finalmente deciso di mollare l’Unione.

Il primo tratta…

L’articolo di Leonardo Clausi prosegue su Left in edicola


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Se la sanità pubblica è difesa solo dai lavoratori

Un momento della protesta dei giovani medici che rivendicano il loro diritto di accedere alla specializzazione senza dover per forza emigrare all'estero, Roma, 2 Aprile 2014. ANSA/ UFFICIO STAMPA +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

A legislatura appena terminata, è tempo di bilanci, anche per i sindacati. E in ambito medico, la Cgil elenca quelle che considera vere e proprie battaglie di successo a cominciare dall’ultima “conquista” avvenuta a ridosso delle elezioni: una pre-intesa per il rinnovo del contratto collettivo del cosiddetto comparto sanità. «Dopo otto anni di blocco, abbiamo rimesso a regime la contrattazione» racconta a Left, Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici «Riuscite ad immaginare – aggiunge – cosa abbia significato lavorare negli ospedali per otto anni senza contratto, coi direttori generali che potevano fare ciò che volevano?». Il nuovo accordo riguarderà infermieri, operatori sanitari e amministrativi impegnati nel Sistema sanitario nazionale. Più di 540mila lavoratori in totale. Per loro, dopo trenta lunghe ore di trattativa, e grazie alla mediazione tra i dicasteri di Salute e Pubblica amministrazione, comuni, regioni e sindacati, è in arrivo un aumento medio delle retribuzioni di 85 euro al mese. E non solo.

«Siamo riusciti anche a ripristinare la contrattazione sindacale per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro» prosegue Filippi. «Si tratta di una enorme vittoria, su molti temi caldi ora le aziende sono obbligate a confrontarsi con le rappresentanze». Un risultato che è figlio di una lotta che inizia da lontano. «La riforma della Pubblica amministrazione di Brunetta del 2009 aveva completamente disarticolato le relazioni sindacali. Ma successivamente, l’importante accordo di novembre 2016 con il governo per il rinnovo contrattuale del pubblico impiego prima, e il decreto 75/2017 (la riforma Madia, ndr) poi, hanno spianato la strada per i rinnovi contrattuali, per la stabilizzazione dei precari, su cui tutte le aziende ospedaliere si stanno muovendo, e per la definizione dell’orario di lavoro».

Non tutti i…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue Left in edicola


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Luigi Ferrajoli: «Ripartiamo dall’uguaglianza»

Exclusive. An illegal migrant poses with a placard reading '#Lost in your world' in Ventimiglia, French-Italian border, Italy on June 15, 2015. About 200 migrants, mostly Africans from Sudan, Chad, Eritrea and Libya were stopped on the border last week, as French police refuse to let them in to continue their journey to northern countries. France says it is up to Italy to house them and assess their asylum claims, as they arrived in Italy by boat. Photo by Franck Bessiere/ABACAPRESS.COM

Come rifondare la politica attraverso il principio dell’uguaglianza e restituire «frammenti di sovranità» alle persone ormai private dei diritti sociali? È il nodo cruciale del momento, il terreno in cui la sinistra – o quel che rimane – ha miseramente fallito. A queste domande offre riflessioni sul filo del diritto il giurista Luigi Ferrajoli nel suo Manifesto per l’uguaglianza (Laterza). Di questi temi parlerà il 5 aprile a Roma in un incontro su “La sinistra, la politica e le elezioni” con Luciana Castellina e Giulio Marcon e il 12 aprile con Francesca Re David, segretaria Fiom Cgil alla sede della Cgil.

Professor Ferrajoli come abbiamo raccontato nell’ultimo numero di Left, nonostante documenti internazionali e costituzioni sanciscano i diritti fondamentali dell’uomo questi non vengono attuati e le diseguaglianze non sono mai state così forti come adesso. Che cosa non ha funzionato?
Non ha funzionato la politica. I diritti fondamentali sono norme. Essi richiedono leggi di attuazione, cioè l’introduzione, ad opera della legislazione e perciò della politica, delle loro garanzie, cioè dei doveri ad essi corrispondenti. Non basta formulare in una costituzione il diritto alla salute o all’istruzione perché tali diritti siano effettivamente garantiti. A questi diritti corrisponde l’obbligo di attuarli con leggi istitutive del servizio sanitario e della scuola pubblica, l’uno e l’altra di carattere universale e gratuito. È quanto è accaduto in Italia e in gran parte dei Paesi europei nei primi 30 anni dopo il 1945, con la costruzione dello Stato sociale e del diritto del lavoro. In questi ultimi venti anni la politica ha invece compiuto il processo opposto: la demolizione del diritto del lavoro con la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la riduzione dello Stato sociale con i tagli alle spese destinate alla salute e alla scuola pubblica. Al punto che oggi, a causa dei ticket – che tra l’altro coprono soltanto 4 o 5 miliardi sui 110 dell’intera spesa sanitaria – 11 milioni di persone, in Italia, hanno rinunciato alle cure.

E a livello internazionale?
È accaduto di molto peggio. Il diritto internazionale è pieno di patti, dichiarazioni e di carte dei diritti umani che anch’esse, se prese sul serio, imporrebbero alla comunità internazionale la loro attuazione tramite l’introduzione delle relative garanzie. E invece poco o nulla è stato fatto. La disuguaglianza e la povertà sono cresciute in maniera esponenziale, al punto che le 8 persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera (3 miliardi e mezzo) dell’intera popolazione mondiale, e milioni di persone muoiono ogni anno per mancanza di acqua potabile, di alimentazione di base e di farmaci salva-vita. Eppure basterebbe pochissimo per ridurre questa tragedia. È stato calcolato che l’1,13 per cento del Pil mondiale – circa 500 miliardi di dollari l’anno, molto meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti – farebbe uscire dalla miseria più di tre miliardi di persone.
Dopo la vittoria elettorale di forze euroscettiche come M5s e Lega, quale scenario vede per l’Europa?
L’Unione europea è stata una delle più grandi conquiste del secolo scorso. Il problema non è uscirne o distruggerla ma riformarla. Speriamo che grillini e Lega, una volta assunte le responsabilità di governo, abbandonino la demagogia che li caratterizza. Adesso l’architettura istituzionale dell’Ue è assolutamente irrazionale. I padri costituenti dell’Unione pensavano che alla creazione del mercato comune e poi di una moneta unica avrebbero fatto seguito l’istituzione di un governo politico dell’economia e la costruzione di una vera federazione europea. Ma questo non è avvenuto. Ne è risultato un sistema politico assurdo. Gli organi comunitari sono dotati di enormi poteri, che producono decisioni immediatamente vincolanti per i Paesi membri senza bisogno di ratifiche parlamentari. Sul piano giuridico, quindi, l’Europa è già una federazione. Ma non lo è sul piano politico.
I poteri selvaggi dei mercati hanno creato le diseguaglianze responsabili della violazione dei diritti umani. È possibile una “sfera pubblica globale” con funzione di controllo delle politiche statali sulla garanzia di uguaglianza?
È la sola alternativa realistica a un futuro di catastrofi: alla crescita esponenziale della disuguaglianza e della povertà, alla distruzione dell’ambiente e della stessa abitabilità del pianeta, allo sviluppo della criminalità, dei terrorismi e delle guerre. Dobbiamo acquistare la consapevolezza che l’odierno assetto istituzionale della globalizzazione non è, nei tempi lunghi, sostenibile. È una globalizzazione dell’economia e della finanza e non anche della politica, del diritto e dei diritti. Il risultato è la dislocazione a livello globale dei poteri economici e finanziari i quali, non più sottoposti alle sfere pubbliche nazionali e in assenza di una sfera pubblica globale, si sono trasformati negli odierni sovrani assoluti, impersonali, invisibili, irresponsabili, che hanno assoggettato la politica ai loro interessi. Ciò che oggi occorrerebbe sarebbe invece una politica interna del mondo, in grado di imporre limiti e vincoli ai mercati selvaggi e di attuare le tante carte dei diritti che affollano il nostro ordinamento internazionale. Non si tratta di un’utopia, ma al contrario della sola alternativa realistica a un futuro catastrofico. L’ipotesi più irrealistica è infatti che la realtà, in assenza di una sfera pubblica globale e di un costituzionalismo sovranazionale, possa rimanere come è e che la corsa del mondo verso lo sviluppo insostenibile possa a lungo continuare senza concludersi nell’auto-distruzione.
Venendo all’Italia e alla sinistra, e al centrosinistra, e alla sconfitta del 4 marzo, si può dire che questa è stata causata dal non aver difeso il progetto di uguaglianza contenuto nella Costituzione?
È così. La cosiddetta “sinistra” ha fatto in questi anni politiche di destra. Esattamente l’opposto del compito prescritto dall’articolo 3 della Costituzione: non la rimozione ma la promozione delle disuguaglianze. In questi ultimi cinque anni il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato e le garanzie dei diritti sociali e del lavoro sono state pesantemente manomesse. Di qui il crollo della rappresentatività della sinistra e il successo dei populismi, che è sempre l’effetto del fallimento della politica.
Come si può rifondare la politica dal principio di uguaglianza? Dopo il voto del 4 marzo lei intravede questa possibilità?
Ovviamente l’uguaglianza forma il presupposto della democrazia in entrambe le sue dimensioni: quella formale, espressa dalla rappresentanza politica di tutti, e quella sostanziale, ossia della garanzia dei diritti fondamentali, che parimenti sono diritti di tutti. Ma l’uguaglianza non è solo il progetto disegnato dalla Costituzione e perciò imposto alle politiche dall’alto. Essa è anche la condizione delle solidarietà collettive e della formazione di soggetti sociali – come era il vecchio movimento operaio – accomunati dall’uguaglianza nelle condizioni di vita e perciò dalle lotte contro le disuguaglianze. Oggi si è invece capovolta la direzione della vecchia lotta di classe, sostituita da conflitti identitari, che mettono i penultimi contro gli ultimi, i poveri contro i poverissimi, i cittadini contro i migranti, trasformati in nemici contro cui scaricare la rabbia e la disperazione generate dai fallimenti della politica.
Veniamo infine alla violazione più palese dei diritti umani, quella ai danni dei migranti. Lei definisce i provvedimenti in Italia, dalla Bossi-Fini fino ai decreti Minniti-Orlando, le “odierne leggi razziali”, dopo quelle del 1938. E definisce i migranti nuovo soggetto costituente. Perché?
Le politiche italiane e più ancora quelle europee contro l’immigrazione sono una vergogna. Stanno cambiando l’identità del nostro Paese e dell’Europa, che non sono più l’Italia e l’Europa dei diritti e dell’uguaglianza, ma l’Italia e l’Europa dell’esclusione, dei muri e dei fili spinati. Ho chiamato “razziali” le leggi contro i migranti perché esse hanno riesumato la figura della “persona illegale”, discriminata ed esclusa per ragioni di nascita e di identità personale. E a proposito del popolo dei migranti ho parlato di “popolo costituente” perché esso esibisce tutte le nostre contraddizioni rappresentate, in primo luogo, dalla fuga di milioni di persone dalle guerre, dalla fame e dalla miseria causate dalle nostre politiche, che saranno costrette ad affrontarne le cause soltanto quando la pressione degli esclusi alle nostre frontiere diventerà irresistibile. E in secondo luogo, dal carattere meticcio, oltre che oppresso, del popolo dei migranti, il quale, con le sue differenze culturali, religiose e linguistiche, prefigura l’identità meticcia e democratica dell’umanità futura, basata sull’uguaglianza delle differenze promessa dalle nostre costituzioni, cioè sull’integrazione e sulla convivenza pacifica di tutti gli esseri umani.

L’intervista di Donatella Coccoli a Luigi Ferrajoli è uscita su Left del 30 marzo 2018 


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