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«Studiate, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza»

Al contrario di quello che potrebbe sembrare, Renzi non si è dimesso da segretario del Pd. Formalmente sì. Ma in realtà no. Come dimostrano gli avvenimenti degli ultimi giorni, il Pd rimane saldamente nelle mani di quello che si potrebbe definire un segretario di fatto.
Il partito non ha nemmeno avviato un processo di analisi del voto. L’unica cosa chiara è che si vuole (o meglio Renzi vuole) stare all’opposizione.
Eppure l’occasione era (è ancora ma con poca probabilità) molto interessante: si potrebbe formare un governo Pd e 5 stelle con una larga maggioranza che permetterebbe di affrontare riforme importanti, inclusa la riforma del sistema legislativo.
Ma Renzi ha deciso di no. Il governo se si farà dovrà essere M5s + Lega o M5s + centrodestra.
Non ci sono altre possibilità, per Renzi.
Perché?

L’unica risposta possibile è perché Renzi vuole punire gli elettori. Vuole in particolare che gli elettori che dal Pd si sono spostati sul movimento 5 stelle siano puniti per una decisione che non dovevano prendere.
Renzi pensa che non sia in nessun modo colpa sua se ha perso. È evidentemente colpa di qualcun altro, che sono in primis gli ex-elettori del Pd che hanno avuto l’ardire di non votarlo.
Dobbiamo dedurre che a Renzi del Paese e dei suoi abitanti non interessa affatto. A lui interessa solo e soltanto il potere ma solo nella misura in cui possa controllarlo completamente. Piuttosto meglio niente.
Non si spiega altrimenti una impuntatura che alla fine, come tutte le decisioni che ha preso negli anni della sua segreteria, danneggerà lui stesso e il Pd.
Allo stesso tempo Renzi ignora del tutto i suoi elettori, quelli che hanno votato Pd. Nelle sue apparizioni pubbliche dopo il voto, per dire che se ne andava (anche se per finta) non li ha nemmeno ringraziati. Le sue scelte post elettorali sono del tutto coerenti con la scelta che ha fatto di demolire definitivamente l’idea di sinistra che era ancora esistente nel suo partito, ancorché ormai residuale. Perché la sinistra ha certamente tra le sue caratteristiche quella di cercare il bene maggiore possibile per la più larga parte della popolazione.
Allora, di fronte all’eventualità che si formi un governo Lega-5 stelle, se il Pd e Renzi fossero effettivamente di sinistra, dovrebbero, necessariamente, cercare in tutti i modi possibili di formare un esecutivo evitando che vadano al governo Meloni, Salvini e Berlusconi.

Se ancora ce ne fosse bisogno, questa è la dimostrazione plastica che, semmai lo fosse stato, il Pd non è più un partito di sinistra. Queste decisioni costeranno molto care al partito, sia che si formi un governo sia che si torni alle elezioni.
Tommaso Cerno mi intervistò nel 2013 e glielo dissi: “Renzi distruggerà il partito”. Purtroppo quanto immaginato si sta puntualmente realizzando. Perché si comporta come il ragazzino che ha il pallone e siccome non gli fanno avere il ruolo che vuole, decide di portarlo via e di non far giocare gli altri.
Quello che Renzi dimentica è che gli altri poi si organizzano.
Niente è eterno nella storia. Meno che mai i partiti, che sono solo delle associazioni di persone con finalità politiche e in quanto tali volubili così come lo sono le idee prevalenti in un determinato momento storico.
Il lettore si potrebbe chiedere che senso ha un giornale come il nostro che ha nel nome un concetto che sembra condannato dalla storia e dagli eventi come le ultime elezioni.
Noi di Left invece insistiamo. Perché pensiamo che il concetto di sinistra non sia qualcosa di astratto. Ma si possa invece riferire a idee che hanno una base molto concreta.
Uno dei cardini concettuali della sinistra è senza dubbio il concetto di uguaglianza di tutti gli esseri umani.
Esso viene solitamente espresso dal pensiero di sinistra come uguaglianza dei diritti.
Il problema è che in questa forma è un concetto estremamente debole perché non ha appigli teorici al di là del funzionamento fisiologico del corpo.

Noi invece pensiamo che l’uguaglianza non sia un diritto ma sia invece una caratteristica fondante dell’essere umano. È un’uguaglianza per costruzione, come direbbe un matematico, perché legata alla dinamica della formazione della realtà psichica che si ha alla nascita. La realtà psichica si forma, o meglio si crea, come reazione della biologia del corpo e della sostanza cerebrale, allo stimolo luminoso che colpisce per la prima volta la retina.
La reazione è la comparsa di un pensiero di esistenza di un altro essere simile a se stessi con cui avere rapporto. È la comparsa dell’essere umano che prima della nascita non c’era.
Il feto non è un essere umano ma una possibilità di essere un essere umano. Possibilità che per realizzarsi deve corrispondere ad un sviluppo fetale perlomeno di circa 24 settimane, momento nel quale si forma la retina e compare la possibilità che il cervello reagisca allo stimolo luminoso.
Questa reazione e formazione è identica in tutti gli esseri umani. Non c’è distinzione.
In questo senso è un’uguaglianza universale che non ha bisogno di leggi per essere affermata. È una verità scientifica, ossia prescinde da quello che può pensarne Salvini, Renzi o il papa.

In questo senso è un’idea fondante che è indipendente dalla storia degli esseri umani nel senso che è una caratteristica fondante dello stesso essere umano e prescinde da quello che egli pensa.
La Teoria della nascita di Fagioli, oltre che una psichiatria che è psicoterapia come cura e guarigione dalla malattia mentale, fonda una nuova antropologia che permette di stabilire in maniera scientifica, ossia oggettiva, cosa è umano e cosa non lo è.
Dà cioè alla politica la possibilità di sapere e distinguere cosa è bene e cosa è male per gli esseri umani. E cosa è la politica di sinistra se non cercare il bene di tutti?

*Il titolo è una frase di Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, anno I, n. 1, 1 maggio 1919

Il commento di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Il giovane Marx di cui abbiamo bisogno

Ci sono voluti una decina di anni perché il regista haitiano Raoul Peck portasse a compimento il suo film sul giovane Marx. Dal 2008, la stampa tedesca aveva dato qualche notizia sulle ricerche condotte dall’artista, poi più nulla. Non abbiamo idea di quali siano stati i motivi di tale latenza, fatto sta che Il giovane Karl Marx arriva nelle sale italiane in un momento topico: a duecento anni dalla nascita del filosofo di Treviri e nel bel mezzo di una crisi epocale attraversata dalla sinistra, nostrana ed europea. Si sa, gli artisti hanno spesso il fiuto dei cani e vanno a rappresentare esigenze e idee che altrimenti resterebbero nascoste e inespresse.

Del giovane Marx non si sentiva parlare nel nostro Paese dalla fine dell’Ottocento, quando Croce e Gentile si scrivevano nel loro epistolario, e poi dagli anni Sessanta del Novecento, quando il Sessantotto pretendeva di ricollocare al centro l’uomo, al posto del mercato e delle istituzioni. Poi, con l’ondata strutturalista francese, il Capitale ha avuto la meglio sulla produzione giovanile del filosofo di Treviri e lo studio dei modi di produzione ha prevalso sulla ricerca di un «uomo nuovo» non alienato e non scisso tra cittadino e borghese. Soltanto lo psichiatra Massimo Fagioli, nei suoi testi fondamentali, in particolare in Bambino donna e trasformazione dell’uomo (1980), ha continuato a ricordare l’essenzialità della fase giovanile marxiana, individuando una frattura profonda nel pensiero dell’autore già nel 1837, quando, alla sola età di 19 anni, Marx scrive al padre una lettera intensa per spiegargli che avrebbe lasciato per sempre la via del diritto e seguito la sua amata strada della filosofia.

«Ci sono momenti della vita, che si piantano come regioni di confine davanti ad un tempo trascorso, ma al tempo stesso indicano con precisione una direzione nuova», scrive da Berlino il giovane studente, in piena crisi esistenziale. Marx infatti non dorme più, ha profondi stati di ansia, perché da un lato non riesce a portare avanti i suoi studi di diritto, dall’altro sente che la tensione verso la filosofia lo allontana dall’arte della poesia, verso cui ha nutrito fino ad ora velleità di scrittore. Ma c’è di più: in quel 1837 la frattura con gli amici “giovani hegeliani” si è ormai consumata, così come col venerando Hegel, che gli appare come un filosofo astratto che mistifica la realtà dietro allo Spirito razionale. «Avevo letto dei brani della filosofia di Hegel, ma non trovavo alcuna attrattiva in questo barocco canto di sirene. Ancora una volta volli immergermi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e solidamente fondata quanto la natura fisica, di non esercitare più l’arte della finzione, ma di portare la pura perla alla luce del sole».

Dobbiamo a Fagioli l’evidenziazione di questo passo da lui interpretato come il tentativo assolutamente straordinario e coraggioso del giovane filosofo di superare l’astrattismo idealista – che riduceva la realtà alla sola Idea – e la grettezza positivista – che parlava soltanto di fatti concreti e misurabili – attraverso una ricerca che fosse in grado di fare emergere «la perla delle perle», vale a dire una realtà «spirituale altrettanto necessaria, concreta e solidamente fondata quanto la natura fisica». Come a dire che il giovane autore aveva intuito, a soli 19 anni, che la realtà materiale senza realizzazione psichica non è niente.

Marx giunge a Berlino un anno prima della lettera, nel 1836, in un clima di grande fermento culturale che vede già affermata la divisione dei giovani discepoli hegeliani in destra e sinistra (Hegel era morto nel 1830). E Marx si colloca subito a sinistra frequentando i radicali berlinesi del Club dei dottori diventando amico di Bruno Bauer, contro cui poi scriverà la Sacra famiglia (1845). Nel 1841 Marx si laurea con una tesi su Democrito ed Epicuro elogiando una filosofia decisa a liberarsi delle paure degli dèi e delle superstizioni religiose, per un libero sviluppo dello spirito umano. In un articolo sulla Gazzetta di Colonia del 1842, Marx scrive: «…la filosofia tedesca, ha un’inclinazione alla solitudine, all’isolamento sistematico, all’imperturbata auto-contemplazione (…) Ma…la filosofia non abita fuori del mondo così come il cervello non sta fuori dell’uomo per il solo fatto che non sta nello stomaco».

È adesso che Marx incontra il pensiero di Feuerbach che gli restituisce concretezza attraverso uno studio dell’uomo «in carne e ossa» e attraverso la critica dell’alienazione religiosa. All’amore per Dio occorre sostituire l’amore per gli uomini. Il giovane filosofo non affonda le radici del proprio sistema nell’economia, ma nella politica per l’instaurazione di una democrazia assoluta. Dietro ha ancora Rousseau, Feuerbach e la Rivoluzione francese, ma ancora per poco. Ben presto infatti anche l’emancipazione politica gli appare inadeguata e nella Questione ebraica (1843) Marx mostra una scissione drammatica all’interno dell’uomo che si è emancipato soltanto politicamente: la scissione tra borghese e cittadino. La Rivoluzione francese infatti ha sancito l’uguaglianza formale fra gli uomini (come cittadini), ma questi continuano a essere ancora profondamente diseguali (come borghesi).

È con i Manoscritti economico-filosofici (1844) che Marx pretende di descrivere la vera liberazione dell’uomo: non più solo politica, ma economico-sociale. Gli uomini saranno davvero uguali quando verrà abbattuta la proprietà privata, il perno su cui si fonda il capitalismo e la distinzione tra operai e padroni. Nel 1845 Marx ha 27 anni, e quei suoi 19 anni, segnati dal tentativo di superare la Scilla e Cariddi di materialismo e idealismo e dall’influenza di Feuerbach, che gli aveva insegnato che prima di tutto l’uomo deve combattere l’alienazione religiosa, sono ormai alle spalle e lontanissimi. Per paura di cadere nelle braccia del nemico idealista, il Marx maturo perde di vista il pericolo positivista e idealizza la materia; la critica di Feuerbach gli appare adesso monca e unilaterale, in quanto non considera la capacità attiva dell’uomo con cui modifica il reale. «…I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta prima di mutarlo». Modificando il mondo e le strutture economiche, Marx pretende di modificare gli uomini.

È proprio nel 1845 (con L’ideologia tedesca) che la critica, infatti, chiude la fase giovanile marxiana. Egli ha perso definitivamente quello slancio che lo faceva tuffare nel mare «alla ricerca della perla delle perle». L’uguaglianza diventa così l’uguaglianza della soddisfazione dei bisogni materiali e la rivoluzione coincide con la mera trasformazione della struttura economica. Oggi, nel 2018, possiamo dire che la lotta alle disuguaglianze combattuta soltanto sul piano materiale ha perso sia sul versante comunista che su quello liberista: le disuguaglianze fra gli esseri umani sono ancora enormi e pochissimi detengono la maggior parte delle ricchezze mondiali. Ma, proprio perché le due grandi alternative nella storia hanno fallito, è divenuta necessaria una nuova concezione dell’uomo che non lo riduca né a puro spirito né a mero robot, ma lo veda come unione di corpo e psiche, perché le vere trasformazioni si fanno con la realtà psichica degli uomini rendendoli liberi dall’alienazione religiosa e dalla sudditanza alle idee false sulla realtà umana.

Ripartiamo dai 19 anni di Marx e da quell’intuizione geniale perché, se il comunismo marxista è fallito, resta ancora oltremodo necessaria una forza culturale e politica che risponda alle esigenze di cambiamento e di emancipazione degli esseri umani.

L’articolo di Elisabetta Amalfitano è stato pubblicato su Left n. 13, del 30 marzo 2018


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La Libia siamo noi

Una foto pubblicata da Sea Watch che mostra i migranti salire da soli sulla nave della Guardia Costiera Libica, praticamente salita sopra al gommone

«La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici»: sono le parole (messe nero su bianco) da Nunzio Sarpietro, giudice di Catania, nel decreto di convalida del sequestro della nave di Open arms. Dice, fuori dal lessico giudiziario, che è l’Italia a coordinare e decidere ciò che avviene in quelle acque, è l’Italia che ricaccia indietro i disperati in fuga, è l’Italia che si occupa, travestita da guardia costiera libica, dei respingimenti in aperta violazione di tutti i trattati internazionali di cui si fregia.

La vera notizia, quindi, non dovrebbe essere l’ennesima inchiesta già mezza sbriciolata del pm Zuccaro ma piuttosto il fatto che l’Italia, con tutto il suo finto carico di contrizione istituzionale, debba raccontarci ben altro. Scrive il giudice: «Si è creato un polverone intorno all’ong spagnola Open arms ma in pochi stanno ponendo attenzione su ciò che dicono realmente gli elementi di indagine. All’interno della ricostruzione dei fatti il giudice riconosce, per esempio, che l’ong ha ricevuto minacce esplicite anche con armi e che la situazione in Libia è quella che conosciamo, ma si spinge ad effettuare osservazioni che ritengo non condivisibili sul piano giuridico. L’interpretazione delle norme vigenti sul favoreggiamento (art. 12 d. lgs. n. 286/1998) mi sembra infatti discutibile alla luce della riserva di legge assoluta in materia di misure restrittive della libertà personale (art. 13 Cost.) e soprattutto della riserva di legge in materia di stranieri e di diritto di asilo (art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Inoltre si dice che Open arms, come le altre ong, non può decidere a propria discrezione dove portare le persone, perché questa decisone fa parte di accordi tra gli Stati, con un ragionamento che sembra dimenticare che la materia non è e non deve essere soggetta alla discrezionalità degli Stati ma solo alle normative internazionali sul soccorso in mare e alle normative sulla protezione dei rifugiati e sul divieto di tortura. Inoltre si parla del Codice di condotta come di una sorta di norma regolamentare auto accettata, quando nella realtà esso non è una fonte secondaria. La ricostruzione infine non si sofferma, invece, su quanto prevedono la convenzione di Ginevra, le leggi internazionali che regolano il soccorso in mare (che l’associazione umanitaria è tenuta a rispettare) e sulle ragioni per cui non era possibile individuare nella Libia un luogo sicuro».

In pratica, la Libia brutta sporca e cattiva, che Minniti e compagnia hanno provato a farci credere che fosse rieducata e ammorbidita dal nostro bravo governo, in realtà siamo noi. E non siamo colpevoli del silenzio su ciò che accade, ma evidentemente siamo la causa degli accadimenti. Del resto è un vecchio trucco che funziona sempre quello del poliziotto buono e del poliziotto cattivo che convergono sullo stesso risultato finale.

Buon venerdì.

 

Palestina, la “Grande marcia del ritorno” inizia nel sangue: cinque morti a Gaza

Palestinians take part in a tent city protest near the border with Israel east of Jabalia in the northern Gaza strip on March 30, 2018 to commemorate Land Day. Land Day marks the killing of six Arab Israelis during 1976 demonstrations against Israeli confiscations of Arab land. / AFP PHOTO / Mohammed ABED (Photo credit should read MOHAMMED ABED/AFP/Getty Images)

È Yom al Ard.  Il “Giorno della terra”, la “Grande marcia del ritorno” che si tinge però di rosso. Sale a 5 infatti il bilancio dei manifestanti palestinesi morti negli scontri con l’esercito israeliano lungo il confine, mentre i feriti sono oltre 300. Secondo una nota dell’Ansa lo ha detto il ministero della sanità di Gaza, citato dall’agenzia palestinese Maan. Una tra le ultime vittime era stata ferita questa mattina nei primi scontri ed è deceduta in ospedale. L’esercito israeliano ha calcolato in circa 17mila i manifestanti che “stanno lanciando bombe incendiare e sassi”.

Ogni 30 marzo in Palestina scocca il mese del diritto al ritorno. Sui calendari palestinesi – in West Bank, Gaza, su quelli degli arabi in Israele – la data è cerchiata di rosso. Le proteste termineranno solo tra sei settimane. Migliaia di persone sono al confine israeliano con le loro tende, tra loro donne e bambini. Dall’altro lato della recinzione, cento cecchini dell’esercito israeliano, schierati con il cordone di sicurezza dei militari.

Era il 30 marzo 1976. Israele ordinò la confisca della terra che apparteneva ai cittadini palestinesi: duemila ettari di terreni vennero requisiti e ribellioni divamparono da Deir Hanna a Arrabeh, Galilea; sei arabi furono uccisi dalle forze di sicurezza, a decine rimasero feriti.

Palestina, don’t go. Non avvicinarti. Gli israeliani le chiamano “no-go zone”, sono i punti sensibili adiacenti al border conteso. Gadi Eizenkot, capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, aveva detto che i militari «non permetteranno infiltrazioni di massa, o saranno tollerati i danneggiamenti della barriera al confine. Se ci sono vite a rischio, i soldati hanno il permesso di aprire il fuoco».

Il ministro della difesa Avigdor Lieberman, sempre secondo l’Ansa, ha avvisato in arabo, sul suo profilo Twitter, che «ogni palestinese che da Gaza si avvicina alla barriera di sicurezza con Israele metterà la propria vita a rischio». L’avviso si riferisce alla situazione di tensione in corso alla frontiera con Gaza.

Nei giorni precedenti alla Grande marcia era scattato l’allarme tra le organizzazioni che tutelano i diritti umani. Amnesty International ha fatto appello alla polizia e alle istituzioni: «le autorità dovrebbero astenersi dall’usare forza letale contro i manifestanti. I report dell’esercito israeliano che minacciano di aprire il fuoco contro chiunque provi a varcare il confine sono incredibilmente allarmanti. Per la legge internazionale le armi da fuoco possono essere usate solo per proteggersi da minaccia imminente di morte» ha detto Philip Luther, divisione Amnesty Medio Oriente e Nord Africa. «L’esercito può ricorrere alla forza solo per scopi legittimi, la forza letale non può essere usata contro manifestanti pacifici».

Dal 30 marzo al 15 maggio. Sono già pianificate le manifestazioni di piazza del prossimo 14 maggio, quando verrà inaugurata la nuova ambasciata Usa nella città divisa, Gerusalemme. L’apertura della sede diplomatica coinciderà con il 70esimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele, avvenuta il 14 maggio 1948. Il giorno dopo, terminerà la primavera della battaglia palestinese.  Il 15 maggio infatti è il “Giorno della Catastrofe”, della Naqba, dichiarato dai palestinesi dopo la grande cacciata, quando in 700mila furono espulsi per sempre da case, villaggi, città. Era lo stesso anno: 1948, stessa terra contesa oggi, 2018.

Il silenzio assordante sul massacro dei curdi

DEREK, SYRIA - NOVEMBER 13: Yazidi refugees celebrate news of the liberation of her homeland of Sinjar from ISIL extremists, while at a refugee camp on November 13, 2015 in Derek, Rojava, Syria. Kurdish Peshmerga forces in Iraq say they have retaken Sinjar, with the help of airstrikes from U.S. led coalition warplanes. The Islamic State captured Sinjar in August 2014, killing many and sexually enslaving thousands of Yazidi women. (Photo by John Moore/Getty Images)

Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali.

Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante.

Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.

L’editoriale di Marco Rovelli è tratto da Left in edicola


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Nessuno disturbi il Sultano

TOPSHOT - Turkish President Recep Tayyip Erdogan (C) waves to supporters on November 6, 2017 during the launch of a project to built a new opera house in Istanbul. The 2,500 seat opera house would be built on the site of the Ataturk Cultural Centre (AKM) which has been unused for over a decade and whose impending demolition has worried some architects. / AFP PHOTO / OZAN KOSE (Photo credit should read OZAN KOSE/AFP/Getty Images)

Abbiamo raggiunto il pieno controllo della regione di Afrin. Continuiamo le operazioni per scovare mine ed esplosivi. L’obiettivo è permettere alla popolazione locale di tornare a casa». È di poche parole la fonte militare che domenica 25 marzo ha annunciato alla stampa il raggiungimento del primo obiettivo dell’offensiva turca “Ramo d’ulivo”, iniziata lo scorso 20 gennaio. La conquista del cantone di Afrin, nel nord della Siria, è infatti solo la prima tappa di un disegno ben più ampio da parte della Turchia. Il “sultano” Erdogan non ne fa alcun tipo di mistero: a Trebisonda, sul mar Nero, ha annunciato alcuni giorni fa che «a breve» le sue forze armate riprenderanno possesso della cittadina curdo-siriana di Tel Rifaat. Il pretesto ufficiale è sempre lo stesso: la Turchia combatterà i «terroristi» (leggi “i curdi del Rojava e del Pkk”) sia «in casa che all’estero». «Entreremo anche a Sinjar» (in Iraq, nda), ha poi aggiunto, tranquillizzando però subito Baghdad: «Non siamo uno Stato occupante». Ma prima di spingersi così ad Est, bisogna risolvere la complicata partita a Manbij. I grattacapi per Ankara non sono pochi: a differenza della vicina Afrin, qui sono presenti oltre duemila militari Usa alleati dei curdi.

L’amministrazione Trump, finora complice spettatrice dell’offensiva turca, si trova di fronte ad un complicato dilemma: mettersi contro il partner della Nato impedendogli di avanzare o, tradire nuovamente i curdi, gli alleati di comodo per combattere boots on the ground lo pseudo califfato dell’Isis? Qualunque sia la risposta, a battere cassa è la Russia. Putin sa bene che un’opposizione statunitense all’avanzata turca spingerebbe Ankara sempre di più nelle sue mani. Ma, d’altro canto, se Trump restasse indifferente al destino del Rojava, gli Usa uscirebbero definitivamente di scena dalla questione siriana perché l’attore curdo è stato fondamentale nei successi sul terreno della coalizione internazionale anti-Is. Erdogan alza la voce, ma sa bene che la sua presenza in Siria dipende dal patto segreto firmato con Mosca. Il Cremlino, nei fatti, ha dato luce verde ai turchi per “Ramo d’ulivo” e non ha mostrato alcuna opposizione alla volontà di Ankara di porre fine all’amministrazione curda nel Rojava e di creare al suo posto una «safe zone» lungo il confine in cui sistemare gran parte dei rifugiati siriani presenti in Turchia (circa 3,5 milioni). Per i russi, l’ok dato a Erdogan sarebbe una punizione per l’alleanza dei curdi siriani del Pyd con gli Stati Uniti in chiave anti-Is. «Il sostegno russo alla Turchia – ha scritto David Barchard su Middle East eye – può essere anche sufficiente per smantellare l’alleanza militare che lega da sette decenni gli statunitensi con i turchi e creare al suo posto una partnership strategica turco-russa. Ciò rappresenterebbe una grande perdita per l’Occidente e un premio per Mosca». Il ruolo giocato dalla Russia su Afrin è dimostrato anche dall’atteggiamento del…

L’inchiesta di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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La Francia rivive l’incubo dell’antisemitismo

Un momento della Marcia bianca di Parigi contro l'antisemitismo per l'assassinio di Mireille Knoll, 28 marzo 2018. ANSA/PAOLO LEVI

Per Mirelle Knoll, ad memoriam, la Francia ha marciato da Marsiglia a Lione. A Parigi. Da Place de la Nation, ad est della capitale, fino all’edificio del suo appartamento, i francesi hanno sfilato per le strade solo con tre cose: il loro tricolore, le foto di Mirelle, il silenzio. La donna che viveva nell’11esimo arrondissement  aveva 85 anni, capelli bianchi e ricordi dell’Olocausto a cui era sopravvissuta. Da bambina nel 1942 era riuscita ad evadere dal Vel d’Hiv, evitare il rastrellamento del Velodromo d’inverno, da cui 13mila ebrei francesi furono deportati nei campi nazisti per lo sterminio. Il giorno dopo la marcia la nazione si interroga.

Dal 2000 sono stati 11 gli omicidi a sfondo antisemita in Francia. «Siamo scioccati e preoccupati», Marc Knobel, dell’organizzazione Crif, studi ebraici, ricorda al suo Paese che la comunità ebraica francese affronta la violenza da molto tempo, tutti i giorni. Knobel e molti ebrei francesi erano abituati però agli attacchi commessi verso i ragazzi che vanno a scuola, o alle sinagoghe. «Ora sono le persone anziane ad essere uccise, un fatto che ha prodotto un senso di paura e insicurezza nella comunità, le persone sono più spaventate che arrabbiate. Certo non viviamo ai tempi dei pogrom, molti conducono una buona vita qui». Ma la violenza è quotidiana per la comunità ebraica più vasta d’Europa, più di mezzo milione di persone da Nord a Sud della Francia, e «non puoi proteggere tutti o mettere un poliziotto dietro ogni porta».

Secondo gli ultimi dati, la violenza antisemita è cresciuta del 26 per cento nell’ultimo anno in Francia, il danneggiamento di luoghi ebraici del 22 per cento. L’antisemitismo in Francia «rimane, si trasforma, riappare, muta», ha detto il primo ministro Edouard Philippe.

Mirelle è stata uccisa in casa sua, dove ora sono state accese candele, posti dei fiori, dei fogli sui cui è scritto “je suis juif, je suis Mirelle”. Due uomini sono stati fermati come sospetti colpevoli del suo assassinio, hanno 20 anni e ora accuse di omicidio con motivo antisemita da affrontare. L’anziana è stata accoltellata undici volte, poi bruciata. Motivo, secondo la polizia e le autorità francesi: odio razziale. Per la sua famiglia, per i suoi amici non è un crimine commesso contro un membro della comunità ebraica, ma contro la comunità per intero.

Un anno fa, aprile 2017, Sarah Halimi, una donna ebrea di 65 anni, è stata picchiata e gettata dalla finestra di casa sua. Ancora prima, nel 2012, tre bambini e un insegnante erano stati uccisi in una scuola ebraica al centro della città di Tolosa. Le cose sono cambiate anni dopo. Dopo l’attacco al negozio kosher nel 2015, due giorni dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, una cifra record, 7900 ebrei, hanno cominciato ad emigrare in massa verso Israele. L’esodo oggi si è fermato, ma la paura no.

Questi sono i giorni dei cortei funebri a Parigi. Dopo il lutto per  Arnaud Beltrame, l’ultimo eroe di Francia, il gendarme volontario nell’attacco jihadista, c’è quello di Mirelle. Daniel, suo figlio, alla fine della marcia ha detto: «la Francia non è antisemita, ma ci sono degli antisemiti, la fine di mia madre non deve capitare a nessuno: ebreo o musulmano, bianco o nero».

La politica vista dai “memers”, i creatori di tormentoni 2.0 che non risparmiano nessuno

Il fenomeno dei meme è vecchio quanto internet stesso, ma la diffusione dei social network li ha resi molto più popolari e li ha fatti uscire dalla cultura di nicchia degli appassionati del web entro cui erano relegati. Secondo la definizione di Treccani, un meme è un «singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile per imitazione da un individuo a un altro». Nell’accezione con cui il termine viene usato su internet, un meme è un’immagine, un video, un qualunque contenuto multimediale, trasmesso da utente ad utente e che a volte richiede una conoscenza pregressa del sistema o evento a cui fa riferimento per essere apprezzato. Secondo il sito knowyourmeme.com, l’enciclopedia di questa forma espressiva 2.0, la qualità che rende un meme tale è che sia in grado di «auto-replicarsi», vale a dire che ogni utente deve poterlo facilmente rielaborare. Ad esempio, il video di un uomo a cavallo che salta un fossato non potrebbe mai diventare un meme, in quanto la sua replica richiederebbe una serie di mezzi e capacità che non tutti hanno. La cinnamon challenge, persone che si filmavano mentre cercavano di mangiare un intero cucchiaio di cannella in polvere, era un meme in quanto chiunque può riprendersi con un semplice cellulare e quindi chiunque può dare il suo contributo al fenomeno e diffonderlo. È comunque molto difficile definire con precisione cosa si intenda per meme su internet. Anche una semplice frase o un’espressione, possono diventare un meme. Il concetto italiano che più vi si avvicina è, probabilmente, quello di “tormentone”. Con la differenza però che, laddove il tormentone si ripete sempre uguale, il meme viene modificato nel passaggio da un utente ad un altro.

E siccome tutto è politica, anche i meme diventano politici. Andando di pari passo con la diffusione di Facebook, si sono moltiplicate le pagine che ironizzano sulla politica italiana. La più nota è sicuramente Socialisti gaudenti, con i suoi quasi 120mila like. Per capire la cultura di riferimento della pagina, basta guardare la foto di copertina: Craxi con in mano un negroni. Ma non bisogna pensare che sia una pagina di parte, l’ironia è trasversale e prende di mira tutti gli schieramenti politici. Ma c’è spazio anche per tutto quello che è nazionalpopolare, dal calcio a Sanremo, strizzando l’occhio anche al mondo della musica indie: non mancano citazioni de I cani, Thegiornalisti, Cosmo e compagnia cantante.

Altra pagina ben nota è Logo comune, che non si limita a creare e diffondere immagini divertenti. Il marchio di fabbrica della pagina sono le storie: “Logo comune” crea intere saghe con protagonisti i politici nostrani, opportunamente modificati. Spulciando tra le foto della pagina si può incontrare Deep Mayo che disquisice di Wittgenstein con Giovanni Floris, o Mad Theo Raenzee che propone l’alternanza meme-lavoro. Ma la storia che più di tutte ha fatto guadagnare popolarità alla pagina è sicuramente quella dell’improbabile storia d’amore tra Alessandro Di Battista e Maria Elena Boschi, opportunamente rinominati Deebosky.

Questa non è però l’unica pagina a creare realtà alternative. Dopo che lo scorso aprile Andrea Orlando ha rivelato di essere single è nata la pagina Il virile ministro Orlando. Nei meme di questa pagina l’ex ministro della Giustizia è sempre impegnato a sedurre colleghe di partito e non.

Ma internet, si sa, non fa sconti a nessuno, ed ecco che nasce Luigi Di Maio che facesse cose, pagina che come si può intuire ironizza sulle scarse capacità di coniugare congiuntivi del leader del M5s. Anche qui si sprecano i fotomontaggi, e Di Maio diventa Luigino Paoli sulla copertina di Sapore di Salirebbe.

Anche alcuni particolari momenti o eventi, come Berlusconi che restituisce cose, nata ovviamente per prendere in giro le promesse elettorali del capo di Fi. La più popolare e recente di questo genere è però sicuramente Aggiornamenti quotidiani sul reddito di cittadinanza, che va ben oltre il concetto di auto-replicabilità del meme per limitarsi a scrivere ogni giorno sulla propria bacheca «Anche oggi niente», e chissà se mai vedremo un post diverso.

Molte di queste pagine collaborano anche tra di loro ma c’è una causa in particolare che li unisce. Dopo aver dato tanto alla politica, ora le pagine di meme chiedono qualcosa indietro: il reddito per i memers, i creatori di meme

A riveder le stelle: Calderoli, La Russa, Taverna

Roberto Calderoli, fresco vicepresidente del Senato:

«Pacs e porcherie varie hanno come base l’arido sesso e queste assurde pretese di privilegi da parte dei culattoni». (da Corriere della Sera, 2006)

«Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi». (da Matrix, 2006)

«Il cristiano che vota a sinistra si schiera dalla parte del peccato e del demonio». (da City, 22 marzo 2006)

«Sabina sarai la mia sposa. Giuro davanti al fuoco che mi purifica. Esso fonderà questo metallo come le nostre vite nuovamente generate». (Formula di matrimonio celtico. Corriere della Sera, 21 settembre 1998)

«Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango.» (citato in Calderoli insulta il ministro Kyenge, Corriere.it, 14 luglio 2013)

«Andremo a Bruxelles noi padani, porteremo un po’ di saggezza della croce a quel popolo di pedofili!». (citato in Calderoli, se questo è un ministro, L’Espresso, 22 giugno 2010)

Ignazio La Russa, fresco vicepresidente del Senato:

«Dovreste ringraziare Fini per aver definito il fascismo il male assoluto, perché adesso siamo liberi di dire a alta voce tutte le altre cose buone che è stato il fascismo.» (novembre 2003; citato in Alberto Piccinini, Lezioni di storia, il manifesto, 9 settembre 2008, p. 12)

«E comunque non lo leveremo il crocifisso, possono morire. Il crocifisso resterà in tutte le aule della scuola, in tutte le aule pubbliche. Possono morire, possono morire, loro e quei finti organismi internazionali che non contano nulla» (riferendosi alla sentenza della Corte europea dei diritti umani; dalla trasmissione televisiva La vita in diretta, RaiUno, 4 novembre 2009)

«Dicono che Berlusconi fa eleggere solo le donne belle. Non è vero, ci sono alcune elette non belle anche da noi, ma certo non raggiungono l’apice della sinistra, di donne di cui non faccio il nome.» (citato da Il Corriere, 7 maggio 2011)

«Sì. Sono fascista. Sono orgoglioso di essere fascista» (da Annozero, 16 dicembre 2010)

Paola Taverna, fresca vicepresidente del Senato:

«A lo sa che io quanno so’ arrivata qua me la so’ studiata tutta la Costituzione? Cioè, no, capito? Io me so’ voluta fa’ trovà preparata. E questi invece mo’ ce chiudeno er Senato…» (da Corriere della Sera, 21 gennaio 2016)

«Potrebbe essere in corso un complotto per far vincere il Movimento cinque stelle a Roma. Vogliono mettere noi 5 stelle, per poi togliere i fondi e farci fare brutta figura» (da Radio Campus, 16 febbraio 2016)

«A zozzoniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!» (Urlo in aula del Senato, 29 luglio 2015)

«Sono sempre stata presentata come quella che “viene dal Quarticciolo”, come se avessi addosso la lettera scarlatta. E cosa vuol dire? Perché, se Einstein veniva dal Quarticciolo non sarebbe stato capace di formulare la teoria della relatività?» (Convegno, 24 novembre 2017)

«C’è una sentenza che sostiene che il vaccino può causare l’autismo» (da Piazzapulita, 2015)

«Un bambino non vaccinato è un bambino sano» (Convegno su salute e vaccinazione pediatriche, 16 febbraio 2018)

«La nostra posizione è sempre la stessa e siamo a favore delle vaccinazioni. Non vogliamo però che si strumentalizzi un tema così importante». (intervista Huffington Post, 20 maggio 2017)

L’aiuto specifico ai migranti genera lotte tra poveri, serve un welfare universale (podcast). Intervista a Stefano Allievi

L'immagine postata dalla ong Proactiva Open Arms sul suo profilo Instagram in relazione allo sbarco di 91 migranti a Pozzallo, il 12 marzo 2018. Tra loro c'era anche un giovane di 22 anni, morto il giorno successivo per la malnutrizione che da mesi ha contribuito a peggiorare il suo gi‡ precario quadro clinico. +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

 

Nel 2018 si celebrano i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con mostre, convegni, dibattiti e festival dei diritti umani, che toccheranno l’acme il 10 dicembre. Ma molti Paesi che hanno sottoscritto il testo approvato nel 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni unite oggi sembrano non “ricordare”. O peggio ancora. Fin dalla rivoluzione francese, l’Europa si auto descrive come la culla di una cultura giuridica illuminata, ma nella prassi politica oggi si comporta in maniera opposta, negando ai migranti e ai profughi quegli stessi principi di cui si proclamata sostenitrice all’uscita dalla guerra. In questo quadro, emblematico è il caso Italia.

Non è bastata la legge Bossi Fini che ha chiuso ai migranti ogni canale legale di accesso al nostro Paese, lasciando solo uno stretto pertugio per i motivi umanitari. Ora il nostro Paese criminalizza le ong, sequestra le navi che soccorrono i naufraghi e promuove respingimenti collettivi (vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani) facendo accordi con la guardia costiera libica che rinchiude i migranti in lager dove i diritti umani non esistono. Con il plauso di Bruxelles. Il sogno di una Europa unita è naufragato in una unione di mercati, dove le merci possono circolare liberamente ma non altrettanto le persone.

Di questo abbiamo parlato a Left on air il podcast di approfondimento del nostro settimanale – col professor Stefano Allievi, sociologo dell’università di Padova e autore di numerosi saggi sul tema dei migranti compreso l’ultimo uscito per Laterza: Immigrazione. Cambiare tutto.

Buon ascolto.

La cover story di Left n. 12 del 23 marzo si apre con un’intervista al sociologo Stefano Allievi di Federico Tulli


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