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Università, secondo Repubblica la crisi delle iscrizioni è finita. Ma non tornano i conti

Gli studenti impegnati nel test per l'ingresso a Medicina al campus universitario Luigi Einaudi di Torino, 5 settembre 2017. Gli aspiranti camici bianchi sono 66.907 (erano 62.695 nel 2016). Il test è unico. I posti disponibili a Medicina e Odontoiatria sono circa 10.000 (9.100 per Medicina e 908 per Odontoiatria). Nei prossimi giorni toccherà agli altri corsi di laurea. Domani, 6 settembre, è prevista la prova per Medicina Veterinaria mentre è fissata per giovedì 7 quella per le aspiranti matricole per i corsi di Architettura. Mercoledì 13 settembre sono previsti i test per le Professioni Sanitarie. A seguire, giovedì 14 e venerdì 15, le selezioni, rispettivamente, per i corsi per Medicina e Chirurgia in lingua inglese e per Scienze della Formazione Primaria. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

In un articolo del 18 marzo, Repubblica ha festeggiato il ritorno delle nuove immatricolazioni all’università ai livelli pre-crisi del 2007/2008. Peccato che i dati non trovino riscontro nella realtà dei fatti, fa notare la redazione di ricercatori e docenti universitari di Roars. Sul sito vengono messi a confronto i dati presentati dal quotidiano fondato da Scalfari con quelli dell’Ans (Anagrafe nazionale studenti) e dell’Ufficio statistico del Miur. Stando a Roars, La Repubblica ha male interpretato i dati, confondendo le categorie in cui atenei, Ans e ufficio del Miur dividono i nuovi iscritti all’università.

I nuovi iscritti vengono infatti divisi in “iscritti al primo anno” e “immatricolati”. C’è una differenza fondamentale tra queste due categorie, e dalla confusione tra le due è nato l’equivoco dei numeri pubblicati da Repubblica. Gli “immatricolati” sono soltanto coloro i quali si iscrivono per la prima volta nella loro vita all’università. Per “iscritti al primo anno”, invece, si intendono sia gli immatricolati, sia chi è appunto iscritto al primo anno di un corso di laurea ma non è una matricola.

È “iscritto al primo anno” ma non “immatricolato” chi, per esempio, dopo aver iniziato un percorso di studi accademici, ha deciso di sospenderlo, per poi magari riprenderlo in un ateneo diverso, ripartendo dal primo anno di studi. Oppure ancora, è considerato “iscritto al primo anno” chi ha terminato una laurea triennale ed ha deciso di continuare gli studi iscrivendosi ad un corso di laurea magistrale. La differenza tra “immatricolati” e “iscritti al primo anno” è spiegata anche nel glossario sul sito dell’Ans.

Repubblica ha quindi scambiato l’insieme, ovviamente più grande, degli iscritti al primo anno con quello dei “semplici” immatricolati. In altri casi, invece, ha sommato le due cifre, finendo così con il contare due volte molti studenti.

Il grafico seguente riporta la differenza tra “iscritti al primo anno” e “immatricolati” di tutti gli atenei italiani, sia pubblici che privati, rilevati nell’anno accademico 2016/2017 dall’Ans. Come si vede chiaramente, gli iscritti al primo anno sono circa 200mila in più rispetto agli immatricolati.

Passiamo ora ai numeri riportati da Repubblica, che li ha ottenuti rivolgendosi direttamente a 59 università statali su 61 (per le altre due, il quotidiano ha ricevuto i dati dal Miur). Secondo l’articolo del quotidiano romano, i nuovi immatricolati quest’anno accademico sarebbero 321.652, in aumento di 11.804 unità rispetto allo scorso anno accademico. Un aumento di quasi il 4%.

Roars, insospettito dalla grandezza del numero presentato da Repubblica, ha quindi fatto un calcolo per confrontare il numero degli immatricolati di quest’anno con quelli dell’anno accademico scorso. Sui siti dell’Ans e dell’Ufficio statistico del Miur, si possono liberamente consultare tutti i dati degli iscritti all’anno accademico 2016/2017. Se per Repubblica gli immatricolati di quest’anno sono 321.652, e sono 11.804 in più rispetto all’anno scorso, allora basterebbe sottrarre 11.804 a 321.652 per ottenere il numero degli immatricolati nell’anno accademico 2016/2017, ossia 309.848 secondo la stima di Repubblica. Ed ecco che i conti non tornano.

Come si vede dalla tabella riportata da Roars, il numero di immatricolati presentato da Repubblica nei soli 61 atenei pubblici, nell’anno accademico 2016/2017, è di ben 47mila unità superiore a quello dell’Ans. Non solo, il numero degli immatricolati negli atenei pubblici secondo Repubblica sarebbe addirittura superiore a quello rilevato dall’Ufficio di statistica del Miur, che però tiene conto di tutte le università italiane, pubbliche e private.

L’errore del quotidiano diventa ancora più evidente se si vanno a prendere in considerazione i dati delle singole università: secondo Repubblica l’università di Ferrara avrebbe visto crescere i propri immatricolati di ben il 92,6% durante quest’anno accademico, un aumento spropositato per qualunque ateneo. Ulteriore prova dell’equivoco di Repubblica è il dato dell’università di Trento, sul cui sito si può trovare il numero degli iscritti al primo anno e degli immatricolati nell’anno in corso. Per Repubblica i nuovi immatricolati all’università di Trento sono 3.246, ma basta andare sul sito dell’università in questione per vedere che quello è il numero degli iscritti al primo anno, invece che dei nuovi immatricolati.

L’articolo di Roars fa anche notare come non sia la prima volta che Repubblica commetta degli errori nell’affrontare il tema dell’università italiana. Già nel 2011, il quotidiano aveva pubblicato un articolo in cui sosteneva che il numero di pubblicazioni scientifiche da parte di ricercatori italiani fosse crollato di ben 12mila unità. Anche questo numero si è rivelato falso.

Nel 2012 invece, su Repubblica è comparso un articolo che celebrava La Sapienza di Roma come la prima università italiana, secondo una studio pubblicato dalla Classifica accademia delle università mondiali (Arwu). Purtroppo il giornalista di Repubblica non si è accorto che la posizione della classifica che lui citava, elencasse gli atenei in ordine alfabetico, e non per qualità dell’insegnamento.

Reddito d’inclusione, 900mila poveri hanno ricevuto 300 euro al mese nel 2018

Una senzatetto dorme sulla panchina sotto una pensilina degli autobus a Napoli, 13 novembre 2013. ANSA / CIRO FUSCO

Nel 2018, quasi 900mila persone hanno usufruito dei circa 300 euro previsti dal Reddito d’inclusione. Di queste persone, 7 su 10 risiedono al sud. È quanto si legge nel rapporto dell’Osservatorio statistico sul reddito di inclusione, presentato dall’Inps e dal ministero del Lavoro.

Sono in 316.693 le persone, divise in 110mila famiglie, ad aver beneficiato del Rei, per un contributo medio di 297 euro a nucleo. Altre 47.868 persone (119mila famiglie) hanno ricevuto il Sia (Sostegno di inclusione attiva), in media 244 euro a famiglia.

In totale le misure erogate hanno raggiunto la metà dei potenziali beneficiari. Secondo il presidente dell’Inps, Tito Boeri da luglio in poi gli aiuti contro la povertà saranno ricevuti da 2 milioni e mezzo di persone divise in 700mila famiglie. Vale a dire circa la metà delle persone in difficoltà che in Italia sono 4,7 milioni (1,6 milioni di famiglie).

Elezioni in Egitto, il plebiscito annunciato per Al Sisi svela le paure profonde del Paese

epa06631579 A man holds a child on his shoulders while walking underneath electoral posters for President Abdel Fattah al-Sisi during day two of the Egyptian presidential election in Cairo, Egypt, 27 March 2018. Voting in the presidential election will take place over a three-day period, from 26 March to 28 March. EPA/MOHAMED HOSSAM

«Delle nuove elezioni Potemkin per il popolo egiziano». Paragonando l’imperatrice russa Caterina al presidente egiziano Abel Fattah al Sisi, Robert Fisk, storico corrispondente britannico dell’Indipendent, ha definito così il Cairo al voto in queste ore: sessanta milioni di potenziali elettori dall’Alto al Basso Egitto, urne aperte due giorni fino al 28 marzo, un plebiscito annunciato all’orizzonte, che verrà formalmente riconosciuto il prossimo due aprile.

«In un paese che si è abituato alle elezioni finte, a finti giornali, parlamenti finti» il presidente verrà riconfermato da una larga maggioranza. Con oltre il 96 per cento dei voti ottenuti alle ultime elezioni del 2014, quattro anni dopo, il presidente, «la cui faccia una volta finiva su torte e cioccolatini in segno d’affetto», vincerà con una totale, prevedibile maggioranza. Lealtà elettorale al presidente, per ottenere in cambio protezione dagli attacchi islamisti, arriverà anche da parte di quei dieci milioni di copti che vivono nel paese.

«Ai cristiani d’Egitto, come quelli d’Iraq e Siria, è riservato un posto speciale nei regimi del Medio Oriente. Sono una minoranza e le minoranze hanno sempre bisogno di protezione. E chi può fornirgliela meglio degli autocrati che li governano?». Nel 2016 sono stati cento i copti uccisi negli attacchi jihadisti, dalla penisola del Sinai fino alle chiese nella capitale. Non importa quanto «i cristiani vogliano vivere in una società secolare, di dignità e giustizia: devono fare affidamento su un oppressore contro i musulmani per salvaguardarsi. I copti voteranno fedeli ad un uomo la cui polizia segreta domina la vita politica d’Egitto, i cristiani sono parte integrante del regime di Al Sisi, sfortunatamente è quello che sono diventati», scrive Fisk.

Nelle celle delle prigioni e degli apparati di sicurezza del Cairo rimangono oppositori, blogger, studenti, giornalisti, attivisti. Secondo Human rights watch, su 106mila persone recluse nelle carceri egiziane, almeno 60mila sono prigionieri politici. Nelle strade della capitale non è rimasto nessuno. Alcun fantasma può sfidare il caudillo, se non l’apatia: il vero nemico di queste elezioni è l’astensione. Chi voterà, non chi vincerà. Neutralizzati islamisti e rivoluzionari, altri eventuali potenziali sfidanti, il sociologo egiziano Said Sadek ha detto a Le Monde ciò a cui il regime mira davvero con l’apertura delle urne: «Vuole una forte partecipazione per affermare la sua legittimità all’estero, la sfida è quella di convincere gli indecisi, il popolo lo ha eletto sull’onda della paura quattro anni fa, lo hanno visto come un salvatore dai Fratelli musulmani, oggi c’è stabilità e gli egiziani non si sentono in dovere di andarlo a votare».

Il papa copto Tawadros II non ha ufficialmente supportato il presidente, la Chiesa non ha espresso una posizione ufficiale in merito al voto, ma Boulos Halim, portavoce dell’istituzione religiosa, ha detto: «Non abbiamo chiesto alle persone di votare una particolare persona, ma solo di votare». Uno contro uno: sempre se stesso. Al Sisi non ha rivali, se non un unico sfidante: si chiama Moussa Mostafa Moussa, partito Ghad, lo conoscono in pochi ed è un sostenitore di quello che dovrebbe invece essere il suo avversario politico, il generale.

Il 28 marzo, oltre 133mila seggi in Egitto chiuderanno col buio. Calerà anche a piazza Tahrir, culla di tutte le primavere arabe, ormai silenziosa, dove un manifesto elettorale con la faccia del presidente è tutto quel che rimane oggi, marzo 2018, dopo la rivoluzione del 2011.

Tutti così zitti che tocca dare ragione a Salvini

A picture of Carlos Puidgemont is fixed in front of the entrance building of a prison in Neumuenster, northern Germany, Tuesday, March 27, 2018 where Carles Puigdemont, the fugitive ex-leader of Catalonia and ardent separatist, is believed to be held after he was arrested Sunday by German police on an international warrant as he tried to enter the country from Denmark. (Frank Molter/dpa via AP)

«L’indipendenza della Catalogna è probabilmente una cattiva idea, certamente va contro gli interessi della più ampia nazione spagnola e molto probabilmente contro gli interessi della stessa regione. … Madrid deve iniziare a parlare con i suoi avversari e smettere di cercare di incarcerarli.» A scriverlo è Jean Paul Goujon sul Times, non proprio un pericoloso quotidiano progressista.

C’è l’ex presidente arrestato per «ribellione, sedizione e malversazione per l’organizzazione del referendum sull’indipendenza della Catalogna» (che scritto così sembra un reato da cartone animato); vi è il mandato d’arresto europeo per Meritxell Serrat, Toni Comín e Lluís Puig e Clara Ponsatí; ci sono decine di arresti; c’è la repressione e soprattutto, manca la politica.

Ma sulla questione catalana (ma va?) continua a pesare anche il silenzio dell’Europa che sembra avere definitivamente deciso di disinteressarsene. «Se permettessimo alla Catalogna di separarsi – e comunque non sono affari nostri – altri faranno lo stesso. Non voglio che succeda. Non mi piacerebbe che tra 15 anni avessimo un’Unione europea con 98 stati», aveva dichiarato già lo scorso ottobre Jean-Claude Juncker. E quindi a posto così.

Per farla breve: il premiere spagnolo Rajoy è riuscito a infiammare il movimento indipendentista catalano (pacifico, popolare e con una grande capacità di mobilitazione) preferendo la repressione giudiziaria alla soluzione politica. L’Europa tace. L’Italia tace. E tutto intorno c’è tanto silenzio e tanto immobilismo che addirittura risultano sensate le parole di Salvini che chiede il dialogo piuttosto che le manette. Tutti talmente pavidi che alla fine tocca dare ragione a Salvini.

Buon mercoledì.

Caso Skripal, dopo l’espulsione dei diplomatici russi Mosca annuncia reazioni dure

epa06615462 Russian diplomats and family members leave from the Russian Embassy in central London, Britain, 20 March 2018. British Prime Minister Theresa May ordered the expulsion of 23 Russian diplomats in retaliation for the poisoning of the former Russian spy Sergei Skripal aged 66 and his daughter Yulia, aged 33 were found suffering from extreme exposure to a rare nerve agent in Salisbury southern England,on 04 March 2018. Skripal and his daughter Yulia remain in a 'very serious' condition. EPA/ANDY RAIN

È la più grande azione contro l’intelligence straniera dai giorni della cortina di ferro, ma le relazioni sono peggiori di quelle dell’epoca dei blocchi. Quello che accade, secondo Ivan I. Kurilla, storico esperto delle relazioni Usa-Russia dell’Università di Pietroburgo, intervistato dal New York Times, questa non è la nuova Guerra Fredda: è molto peggio. Perché dopo la più grande espulsione diplomatica della storia, come l’ha definita la premier Theresa May, ha risposto il Cremlino: la Russia non si lascerà “piegare”. Le ritorsioni contro l’America e l’Europa sono state promesse. Il deputato del ministero degli Esteri Serghei Rjabkov ha detto che le contromisure saranno durissime, l’ambasciatore russo alle Nazioni unite Vassily Nebenzia ha definito la mossa occidentale «sfortunata, poco amichevole». Aleksej Chepa, a capo della commissione affari esteri della Duma di Stato, ha detto che Mosca espellerà i diplomatici dei Paesi che hanno partecipato all’azione congiunta con la Gran Bretagna.

Con una risposta coordinata dal Mediterraneo all’Atlantico, il fronte è unito contro la Russia. Dal Canada all’Australia, dall’Albania all’Ucraina, fino alla Norvegia. E la mappa continua ad allargarsi. Più di cento diplomatici russi da 21 Paesi, di cui 16 europei, sono stati obbligati a tornare a Mosca. L’Italia ha deciso l’espulsione di due diplomatici. La Farnesina ha fatto sapere in una nota che «a seguito delle conclusioni adottate dal Consiglio Europeo del 22 e 23 marzo scorso, in segno di solidarietà con il Regno Unito e in coordinamento con partner europei e alleati Nato, il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale ha notificato la decisione di espellere dal territorio italiano entro una settimana due funzionari dell’ambasciata della Federazione russa a Roma accreditati in lista diplomatica».

Dasvidania zapad, addio Occidente. L’effetto domino nella guerra delle spie e delle ambasciate non lascia scie di sangue, ma di veleno sì. Dalle Nazioni Unite a New York se ne andranno in dodici, il consolato russo a Seattle è stato chiuso. Il gas nervino usato a Salisbury ha provocato l’avvelenamento dell’ex colonnello della Gru (il servizio segreto militare russo) Serghej Skripal e della figlia, ma anche coesione europea, solidarietà atlantica.

Espellere i diplomatici russi, “personale di intelligence non dichiarato”. Obiettivo di Londra era «smantellare la rete delle spie di Putin in Europa». Quando la May lo ha chiesto, Francia, Polonia, Estonia, Lituania, Lettonia hanno subito detto yes. Altre decine di nazioni si sono unite al coro di sì negli ultimi due giorni e hanno ripetuto il famoso “highly likely” della premier britannica compreso Donald Tusk: per il Consiglio europeo che ci sia la mano di Mosca dietro il caso Skripal è «altamente probabile», «non c’è altra spiegazione possibile».

Gli indici dei leader dell’Ue sono tutti puntati contro il Cremlino. La linea è dura ed è della Merkel. Ma è su proposta del premier Viktor Orban che anche il capo della delegazione dell’Ue in Russia è stato richiamato per consultazioni. Nel fuoco incrociato delle contromisure i primi a sparare verso Est sono i fratelli del vecchio blocco sovietico, una nuova cortina di ferro, un fronte unico ed inossidabile contro il Mosca. La Polonia è pronta a imporre sanzioni contro la Russia «anche da sola». La questione è più sensibile per il premier della Repubblica Ceca Andrej Babis e per Praga, che per Varsavia o i Paesi Baltici: la Repubblica Ceca è stata nominata dal Mid, ministero degli Esteri russo, come la fonte più probabile del novichok, il veleno usato per l’avvelenamento di Skripal.

Dokozatelstvo, prove del coinvolgimento russo, non ce ne sono e tutto questo «è una mera provokazia, vogliono rendere la crisi più profonda possibile» ha detto il ministro degli Esteri Serghey Lavrov. E «ci dispiace che nel farlo, usino la dicitura hightly likely», ha detto il portavoce del presidente Dimitry Peskov. Altamente probabile, vesma verojatno in russo. Ormai un modo di dire, uno scherzo, il nuovo ritornello di Mosca. «Se fosse stata davvero usata una sostanza velenosa militare, sarebbero già morti, la Russia quelle sostanze le ha distrutte, tutto questo è chuzh, bred, una corbelleria, un delirio», ha detto Putin, poi «farlo sarebbe stato da stupidi, alla vigilia delle elezioni, prima dei mondiali di calcio», quelli che Boris Johnson, ministro degli Esteri britannico, qualche giorno fa ha paragonato alle Olimpiadi di Hitler del 1936.

Per approfondimenti vedi anche l’approfondimento di Yurii Colombo.

Libere di giocare. Rifugiate e richiedenti asilo in campo con Liberi Nantes

Liberi Nantes amplia il proprio campo di gioco. E le parole campo e gioco non sono certo casuali. L’associazione romana, fondatrice dell’unica squadra di calcio in Italia per migranti e richiedenti asilo (riconosciuta anche dall’Unhcr), porta vanti da più di dieci anni progetti di integrazione e inclusione legati al mondo dello sport. E nel tempo le attività si sono moltiplicate, senza contare quella che è stata la grande sfida (vinta) di rimettere in sesto e prendere in gestione lo storico campo di calcio di Pietralata, il “XXV Aprile”, teatro delle partire casalinghe del Liberi Nantes. Tutte attività rivolte però a uomini. Almeno fino ad ora. La novità riguarda infatti il progetto S(Up)port Refugees Integration, appena partito, e rivolto alle donne. A donne migranti e richiedenti silo. Un progetto che ha preso vita grazie all’assegnazione di fondi europei tramite la vittoria di un bando a tema “Azioni di inclusione attraverso lo sport”. Nel concreto, Liberi Nantes offrirà quindi a rifugiate, migranti, richiedenti asilo o vittime di tortura accesso gratuito allo sport non agonistico, facendo attività come atletica leggera, ginnastica, touch rugby escursionismo e calcio. Anche queste, tutte discipline già portate avanti dall’associazione, ma prima d’ora solo con gli uomini.

«Il giudizio da parte della Commissione del bando è stato lusinghiero soprattutto perché ci siamo rivolti ad un target complicato come le donne migranti e richiedenti asilo» racconta il presidente di Liberi Nantes, Alberto Urbinati. E che il target fosse complicato a Liberi Nantes lo sapevano bene, visto che già in passato avevano provato a guardare a questa tipologia di donne con progetti analoghi, senza però riuscire nell’obiettivo. Per ragioni numeriche (le migranti e richiedenti asilo sono molte meno rispetto agli uomini), economiche (mancavano fondi, che ora invece ci sono) ma soprattutto culturali. «Queste donne – prosegue Urbinati – sono abituate nella migliore delle ipotesi a stare a casa, fare figli, non contraddire mai l’uomo. Il fatto di dire loro “se vuoi puoi metterti le scarpe e giocare” è rivoluzionario, va al di là di come si percepiscono loro stesse”. Ed è proprio il cercare di superare la loro dimensione di partenza uno degli obiettivi del progetto. «Vogliamo scardinare un po’ di limiti che loro stesse ereditano al netto di alcune difficoltà oggettive. Spesso queste donne hanno bambini da giovanissime, ma anche qui cerchiamo di fare il massimo per agevolarle, con un servizio di baby sitting. Perché non è detto che se sei mamma non puoi andare, volendo, a farti una corsa. Prima di essere mamma o donna sei una persona e hai diritto ai tuoi spazi di libertà».

Gli obiettivi dietro al progetto sono molteplici, il più importante dei quali si lega proprio allo “strumento” con il quale si fa sport: il corpo. «Lavorare sul corpo è molto importante ancora di più per questa tipologia di donne, che magari hanno subito violenza» osserva il presidente di Liberi Nantes. «Tornare ad appropriarsi del proprio corpo per divertirsi, vederlo come capace di giocare e stare insieme ad altre persone e non solo come un corpo che è stato vittima di abusi per noi è fondamentale. Vogliamo indirizzare il lavoro in questo senso sperando che ciò favorisca un percorso di recupero psicofisico». Un percorso non semplice, ma tutto lo staff di Liberi Nantes ne è consapevole. «Abbiamo una squadra di istruttori sensibilizzata sul tema. Sappiamo che il corpo di queste donne va trattato in un certo modo, ci vuole attenzione anche nell’approccio fisico. Ci sono barriere psicologiche e culturali da superare. È ovvio poi che ci dovrà essere un supporto psicologico per donne che magari sono state vittime di tortura, ma questo non sta a noi farlo. Quello che invece vogliamo fare è provare a ridare loro una dimensione di leggerezza attraverso l’aspetto del gioco, per noi elemento essenziale, riconosciuto anche come diritto fondamentale dell’uomo dall’Unesco». Recupero quindi di una dimensione di leggerezza ma anche di normalità. «Uno degli obiettivi è quello di restituire a queste donne uno spazio di normalità, cosa che magari non prenderebbero neanche in considerazione. Il tutto non solo con la pratica sportiva, ma anche con attività come le escursioni. Porteremo infatti le ragazze in giro per Roma, per i parchi e i monumenti della città, anche per farle uscire dai loro soliti percorsi fatti di scuola, prefettura, rientro nei centri».

Un progetto, quello di Liberi Nantes, che la stessa associazione vive però in maniera consapevole, anche di quello che è il loro perimetro di gioco e delle loro possibilità. «Grazie alla nostra attività decennale conosciamo i benefici dello sport a livello fisico e psicologico, ma – chiarisce Urbinati – sappiamo anche che non sarà certo questo a risolvere i problemi, tantissimi, di queste persone. Quello che speriamo è che queste attività possano essere un input, un seme con il quale queste donne potranno coltivare qualcosa. Siamo consapevoli che non saremo certo solo noi a poter determinare un cambiamento in meglio, ma sappiamo anche che nel corso di questi 10 anni non sono mancate testimonianze di operatori dei centri che ci hanno detto di come, dopo esperienze simili, alcuni ragazzi erano trasformati, erano più socievoli».

Allo stato attuale il progetto ha ricevuto una quarantina di adesioni (su un numero di beneficiarie previsto di circa 100), raccolte da Liberi Nantes facendo girare il tutto nei centri d’accoglienza (con contatti diretti di operatori e operatrici conosciuti dall’associazione), Sprar e associazioni che lavorano con donne migranti, rifugiate e richiedenti asilo. Ospitate a Roma e Provincia. Ora bisognerà coinvolgere quelle donne. «Il primo passo sarà quello di conquistare la loro fiducia» – spiega il presidente di Liberi Nantes. «Queste 40 adesioni sono arrivate da parte di donne che i vari centri o associazioni ci hanno detto essere interessate. Ora bisogna concretizzare la cosa. Andremo nelle varie strutture a fare dimostrazioni, far giocare le ragazze e coinvolgerle il più possibile. Per trasformare quelle adesioni in reale partecipazione». Nella pratica, dopo questa prima fase di reclutamento, il progetto partirà a breve con una cadenza di due allenamenti a settimana, prevalentemente al campo XXV Aprile, riguardo il calcio, l’atletica, la ginnastica e la danza terapia. Una volta al mese invece toccherà alle escursioni. Un’attività ambiziosa, per la quale lo stesso Urbinati è consapevole dei rischi. «Siamo alla fase iniziale di un progetto pilota consapevoli che potrebbe fallire. Che magari non tutte le donne porteranno avanti la cosa nel corso dei mesi, anche perché il tempo nel quale noi le vedremo è limitato. Una volta uscite dal campo, finita l’escursione, torneranno alla loro vita. Per noi però è una sfida». Una sfida che sarà anche materia di studio. All’interno del progetto è prevista infatti un’attività di documentazione realizzata grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale IndieWatch, finalizzata alla produzione di materiali in italiano e inglese su tutto il percorso del progetto, per poter mettere al servizio di tutti l’esperienza, “così da capire e studiare quanto fatto”, precisa Alberto. Una sfida che però parte con idee e obiettivi chiari e precisi, condensati al meglio nel nome del progetto: S(Up)port Refugees Integration. «Abbiamo voluto giocare sulle parole sport e support – conclude il presidente di Liberi Nantes – mettendo l’Up tra parentesi che per noi sta a significare l’alzarsi. Ovvero lo stare in piedi sulle proprie gambe, magari più forti a fine percorso, che consentiranno così a tutte di affrontare meglio il mondo che le circonda». Gambe più forti, per andare anche più lontano.

Se non vi basta, ora c’è anche l’Europa che paga i muri

Se non vi è bastata la donna morta con il suo tumore addosso mentre veniva trattenuta sul confine perché scavallarlo fino ad arrivare al primo ospedale sarebbe stato contro le regole; se non vi basta la guardia alpina colpevole di avere salvato una famiglia surgelata, con bambini piccoli e la madre in gravidanza, pescata sulle alpi; se non vi basta la nave della ONG Proactiva open arms tenuta sotto sequestro come se fosse il ferrarino di qualche boss di ‘ndrangheta mentre quella porzione di Mediterraneo in cui la ONG operava rimane sguarnita, a disposizione dei rastrellamenti degli schiavisti libici travestiti da guardia costiera; se non vi basta l’Europa che dispiega tutta la propria forza giudiziaria per Carles Puigdemont mentre chissà come se la godono i responsabili della Thyssenkrupp a cui il mandato d’arresto europeo ha fatto poco più del solletico nonostante la tragedia accaduta in Italia in cui sono morti sette operai ma pare che non interessi poi troppo a nessuno.

Se non vi basta tutto questo allora sappiate che una delle tante (brutte) facce di questa Europa che si sta già preparando per richiamare l’Italia poiché qui si andrebbe in pensione troppo bene e troppo presto ha la forma del muro di cemento, alto tre metri e lungo più di ottocento chilometri, che la Turchia del presidente Tayyp Erdogan ha piazzato sul proprio confine per tappare gli esuli che provano a scappare dalla Siria. Sappiate che sono stati regalati dall’Unione europea anche i mezzi militari Cobra II che sparano contro chi tenta di avvicinarsi (anche se è un provare a mettersi in salvo) e che contravvengono tutti i faldoni di diritto umanitario di cui l’Europa si fregia e intanto se ne frega.

È il lato oscuro ma prevedibile di un’Europa che ancora una volta si dimostra inflessibile con i disperati (che siano pensionati greci, lavoratori anziani italiani o profughi siriani) mentre continua a perdonarsi una certa mollezza con il dispotico turco così come con le multinazionali. È l’Europa “dei popoli” sempre più Europa “dei pochi” che riduce tutto a un freddo conto economico come un commercialista che vorrebbe mettere a bilancio la paura, l’amore, l’esser soli e il tentativo di sopravvivere. È l’Europa contro cui tutti promettono di alzare la voce e invece continua indisturbata a interpretare i grumi peggiori.

Buon martedì.

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Proactiva Open Arms, reato di soccorso in mare? Luigi Manconi: «Spero che non c’entri il voto del 4 marzo»

La nave Open Arms della Ong spagnola Proactiva sotto sequestro nel porto di Pozzallo, 19 marzo 2018. ANSA

Una chiamata generica di soccorso dall’Italia. Con una comunicazione: il coordinamento delle operazioni di salvataggio è dei libici. Premesso che la Libia non ha un Marictim rescue coordination centre (Mrcc) e nemmeno le è riconosciuto, dall’Organizzazione internazionale marittima (Imo), lo spazio Search and rescue (Sar), la nave Open Arms, battente bandiera spagnola, ha, con il governo italiano, (solo) un accordo che la impegna a rispettare il codice di condotta, adottato nel 2017, per regolamentare il soccorso dei migranti nelle acque internazionali a nord della Libia. Nessun obbligo, dunque, la cui violazione costituisca reato: l’unico (obbligo) rimane il soccorso in mare di chi soffre e rischia di morire in pochissimo tempo.
A sentire Proactiva Open Arms, c’è stato un cambiamento nell’approccio della guardia costiera italiana: è stata la prima volta che ha delegato il coordinamento delle operazioni alla Libia. E, secondo quanto riferito dal fondatore della Ong, Oscar Camps, durante la conferenza stampa “Contro il reato di soccorso in mare”, alla Commissione per i diritti umani del Senato – con il presidente Luigi Manconi  -, sebbene l’Italia non abbia impedito le azioni di soccorso, di certo non le ha facilitate, cambiando il modus operandi in corso d’opera.

Senatore Manconi, è un cambiamento che fa pensare a qualcosa di più pernicioso di quanto non stia già accadendo (anche politicamente)?
Mi auguro che l’incertezza mostrata dall’Italia non si debba a un’eccessiva sensibilità rispetto ai risultati dello scorso 4 marzo. Sarebbe un fatto disdicevole. Stiamo parlando di una vicenda che investe enormi problemi, relativi al diritto italiano, a quello internazionale e al diritto dei diritti umani. Perciò, auspico che questioni così fondamentali non siano messe in discussione da una condizione ordinaria come quella del voto.
Rimbalzata dai fax e dalla comunicazioni diplomatiche, Open Arms viene fatta navigare senza destinazione ufficiale per quasi trentasei ore, in attesa della definizione del porto (sicuro) di sbarco. Difficoltà reale di gestire uno stato di necessità o strategia disumana?
Né l’una, né l’altra ipotesi. Si è trattato di un eccesso di zelo, di un’improvvisa tentazione di sottolineare una formalità fino ad allora mai richiesta: quella che fosse il governo a cui appartiene la nave dell’Ong, la Spagna, a chiedere alle autorità italiane il porto d’approdo. Il che, però, confligge con le situazioni di estremo pericolo in cui versano i migranti che affrontano i viaggi nel Mediterraneo (tanto più in quel giorno e in quella circostanza) e, di conseguenza, con la necessità di intervenire con la massima urgenza e cooperazione tra le forze coinvolte nel soccorso.
Di fatto, la nave è sotto sequestro e l’accusa per la quale i tre membri dell’equipaggio rischiano tra i quattro e i sette anni di carcere è di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Regge? O è un’accusa pretestuosa?
Non regge assolutamente perché nell’operato dell’associazione non c’è nulla che lo possa confermare: la Proactiva svolge un’attività di soccorso messa in atto con l’unica finalità, appunto, di operare il salvataggio. Per cui, l’accusa di essere un’associazione a delinquere è priva di qualsiasi fondamento.

Rimane il sospetto, se non la certezza, che la persecuzione giudiziaria (non inedita) nei confronti dei soccorritori persegua il becero scopo di criminalizzare l’umanità di chi non l’ha persa. E di chi, sabato 24 marzo, è sceso spontaneamente in piazza in diverse città italiane per sostenere l’Ong spagnola, convinto, come recita lo slogan delle manifestazioni, che “salvare le persone non è un delitto”.
«Questa manifestazione, che è nata in maniera spontanea in tante città in Italia e in Spagna, ci fa sentire meno soli e ci fa sentire che c’è molta gente che ci appoggia e che dice ‘no’ a quello che sta succedendo che è assurdo, ridicolo e tragico», ha detto il capo missione della Proactiva Open Arms, Riccardo Gatti, intervenuto al presidio, a Roma. In attesa, presumibilmente fino al 2 aprile prossimo, della decisione del Gip di Catania.

Barcellona in piazza per Puigdemont arrestato. Ada Colau: «Occorre una soluzione politica»

epa06629817 Protesters hold the Catalan 'Estelada' pro-independence flag as a vehicle of the Mossos d'Esquadra passes by following clashes during a protest against the detention of former Catalan leader Carles Puigdemont at the Spanish Government Delegation in the Autonomous Community of Catalonia in Barcelona, Catalonia, northeastern Spain, 25 March 2018 (issued on 26 March). The clashes resulted in nine people arrested and some 100 injured. German police arrested former Catalan leader Puigdemont on 25 March 2018 after he crossed into Germany from Denmark. Puigdemont is sought by Spain who issued an European arrest warrant against the former leader who was living in exile in Belgium. EPA/Quique Garcia

Per l’indipendenza torna il fuoco a primavera. Appena l’ex presidente catalano è stato fermato, la città ha cominciato a muoversi. Molto lontano dalle spiagge di quel sud, in terra tedesca, Carles Puigdemont è stato arrestato e Barcellona si è svegliata. Di nuovo. Il bilancio del giorno dopo è di quasi novanta feriti per gli scontri con le forze dell’ordine, quando migliaia di indipendentisti sono scesi in piazza contro l’arresto del leader deposto. Nei pressi dell’ufficio della Commissione europea della città i manifestanti hanno urlato «questa Europa è vergognosa» e “non più sorrisi”. All’orizzonte ora altri scontri, fumogeni e futuro incerto.

Abbandonata la Spagna dopo il referendum, Carles Puigdemont da ottobre scorso viveva in Belgio. Stava tornando dalla Danimarca quando la polizia tedesca ha fermato la sua auto, come ha raccontato Jaume Alonso Cuevillas, il suo avvocato.

Inseguito dal mandato di arresto internazionale emesso dalla Suprema Corte di Madrid venerdì scorso, il leader catalano è stato ammanettato dalla polizia tedesca e rischia di essere estradato in Spagna – lo sapremo nei prossimi giorni – per rispondere a due accuse: sedizione e ribellione. La pena prevista: 30 anni di prigione. Se i passi del governo spagnolo adesso rafforzeranno il movimento indipendentista o lo indeboliranno non è ancora chiaro, ma lo è il fatto che il gigante europeo si è mosso contro l’uomo simbolo della piccola Catalogna.

Secondo Elsa Artadi, membro del Parlamento catalano, braccio destro di Puigdemont, la Spagna è in cerca di «vendetta e repressione». Se la coalizione di Puigdemont, Insieme per la Catalogna, chiede di «non cadere nelle provocazioni», resistenza civile è quello che chiede il Cup, il partito della sinistra radicale pro-indipendentista.

Ada Colau, sindaca di Barcellona, invece richiama il governo centrale ai suoi obblighi per trovare una soluzione politica: «Lo Stato si nasconde dietro poliziotti e giudici e la situazione diventa sempre più complicata, ma i problemi politici si possono risolvere solo con la politica».

La “vertigine del successo” di Putin

epa06617790 A lonely protester stands with a poster in front of the State Duma, as pedestrians argue with each other in Moscow, Russia, 21 March 2018. An activist of the Amnesty International demands a just punishment for deputy Leonid Slutsky for multiple cases of sexual harassment to female journalists. Her placard reads 'Deputies, we demand adopting law on sexual harassment!'. EPA/SERGEI CHIRIKOV

Putin il suo plebiscito l’ha ottenuto. Grazie alla mobilitazione di uno straordinario apparato in cui potere esecutivo, amministrativo, gruppi economici, mass-media in gran parte coincidono, ha portato la Russia al voto. Ma può far conto su un sostegno popolare più che solamente passivo, incattivito dalla stupida propaganda russofobica occidentale, impaurito dalla crisi economica, ripiegato su se stesso dal degrado sociale che avanza.

L’insistenza con cui parte dell’opposizione russa si è concentrata sui brogli e le manomissioni nelle urne allo stesso tempo dimostra come oggi non esista ancora nessuna alternativa concreta a “Zar Vladimir”. E non perché i brogli non ci siano stati – realisticamente e conti alla mano 10 milioni di voti sono stati manipolati – ma perché il vero problema restano le prospettive complessive della società russa. Se ne sono accorte anche le cancellerie occidentali, che il giorno dopo il voto non hanno battuto tanto sul tasto delle manipolazioni, mettendo così definitivamente in panchina Alexey Navalny.

La demonizzazione di Putin serve a poco e offusca le idee: questa è la Russia di oggi, per quanto non possa piacere, è da qui che bisogna ripartire. Putin aveva bisogno del plebiscito per implementare il suo programma-economico sociale fatto di lacrime e sangue, e l’abbiamo già detto.

Qui ci preme sottolineare un altro aspetto. Il 18 marzo segna un salto di qualità dell’autoritarismo del regime. I segnali che lo hanno preceduto sono stati tanti: la persecuzione degli lgbt e degli attivisti dei diritti umani in Cecenia, la messa fuorilegge dei sindacati, l’intimidazione degli attivisti politici. Le presidenziali hanno dimostrato plasticamente che quel po’ di libertà che esiste ancora in Russia è relegato alla sfera privata e individuale mentre viene coartata ogni dimensione della libertà collettiva e pubblica. Ma l’autoritarismo è una pianta vorace. Se non incontra resistenze divora tutto. Come ha scritto Ian Shenkman a proposito del caso degli arresti qualche mese fa di un gruppo di antifascisti, su Novaya Gazeta: «Le autorità ci stanno mettendo alla prova, testando quanto spazio esiste. Se ora taciamo, non ci difendiamo l’un l’altro, sanno che potranno continuare con lo stesso spirito».

Il 6 marzo 1930 Josif Stalin firmava sulla Pravda il celebre editoriale “Vertigine del successo” in cui ammoniva il suo apparato a non farsi inebriare dai successi ottenuti contro i contadini nella collettivizzazione forzata dell’agricoltura. Putin è sufficientemente accorto da non farsi inebriare dal suo successo perché sa come è stato ottenuto e che la strada che ha intrapreso è irta di difficoltà. Tuttavia ha costruito e messo in moto una macchina-apparato difficile da controllare. Una macchina-apparto arrogante che si basa sulla sottomissione e sull’obbedienza “verticale”. E così, appena finita la campagna elettorale, la Duma ha mandato assolto il deputato neofascista Leonid Slutsky dopo le molestie sessuali nei confronti di alcune giornaliste. Non solo. A tutti i giornalisti che avevano manifestato solidarietà con le giornaliste è stato tolto l’accredito alla Duma.

Questo senso di impunità e di onnipotenza sfacciate sta incontrando però una inaspettata resistenza. I giornalisti di testate autorevoli come Vedomosti e Kommersant hanno deciso anche loro di non mettere più piede alla Duma. Ma ciò che più importante ancora che il social network Odnoklassniki (una sorta di Facebook russo con 148 milioni di iscritti) ha dichiarato anch’esso solidarietà alle giornaliste e ha protestato contro le ultime decisioni della Duma. Il Cremlino per ora tace, non si sa se indispettito o imbarazzato. Forse nel momento dell’apogeo, qualcuno sta iniziando a provare sintomi di rigetto. Se verrà difeso ogni millimetro di democrazia con le unghie e con i denti, allora non tutto sarà perduto.

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