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Le parole di Fico e le risposte che mancano

New elected Chamber of Deputies' President Roberto Fico of Five Stars Movement during his first speech at the Chamber of Deputies, Rome, 24 March 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Centralità del Parlamento. Nessuna scorciatoia in aula nell’iter dell’approvazione delle leggi. «In un contesto in cui il rapporto tra il potere legislativo e il potere esecutivo continua a essere caratterizzato dall’abuso di strumenti che dovrebbero essere residuali, in cui poteri e competenze sono spesso trasferiti in altre sedi decisionali, dobbiamo impegnarci a difendere il Parlamento da chi cerca di influenzare i tempi e le scelte per vantaggio personale. Le decisioni finali devono maturare solo e soltanto nelle commissioni e nell’Aula perché soltanto un lavoro indipendente può dare vita a leggi di qualità». Poi taglio dei costi della politica e dei privilegi. Garantire un alto livello qualitativo della discussione parlamentare, garantire il rispetto di tutte le componenti sia di maggioranza, sia d’opposizione. Poi ha ringraziato la Boldrini (e chissà la bile che ha gocciolato Salvini) e il presidente della Repubblica.

Il discorso di Roberto Fico durante il suo insediamento come presidente della Camera è stato un ottimo discorso. Se si chiudessero gli occhi potrebbe essere in molte sue parti ciò che avremmo voluto sentire dal leader (che non c’è) di un centrosinistra che non c’è: «Valori che per essere affermati nella nostra Carta costituzionale hanno richiesto il sacrificio di tanti uomini e tante donne nella lotta contro il nazifascismo. Vogliamo ricordare quel sacrificio con particolare commozione oggi, nell’anniversario dell’eccidio delle Fosse ardeatine», ha detto Roberto Fico, ponendo il tema dell’antifascismo come il centrosinistra si è dimenticato di fare negli ultimi anni.

Non sappiamo che direzione prenderà la formazione del prossimo governo (e nell’aria non si annusa nulla di buono) ma ancora un volta mentre dalle macerie del centrosinistra si alzano risolini snob sugli umili trascorsi lavorativi del presidente della Camera (poi un giorno capiremo quando il centrosinistra è diventato così scemo da prendere per il culo gli umili, i poveri e i disperati) qualcun altro con coraggio (o fosse anche per mero calcolo elettorale) trova il coraggio e l’occasione per dire quello che il centrosinistra non dice.

Vi propongo un gioco: cercate sui giornali degli ultimi giorni un ribattere nel merito sul punto politico le parole di Fico e una valutazione o un’opposizione o una proposta sui programmi del prossimo governo. Ecco.

Buon lunedì.

Baustelle, l’amore non fa rima con cuore

A un anno di distanza da L’amore e la violenza, cui ha fatto seguito un tour da tutto esaurito, la band toscana capeggiata da Francesco Bianconi torna con la parte seconda dell’album, concentrandosi, stavolta, sull’amore. Durante il recente tour, il cantautore, affiancato dagli ottimi colleghi Rachele Bastreghi e Claudio Brasini, ha sperimentato nuove atmosfere sonore, per un progetto in cui la musica elettronica la fa da padrona. «Mentre eravamo in tournée – racconta Bianconi – ci siamo messi, come mai prima, a fare due cose contemporaneamente: i concerti e un disco nuovo. In genere tra un nostro disco e l’altro passano quattro anni, evidentemente stavolta gli argomenti che avevamo messo sul tavolo con il primo volume, diciamo, erano finiti e, quindi, ci siamo trovati a scrivere, nel giro di poco tempo, delle canzoni nuove». E proprio offrendo al pubblico il pezzo “culto” “Veronica n. 2”, brano che anticipa l’uscita, il prossimo 23 marzo, di questo secondo tempo: L’amore e la violenza vol. 2 – Dodici nuovi pezzi facili, i Baustelle saranno in concerto, in tutta Italia, dal mese di aprile.

Nel primo volume, raccontavate l’amore in tempi di guerra e storie di un’era bellicosa e senza scampo che spera, appunto, nell’amore. Con questa seconda parte, lo avete trovato?
Diciamo che questa è stata una sfida. Va molto di moda, nella musica leggera, scrivere solo d’amore e allora ho detto: «Va bene, scriviamo anche noi delle pure love song». Poi si è rivelato un fallimento perché se io scrivo canzoni d’amore, pure mi escono che non sembrano così pure (ride) perché le canzoni che mi piacciono hanno anche rimandi al mondo al di fuori dall’amore. In questo disco, in un modo e in un altro, si parla volutamente solo di relazioni interpersonali.

Come ti piace scriverle?
Chi scrive canzoni ha il dovere di essere portatore di punti di vista insoliti, altrimenti, da ascoltatore, la storia classica, raccontata in maniera classica, non la trovo per niente interessante.

Riprendete, nel brano “Caraibi”, un discorso de Il sussidiario, parlando di un amore giovanile; poi però “Tazebao” è un pezzo costruito intorno a una serie di frasi sentimentali, slogan. Oppure parlate di storie d’amore tormentate, che inevitabilmente finiscono, come in “Jesse James e Billy Kid”.
Per me l’amore è una cosa che va oltre le relazioni interpersonali. In ogni caso ci sono almeno due soggetti in gioco: io e l’altro. L’amore vero è quando io riesco a dimenticarmi di me stesso, stando con l’altro, senza chiedergli nulla in cambio. Questo è il mio modo di vedere, quello che mi piacerebbe che fosse l’amore, che sia tuo figlio o la donna amata.

Nel sottotitolo spunta una citazione della pellicola del 1970 di Bob Rafelson Cinque pezzi facili. Lì c’è l’analisi dell’inquietudine, dello scontento, voi invece proponete un riscatto, una soluzione?
Non sempre. L’amore può essere inquietudine, talvolta persino distruzione. C’è una canzone intitolata “L’amore negativo”, dove negativo non è un giudizio di valore, ma significa che negativo è quasi sempre potenza distruttrice, porta già in sé l’idea della fine. E a volte, l’amore può anche essere la fine di qualcosa.

I riferimenti, le citazioni, sono le più varie, in questo lavoro: dal cinema, prima di tutto, a Federico Fiumani, poi Harry Nilson, ma anche La casa di Asterione di Borges. C’è un filo di pensiero che accomuna questi intellettuali?
Non c’è un pensiero culturale univoco, semplicemente quando scrivo canzoni non riesco a non utilizzare anologie, similitudini, accostamenti, perché le canzoni che mi piacciono, anche d’amore, ne parlano utilizzando un lessico complesso, che non si ferma alla parola “cuore”.

Il tour di questo secondo capitolo non vi vedrà, stavolta, nei teatri, ma in altre, diverse situazioni. Dove incontrerete il vostro pubblico.
Abbiamo deciso, volutamente, di fare dei concerti nei club, invece che nei teatri (come abbiamo fatto l’anno scorso) dove il pubblico deve stare seduto. C’è una profonda differenza. Lo scorso anno speravamo che a un certo punto del concerto, la gente si alzasse in piedi; stavolta, partiamo che siamo già tutti in piedi e… magari qualcuno si metterà seduto. Sto scherzando, ma sarà una cosa un po’ più classicamente rock.

Oggi che tempi stiamo vivendo di amore o di violenza?
Un tempo in cui sono presenti entrambi questi aspetti. Soprattutto, l’amore c’è. Purtroppo, troppo spesso, nasconde un elemento di violenza.

Quanto al quadro socio-politico che ci troviamo a fronteggiare, se valutiamo l’esito di queste elezioni, potrebbe uscirne un governo di destra?
Sì e sarebbe bello dire che l’amore ci salverà, ma quale amore sarà quello che ci permetterà di uscire da questo tunnel? Se l’amore è quello del rinunciare al mio ego per darmi all’altro, è probabile. Serve una forma d’amore nuova, non da rotocalco.

Potremmo cominciare , intanto, aprendoci a chi arriva da terre lontane, ai migranti, che oggi in Italia trovano politiche di respingimenti?
Sarebbe un buon modo di mettere in pratica l’idea dell’abbandono di una prospettiva individualistica, concentrata solo su noi stessi. Credo che in questi tempi miseri ci rimanga poco altro, non abbiamo più uno straccio di idea.

L’intervista di Alessandra Grimaldi a Francesco Bianconi è tratta da Left n. 11 del 16 marzo 2018


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Brasile, Lula che non tramonta mai

È ancora grande il caos che investe lo scenario politico brasiliano. Le elezioni sono previste per il prossimo ottobre e in Brasile non si sa ancora se Luiz Inácio Lula da Silva potrà partecipare alla corsa presidenziale.
Le condanne subite negli ultimi mesi potrebbero, infatti, costargli il carcere. La situazione è, però, molto più complicata di quanto sembri. Lula dovrà affrontare numerosi ostacoli. Se lo spettro dell’arresto non si materializzasse prima di ottobre e il politico brasiliano – che è stato al governo del Paese latinoamericano tra il 2003 e il 2010 – arrivasse al termine della campagna elettorale da candidato, potrebbe lo stesso non farcela, in caso di vittoria, a diventare presidente.

È possibile che a sbarrargli il cammino sia la legge ficha limpa, che sancisce la non eleggibilità dei candidati condannati per corruzione in secondo grado. Si tratta proprio del caso di Lula, che nel gennaio di quest’anno ha subito una sentenza di condanna – siamo alla fase dei ricorsi della difesa – di secondo grado. Eppure, l’immagine di Lula, in questi mesi di accesi scontri elettorali, è ben lontana dall’appannarsi. Per quanto non si sappia ancora se egli parteciperà davvero e fino in fondo – tenuto conto di tutti gli impedimenti appena ricordati – alle elezioni presidenziali, certo è che risulta ampiamente favorito nei sondaggi sulle intenzioni di voto dei brasiliani.

Secondo i dati divulgati a fine gennaio scorso dall’istituto di ricerca brasiliano Datafolha, anche dopo l’ultima condanna Lula può contare su…

Il reportage di Bárbara Costa Ribeiro da Fortaleza prosegue su Left in edicola


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Varsavia, le donne si ribellano all’oscurantismo

«Educazione sessuale!». Il fumo bianco che evapora dalle labbra è quello del suo respiro che scalda la sera gelata. «Non indottrinamento! Educazione sessuale!» urla Ewa, insieme alla sua amica sotto braccio. Nemmeno quarant’anni in due. «Polonia laica, non cattolica!». Varsavia era femmina e vestita di nero alla demon-stracja, la protesta, lo strajk kobiet, lo sciopero delle donne. Dopo il lavoro, da uffici, case, aule universitarie, le ragazze hanno sfilato l’otto marzo vestite di scuro, come la loro rabbia, come la notte che calava insieme alla pioggia, sulla grigia capitale polacca. Perché mamy dost, ne abbiamo abbastanza.

Questi sono prawa kobiet, diritti delle donne, da ricordare e rivendicare sotto le nuvole del nord sopra le loro teste: «Qui non c’è niente da festeggiare, tutto da combattere, bisogna ancora lottare per ottenere la libertà di abortire, qui in Europa, nel 2018», dicono. Strajk kobiet è la scritta sulla bandiera nera, con la sagoma bianca di un volto irato e un fulmine rosso che la trafigge. Il simbolo delle donne polacche da sventolare anche dopo il mercoledì appena trascorso, per molte settimane a venire: è il vessillo della guerra del nord, che deve continuare. Bianco, rosso, nero. I colori di questo lungo marzo polacco. Ogni ombrello nero ha una lettera argentata sopra. Dalla capitale, Varsavia, a Gdansk, Szczecin fino a Wroclaw: una parte della Polonia vuole “#savewomen”, salvare le donne.

È proprio questo il nome della proposta di legge che si oppone all’ultimo cambiamento governativo, che vuole rendere l’aborto impossibile nel Paese, anche quando…

Il reportage di Michela AG Iaccarino dalla Polonia prosegue su Left in edicola


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La Lega del grilletto facile

VICENZA, ITALY - FEBRUARY 12: A man looks at some dynamic shooting rifles during the HIT SHOW exhibition on February 12, 2018 in Vicenza, Italy. HIT SHOW is the leading Italian event in the field of weapons, ammunition, hunting, target shooting and personal use. (Photo by Emanuele Cremaschi/Getty Images)

Sul suo profilo facebook compare in tuta mimetica, sorridente mentre imbraccia un fucile. Maria Cristina Caretta, dal 4 marzo deputata di Fratelli d’Italia, è una campionessa dei voti. Nella sua circoscrizione in Veneto ha ottenuto 88.396 preferenze. In assoluto, la decima più votata di tutto Montecitorio tra gli eletti al maggioritario. Un risultato sostenuto dal lungo stuolo di coloro che vorrebbero un mercato delle armi senza troppe restrizioni. Già, perché la Caretta durante la sua campagna elettorale ha premuto molto su questo tasto sfoggiando il suo cursus honorum: è, infatti, la presidente nazionale della Confavi (Confederazione delle associazioni venatorie italiane). Curioso che abbia corso nella stessa coalizione di chi si è invece fatto portavoce degli animalisti, come Michela Brambilla. Facezie.

Certo è che la Caretta non è l’unica su cui associazioni e comitati che dicono di voler «tutelare i diritti dei detentori delle armi» hanno fatto pressione. Sul sito della Confederazione, nonostante in quanto tale dovrebbe professarsi apartitica, tra le pagine web “amiche” c’è anche quella di Sergio Berlato, coordinatore regionale proprio di Fratelli d’Italia in Veneto e consigliere regionale. Anche lui è stato candidato alle politiche, tanto che in un post si leggeva che la coppia Berlato-Caretta fosse «un’occasione importante per i tutti i portatori della cultura rurale e per i legali possessori di armi». Berlato non ce l’ha fatta e resterà in Veneto, mentre la Caretta ora porterà a Roma le istanze di cui si è fatta promotrice. E non sarà l’unica.

Tra Lega e Fratelli d’Italia, infatti…

L’articolo di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola


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Mass shooting, la stolida politica di Trump

TOPSHOT - US President Donald Trump speaks during a press conference with Norway's Prime Minister Erna Solberg in the East Room of the White House January 10, 2018 in Washington, DC. / AFP PHOTO / Brendan Smialowski (Photo credit should read BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

l 14 febbraio 2018 a Parkland, nel sudest della Florida, il diciannovenne Nikolas Cruz ha aperto il fuoco in una scuola dalla quale era stato precedentemente espulso come allievo, uccidendo 17 persone fra le quali 14 studenti. Negli Usa il fenomeno del mass shooting è stato in continuo aumento nell’ultimo decennio, con un picco percentuale proprio nel 2018. I numeri delle morti della violenza e della criminalità negli Stati Uniti sono davvero impressionanti. Dal 2000 al 2014 ci sono stati 270mila omicidi negli Usa, 600mila overdosi di droga (200mila da oppioidi) 650mila suicidi (130mila erano veterani di guerra) e 85mila morti sul lavoro. Dal 2000 al 2014 la polizia ha ucciso 12mila persone mentre 27mila immigrati sono morti nel tentativo di attraversare il confine con il Messico. Inoltre ci sono state 850 esecuzioni capitali mentre 2,2 milioni di persone sono in carcere e altre 4,7 milioni sono state sottoposte a misure alternative alla carcerazione o rilasciate sulla parola. Il modello del mass murderer nella modalità “pseudo commando”, nella quale viene perpetrata una strage con armi da guerra, deriva dalla convergenza di più fattori critici. Molti studi hanno confermato che esiste una correlazione fra il livello di diseguaglianza e la violenza che si esprime in una società. In contesto come quello degli Usa dove predomina lo sfruttamento selvaggio, una mancanza di accesso ai programmi di aiuto, dove fanno da padroni competizione e stress economico, milioni di persone vengono spinte fino al punto di rottura psicologico, cosa che, in soggetti con particolari patologie, può avere un esito catastrofico.

Inoltre la guerra al terrore, partita da premesse false e delinquenziali come quelle riconosciute da Tony Blair, oggi è al suo 18esimo anno e domina non solo la scena politica ma anche quella culturale, con l’effetto di una esacerbazione del nazionalismo estremo, della paranoia, della xenofobia. Soggetti psicotici vengono implicitamente indirizzati verso un acting out criminale che altro non è che l’imitazione “manierata” di un gesto “eroico”. L’omicida di massa è in realtà tutt’altro che coraggioso: egli è “manierato”, cioè falso, in quanto se la prende con gli studenti, i soggetti più deboli e indifesi.

L’altro fattore critico è l’assoluta deriva della psichiatria: gli Stati Uniti come ha affermato un eminente psichiatra come Allen Frances, sono il peggior Paese al mondo nel quale andare incontro ad una malattia psichica. I malati più gravi, spesso provenienti dalle classi meno abbienti, sono abbandonati a se stessi, mentre gli operatori della salute mentale creano malattie ad uso e consumo dei cosiddetti “normali”, sui quali cerca di lucrare con metodi criminali il cartello delle case farmaceutiche. Alla luce delle precedenti considerazioni, l’intervento recente di Donald Trump che vuole armare gli insegnanti per risolvere le stragi nelle scuole è più che stupido: è stolido. La stolidità, un’ottusità che rasenta l’idiozia, il presidente la condivide con molti politici nostrani apertamente xenofobi e a favore dell’uso della armi a scopo di sicurezza, fautori di rimpatri impossibili.

Un libro come Fuoco e furia di Michael Wolff è stato eccessivamente reclamizzato dalla stampa internazionale e da quella italiana. Apparentemente, il libro è una denuncia contro l’incapacità politica di Trump, contro i suoi più o meno presunti tradimenti: in realtà si fa leva sulla curiosità morbosa che la personalità assurda del tycoon suscita per confezionare un best seller. Ci si concentra sul gossip politico che rivela retroscena inconfessabili, gli intrighi del potere come nella profetica serie House of cards e si perde di vista il quadro generale di una società che manifesta segni di una sofferenza politica, culturale e psicologica profondissima. In 27 tra psichiatri e operatori della salute mentale coordinati da Bandy Lee, hanno confezionato nel 2017 un libro di denuncia, The dangerous case of Donald Trump, contro la pericolosità e l’instabilità mentale del presidente, che ha in mano la valigetta dell’arsenale nucleare, cadendo nello stesso equivoco, nello stesso errore di prospettiva in cui ci ha trascinato per un calcolo razionale Michael Wolff. Ci si concentra su un particolare, su di una persona o su di un circolo ristretto di persone al potere per non prendere in esame seriamente (e non con teorie ottocentesche) il contesto generale, la mentalità e la cultura politica che l’ha sostenuto.

Addirittura si conia il termine “Tad” acronimo per “Trump anxiety disorder”, come se fosse veramente la personalità dello zazzeruto Donald un fattore stressogeno rilevante per un gran numero di pazienti, cioè il motivo generatore di una psicopatologia che sarebbe sempre più diffusa e legata alla politica: siamo di fronte ad una ipervalutazione, a una idealizzazione, sia pure di segno negativo, che è essa stessa falsa e pericolosa. I 27 operatori della salute mentale straparlano e sostengono che il presidente appartiene alla cosiddetta “normalità maligna”, cioè diabolica, accogliendo una definizione di Erich Fromm, religiosissimo ebreo ortodosso come la sua famosa moglie Frieda Fromm Reichmann. Con riferimento al famoso film Gaslight (1944) diretto da George Cukor interpretato da Ingrid Bergman, il presidente viene definito un gaslighter, termine popolare nella letteratura psicologica per designare un manipolatore, uno che deliberatamente cerca di far uscire di senno qualcuno. In realtà non ci si accorge che Trump, “il cattivo”, non riesce neppure a essere normale, figuriamoci se riesce a far impazzire chicchessia.

Egli, per sua stessa ammissione, in una intervista dimenticata degli anni 90, soffre di una grave forma di délire du toucher da inquadrare nell’ambito della folie du doute per usare una terminologia degli alienisti ottocenteschi come Antoine Ritti e Henri Legrand du Saulle. Mitomania, rozzezza su cui si innesta la paura delirante dei germi, dello sporco, del contatto con altri esseri umani: paura di essere contaminato dagli islamici e dai sudici messicani. In sottofondo c’è un dubbio continuo e inconfessato che mina dalle fondamenta l’identità del leader repubblicano e lo spinge, in modo compensatorio, ad un acting out dissociato in risposta a problemi di politica interna e internazionale.

La lezione americana, le derive dittatoriali di Trump che viene paragonato ad Hitler, devono servirci per capire ciò che avviene in casa nostra, in Italia, dove a Macerata c’è stata recentemente una tentata strage a danno di immigrati neri da parte di un malato di mente che si proclama fascista. E le cronache sono piene di reiterate aggressioni femminicide e di atti di criminalità comune enfatizzati ad arte dai mass media per creare un clima generalizzato di paura. In questo contesto, c’è chi ha affermato che è innato nell’essere umano “il bisogno di sicurezza”, come hanno sostenuto alcuni  “post-freudiani” tra cui lo psicoanalista John Bowlby. Il bisogno di sicurezza innato metterebbe sullo stesso piano, in una prospettiva etologica e evoluzionista, l’uomo, primati come il Macacus rhesus, se non addirittura le anatre di quel nazista che fu Konrad Lorenz: saremmo allora tutti da considerare come bambini piccoli se non animali indifesi e in cerca di attaccamento e di rassicurazione, istintivamente portati ad evitare o a temere lo straniero, cioè lo sconosciuto. Lo Stato autorevole, per non dire totalitario, dovrebbe continuamente proteggerci e garantire la nostra sopravvivenza materiale e una pseudo identità che derivi dall’appartenenza a un regime: dovremmo però marciare irreggimentati come anatroccoli dietro mamma oca.

Ora è chiaro che l’unica sicurezza possibile è quella che deriva dalla affermazione di una sostanziale uguaglianza basata sul riconoscimento che la nascita è la stessa per tutti gli esseri umani per una dinamica che non prevede imprintings genetici o teorie organicistiche. La certezza psichica del proprio essere e la vitalità ad esso connessa ci dà la forza di resistere all’ingiustizia e alla violenza qualunque sia il contesto sociale in cui ci troviamo. Questo è il presupposto che dobbiamo porre alla base di un’azione politica, del rispetto dei diritti umani fondamentali per tutti, migranti compresi, che sono la fascia più debole e meno protetta della popolazione. Uno Stato come quello italiano, quando manifesti aspetti tipici del totalitarismo e condanni milioni di immigrati ad una apolidia de facto, ad una abolizione o sospensione del diritto di cittadinanza, è quanto di meno sicuro e di più pericoloso possa esistere. La ricerca di sicurezza nell’uomo forte, nel fascismo, nelle politiche securitarie e meramente poliziesche, nella xenofobia è un equivoco, tragico frutto dell’ignoranza e del revisionismo storico oltre che di un calcolo di alcuni politici che si pongono continuamente al centro dell’attenzione, come Donald Trump, con un retorica stolida e ripetitiva assecondata dai mass media e dagli indici di ascolto.

Il 24 marzo, a Washington e in molte altre città degli Stati Uniti e del mondo (sono 835 gli eventi annunciati), si terrà la prima March for our lives, cortei che vedranno sfilare ragazzi e ragazze per chiedere alla politica una risposta al dramma della diffusione delle armi da fuoco, e delle sempre più frequenti stragi. Dentro e fuori le scuole.

L’articolo di Domenico Fargnoli è tratto da Left n. 10 del 9 marzo 2018


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Giacomo Marramao: I principi Onu? Uno strumento di potere

Letasha Irby, a worker who still sees challenges and inequality in the present day US, poses for a portrait on March 5, 2015 in Selma, Alabama. Saturday will mark the 50th anniversary of Bloody Sunday where civil rights marchers attempting to walk to the Alabama capitol in Montgomery for voters' rights clashed with police on the Edmund Pettus Bridge. AFP PHOTO/ BRENDAN SMIALOWSKI (Photo credit should read BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

Settant’anni or sono, a Parigi, Eleanor Roosevelt mostrava al mondo quella che lei stessa definì «la Magna charta dell’umanità». Un testo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, frutto del lavorìo alacre della Commissione per i diritti umani delle Nazioni unite, che avrebbe dovuto scacciare una volta per tutte gli ingombranti fantasmi dei genocidi e delle stragi della seconda guerra mondiale. Un testo, pur non vincolante per gli Stati membri dell’Onu, che costituisce lo scheletro delle costituzioni di molti Paesi democratici. Un testo più e più volte disatteso, violato, ignorato, da quegli stessi Paesi che lo promulgarono. Le sequenze di morte e distruzione che documentano la presa della città curda di Afrin, nel nord della Siria, da parte delle milizie turche, lo testimoniano, con disarmante evidenza. Così come il silenzio delle principali potenze dell’Unione europea, che nei giorni scorsi hanno annunciato il via libera alla seconda tranche da versare ad Ankara per il controllo delle frontiere, in ossequio al patto siglato a marzo 2016: altri 3 miliardi dritti dritti nelle tasche di chi stermina un popolo col malcelato sostegno dell’Isis.

«Si tratta di un problema serio, e non è sufficiente dire che l’Occidente tradisca i propri principi comportandosi in maniera criminale: spesse volte, quegli stessi valori universalistici – presenti anche nella Dichiarazione “universale” dei diritti dell’uomo – vengono usati per ciò che effettivamente sono, un dispositivo di legittimazione del proprio dominio». È una prospettiva provocatoria e quanto mai attuale quella di Giacomo Marramao, filosofo, professore presso l’Università di Roma tre. Un punto di vista che smaschera il falso universalismo dei diritti umani, riallacciandone con perizia i fili della sua genealogia. «Il problema di fondo è andare a vedere cosa implica l’idea di “universale” e l’idea di “umano”. Le stesse dispute preparatorie alla stesura della Dichiarazione del 1948 testimoniano il carattere problematico della definizione di questi concetti.

Ma, volendo fare un balzo indietro nel tempo, non si può dimenticare che…

L’intervista di Leonardo Filippi al filosofo Giacomo Marramao prosegue su Left in edicola


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La politica impossibile

È di pochi giorni fa lo scandalo di Cambridge Analytica, la società britannica specializzata nella costruzione di campagne mediatiche allo scopo di ottenere consensi ed elezioni in maniera “scorretta”. Uso le virgolette perché è ormai evidente che Cambridge Analytica non fa altro che usare consolidate tecniche di marketing alla politica. Sono tecniche e trucchi che vengono usati normalmente nella comunicazione pubblicitaria per convincere il pubblico di aver bisogno di questo o di quel prodotto. La novità in questo caso sta nel aver avuto accesso a 50 milioni di profili facebook e tramite di essi aver potuto creare una campagna perfettamente in linea con quello che il pubblico si aspettava. Perché il cuore della pubblicità, in qualunque settore, sta nello scrivere e raccontare in un certo modo, suscitando emozioni più forti possibili nel pubblico, allo scopo di catturarlo e convincerlo a fare qualcosa per risolvere il proprio stato emozionale. L’esito dell’attività di marketing commerciale è l’acquisto del prodotto. L’esito dell’attività di marketing politico è il voto. Channel 4 ha pubblicato un video ripreso di nascosto in cui uno dei dirigenti di Cambridge Analytica spiega: «I fatti in politica non contano. Contano le emozioni». Che è esattamente la regola fondamentale del marketing. Non conta il prodotto, contano l’esperienza e le implicazioni emozionali che quel prodotto può determinare in chi lo compra.

Il marketing non è altro che una comunicazione persuasiva il cui scopo è convincere chi la subisce a pensare di avere un problema e a volerlo risolvere tramite un acquisto. In questo caso tramite un voto. Che cosa è effettivamente il prodotto e, in questo caso, cosa quel politico farà effettivamente, conta molto poco. E a ben pensarci tutti gli slogan più di successo dei politici sono prima di tutto emozionali. Il prodotto, le cose da fare in concreto, non esistono. I programmi hanno sempre scarsissima importanza in una competizione elettorale. Contano gli slogan e i candidati con la loro storia. “Yes we can” era lo slogan di Obama. Che ha un senso di riscatto rispetto ad un impotenza del cittadino comune verso le ingiustizie. E anche un senso di riscatto verso una politica che alla fine viene percepita sempre come dedicata ad avvantaggiare pochi a scapito di molti. “America first” era lo slogan di Trump. E in fondo aveva esattamente lo stesso senso dello slogan obamiano ma con un’accezione più patriottica e di contrasto alle politiche inclusive di Obama.

Altra specialità di Cambridge Analytica è quella di saper costruire una comunicazione efficace inventando storie e “scrivendo” in maniera opportuna. È il meccanismo delle cosiddette fake news, che per essere efficaci si basano su tecniche di scrittura particolari. Infatti una bufala di per sé non vale nulla se non viene impacchettata a dovere. Per esempio far dire quello che vogliamo dire a persone presentate come esperti ma che in realtà non lo sono, oppure l’uso di numeri che servono non per spiegare ma per convincere dell’oggettività di qualcosa che magari è completamente inventato. «È un sabotaggio della democrazia» dice giustamente Channel 4 nel suo servizio su Cambridge Analytica. Come fare per opporsi a questa comunicazione subdola, il più delle volte completamente invisibile, in particolare a chi la subisce ? Il marketing, politico o economico, è una disciplina empirica, che si basa sullo studio delle risposte concrete delle persone alle diverse comunicazioni cui sono sottoposte. Non cerca di comprendere perché gli esseri umani si comportano in quel certo modo. È una disciplina che studia le reazioni dell’essere umano in conseguenza di una comunicazione.

Lo scopo è fare in modo che quella reazione sia un’azione ben precisa (l’acquisto). Per quello che se ne sa, in politica, i servizi di Cambridge Analytica sono stati usati soprattutto da partiti di destra. Forse perché hanno meno scrupoli a comunicare in maniera subdola con il proprio elettorato. Forse perché è molto semplice usare la paura come leva emotiva. In questo caso la paura del diverso, dello straniero, dello sconosciuto, dell’ignoto. Oppure la rabbia. Rabbia verso chi “ruba il lavoro” o peggio “vive sulle nostre spalle”. La comunicazione fa diventare ciò che non si conosce, il “mostro”. Poi si prospetta un futuro di morte e distruzione. O perlomeno di povertà. Perché gli esseri umani, anche in condizioni di vita tutto sommato ottime, hanno paura dell’ignoto, dello sconosciuto, dello straniero, del diverso da sé ? È solo una questione del lavoro che non c’è e di competizione “con gli stranieri” ?

A pensarci bene la reazione che questa comunicazione cerca di suscitare è ben nota in psichiatria. Si chiama annullamento ed è stata scoperta da Massimo Fagioli e teorizzata nel 1971 in Istinto di morte e conoscenza (ed. L’asino d’oro). Perché sarebbe un annullamento ? Perché questo tipo di comunicazioni vogliono dire a chi le ascolta di chiudere gli occhi, di non vedere, di non sapere. Che chi è straniero viene solo per violentare le donne e rubare il lavoro agli uomini. Vogliono che i cittadini chiudano gli occhi sulla realtà e verità di altri esseri umani che sono uguali a noi. La sinistra se vuole esistere deve comprendere questa dinamica fondamentale. Perché permette di vedere chi vuole accecare ed impedire che ciò accada. Permette di opporsi alla destra che è conservatrice nel senso che non vuole che si aprano gli occhi sul diverso da sé. Poi, la sinistra, dovrà cercare le emozioni belle che saranno necessarie per raccontare di una possibilità di vita diversa, in una società diversa. In cui chiunque saprà dire a chi vuole indurgli paura per fargli chiudere gli occhi: “No, io non ho paura”.

Il commento di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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La blasfemia è reato, in Italia come nelle teocrazie

streetwriter Hogre ha realizzato alcune opere sui muri di Torino

Quando si parla di blasfemia (offese alle divinità) o vilipendio (offese a confessioni religiose, ministri di culto, cose o persone “religiosamente intese”) nei commenti di scuola si è soliti ripetere come queste siano fattispecie residuali, ormai depenalizzate, di applicazione rarissima. Ma è davvero così? E, più importante e prima ancora, è davvero possibile conciliare anche la semplice sussistenza di queste norme, a prescindere dal loro concreto utilizzo, oltre che con il buon senso, con il contemporaneo concetto di Stato laico, pluralista, democratico? No. Ed è risposta che vale per entrambe le domande.

Il codice Zanardelli del 1889 tutelava il sentimento religioso solo dal punto di vista individuale, non formalizzando né recependo la tutela del sacro come valore a prescindere. Ben diversa l’impostazione del codice penale fascista (“Rocco”), tuttora vigente. Dove dovrebbe prevalere il diritto umano fondamentale di libera espressione del pensiero, vengono posti lacci e lacciuoli (e anni di galera) a tutela della confessione dominante.
A dir la verità, in occasione del nuovo Concordato del 1984, che ha almeno ufficialmente abolito la religione di Stato, erano in molti ad aspettarsi…

Il 22-23 marzo, a Bruxelles, ha luogo il convegno “Europa di chi non crede: modelli di laicità, status individuali, diritti collettivi” organizzato dalla Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti in collaborazione con il Parlamento europeo, il Comitato interministeriale diritti umani, l’European humanist federation e la International humanist and ethical union (Iheu)

L’articolo di Adele Orioli prosegue su Left in edicola


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Fosse ardeatine, il diario partigiano delle 48 ore che sconvolsero Roma

RASTRELLAMENTO IN SEGUITO ALL'ATTENTATO DI VIA RASELLA 1944

Giorgio Amendola, esponente comunista della Resistenza, racconta in una lettera che il fragore dell’esplosione fu così lacerante che il boato riecheggiò nell’appartamento romano di via Propaganda fide, dove era in corso la riunione della giunta militare del Cln. Alcide De Gasperi, colonna portante della futura Democrazia cristiana, rivolgendosi al dirigente comunista, esclamò sorpreso: «Ne avete combinata un’altra delle vostre. Una ne fate e cento ne pensate».

Era il 23 marzo del ’44, quando diciotto chili di tritolo, nascosti in un carretto, esplosero nel cuore di via Rasella, travolgendo 33 uomini del battaglione Bozen, reggimento dell’esercito nazista. Alle 15 e 52, Rosario Bentivegna – nome di battaglia Paolo – travestito da spazzino, accese la miccia, osservando il manipolo risalire la china della via. Cinquanta secondi e poi il trambusto di schegge impazzite e il fuoco della detonazione. L’attentato – come lo chiamano alcuni – è ordito dalle fila comuniste della Resistenza romana. Carla Capponi, Carlo Salinari, Franco di Lernia, Gioacchino Gesmundo, Marisa Musu, Franco Calamandrei ed altri.

La città era occupata dai nazifascisti. Sette mesi di guerriglia urbana. I Gruppi di azione patriottica (Gap) avevano diviso Roma in otto zone di intervento. I partigiani attaccavano senza sosta le truppe occupanti e le camicie nere. In ogni quartiere gli echi della guerra combattuta sulle rive sabbiose di Anzio, crivellavano i muri di Forte Bravetta e di via Tasso. La rappresaglia nazista alla bomba fu una tragedia di proporzioni disumane. La mattina del 24 marzo, 335 italiani vennero uccisi e sepolti nelle cave di pozzolana, a pochi passi dalla via Ardeatina. Dieci italiani per ogni tedesco ammazzato. Le quarantotto ore che sconvolsero Roma e la sua memoria. Ancora oggi, la vulgata consolatoria della pacificazione nazionale e di una “guerra civile” mai combattuta, marchia i 335 morti come “vittime dei totalitarismi”.

A 74 anni dalla più grande e controversa azione partigiana che la storia ricordi, nel cicaleccio di via Rasella, incontro Mario Fiorentini. L’ultimo gappista delle zone centrali rimasto in vita. Occhi azzurri, criniera bianca e…

L’articolo di Maurizio Franco è tratto da Left in edicola


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