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I Comuni che dicono no ai neofascisti

Un momento della manifestazione antifascista, organizzata dal Pd, 'E questo Ë il fiore', Como, 09 Dicembre 2017. Il raduno Ë stato promosso dopo l'irruzione di un gruppo di skinheads in una riunione dell'associazione 'Como senza frontiere', a favore dell'accoglienza dei migranti. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

In Italia il fascismo da tempo sta tentando di rialzare la testa. Lo dimostrano tanti episodi accaduti in questi ultimi tempi e anche l’aumento rispetto al 2013 delle preferenze per CasaPound, che, pur avendo ottenuto il 4 marzo un risultato molto modesto – 0,95% alla Camera e 0,85% al Senato – comunque è sette volte superiore a quello delle precedenti elezioni.

Ma la risposta della società non si è fatta attendere. Diverse giunte comunali hanno varato delle modifiche alle norme che regolano l’uso degli spazi pubblici (nel senso più ampio del termine, dalle piazze ai palazzetti dello sport), per impedire che vi si tengano eventi inneggianti al fascismo, o alla discriminazione razziale, religiosa e sessuale. Ad aprire la strada è stata la giunta di Pavia il 28 aprile 2017. Da allora molte amministrazioni ne hanno seguito l’esempio, tra cui: Siena, Torino, Cesena, Orosei in provincia di Nuoro, Riva del Garda in provincia di Trento e altre ancora. Oggi, chi vuole usare uno spazio pubblico, dovrà compilare il classico modulo di richiesta, a cui però sono stati aggiunti dei passaggi da firmare, in cui si deve dichiarare di aderire ai valori dell’antifascismo e che l’evento in questione non sarà di carattere fascista e non avrà toni, finalità e linguaggio discriminatori. Queste regole si rifanno all’articolo 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, agli articoli 2 e 3 della Costituzione, alla XII disposizione transitoria che vieta la riorganizzazione del partito fascista e alle successive leggi Scelba e Mancino.

Negli ultimi anni Pavia è stata teatro di diverse aggressioni fasciste. Per il sindaco Massimo Depaoli la misura è stata colma dopo la manifestazione del 5 novembre 2016, giorno in cui militanti di CasaPound, Forza nuova e altre formazioni neofasciste hanno sfilato per commemorare la morte di Emanuele Zilli, attivista missino scomparso lo stesso giorno del 1973. Al corteo nero si è contrapposto un presidio antifascista a cui hanno partecipato, tra gli altri, Anpi, Arci, sindacati, associazioni e il sindaco stesso. A seguito di questa giornata, la Rete antifascista di Pavia, l’Anpi e il sindaco si sono messi al lavoro per stilare quello che poi è diventato il regolamento definitivo, grazie al voto dei consiglieri del Pd, del M5s e di altre liste di sinistra. Il centrodestra si è astenuto, fornendo come motivazione l’inutilità del provvedimento. Oggi, presentare i moduli firmati in ogni loro parte, senza però rispettarne le nuove indicazioni, può costare fino a 500 euro di multa e l’interruzione dell’evento. Ma il sindaco pavese spera che questa delibera possa andare ben oltre i confini cittadini, fino a influenzare il legislatore nazionale.

Siena è il secondo capoluogo in Italia ad aver adottato questo tipo di norme. «Il nuovo regolamento non vuole limitare la libertà d’opinione» dice a Left Bruno Valentini, sindaco di Siena. «Noi non chiediamo a chi compila la richiesta di uso di spazio pubblico “pensi che il fascismo sia stato una cosa buona?”. Chiediamo piuttosto di impegnarsi nell’evitare comportamenti non in linea con la Costituzione e con lo statuto della città, che fa dell’antifascismo uno dei suoi punti forti. Chi contravviene alle regole, subisce una multa e il ritiro del permesso all’uso dello spazio». Alle nuove norme a Siena poi si accompagnano una serie di eventi rivolti alle scuole, concentrati soprattutto nell’ambito delle celebrazioni del 25 aprile: in particolare, una compagnia locale metterà in scena a teatro l’eccidio di 19 partigiani nel 1944 da parte di soldati della Repubblica di Salò. «Vogliamo trasmettere alle generazioni più giovani i valori dell’antifascismo e della tolleranza. Il fascismo non si ferma solo con i divieti, ma anche con la cultura, e le due cose devono viaggiare insieme». La delibera non è andata giù a CasaPound che ha presentato un esposto al Presidente della Repubblica contro le nuove regole. Il Comune di Siena ha risposto facendo ricorso al Tar regionale. «Ad oggi Cpi non si è ancora fatta viva», conclude Valentini.

Un’altra città che ha deciso di dire no alle manifestazioni fasciste è Pontedera, in provincia di Pisa. In particolare ha destato clamore la polemica di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, con il sindaco Simone Millozzi scatenata da una multa comminata al partito di destra lo scorso 8 febbraio, durante la campagna elettorale. La sanzione è arrivata dopo che Fdi aveva montato un gazebo, senza che fosse stato autorizzato. Il Comune non ha concesso lo spazio perché il richiedente aveva cancellato con il bianchetto le parti in cui si faceva riferimento alle «norme nazionali in vigore che vietano sia la ricostituzione del partito fascista che la propaganda di istigazione all’odio razziale». Una settimana dopo, la leader di Fdi ha postato un video su Youtube e rilasciato interviste in cui definiva il provvedimento una «prova tecnica di regime». Il sindaco toscano ha ribadito in un comunicato che il modulo artefatto presentato da Fdi era irricevibile. Millozzi ha poi rivolto una domanda a Meloni, in veste di cittadino: «Perché il suo partito si è così prodigato per alterare un modulo e togliere una frase richiamante leggi nazionali che vietano la ricostituzione del partito fascista e l’istigazione all’odio razziale?». Alla fine Fdi ha ceduto e ha presentato nuovamente i moduli, compilati in ogni loro parte senza alcuna modifica.

Il 23 marzo a Siena si è tenuto il convegno organizzato dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia, “L’antifascismo, origine e forza delle istituzioni democratiche“.

L’articolo è tratto la Left n. 11 del 16 marzo 2018


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Storia di Anne, dal Sussex alla Siria per combattere con i curdi «contro l’oppressione patriarcale» di Ankara

«Forse avrei dovuto fare di più per dissuaderla, ma non mi avrebbe mai perdonato. Non ho provato a influenzare il suo destino, questa era la cosa più importante della sua vita». Sapeva che forse sarebbe morta, ma era comunque fiero di lei. E non ha provato a fermarla. Ora Dirk Campbell, il padre di Anne Campbell, ha detto alla radio della BBC di essere “in pieces”, a pezzi. Sua figlia aveva libertà, una perfetta faccia british, capelli biondi ed occhi chiari, una casa comoda nel sud del Regno Unito.

Era una femminista britannica di 26 anni. Una che «non sopporta le ingiustizie, le piaghe dei deboli, vulnerabili, dei senza potere, una che aveva trovato idealismo nell’utopia meravigliosa del Rojava». Chi era Anne oggi lo spiega suo padre, i suoi amici, qualche scritta sul muro, dal Kurdistan a Lewes, Sussex orientale, la sua città natale, dove c’è scritto “Anna Campbell è immortale”.

Era andata a combattere contro l’ISIS tra le file delle soldatesse curde dello YPG nel maggio 2017 . È morta quasi un anno dopo, il 15 marzo scorso, durante l’operazione “ramo d’ulivo” dei soldati di Erdogan, in Siria, ad Afrin, dopo aver pregato la comandante della sua unità femminile dello YPJ di farsi spedire al fronte. La comandante non era d’accordo: le donne occidentali sono il primo bersaglio di jihadisti ed esercito turco. Eppure Anne aveva continuato ad insistere.

Nelle ultime immagini che si hanno di lei, stringe tra le mani il suo kalashnikov, sulla spilla gialla in petto c’è il volto di Ocalan. In un video registrato prima della sua morte, con i capelli più scuri, in divisa, Anne, battezzata dai curdi con il nome di guerra Helin Qerecox, dice di essere felice di andare con tanti compagni coraggiosi a combattere in memoria di quelli che erano già stati uccisi. Perché viviamo in «un mondo di oppressione patriarcale, di sfruttamento brutale». La rivoluzione del Rojava, secondo Anne, incarnava «lo spirito della resistenza, parte della lotta per gli oppressi contro il capitale e il patriarcato».

Il Guardian scrive che quella giovanissima concittadina aveva ancora «quell’idea di fare la differenza, quella che per la cultura contemporanea è assurda». Eppure «Byron è andato a liberare la Grecia, gli studenti hanno partecipato alla guerra civile spagnola, certi giovani escono dalla loro confort zone, per trovare una causa per cui valga la pena combattere, è quello che giace profondamente nell’anima umana».

«Non vi abbandonerò, il mio governo e il mondo occidentale vi hanno lasciato soli contro il secondo esercito più grande della NATO» ha detto prima di morire Anne ad Ilham Ahmed. Il giornalista aveva tentato di dissuaderla, per non farla andare al fronte: «Abbiamo bisogno di te qui, invece, per far arrivare la storia ai media britannici«. Anne Helin Qerecox ha risposto: «Il mio paese non dà niente oltre che parole, io sono qui per darvi la mia azione».

Non è Romani il problema, ma Forza Italia

Silvio Berlusconi (D) e Marcello Dell'Utri (S) alla convention del Circolo dei giovani del buon governo a Montecatini Terme (Pistoia) in una foto d'archivio dell''11 novembre 2007. ANSA / MAURIZIO DEGL'INNOCENTI

Leggete con attenzione:

«Quali rapporti? Per delinearli i pm partono da lontano. E citano la sentenza definitiva che ha condannato Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno. “I giudici hanno scritto – ha detto Del Bene citando le motivazioni del verdetto – che fin dagli anni Settanta Marcello Dell’Utri intratteneva un rapporto paritario con esponenti di Cosa nostra”. Contatti che per i pm “sono proseguiti anche dopo la scomparsa dei boss Mimmo Teresi e Stefano Bontate, suoi iniziali interlocutori, uccisi dai corleonesi di Totò Riina”. Nella requisitoria ha dunque fatto la sua comparsa Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova assunto da Berlusconi e Dell’Utri come stalliere nella villa di Arcore nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, dicono i pm, che durante una delle udienze del processo hanno ascoltato anche la deposizione del pentito Gaetano Grado. “Negli anni Settanta – aveva detto il collaboratore di giustizia l’11 giugno del 2015 – portava fiumi di miliardi da Palermo a Milano. Erano soldi del traffico di droga di Cosa nostra che Mangano consegnava a Dell’Utri, poi Dell’Utri li consegnava a Berlusconi che li investiva nelle sue società, mi pare anche per Milano due. La mafia ha bisogno di investire. Siccome i soldi della droga erano talmente tanti che non si sapeva più quanti fossero, Mangano esportava fiumi di denaro su a Milano”.

L’intimidazione: gli attentati alla Standa – Il sostituto procuratore ha poi ricordato gli attentati alla Standa di Catania, che all’epoca era di proprietà di Silvio Berlusconi. Secondo l’accusa gli attentati intimidatori sarebbero cessati solo dopo un accordo tra Cosa nostra e Berlusconi, “attraverso l’intermediazione di Dell’Utri”. Già in una delle scorse udienze, il pm Roberto Tartaglia aveva spiegato. “I boss puntarono all’intimidazione, per poi raggiungere il patto”, disse il magistrato riferendosi proprio gli attentati alla Standa: “Il pentito Malvagna ci ha raccontato che scese un alto dirigente Fininvest per risolvere la questione”. Chi era quell’alto dirigente? “Era Dell’Utri”, ha detto un altro pentito, Maurizio Avola, riferendo di un incontro tra l’ex senatore e il capomafia Nitto Santapaola.

Sicilia libera è il movimento creato su input dello stesso Bagarella, al vertice dei corleonesi nel 1993 dopo l’arresto del cognato Totò Riina.  “Il movimento Sicilia libera ha in sé tutti i protagonisti del reato di attentato a corpo politico dello Stato che contestiamo agli imputati di questo processo. Cosa nostra ha l’esigenza di interloquire direttamente con le istituzioni e Bagarella tenta di farlo con questo movimento politico nel cui statuto vengono inseriti i punti che tanto stanno a cuore alla mafia, tra cui la giustizia e provvedimenti sul mondo carcerario“. Poi, però, succede qualcosa. Succede che alla fine del 1993 lo stesso Bagarella “sa della discesa in campo di Silvio Berlusconi per le politiche del 1994 e decide dirottare il suo sostegno a Forza Italia, e di fatto decide di dare sostegno a Marcello Dell’Utri attraverso i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Così, lascia perdere il Sicilia libera che aveva fondato e di fatto confluisce in Forza Italia”.

Quello che disse Cancemi – Per la verità, però, a parlare di Berlusconi e Dell’Utri come possibile soluzione ai problemi di Cosa nostra era stato lo stesso Riina già nel giugno del 1992, quando la nascita di Forza Italia era ancora alle primissime battute. A sostenerlo – lo ha ricordato nelle scorse udienze il pm Di Matteo – era stato il pentito Salvatore Cancemi. Nel corso della riunione del giugno ’92, “Riina si prese la responsabilità di eliminare Paolo Borsellino”. Nella stessa circostanza aggiunse che “andava coltivato il rapporto con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”.  “Non è un racconto del relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia”, aveva detto Di Matteo. Le dichiarazioni di Cancemi, secondo l’accusa, riscontrano quanto detto in carcere da Giuseppe Graviano. Intercettazioni che hanno fatto riaprire le indagini su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi e che sono state al centro di un acceso dibattito processuale tra accusa e difesa.”

In questo articolo (tratto da Il Fatto quotidiano del 25 gennaio di quest’anno qui) si racconta dell’accordo che portò alla costruzione di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi fortemente voluto da Marcello Dell’Utri. Il punto è tutto qui: il tema non è Paolo Romani che non è voluto dal Movimento 5 stelle perché già condannato. Il tema è Forza Italia e la sua storia. Poi, per carità, qualcuno è libero di non crederci ma sicuramente ci credeva Alessandro Di Battista mentre declamava ad alta voce la sentenza Dell’Utri ad Arcore. Ridurre tutto a Romani è un truffa. E dire, come prova a fare Di Maio, che il «leader del centrodestra è Matteo Salvini» fingendo che non ci sia Forza Italia al seguito è un andreottismo. Senza nemmeno la soddisfazione di avere la cultura e l’arguzia di Andreotti.

Buon venerdì.

Il reato di solidarietà inventato dall’Italia

Nel 2018 si celebrano i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con mostre, convegni, dibattiti e festival dei diritti umani, che toccheranno l’acme il 10 dicembre. Ma molti Paesi che hanno sottoscritto il testo approvato nel 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni unite oggi sembrano non “ricordare”. O peggio ancora. Fin dalla rivoluzione francese, l’Europa si auto descrive come la culla di una cultura giuridica illuminata, ma nella prassi politica oggi si comporta in maniera opposta, negando quegli stessi principi di cui si proclamata sostenitrice all’uscita dalla guerra. In questo quadro, emblematico è il caso Italia. Nel 2017 è stata finalmente varata una legge contro la tortura, ma come scrive Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova è «così contorta e maliziosa da risultare un insieme di norme che disciplinano più che vietare la tortura». Come è noto l’Italia è stata più volte condannata perché le condizioni di detenzione violano i diritti umani. Il 16 marzo il Consiglio dei ministri ha varato i decreti attuativi della riforma carceraria: «In zona Cesarini», ha detto la radicale Rita Bernardini, che ha condotto una lunga battaglia non violenta. Un buona notizia, certamente, ma da qui alla fine dell’iter a luglio, tutto purtroppo può ancora accadere.

Ed eccoci a un altro tema cruciale che è stato del tutto ignorato dai partiti durante la campagna elettorale. Le donne in Italia hanno conquistato molti diritti sul piano formale, ma sono quotidianamente vittime di violenze di ogni tipo, fino al femminicidio. Sono lasciate sole dalla legge che punisce lo stalking con pene pecuniarie. Il diritto all’autodeterminazione viene continuamente negato e la scelta di interrompere una gravidanza è ostacolata da percentuali bulgare di obiettori di coscienza. Mentre sbarrano la strada alle famiglie migranti e ai cittadini che chiedono lo ius soli, politici misogini si lanciano in difesa della razza italiana: dalla Lega con in testa il neo governatore Fontana ai Cinquestelle che (dopo aver boicottato lo ius soli con l’astensione) ora propongono di investire 17 miliardi di euro per la crescita demografica. Questo per limitarsi ai due partiti usciti vincenti della tornata elettorale del 4 marzo. Ed ora veniamo al problema più macroscopico: il lacerante contrasto fra la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e la politica italiana che criminalizza le ong, sequestra le navi che soccorrono i naufraghi e promuove respingimenti collettivi (vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani) facendo accordi con la guardia costiera libica che rinchiude i migranti in lager dove i diritti umani non esistono. Il sogno di una Europa unita è naufragato in una unione di mercati, dove le merci possono circolare liberamente ma non altrettanto le persone.

Il Vecchio continente è diventato una specie di fortezza, impermeabile ai migranti. Per blindare i confini spagnoli il socialista Zapatero dette alla guardia civil l’ordine di sparare contro chi arrivava “clandestinamente” Africa scappando da guerre e fame. Accadeva nei primi anni Novanta. Nel secondo decennio degli anni Duemila, Orban e i Paesi del gruppo di Visegrád hanno costruito muri circondati da fili spinati. Come se non bastasse ora arriva la decisione europea di rinnovare l’intesa con la Turchia, pagando perché blocchi i profughi siriani. Questo proprio mentre il presidente Erdogan rilancia l’offensiva dell’esercito turco contro l’enclave curda di Afrin, nel nord della Siria. Noi pensiamo che non sia né accettabile né utile affrontare la questione epocale dei migranti con politiche securitarie, xenofobe, che negano diritti umani universali. Sui danni prodotti dalla legge Minniti Orlando (sulla strada già aperta dalla Bossi Fini) abbiamo scritto molto. Ma la cronaca ci sorprende ogni giorno, andando oltre ogni immaginazione. Dopo politiche di respingimenti al motto di «aiutiamoli a casa loro», dopo aver cancellato il diritto d’appello per i richiedenti asilo, l’Italia rilancia una campagna denigratoria delle ong («taxi del mare» secondo Di Maio) colpevoli di “estremismo umanitario” perché soccorrono chi rischia di affogare.

La nave spagnola Proactiva open arms, ormeggiata nel porto di Pozzallo, è stata posta sotto sequestro, dopo aver salvato 218 persone. Dai vertici della ong accusati di «associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» si leva una voce inconfutabile: «Salvare in mare è un dovere». Non possiamo assistere inerti a un nuovo tentativo di introdurre un inaccettabile “delitto di solidarietà”. La sinistra che si batte da sempre per i diritti sociali cosa aspetta a fare propria, fino in fondo, anche la battaglia per i diritti umani?

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Stefano Allievi: L’aiuto specifico ai migranti genera lotte tra poveri, serve un welfare universale

TOPSHOT - Thousands of migrants and refugees walk through the port of Piraeus after arriving from the Greek islands of Lesbos and Chios on February 1, 2016. On average, more than 1,900 people have arrived each day this month on Greek islands on unseaworthy boats from Turkey, according to the UN, which put the total of new arrivals in January at more than 50,000. More than 31,000 people have been registered on Lesbos during that time, the UN added. / AFP / LOUISA GOULIAMAKI (Photo credit should read LOUISA GOULIAMAKI/AFP/Getty Images)

Segen era eritreo, aveva 22 anni e l’11 marzo è morto di fame poco dopo essere sbarcato nel porto di Pozzallo in Sicilia insieme ad altri 90 migranti recuperati in mare dalla nave della ong spagnola Proactiva open arms, una delle poche rimaste a soccorrere i migranti al largo delle coste della Libia. Secondo le testimonianze raccolte durante il salvataggio, il giovane in fuga dalla dittatura sanguinaria di Afewerki era stato segregato per 19 mesi in un lager libico. I medici dell’ospedale di Modica dove è stato trasportato d’urgenza non hanno potuto far nulla contro le conseguenze della malnutrizione che ne aveva compromesso irrimediabilmente lo stato psicofisico. Benoît Duclos è una guida alpina e fa parte dei volontari di Refuge solidaire, un gruppo che da mesi opera sul confine italo-francese per soccorrere i migranti che, respinti a Ventimiglia dalla polizia di Macron, provano ad entrare in Francia attraverso le Alpi piemontesi. Il 10 marzo è stato bloccato dai gendarmi in territorio francese mentre correva in auto verso un ospedale per consentire a una donna nigeriana in preda alle doglie di partorire. L’aveva soccorsa poco prima insieme ai suoi due figli di due e quattro anni mentre arrancavano in mezzo alla neve a 1900 metri di quota. Inflessibili, i poliziotti hanno impedito a Duclos di proseguire e la donna ha partorito in macchina. Il 14 marzo alla guida alpina è stato contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Rischia 5 anni di carcere. Sono solo alcune tra le ultime notizie di questo tipo in un 2018 che si concluderà, il 10 dicembre prossimo, con le celebrazioni dei 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sintomi di un fallimento sul fronte “umanitario” da parte di Paesi fondatori di quell’Europa che da sempre si proclama culla della civiltà e paladina dei diritti umani anche in nome del motto “liberté, egalité, fraternité” che ispira la Dichiarazione Onu. Un motto “rivoluzionario” che evidentemente rispetto ai migranti è stato ormai messo fra parentesi. E quanto al nostro Paese, considerando la vittoria elettorale di formazioni nazionaliste come il Movimento 5 stelle e xenofobe come la Lega di Salvini, difficilmente assisteremo a breve a una inversione di tendenza. Per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto e per individuare delle soluzioni ci siamo rivolti a Stefano Allievi, docente di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova, autore di numerosi saggi sul tema, compreso l’ultimo appena uscito per Laterza, Immigrazione. Cambiare tutto.

«Partirei da una semplice osservazione. Fino al 4 marzo le discussioni politiche e le prime pagine dei giornali erano occupate ossessivamente dai problemi collegati all’immigrazione. I partiti – con in testa quelli che hanno vinto le elezioni – sono stati una fonte continua di slogan aggressivi, “soluzioni definitive” o spacciate come tali. Dal 5 marzo, invece, più nulla. L’immigrazione – prosegue Allievi – è scomparsa dai radar della politica e dall’orizzonte mediatico, nonostante le notizie, anche di rilievo, non manchino. Eppure proprio questo argomento è stato decisivo nello spostare una grande massa di voti», dal centro sinistra verso destra. Secondo lo studioso, che da decenni si occupa di migrazioni in Europa, il fatto che non se ne parli più è la prova che l’interesse «sta nel sollevare il problema, non nel trovare soluzioni». Perché «quello che succede, in realtà, è che chi più è riuscito a canalizzare le frustrazioni e le proteste, alcune anche fondate, dell’elettorato rispetto alla gestione del fenomeno migratorio, ha interesse a che il problema persista. Tanto il capro espiatorio non vota».

Negli ultimi anni la “sensibilità” degli italiani…..

L’intervista di Federico Tulli al sociologo Stefano Allievi prosegue su Left in edicola


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Zucca, Regeni e la paura che fa la verità

“In nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita chiediamo rispetto. Sono oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della polizia ci sono dei torturatori”. A parlare così è il super capo della Polizia Franco Gabrielli che ha risposto al procuratore generale di Genova Enrico Zucca. “Arditi parallelismi e infamanti accuse“, ha tuonato Gabrielli.

E sbaglia. E di grosso. E come al solito quando si innesca il cameratismo in difesa delle forze dell’ordine si utilizza il solito patetico giochetto di difendere “l’onore” del corpo di polizia fingendo di non avere capito i termini della discussione finché in modo abbastanza patetico si finisce per chiamare accusa una verità. Enrico Zucca ha detto una verità sacrosanta (tra l’altro da persona informata sui fatti essendo stato pm proprio nel processo sulle violenze del G8 di Genova): sulle torture (sì, torture) avvenute nel 2001 per mano dei poliziotti ci sono stati depistaggi, insabbiamenti, reticenze istituzionali e alcuni dei (pochissimi) condannati sono addirittura stati promossi a ruoli di prim’ordine. Zucca non ha puntato il dito contro la Polizia: ha ricordato i torturatori.

E se è vero che era prevedibile che si muovesse il Csm viene da chiedersi cosa abbia da studiare il ministro Orlando (che ha chiesto l’acquisizione delle dichiarazioni di Zucca) che non abbia già scritto l’Europa che ha parlato, in riferimento ai fatti di Genova, di “sospensione della democrazia”. La stessa democrazia mancante (in questo caso egiziana) che da mesi tiene in stallo la giustizia che ci spetterebbe sulla morte di Giulio Regeni: nonostante le promesse e le chiacchiere nulla si muova sull’omicidio del giovane studente italiano e anche in questo caso una coltre di omertà protegge le responsabilità. Non ci voleva il procuratore Zucca per capire quanto siano affini le due situazioni, legate a doppio filo dalla difficoltà che uno Stato abbia il pudore di processare se stesso.

Del resto la verità ha sempre fatto paura al potere che ha bisogno di fare il prepotente perché non riesce a governare secondo le regole. Che sia italiano, egiziano o che parli una lingua qualsiasi del mondo. E i valorosi poliziotti citati fuori luogo da Gabrielli (“chi ha dato il sangue”, “chi ha dato la vita”) sarebbero stati i primi a prendere a calci nel culo i colleghi omertosi.

Buon giovedì.

Caso Skripal e 007, il gioco delle parti tra Mosca e Londra

epa06630922 A woman waits outside the Russian Consulate in New York, New York, USA, 26 March 2018. Reports on 26 March 2018 state the US will expel 60 Russian diplomats as a reaction to the poisoning of Russian former spy Sergei Skripal and his daughter Yulia in Britain. EPA/PETER FOLEY

Salisbury, 4 marzo, un tranquillo pomeriggio domenicale come tanti, in un affollato centro commerciale. Un uomo e una giovane donna giacciono senza dar segni di vita. Lui è Sergey Skripal, ex agente dei servizi russi, lei sua figlia Yulia. Sono stati avvelenati da una sostanza chimica e la mente va subito al caso Alexander Litvinenko, l’ex spia russa uccisa con il Polonio-210 nel 2006 sempre in Gran Bretagna. A Downing street il sospetto che si tratti di un attentato organizzato dal Fsb russo diventa, nel giro di poche ore, certezza. Inizia una crisi politica tra Londra e Mosca fatta di espulsioni di diplomatici e roventi accuse e controaccuse. Una crisi che potrebbe avere conseguenze ancora inimmaginabili e condurre al pericoloso inasprimento della nuova “guerra fredda” tra Russia e Occidente.

La stampa del Regno Unito, soprattutto quella popolare, da sempre attratta dalle “spy-story”, si getta sulla vicenda a corpo morto e vengono proposte le ipotesi più bizzarre. Ci troviamo di fronte alla vendetta dei servizi russi e ad un avvertimento a tutti gli agenti che volessero passare al “nemico”, oppure ad una montatura costruita contro il regime di Putin al fine di isolarlo ancora di più dalla comunità internazionale? Le realtà dei rapporti diplomatici e d’intelligence internazionali sono al contempo più complesse e paradossali di qualsiasi romanzo di Le Carré o di Fleming, la cui trama non è spesso apprezzata dai palati poco fini. Theresa May ostenta sicurezza: il progetto “Noviciok”, da cui sarebbe stato stato prodotto il gas nervino che ha colpito Skripal, arriva da Mosca. Ma le prove languono e i dubbi aumentano. Del resto, non fu proprio la Gran Bretagna, nel 2003, a sostenere a spada tratta la tesi americana, dimostratasi poi falsa, che in Iraq esistevano armi di distruzione di massa? Il gas nervino può essere stato prodotto in Russia, è vero, ma anche in qualsiasi altra parte del mondo.

Marya Zacharova, braccio destro del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, in una intervista alla tv Russia24 ha rivelato che «negli anni 90 un gran numero di scienziati sovietici si trasferirono in Occidente, portando con sé le tecnologie che utilizzavano e mettendole poi a servizio di altri Paesi, principalmente occidentali». Paesi che ha anche elencato: Usa, Svezia, Repubblica Ceca, Regno Unito, Slovacchia. Ipotesi fantasiosa? Non più di quella della ritorsione russa a distanza di 8 anni dallo scambio dell’ex-agente con alcune spie russe.

Con il caso Litvinenko, del resto, ci sono importanti differenze. Litvinenko in Russia era un ufficiale specializzato nella lotta alla criminalità organizzata e quando chiese asilo alla Gran Bretagna, si legò subito a Boris Berezvsky. Quest’ultimo, con l’aiuto della mafia moscovita, era diventato nell’era Eltsin uno degli oligarchi più potenti assieme al suo socio d’affari Roman Abramovich (anche lui ora residente a Londra), proprietario di un impero che andava dall’acciaio al petrolio, dal controllo della compagnia di bandiera Aeroflot a quello del primo canale televisivo russo Ort. Fu lui a favorire l’ascesa di Putin al Cremlino, creando dal nulla l’immagine pubblica del futuro presidente. Proprio con Berezovsky, caduto in disgrazia e diventato acerrimo nemico di Putin, Litvinenko pubblicò anche un libro in cui si accusavano i servizi russi e Putin di aver fatto esplodere a Mosca nel 1999 delle bombe all’interno di edifici popolari (di cui venne accusata la guerriglia cecena) che costarono la vita a oltre 300 persone. Accuse forti e mai provate come quella del resto che Romano Prodi fosse «uomo del Cremlino». Tuttavia le informazioni che si portava dietro, lo rendevano un’obiettivo plausibile del Fsb russa.

La storia di Skripal è diversa da quella di Litvinenko, essendo questi un agente del servizi dell’intelligence militare russa arruolato dal Mi6 subito dopo il crollo dell’Urss. Scoperto e finito in prigione, venne scambiato nel 2010 con alcune spie russe tra cui l’avvenente Anna Champan (nom de plume di Anna Kushchyenko) che poi tornata in patria è diventata star dei serial televisivi russi. Una volta in Gran Bretagna, Skripal aveva ormai poco da dire ai servizi inglesi: faceva la vita del pensionato mentre la figlia si muoveva liberamente tra Mosca e Londra. E allora perché ucciderlo con un’arma tanto sofisticata e alla vigilia delle elezione presidenziali in Russia? Tutto può essere plausibile, ma ogni ipotesi deve superare il test della logica.

Mary Dejevsky sull’Indipendent ha inoltre fatto recentemente notare che: «Esiste un codice d’onore che presiede da sempre gli scambi di spie. Gli agenti scambiati diventano responsabilità dei Paesi per cui spiavano e lasciati in pace dal Paese che hanno tradito. Ed è abbastanza impensabile che la Russia abbia violato questa legge non scritta… ex spie come Oleg Kalugin, il più noto degli agenti del Kgb fuggito negli Usa e Oleg Gordievsky in Gran Bretagna, hanno entrambi continuato a parlare della loro ex attività senza subire alcuna conseguenza».

A rendere ancora di più misteriosa la vicenda è arrivato il 12 marzo scorso il suicidio di Nikolay Glushkov, socio in affari di Boris Berezovsky negli anni di Eltsin ed esule, anche lui nel crocevia di Londra. Quello che lascia perplessi però è che un acerrimo nemico di Putin – al punto di dichiarare anche recentemente in un’intervista di «sentirsi in pericolo di vita» – muoia improvvisamente in circostanze drammatiche, ma Scotland Yard affermi, già il giorno successivo, e con assoluta certezza, che non ci sia alcun legame tra i due casi. Nella complessa matassa dei rapporti tra Russia e Gran Bretagna, a sorpresa, 4 giorni dopo è proprio la procura russa ad aprire un’inchiesta sul caso Glushkov, ma per omicidio. Accusati e accusatori si rovesciano in un gioco delle parti in cui diventa difficile intuire chi siano le vittime e chi i colpevoli. “Omicidio” è la stessa ipotesi che a suo tempo nelle stanze del Cremlino fecero sulla morte proprio di Berezovsky 5 anni fa: infatti la dinamica e la tecnica del suicidio dell’ex-oligarca non ha mai convinto Mosca. Anzi Putin rivelò, poco dopo la sua morte, di aver ricevuto due lettere da Berezovky in cui gli chiedeva perdono e di poter tornare a casa.

E in una intervista concessa a Komsomolskaya pravda di tre anni fa, Sergey Sokolov, il capo della scorta di Berezovsky, sostenne di essere convinto che «quello era stato un lavoro dei servizi speciali occidentali… per me è un enigma risolto. Boris Abramovich fu ucciso solo perché aveva certe informazioni segrete e stava per rivelarle. Questa non è la mia congettura. Lo so con assolta certezza». Quali potessero essere queste rivelazioni non si è mai saputo, ma ciò che è certo che l’ex-oligarca sapeva molto di molti. Sono già 12 le persone morte in circostanze misteriose dal 2004 ad oggi in Gran Bretagna che avevano una biografia che portava dritta a Mosca e ciò permette ragionevolmente di pensare la vicenda Skripal non possa essere ricondotta solo a una “spy-story”.

È stato del resto il leader laburista Jeremy Corbyn intervenendo al Parlamento inglese, a sottolineare con coraggio che Downing street per ora non ha mostrato alcuna evidenza del coinvolgimento del governo russo nel caso Skripal mentre non si può escludere che dietro l’avvelenamento dell’ex-agente ci possano essere mafie e affari sporchi del Vecchio continente degli ultimi venti, trenta anni. Una linea sostenuta anche dalla Linke tedesca di Katja Kipping volta ad evitare che «si giunga ad affrettate conclusioni e a reazioni isteriche».
In un’intervista alla Bbc Corbyn ha anche dichiarato di non approvare «il governo russo su questioni come i diritti umani, delle persone Lgbt, sulla Cecenia, su gran parte della sua politica estera. Ma significa forse che non dobbiamo parlarci? Esattamente il contrario».

Un atteggiamento da statista serio della sinistra. Il cinismo con cui Putin ha lasciato mano libera al massacro di Afrin da parte delle truppe di Erdogan, non lascia dubbi sulla figura del presidente russo. L’autoritarismo con cui governa il Paese a colpi di scioglimento di sindacati, intimidazione degli oppositori, violazione dei diritti umani e corruzione, sono anch’essi noti. Ma Putin non può diventare il capro espiatorio di tutto ciò che avviene sullo scacchiere internazionale, pena rilasciare una patente di autorevolezza e di cristallina democraticità a molti attori della politica occidentale, che proprio non la meritano.

Diodato: «Con la musica denunciamo il dramma di Taranto»

Diodato, durante il concerto per presentare "Senza mentire - Insieme per AISM" un progetto degli STAG per l'Associazione Italiana Sclerosi Multipla, Roma, 11 maggio 2015. ANSA/GIORGIO ONORATI

Tra gli artisti più interessanti del panorama musicale italiano spicca un cantautore che, fin dai suoi esordi, si contraddistingue per spontaneità e versatilità. Di recente, lo abbiamo apprezzato al Festival della canzone italiana al fianco di Roy Paci. Antonio Diodato, solo Diodato come artista, nato ad Aosta, trasferitosi poi a Taranto, dopo una breve fuga in Nord Europa, studia e vive a Roma, poi va a Milano. Tre album al suo attivo, dai titoli evocativi: E forse sono pazzo, A ritrovar bellezza, Cosa siamo diventati. Tanti singoli, come il recente “Cretino che sei”, o lo stesso pezzo sanremese: estemporanee messe a fuoco di un suo vivere il presente, personale o professionale che sia. Che sia una ballata, un pezzo pop (“Babilonia”, “Ubriaco”), un altro più sottolineato dalla musica elettronica, o che ammicca alla dance, l’artista da sempre sperimenta, incontra colleghi, allaccia collaborazioni e rivisita pezzi magistrali del passato, come “Amore che vieni, amore che vai” in chiave rock, con cui ha vinto nel 2014, appunto, il Premio De André. Sempre in quell’anno ha vinto l’Mtv Italia Award, nella categoria “Best New Generation”, con il brano “Se solo avessi un altro”. Da tre anni è direttore artistico dell’“Uno maggio”, la festa tarantina del giorno dedicato ai lavoratori, che dal 2013 è attenta alle popolazioni del Sud, comunicando tutto ciò che non va da quelle parti, a iniziare dall’Ilva. Ironico, riflessivo, incline a sperimentare cose nuove, ma sempre attento al mondo che lo circonda, l’artista “nomade”, come si definisce lui, è nel bel mezzo di un tour: da Bolzano, a Treviso, Milano, Roma (il 7 aprile). Diodato ci racconta di sé, di quello che cerca nella musica, del suo passato, della sua terra, dei cambiamenti, ammettendo «Ho bisogno di sbilanciarmi per rimettermi in moto».

Nel gennaio 2017 usciva Cosa siamo diventati, poi, dopo un anno, Sanremo con “Adesso”: come mai ti è venuta voglia di esibirti all’Ariston?
Quando ho scritto il brano, Sanremo non era nei miei pensieri, anzi stavo programmando altre cose. Mi ero però reso conto che un arrangiamento di fiati ci sarebbe stato bene, ovviamente per collaborazioni passate e stima artistica, ho sentito Roy (che stimo molto!), abbiamo ragionato sull’arrangiamento e abbiamo pensato a questa possibilità, al fatto che potesse essere una cosa bella e divertente. Infatti, ci siamo divertiti.

Il brano è una sorta di grido, di esortazione, grazie anche a un crescendo musicale: qual è il messaggio?
È una riflessione sui timori, sulle paure, che non ci permettono di vivere pienamente la vita. Come la paura del futuro o uno sguardo sempre proiettato al passato che non ti fa essere presente a te stesso. Mi viene in mente quella famosa frase di John Lennon, che dice «La vita è ciò che ti accade quando sei intento a fare altri piani», è la considerazione del vivere l’adesso perché il futuro e il passato sono nostre proiezioni. Volevo solo ricordare a me stesso, ed è il motivo per cui lo ripeto, anche in maniera ossessiva all’interno del brano, che tutti i momenti migliori sono sempre arrivati anche da momenti molto semplici però vissuti pienamente.

Però, è una situazione abbastanza comune…
Infatti, la mia è una considerazione personale che può essere facilmente allargata alla società. In questo periodo siamo distratti, siamo bombardati anzi, dalle informazioni. La tecnologia non ci aiuta molto a essere, uso in termine tecnologico, “connessi” con il nostro presente, veniamo distratti. Ma questo non è un brano contro la tecnologia o contro i social, come qualcuno ha detto, anzi, riconosco delle grandi potenzialità in questi mezzi, che ti permettono anche di raccontarti e anche, volendo, di rimanere in contatto, ma a volte se ne fa un uso malato. Dobbiamo educarci a un utilizzo più consapevole.

Nella tua discografia alterni generi, stili, oppure ti presti a collaborazioni con illustri colleghi o rivisiti brani di grandi autori, tra cui De Andrè, ma anche “Piove” di Modugno. Che tipo di ricerca porti avanti? 
Mi sono reso conto che, in primis, voglio sempre farmi rappresentare il più possibile dalla mia musica. Ci tengo a raccontare un po’ tutto: il mio aspetto più cinico e disincantato, anche quello passionale, perché sono tutti aspetti che fanno parte di me, del mio approccio alle cose. Voglio che la musica rispecchi questa mia anima; da sempre, cerco di non levigare gli spigoli, di essere il più sincero possibile, che a volte può spiazzare l’ascoltatore, che ti sente prima in un modo poi in un altro, però siamo un po’ tutti fatti così, non siamo una cosa sola. Devo dire che le collaborazioni, gli incontri sono incontri umani con l’altra persona che è lo stimolo, il motore principale che ti permette di scoprire anche qualcosa di te stesso. Io parlo sempre di una messa a fuoco, di un’analisi costante: utilizzo la musica per imparare a conoscermi meglio.

Tu sei vissuto a Taranto, città martoriata dall’inquinamento e dal problema dell’Ilva, e proprio lì sei tra i promotori della manifestazione musicale dell’ “Uno Maggio”, della quale sei direttore artistico da tre anni.
Questa manifestazione è un piccolo grande miracolo che si è realizzato: partivamo dal nulla, dal sogno di poter portare una manifestazione così importante in una città come Taranto. Soprattutto, si partiva dal fatto che non avevamo nessun tipo di appoggio politico, di sindacato, di lobby, ma solo il coinvolgimento umano di artisti e della popolazione. Negli anni è stato fatto un lavoro importante, cercando di dare in mano alle persone un grande megafono per poter denunciare delle situazioni insostenibili e inaccettabili per un Paese come il nostro. Questo grande megafono è stato fornito dalla musica, che porta poi un’attenzione mediatica nella città di Taranto, dando visibilità a tante altre realtà come i No Tav, No Triv o per denunciare cosa accadeva nella cosiddetta Terra dei fuochi.

In che condizioni versa la città per la presenza dell’acciaieria?
È una città in cui tutto è stato studiato con molta attenzione perché noi tarantini (io mi considero a tutti gli effetti tarantino perché lì ho fatto le scuole, fino alle superiori, che poi sono quelle che ti formano) cresciamo con questa monocultura dell’acciaio. Dico che è stata creata la non alternativa, un vero e proprio ricatto occupazionale, che non ti facesse più pensare al fatto che tu andassi lì a morire o a uccidere, con il tuo lavoro, una città intera, generazioni intere, ma fossi costretto a pensare che quella era l’unica possibilità. Parliamo di migliaia di morti, di una catastrofe vera e propria! A malincuore, dovevi andare a lavorare per permettere ai tuoi figli di vivere in maniera dignitosa; in realtà, quel lavoro stava uccidendo anche il futuro, proprio inteso a tutti gli effetti perché tanti bambini si ammalano e muoiono. Loro sono i più colpiti da questo disastro.

Quali sono gli sforzi fatti per sostenere la causa del risanamento ambientale?
Devo dire che l’“Uno Maggio”, in qualche modo, è uno sguardo nuovo, è voler mostrare a una città e a una popolazione che un’alternativa è possibile, che una città così bella può accendersi e vivere di altro, ed è quello che è successo. Quest’anno c’è stato un boom turistico, e un po’ è dovuto a quello che stiamo facendo in questi anni. La manifestazione, infatti, porta tanta gente che non è tarantina e la gente si rende conto degli aspetti positivi, delle potenzialità della città, così ci torna d’estate. Ti rendi conto che c’è un mare caraibico, anzi – sorride – pugliese.

A 18 anni sei andato a Stoccolma. Che cosa ti ha dato quell’esperienza?
Un giorno sono partito per andare a trovare amici musicisti in Svezia. Sono  tornato dopo aver imparato tanto da loro, che lavoravano per ore ed ore, assiduamente e con una passione incredibile. Sto parlando di Sebastian Ingrosso e Steve Angello, che poi hanno riscritto la storia della dance mondiale. È stato un grande insegnamento vederli lavorare incendiati dalla loro passione. Sono tornato in Italia convinto di ciò che volevo fare nella mia vita, ho imparato una lezione importante. Ammetto poi che sono anche Paesi, quelli del Nord Europa, che ti permettono di fare l’artista e non di vergognarti di seguire le tue passioni. In Italia un artista è visto ancora come un sognatore, come chi non ha voglia di lavorare, non come un valore importante, una spinta per la società.

Stai pensando al prossimo disco?
Mi sto divertendo molto, e qui torniamo al lato positivo della tecnologia, che ti permette di raccontarti immediatamente. Ho fatto uscire pochi mesi fa un singolo che si intitolava “Cretino che sei”, che raccontava esattamente ciò che stavo vivendo in quel momento lì. Stessa cosa è accaduto con “Adesso”. Questa idea di far uscire i brani mi piace molto, un po’ come avveniva  negli anni Sessanta quando si facevano uscire tanti singoli, che poi venivano raccolti all’interno di un album. Questa idea ha cominciato ad affascinarmi. Non vorrei fermarmi e chiudermi in uno studio per produrre un album ma vorrei raccontarmi brano dopo brano per poi racchiudere tutto in un racconto. Nella mia testa c’è un album, che uscirà tra poco tempo, forse a fine anno.

Salute e inquinamento: ecco perché non basta mettere al bando le auto diesel

epa06568203 Environmentalists with posters stand in front of the court building at the start of a hearing at the Federal Administrative Court prior to the judges' decision on banning Diesel engine powered vehicles from German cities when air pollution exceeds the permissible limits, in Leipzig, Germany, 27 February 2018. The court ruled that banning Diesel engine powered vehicles from innercity traffic in general is permissible but asked the cities to review their air quality requirements for proportionality. In 2017, some 70 German cities exceeded the EU limit for nitrogen oxide, which has been in force since 2010. Placard reads: 'Diesel Danger to the Health' EPA/MATTHIAS RIETSCHEL

Il sindaco di Parigi le metterà al bando entro il 2025. Così faranno i suoi colleghi di Città del Messico, Atene e Madrid. Di recente, proprio mentre era nella capitale messicana, Virginia Raggi ha promesso che Roma le anticiperà tutte: via i diesel a partire dal 2024. Pochi giorni prima la corte costituzionale della Germania ha sostenuto che, a prescindere della indicazioni del governo, tutti i sindaci delle città tedesche potranno emanare il bando, a partire dal 2025.
Pare proprio che si stia attrezzando anche la Cina a una completa trasmutazione del proprio parco auto, chi vorrà circolare nel Paese del Dragone a partire dal 2030 non potrà avere un’automobile che brucia combustibili fossili, ma dovrà munirsi di un’auto con motore elettrico.
Capita l’antifona, molte cause automobilistiche, Fiat compresa, hanno iniziato a puntare sull’automobile del futuro, magari passando per una forma ibrida.

Il motivo di questa rivoluzione dei motori è, almeno in apparenza, semplice: le auto diesel in particolare e quelle con motore che brucia combustibili fossili più in generale inquinano, mentre le auto elettriche promettono di essere più pulite.
Sulla prima parte dell’affermazione non ci sono dubbi. Le auto diesel inquinano. E, come si è visto negli ultimi anni, anche le case automobilistiche tecnologicamente più avanzate fanno fatica a contenere le emissioni sotto i parametri stabiliti dall’Europa e dall’Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (quella contro cui si sta battendo con veemenza Donald Trump).
Sulla seconda parte dell’affermazione bisogna fare qualche distinguo. Che non salva in nulla le diesel, ma impone vincoli stringenti alle elettriche.

Dobbiamo, infatti, distinguere due tipi di inquinamento cui possono concorrere le automobili. Il primo è quello locale. E può essere micidiale. Le auto diesel, per esempio, producono quantità notevoli di ossidi di azoto e particelle sottili. Come documenta Carla Ancona, ricercatrice del Dipartimento di Epidemiologia Ssr Lazio dell’Asl 1 di Roma, grande esperta di questo particolare aspetto del rapporto tra ambiente e salute, nel 2005 la sola esposizione agli ossidi di azoto in Italia ha ucciso oltre 23mila persone, cui bisogna aggiungere i quasi 35mila uccisi dall’esposizione alla cosiddette Pm 2,5, particelle molto sottili.
L’Italia è particolarmente esposta a questo inquinamento. Mentre la pianura Padana è l’area in assoluto a maggior rischio d’Europa. Molto è stato fatto negli ultimi 13 anni per ridurre l’inquinamento locale. E tra i vari strumenti utilizzati c’è stato anche quello di imporre precisi limiti di emissioni a ciascun auto. Quelle con motore diesel trovano più difficoltà delle altre a rispettarli, questi limiti.
Anche il nostro Paese ha fatto molto, come documenta Carla Ancona. Ma non abbastanza portare l’inquinamento locale sotto i limiti europei. Per questo la Commissione di Bruxelles minaccia un giorno sì e l’altro pure di deferirci alla Corte di Giustizia dell’Unione. In Italia si è meno esposti all’inquinamento da ossido di azoto a da particelle sottili che nel 2005, ma si continua a morire in maniera inaccettabile ed evitabile.

Poiché la maggior parte dei morti si registra in ambiente urbano, il bando delle auto più inquinanti, le diesel, è un passaggio non risolutivo, ma certo necessario.
Il secondo tipo di inquinamento, non è locale, ma globale. Non riguarda la salute umana – non in maniera diretta, almeno – ma i cambiamenti climatici a scala planetaria. La principale fonte antropica di alterazione del clima è un gas, l’anidride carbonica, prodotta dall’uso dei combustibili fossili: carbone, petrolio, metano. Il settore traffico è responsabile di un terzo delle emissioni. Per questo tanto gli esperti quanto le istituzione politiche che cercano di prevenirli, i cambiamenti climatici, pensano al totale phase out dei combustibili fossili entro il 2050 o non molto oltre. E quindi pensano ad auto che si muovono con una diversa alimentazione.
Anche per questa ragione, dunque, non c’è dubbio alcuno: in tempi rapidi le auto diesel, che bruciano combustibili fossili, vanno messe al bando. E non solo in città.

Resta il problema di come sostituirle. La risposta alla moda, lo abbiamo detto, ora è: con le auto elettriche. Già, ma è la risposta giusta? Dipende. I fattori in gioco sono tre. E le elettriche, per ora, ne superano uno solo, anche se sono potenzialmente in grado di superare pure gli altri due.
Il primo fattore riguarda l’inquinamento locale: da ossidi di azoto e da particelle sottili, in ambiente urbano. Aggiungeteci pure il rumore, un fattore inquinante locale troppo spesso ignorato. Non c’è dubbio alcuno: con i motori elettrici tutte queste tre forme di inquinamento vengono radicalmente abbattuti. Il che significa che molti decessi evitabili potrebbero essere, per l’appunto, evitati.

Ma … c’è un ma. Anzi, un doppio, ma. E riguarda la produzione di elettricità. Come e dove la ricaviamo l’energia elettrica per alimentare le auto, appunto, elettriche? Allo stato attuale, la ricaviamo soprattutto da centrali a combustibili fossili: centrali a metano, a petrolio o addirittura a carbone.
Se cambiassimo per intero il parco macchine attuale con uno completamente elettrico, non faremmo altro che trasportare una parte notevole dell’inquinamento dalle città (cosa buona e giusta) fuori dalle città, dove insistono le centrali (cosa né buona né giusta). Dunque, la soluzione del problema inquinamento locale sarebbe sì importante, ma comunque parziale.
Quanto all’inquinamento globale, il problema resterebbe del tutto irrisolto. Perché l’anidride carbonica va nella stratosfera e circola liberamente intorno al mondo. Dunque per i cambiamenti del clima la fonte: sia essa la città o una centrale in periferia, è del tutto indifferente.

Allo stato attuale le auto elettriche danno poco o nulla aiuto alla lotta ai cambiamenti del clima. Prova ne sia il recente rapporto, “Comparative Environmental Life Cycle Assessment of Conventional and Electric Vehicles”, pubblicato sul Journal of Industrial Ecology secondo cui allo stato attuale e considerando l’intero ciclo di vita di un’automobile, solo in sei paesi – Francia, Svezia, Islanda, Paraguay e Brasile – oggi è ecologicamente vantaggioso, per il contrasto ai cambiamenti del clima, usare auto elettriche, grazie a emissioni contenute entro i 90 grammi di anidride carbonica per chilometro. In Italia, dove le auto elettriche emettono 170 grammi del gas serra per chilometro, non c’è sostanziale differenza. Mentre in Cina (258 g/km) o in India (370 g/km) sono addirittura controproducenti. Per una ragione molto semplice, in Cina la maggior parte della produzione di energia elettrica è ancora dovuta a centrali a carbone, la peggiore fonte dal punto di vista dei cambiamenti climatici. In Cina come in India, dunque, l’introduzione delle auto elettriche può contribuire a disinquinare un po’ le città, ma non tanto il Paese nel suo complesso e, ancor meno, può aiutare il Dragone nella prevenzione dell’effetto serra planetario.

Ecco perché i sindaci di Parigi, Atene, Madrid, Città del Messico, Roma e i loro colleghi tedeschi cui la corte costituzionale ha affidato nuove responsabilità possono meritoriamente a mettere al bando le auto diesel. Ma perché la scelta abbia un significato reale e globale, i governi devono effettuare a loro volta una scelta precisa. Anzi, due.
La prima riguarda la produzione di energia elettrica. Bisogna mettere progressivamente al bando le centrali a combustibili fossili e impiantare nuove centrali, non necessariamente mastodontiche (anzi) a energia rinnovabile: solare, eolica, mareale o, con molti limiti, a biomasse. Ma ogni fonte energetica richiede un prezzo, piccolo o grande che sia.

E allora ecco la seconda scelta che dovrebbero compiere i governi, la migliore e la più efficace: promuovere la riduzione del parco auto. Se tutti i 7,5 miliardi di abitanti della Terra volessero e si dotassero di un’auto, fosse anche elettrica, i problemi ecologici – e non solo ecologici – sarebbero enormi. Occorre trovare un’alternativa all’auto per spostarsi. E questa alternativa non può che essere quella di sviluppare il servizio pubblico di trasporto.

Ungheria, il premier Orbán contro le Nazioni unite: «Non diventeremo un Paese per migranti»

epa06605838 Hungarian Prime Minister Viktor Orban arrives on the stage to address the crowd celebrating the national holiday, the 170th anniversary of the outbreak of the 1848 revolution and war of independence against the Habsburg rule in the square in front of the Parliament building in Budapest, Hungary, 15 March 2018. EPA/Tamas Soki HUNGARY OUT

Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite, composto da esperti indipendenti, ha messo l’Ungheria sotto osservazione a poche settimane dalle prossime elezioni nel Paese (che si terranno l’8 aprile, ndr) per valutare la violazione dei diritti civili e politici nel paese. Ma lo Stato di Orban ha risposto per l’ennesima volta nello stesso modo: non è un Paese per migranti. Budapest a Bruxelles ha difeso di nuovo la sua politica contro la migrazione, «perché è determinata a mantenere una società omogenea, cristiana».

A tre settimane dalle elezioni, Viktor Orban ha detto – in un comizio durante la campagna elettorale – che bisogna combattere contro «forze esterne, potenze internazionali» che vogliono introdurre con l’inganno una «migrazione massiva nel Paese». Il suo ministro degli Esteri Peter Szijjarto ha dichiarato che il governo è convinto «che il popolo ungherese abbia diritto a vivere una vita in sicurezza, senza paura delle atrocità del terrorismo».

«La triste esperienza» del 2015, quando l’Ungheria fu attraversata dalla rotta balcanica dei migranti in fuga dalle guerre in Medio Oriente, «non si ripeterà»: per Szijjarto «il governo ungherese non ha ammesso, né ammetterà nel futuro migranti illegali, noi ungheresi abbiamo vissuto gli ultimi mille anni in una società cristiana, omogenea, integrata e lo consideriamo inestimabile, le ong che insistono sulla tolleranza per la migrazione non sono state elette dal popolo ungherese».

In vista delle elezioni parlamentari dell’otto aprile, i manifesti blu del governo ungherese sono stati affissi da nord a sud del Paese. Sopra c’è solo questa scritta: «Le Nazioni unite vogliono accettare migranti su base quotidiana, l’Ungheria decide, non l’Onu!». La retorica anti-europeista e anti-migratoria su cui Orban sta basando la sua intera campagna elettorale preoccupa Human rights watch: «Non è una coincidenza che questi manifesti siano apparsi prima dell’otto aprile, il primo ministro ha continuato a ripetere che queste elezioni determineranno se “l’Ungheria rimarrà ungherese, o diventerà un Paese per migranti”. I giornalisti hanno riportato che il partito di governo dipinge i media e le ong come qualcosa che “deve essere fermato”. Chiunque verrà eletto l’otto aprile ha ponti da costruire. La campagna elettorale ungherese sta danneggiando il suo status di paese membro delle Nazioni unite e dell’Unione europea».