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Noi, il prodotto, Facebook e lo scandalo che non andrebbe sventolato a caso

epa06616485 Undated handout image released by Facebook showing the interior of their data center campus in Lulea, Sweden, 20 March 2018. A growing controversy in both the Great Britain and the US has raised questions about how Cambridge Analytica, a firm hired by US President Trump's 2016 election campaign, was able to gain access to private information on over more than 50 million Facebook users. EPA/FACEBOOK / HANDOUT EDITORIAL USE ONLY, NO SALES, MAY ONLY BE USED WHEN FEATURING FACEBOOK OR TO ILLUSTRATE AN ARTICLE ABOUT FACEBOOK HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Il caso Cambridge Analytica in Italia ha, come al solito, agitato la penna dei soloni di casa nostra che si eccitano ogni volta che intravedono all’orizzonte un complotto, una tragedia imminente e, meglio ancora, un “pericolo dal web” e così in queste ore è tutto uno sperticarsi sul dramma di “essere spiati”, “essere controllati” e “essere condizionati” in vista del voto.

Peccato che i “nostri dati rubati” che leggete un po’ dappertutto siano una bufala colossale: su Facebook (come su altri social) i nostri dati, le nostre preferenze, le nostre inclinazioni all’acquisto sono il prezzo che paghiamo per usufruire del servizio. Succede così anche su Google. Ma, udite udite, succede così anche con il nostro negoziante di fiducia che senza bisogno di sofisticati algoritmi ci prova a vendere ciò che sa potrebbe convergere con i nostri gusti. Noi cediamo a Facebook i nostri dati nel momento stesso della nostra iscrizione. Vi ricordate quando da giovani i nostri genitori ci invitavano a leggere bene tutto quello che firmavamo? Ecco. Semplice semplice.

Peccato anche che il trauma di “essere spiati” sia una mezza bugia. I dati degli utenti vengono profilati. La profilazione è (letterale da Wikipedia) “l’insieme di attività di raccolta ed elaborazione dei dati inerenti agli utenti di servizi (pubblici o privati, richiesti o forzosi) per suddividere l’utenza in gruppi di comportamento”.

E, in ultimo, peccato che la presunta “minaccia per la democrazia” sia una tecnica che esiste da decenni (anche fuori dai social, nel momento stesso in cui un leader politico assume il ruolo di agitatore di popolo utilizzando paure spesso non veritiere perché sa che funzionano su una parte consistente dell’elettorato) e non ci sono prove che alla fine funzioni.

Che Facebook sia un “campo di battaglia su cui gli Stati cercano di operare” (come dice Christopher Wylie, il whistleblower che ha scoperchiato il caso Cambridge Analytica) è un tema che dibattiamo da anni e che non parla del “pericolo della rete” ma ci dice soprattutto (ancora una volta) della manipolazione da parte della politica. Cominciare a scriverne bene sarebbe il primo passo.

Buon mercoledì

La Calabria che resiste e si reinventa con la cultura

Color festival Calabria

«Ci sono molti sognatori come noi e ci fanno sentire meno soli». A parlare è Vincenzo Costantino, direttore artistico di ALTrove, uno street art festival di livello europeo organizzato a Catanzaro. A cosa si riferisce? Alla rete di manifestazioni e associazioni nate negli ultimi 10 anni in Calabria. Agli sforzi di gruppi di calabresi giovani e meno giovani per restituire bellezza e dignità a luoghi che da troppo tempo vivevano nell’apatia. Vincenzo e Edoardo hanno immaginato di poter trasformare la piazza di Catanzaro in Parigi, di poter portare per i vicoli della città street artists da tutto il mondo. ALTrove, dal 2014, tenta una ridefinizione del “qui” attraverso le opere. Questo nome nasconde anche un’altra intenzione, non meno folle: «Abbiamo deciso di fare una cosa a Catanzaro come se fosse Parigi. Questo era l’obiettivo. Altrove è un concetto che porta con sé l’idea che tu debba per forza andare Altrove per trovare quello che stai cercando, quando invece questo Altrove è una cosa che qualcuno avrà costruito».

Uno dei risultati maggiori di questi due 30enni calabresi è stato portare l’artista spagnolo Gonzalo Borondo a Catanzaro dal 20 al 22 luglio 2017 per realizzare sulle vetrate del complesso monumentale San Giovanni un’opera composta da 73 figure che hanno cambiato l’immagine del paesaggio urbano catanzarese. La progettazione ha richiesto mesi e ci sono voluti due anni prima che il team di ALTrove potesse coinvolgere un’artista come Borondo. Tra gli altri nomi di rilievo di cono Jorge Pomar, un’artista di strada argentino, 108, un gigante dell’arte contemporanea, e 2501.

Il problema più grande per questo gruppo sono le difficoltà legate alla programmazione, ogni anno le date della manifestazione cambiano e spesso l’ufficialità arriva a pochi mesi dall’evento. L’edizione 2018 si terrà tra l’8 e il 9 agosto e i vicoli saranno di nuovo invasi dagli “stranieri”. Il secondo ostacolo è stata la diffidenza. «In piccolo centro di provincia le persone hanno un atteggiamento quasi di protezione rispetto al posto in cui abitano. Bisogna riabituare i cittadini al fatto di vivere una città viva. È necessario spiegargli che festival non è sinonimo della discesa dei barbari, non si tratta di un’invasione».

Lo stesso problema è stato incontrato da Giulio Vita e dalle sue scimmie. Dal 2013 un team di 10 persone, fiancheggiato da una ventina di volontari, regala ad Amantea, dal 7 all’11 agosto, un festival internazionale di cortometraggi, la guarimba. Il nome di questa manifestazione richiama il posto sicuro di ciascuno di noi, le proprie radici. Giulio è un trentenne calabro-venezuelano che nella riscoperta delle sue origini ha trovato anche la sua ispirazione. Ha restituito il cinema alle gente riportando la gente al cinema. E lo ha fatto in una piccola cittadina sul litorale tirrenico cosentino, un paese di meno di 15 mila abitanti in cui l’ultimo cinema aveva ormai chiuso i battenti da anni.

I guarimberos ogni anno spingono le persone ad entrare in contatto con i registi che arrivano da tutto il mondo. Le opere vengono selezionate con cura tra centinaia di proposte. La giuria guidata dal candidato all’Oscar, Nacho Vigalondo, è implacabile. Il festival ha portato in tour la sua esperienza in altri eventi a New York , Chicago, San Francisco, New Orleans , Ismailia (Egitto), Stepanavan (Armenia), Nicosia (Cipro), Málaga, Barcellona, Madrid, Formentera, Clermont-Ferrand (Francia). Ha portato integrazione. Ogni anno 30 illustratori di tutto il mondo realizzano le locandine della Guarimba. Si è creato uno scambio tra questo progetto e i giovani creativi.

L’associazione ha anche organizzato una biblioteca per i migranti del programma Sprar ospitati in città. Sono nati corsi di danza africana. Un programma per il cinema dei migranti. I giorni della manifestazioni sono sperimentazione, incontro e conoscenza.

Sì, ma non è tutto rose e fiori. Ci sono anche stati molti problemi in questi anni? «Certo, le comunicazioni con le istituzioni non sono sempre state semplici. La burocrazia poi è la nostra peggior nemica. Ci sono poi i disagi come la mancanza di acqua dalle nove di sera che come ricadono sulla comunità influenzano anche noi. E poi la diffidenza verso il nuovo, il diverso», racconta Giulio. I guarimberi non sono un caso isolato, a poche centinaia di chilometri da Amantea, a Lamezia Terme, è nato il Color Fest un appuntamento dedicato alla musica e all’arte indipendente, promosso dall’associazione culturale Che cosa sono le Nuvole. (Lo scorso anno invece hanno vinto un bando triennale della Regione e si sono aggiudicati un finanziamento da 150 mila euro in 3 anni. Prossime date 4 e 5 agosto).

Un monnezzaro canta «Il derubato che sorride/ruba qualcosa al ladro/ma il derubato che piange/ruba qualcosa a se stesso», mentre getta le marionetta di Otello (Ninetto Davoli) e Jago (Totò) nella spazzatura. «E che so’ quelle?» dice Otello. E Jago: «Quelle sono… sono le nuvole…», «E che so’ ste nuvole?» risponde Otello. «Mah!» fa Jago «Quanto so’ belle, quanto so’ belle… quanto so’ belle…» afferma Otello. E Jago: «Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato». Questa scena fa parte del corto Che cosa sono le Nuvole di Pier Paolo Pasolini. E sono anche un riassunto del perché i ragazzi del Color Fest abbiano organizzato il loro evento a Lamezia:
«Per non piangersi addosso senza aver mai provato a modificare le cose. In fondo la nostra è una terra che facciamo fatica a lasciare in via definitiva. Da qui la decisione di rimanere e riportare le esperienze che ciascuno di noi ha sviluppato in altre città o nazioni». Ecco come Mirko Perri, direttore artistico della manifestazione, spiega la scelta della location.

Mirko & co. hanno creato un evento musicale per potere ascoltare a casa loro, a Lamezia Terme, i loro artisti preferiti. E a chi si chiedeva: «Ma chi verrà in questa città per un festival indie?» hanno risposto coi numeri: nel 2013 ci furono già mille paganti. Lo scorso anno sono arrivati ad avere 6.000 partecipanti in due giorni. Come ogni anno ad inizio agosto (non sono ancora ufficiali le date precise) tutti a ballare nell’Abbazia benedettina, una costruzione dell’undicesimo secolo fatta erigere da Roberto il Guiscardo.

Per realizzare questo festival i primi 4 anni i ragazzi di Che cosa sono le Nuvole si sono autofinanziati, hanno cercato partner e hanno raccolto i 50/60 mila euro necessari. Lo scorso anno invece hanno vinto un bando triennale della Regione è si sono aggiudicati un finanziamento da 120 mila euro l’anno per i prossimi 3 anni.
Quindi fin qui la formula sembra essere: dare un’anima alla manifestazione, attrarre persone che abbiano passione e che in cambio di un’esperienza siano pronti a barattare competenza. Ma soprattutto provare, senza aver paura di avere ambizioni troppo grandi.

Questi progetti alzano il livello, provocano e innescano una sensazione positiva. I movimenti poi si propagano. Se la città si rianima riaprono locali, rinasce la voglia di creare. Non sono queste esperienze che possono produrre Pil, ma mostrano una strada. Un esempio concreto: hanno fatto di più contro lo spopolamento dei piccoli borghi eventi come il Cleto Festival che le politiche e i finanziamenti pubblici. Sulla costa tirrenica esiste questo borgo che conta appena 1200 anime, stava scomparendo come sta accadendo a molti luoghi simili. In cima al piccolo centro si trova un castello di origine normanna e tutt’attorno vigneti e uliveti.

Sette ragazzi mettono su un’associazione e iniziano a creare delle piccole festicciole per le strade del paese. Obiettivo? Recuperare un senso di comunità che vedevano estinguersi e anche per ravvivare le proprie serate. Poi mettono sui i primi eventini musicali, un progettino di teatro. Nel 2011 si autofinanziano, “6 mila euro, ma per noi all’epoca sembra un capitale”, racconta Ivan Arella tra i fondatori. Oggi il progetto conta più di 80 volontari ed uno degli appuntamenti dell’estate tirrenica. Nei 3 giorni del festival, dal 19 al 21 agosto, le vie del borgo sono piene di ragazzi che arrivano per assistere agli spettacoli di 30 artisti, tra musicisti, attori e fotografi. Ci sono poi gli incontri culturali, letterari e mostre che si susseguono la mattina e il pomeriggio.

La voglia era di ridare un senso al borgo e lo hanno fatto mettendo in sicurezza strutture e abitazioni, approfittando della naturale bellezza delle stradine e dei vicolini del borgo. Anche se il risultato più grande sono state le saracinesche di alcune attività aperte dai giovani del posto e la scelta di ristrutturare le abitazioni e di andare a vivere nel borgo fatta da altri. C’è stata una presa di coscienza e la volontà di investire su un territorio che altri davano per spacciato. Come dal 2004 fanno Massimiliano Capalbo e Giovanni Leonardi, che con il loro Orme nel Parco si sono riappropriati di uno spazio per molto tempo usato solo per grigliate e pasquette. La montagna calabrese è stata a lungo ignorata, ma forse grazie a questo atteggiamento è stata anche preservata dalla speculazione selvaggia. Questi due ragazzi si sono quindi inventati il primo parco avventura nella Sila Piccola.

In un paese di poco più di 1000 abitanti a Zagarise nel 2008 sono riusciti a trasformare la loro passione per la montagna in un’impresa. Fu subito un successo, il primo anno registrammo 9 mila presenze che diventarono 130 mila in 9 anni e quest’anno festeggeranno il decennale. “All’inizio tutti ci guardavano come un corpo estraneo. Si chiedevano tutti da dove arrivassimo. Perché due che non avevano nessun legame con Zagarise si interessavano alle loro montagne. Stupiva il fatto che non avessimo fatto accordi politici o che non usassimo finanziamenti pubblici, ma soprattutto che non stessimo speculando”. Per realizzare il parco i problemi non sono mancati. Non c’era corrente, non c’era luce, era un posto dove non c’era niente e su cui nessuno avrebbe scommesso niente.
Poi però qualcuno deve essersi accorto del potenziale economico del progetto. Le altre esperienze non hanno subito danneggiamenti ed ostacoli, forse se ne è sottovalutata la portata innovativa. Gli esempi spesso sono la prima spinta verso il cambiamento.

Nel caso del Parco avventura invece si è vista una possibilità di guadagno ed infatti Massimiliano e Giovanni hanno subito un incendio quest’anno. Il fuoco ha distrutto il punto ristoro del parco per un danno di 150 mila euro. Non è ancora dato sapere se si sia trattato di un incendio doloso o meno. È nel modo di reagire che questi due ragazzi dimostrano un distacco rispetto al passato. Le difficoltà non devono essere un alibi per non fare le cose, per recitare il ruolo di vittima. «Abbiamo sempre saputo che ci stavamo assumendo dei rischi di vario genere, li abbiamo messi in conto e fanno parte della nostra missione».

Al riscatto del Meridione abbiamo dedicato la cover story di Left in edicola


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Le elezioni viste dagli immigrati. Paura, delusione e la domanda: «Perché l’odio?»

Manifestazione contro il razzismo a seguito dell'omicidio del senegalese Idy Diene, Firenze, 10 marzo 2018 ANSA/MAURIZIO DEGLI' INNOCENTI

Si chiedono, e chiedono, il perché di tanto carico d’odio. E se è tutto reale ciò che dicono la Lega e altri partiti. Per esempio, se corrispondono al vero affermazioni di politici (di varia natura) secondo le quali quello che l’Italia fa per gli immigrati, lo pagano gli italiani. Sanno, gli immigrati, ma non sanno bene. Di sicuro, sentono di essere figure scomode. E la campagna elettorale appena finita, che sull’immigrazione ha fatto la conta dei voti, non ne ha dato, certamente, smentita.
«Sono molto preoccupati per questo risultato elettorale e, soprattutto, che le intenzioni siano confermate e assumano forma concreta», dichiara a Left, il presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi), nonché delle Comunità del mondo arabo in Italia (Co-mai), Foad Aodi. A fronte di una campagna elettorale, spinta a colpi di strumentalizzazioni politiche sulla pelle degli immigrati, la risposta di trecentocinquanta gruppi di comunità internazionali, in un’indagine del Co-mai che ne ha rilevato le intenzioni di voto, è di protesta contro i partiti di sinistra che «non hanno toccato, in maniera adeguata, il tema dell’immigrazione, tradendo finanche la loro storica identità», precisa Aodi. Cosicché, aggiunge, «il 60 per cento circa degli immigrati si è detto deluso dalle scelte del centro-sinistra che, per non perdere voti, non ha candidato, per esempio, nessun cittadino straniero».
Che si tratti di strumentalizzazione ne è convinto anche il presidente di Baobab Experience, Roberto Viviani, «perché una settimana dopo il voto, quella che sembrava un’emergenza esplosiva è, invece, sparita dai radar politici». Rimane, quella sì, l’eco xenofoba della campagna elettorale, con i suoi episodi, più o meno evidenti, di profondo razzismo, «che preoccupano i nostri ragazzi». Sebbene per molti di loro, appena arrivati e nel pieno di una vulnerabilità estrema, «il coinvolgimento politico e sociale sia impensabile, considerato che le loro più grandi preoccupazioni sono legate a questioni inerenti la sopravvivenza, vivono, comunque, stati di frustrazione e incredulità davanti alla negazione di fondamentali diritti umani», spiega Viviani. Invece, «fra coloro che sono in Italia da più tempo e che hanno superato la scala dei bisogni, e dunque già orientati alle esigenze – continua il presidente di Baobab Experience – sta cominciando ad aumentare la consapevolezza dei loro diritti. E a capire che non si tratta di pretese, più o meno ottenibili a discrezione del buon vento (e del buon cuore) dei politici di turno».
«Quelli più integrati, più sensibili e di più antica emigrazione, che si basano sull’esperienza e su un vissuto ‘italiano’, manifestano un dissenso, che prescinde dal risultato elettorale, dopo il quale, in effetti, non abbiamo riscontrato preoccupazioni esplicite e da riferirsi al dato. Non possiamo, però, escluderle: anche non parlarne potrebbe essere sintomo di paura», racconta Virginia Valente di Progetto Diritti, associazione apolitica e apartitica, impegnata, da oltre vent’anni, nella tutela dei diritti delle fasce più deboli e contro ogni discriminazione. D’altronde, «la situazione non è, poi, così nuova: dalla grande sanatoria del 2002 a opera della Lega fino al decreto Minniti che ha annacquato il problema, lontano dalle coste italiane, la storia politica italiana dell’immigrazione è una retorica ipocrita di minacce irrealizzabili», conclude Valente.
E se fosse un modo per dichiarare, nella maniera più istituzionale (e subdola) possibile, l’odio per il diverso?

Omicidio Jan Kuciak, Bratislava chiama Roma. E ormai la protesta è di massa

epa06608464 A placard with hashtag #allforJan is seen as people participate in a rally called 'Let's stand for decency in Slovakia' in Bratislava, Slovakia, 16 March 2018. Mass street protests in SLovakia started after the murder of journalist Jan Kuciak and his fiance Martina Kusnirova. Protesters are asking for an independent investigation into the murders and new, trustworthy government that will not include people suspected of corruption EPA/CHRISTIAN BRUNA

Bratislava vuole la collaborazione di Roma. Il procuratore generale slovacco ha chiesto alle autorità italiane di creare un team congiunto per le indagini sull’omicidio del giornalista Jan Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova. Ieri Jaromir Ciznar ha dichiarato che si aspetta che in questo modo investigare sarà “più sofisticato, effettivo, veloce”.
Dopo la morte di Jan avvenuta il 25 febbraio, la crisi politica scoppiata nel Paese slavo ha portato a manifestazioni di piazza, tensioni politiche e dimissioni, tra cui quelle del premier Robert Fico. Jan, prima di essere assassinato, stava scrivendo dei presunti legami economici tra la politica slovacca, in particolare quella vicina al primo ministro, e della criminalità italiana calabrese, la ‘ndrangheta. Fbi, Scotland Yard, Europol, polizia italiana si occupano dell’omicidio di Jan. Ma la richiesta di ieri in arrivo da Bratislava vuole coinvolgere di più le autorità italiane, più esperte rispetto a quelle slovacche sulle organizzazioni mafiose della penisola.

Venerdì scorso, 16 marzo, migliaia di persone hanno chiesto durante una protesta di piazza elezioni anticipate perché #allforjan, siamo tutti per Jan. Robert Fico ha presentato le sue dimissioni, ma continua a tirare i fili della politica del Paese come capo del partito Smer. Il deputato primo ministro Peter Pellegrini, della sua stessa fazione politica, ha ora proposto al presidente slovacco Andrej Kiska la formazione di un nuovo governo, composto dagli stessi tre partiti che c’erano nel precedente. Come ministro degli interni è stato scelto Jozef Balaz, per sostituire il dimissionario Robert Kalinak. Pellegrini vuole «riportare la calma nel Paese» e «creare un governo che mantenga un chiaro orientamento europeo».

Per l’attivista politico Filip Vagac a Bratislava soffia un vento nuovo. «Le dimissioni non sono sufficienti. Il novembre dell’89 ha portato enormi cambiamenti. Credo che questa situazione farà cominciare un processo ulteriore che cambierà la Slovacchia».

Se Robin Hood si riprendesse quei 10 miliardi regalati in Italia ai ricchi

Se si riuscisse a non subire l’egemonia culturale di chi si incarta sui 30 euro (falsi) ai rifugiati, se si riuscisse a non farsi mettere all’angolo dalla facile pantomima sui vitalizi (che non esistono più, che sono un privilegio odioso ma troppo spesso usato per non parlare d’altro), se non avessimo a che fare con chi gioca a fare lo sceriffo contro i ladri di polli e se avessimo il nerbo di fare i forti con i forti e mica solo i prepotenti con i deboli allora ci sarebbero sul piatto 10 miliardi di euro (dieci miliardi di euro) da recuperare subito in nome della peggiore evasione fiscale, quella nascosta tra le pieghe degli accordi seminascosti tra governi e multinazionali.

Con il trucco dell’accordo fiscale le grandi multinazionali strappano regimi da paradiso nel cuore dell’Europa senza che l’argomento provochi un minimo di sollevazione popolare. Quando l’Irlanda venne multata dalla Ue per avere irregolarmente favorito la Apple (che aveva risparmiato qualcosa come 13 miliardi di lire alla faccia dell’uguaglianza tra popoli che dovrebbe essere una delle fondamenta dell’Europa unita)  lo sdegno è durato giusto il tempo di qualche campagna di boicottaggio buona per i social network eppure ci sono altri 2.052 casi simili nel Vecchio Continente.

Sono 78 gli accordi di tax ruling (un banale escamotage grazie al quale un governo può concordare con le multinazionali un trattamento fiscale di favore) attivi qui in Italia e, come ha scritto l’Espresso, Philip Morris, Michelin e Microsoft sono tra i beneficiari di un condono preventivo che gli permette di agire in Italia con parametri ben più bassi di quelli nazionali. Per intendersi: ben più bassi dei loro concorrenti e delle altre imprese. Il tutto alla faccia della “libera concorrenza” che viene sventolata ogni piè sospinto. Alla fine del 2016 tra le note del Def il Ministero dell’Economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano circa 31 miliardi di imponibile che tradotto in mancato gettito fiscale fanno circa 10 miliardi di euro, lo 0,6% del PIL.

Se volete fare i Robin Hood (come in molti hanno promesso di fare in campagna elettorale) vi viene facile facile.

Buon martedì.

 

I turchi entrano ad Afrin. Le milizie curde: «L’occupazione è un pericolo per tutta la Siria del nord»

epa06612412 Turkish soldier and Free Syrian Army fighters hold Turkish and Syrian flags at the Kurdish legislative council building after capturing the city of Afrin from Kurdish Popular Protection Units (YPG) forces, northern Syria, 18 March 2018. Turkish President Recep Tayyip Erdogan on 18 March said the Turkish military and allied Syrian militias of the Free Syrian Army had taken complete control of the city of Afrin, the capital of the Kurdish enclave of the same name in northwest Syria. EPA/AREF TAMMAWI

«L’occupazione turca di Afrin mette in pericolo tutto il nord della Siria». La denuncia arriva da Aldar Xelil, uno dei dirigenti della coalizione di partiti Tev Dem, Movimento per una società democratica, l’organo di governo dell’enclave curda Rojava in Siria, all’interno della quale si trova Afrin. L’intenzione di Erdogan è quella di allargare l’influenza turca sulla parte settentrionale del Paese confinante, come lo era ai tempi dell’Impero ottomano, ha dichiarato Xelil. Il governo di Ankara ha, infatti, annunciato la conquista di Afrin da parte del suo esercito e delle milizie locali sue alleate. Secondo un alto funzionario dello Ypg, le Unità di protezione popolare, la milizia curda che ha difeso la città siriana, si prospetta adesso «una nuova fase nella guerra contro l’occupazione turca». Le Ypg, dal canto loro, promettono battaglia fino alla liberazione della città.

Nonostante la fine delle ostilità, la situazione ad Afrin resta drammatica. L’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus) ha fatto sapere che, una volta preso il controllo della città, l’esercito turco e i suoi alleati si sono dati al saccheggio. Basi militari ed edifici istituzionali abbandonati, ma anche abitazioni private e veicoli sono stati depredati, peggiorando ancor di più la situazione di una popolazione già stremata. L’Ondus ha infatti stimato in circa 200mila i civili in fuga da Afrin.

Come se non bastasse, le forze di Erdogan e sue alleate stanno eliminando simboli e monumenti associabili alla cultura curda. Sempre l’Ondus, documenta l’abbattimento di una statua che era stata eretta quattro anni prima, per celebrare la fondazione dell’enclave curdo.

Intanto, negli ultimi giorni, in Italia e nel resto del mondo, si sono moltiplicate le manifestazioni in supporto alla popolazione di Afrin e delle milizie Ypg e Ypj, la milizia femminile curda. Domenica si è tenuto un presidio alla stazione Termini a Roma, in sostegno della città siriana e per protestare contro l’invasione turca. In concomitanza, una manifestazione di solidarietà si era tenuta anche a Torino, su invito della Rete kurdistan Italia.

Secondo il giornale tedesco Junge Welt, sabato scorso, 20mila tra curdi, turchi, ma anche semplici tedeschi vicini alla causa, hanno manifestato ad Hannover sventolando bandiere dello Ypg e Ypj. Alla manifestazione ha partecipato anche il segretario del partito Die linke, Bernd Riexinger.

Gli ingredienti del trionfo di Putin? Promesse irrealizzabili, patriottismo e concerti gratis

epa06613208 A screen shows presidential candidate, Russian President Vladimir Putin during a rally in his support near Kremlin in Moscow, Russia, 18 March 2018. Russians are electing the President of Russia in the 18 March elections, with eight candidates contesting for the presidential seat, including the incumbent president Vladimir Putin, who leads with over 72 per cent of the vote and projected to win his fourth term in the Kremlin. EPA/MAXIM SHIPENKOV

Alla fine Vladimir Putin il suo plebiscito lo ha ricevuto. I suoi spin doctors, che anelavano il “70×70” (70% di partecipazione al voto e 70% di voti per Putin), lo hanno condotto oltre alle aspettative per quanto riguarda le preferenze accordate, il 76,5%, mentre l’affluenza si è fermata al 67,5%.

I brogli e le manipolazioni del voto ci sono stati – documentati da decine di video consultabili su YouTube – ma il successo della mobilitazione al voto del presidente russo è comunque innegabile. Poi biglietti gratis per concerti, sconti in negozi per chi si fosse mobilitato a votare sin dai dalle prime ore del mattino, sono stati la regola un po’ in tutto il Paese, come da prassi.

La campagna per il boicottaggio al voto, sia del populista Alexey Navalny, sia delle organizzazioni di sinistra, ha avuto ben poca presa. Il relativo successo – oltre il 13% – del candidato del Partito comunista Pavel Grudinin (che senza le violazioni del voto avrebbe potuto raggiungere il 20%) dimostrano tuttavia quanto sia ampio lo scontento nel Paese. L’opposizione liberal di Xenia Sobcak, tutta incentrata sulle questione delle donne e dei diritti dei gay, per quanto coraggiosa, ha lasciato da parte le ingiustizie sociali fondamentali che il Paese vive. E altri piccoli dettagli come la messa fuorilegge dei sindacati indipendenti, la censura cinematografica e teatrale, l’intimidazione verso qualsiasi forma di opposizione politica, la mancanza di rispetto dei diritti dei cittadini in generale, sono rimasti nell’ombra.

In mancanza di una alternativa credibile, molti elettori hanno preferito Putin, “l’usato sicuro”.

Putin ha fatto molte promesse esorbitanti in campagna elettorale. Riduzione della povertà, aumento degli asili nido e dell’aspettativa di vita a 80 anni, costruzione di edilizia “popolare”, crescita economica al 3,8% nei prossimi anni. Chi conosce il suo caro amico italiano, sa quanto queste promesse potranno essere mantenute, a meno che il prezzo del petrolio esploda sul mercato mondiale. E infine ha garantito che la Russia non si farà umiliare su scala internazionale. Un richiamo patriottico che fa sempre il suo effetto sui russi.

Dopo il 18 marzo la Russia resta nel guado e chiusa su se stessa: eterno dilemma di un Paese a cavallo tra Europa e Asia.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Elezioni in Russia, Putin vince con il 76,6% e ringrazia la Gran Bretagna

epa06613458 Presidential candidate, Russian President Vladimir Putin (C) reacts as he meets with his supporters at his campaign headquarters in Moscow, Russia, 18 March 2018. Russians are electing the President of Russia in the 18 March elections, with eight candidates contesting for the presidential seat, including the incumbent president Vladimir Putin, who leads with over 72 per cent of the vote and projected to win his fourth term in the Kremlin. EPA/SERGEI ILNITSKY

Nel giorno dell’anniversario della riunificazione della Crimea, ieri, il 76,6% dei russi – l’affluenza è stata del 67,49% – ha votato per lui. Non doveva battere nessuno dei sette candidati, ma l’apatia elettorale, l’astensione alle urne e i risultati delle presidenziali raggiunti nel 2004, suo record storico. Putin oggi comincia il suo quarto mandato, che durerà fino al 2024: sarà il secondo leader russo più longevo, secondo solo a Stalin.

Il liberale Vladimir Zirinovskij ha raggiunto quasi il 7% dei voti. Il comunista Grudinin il 14% «alle elezioni più sporche mai viste», come le ha definite. Per l’ex popstar Ksenia Sobchak ha votato meno del 2% dei russi. Nella Federazione le urne sono state aperte in tutte le scuole, all’aereoporto di Domoedogo, su 38 treni in corsa da Piter alla Siberia, un voto è arrivato dalle stelle, dal cosmonauta Anton Shkaplerov sulla stazione spaziale. Alcuni seggi sono stati trasportati con l’elicottero tra i ghiacci dell’estremo nord. Quando i russi votavano in Kamchatka, al capo opposto dello stesso Paese, era ancora notte. Con 11 fusi orari, 109 milioni di elettori, oltre 100mila seggi in 85 regioni, da Kaliningrad a Vladivostock, il Paese più grande del mondo ha votato. A Mosca il conto alla rovescia è cominciato al mattino, con le ore che scorrevano all’indietro sugli schermi: “vi rimangono 12 ore per votare”. La cartina si è colorata di giallo ieri dopo le 6: metà del Paese ha già partecipato alle vybory budushego, le elezioni del futuro.

Ai seggi c’è chi è andato nudo, vestito da orso, da missile nucleare Sarmat. I video dei brogli vengono postati sul web ogni ora, dalla Cecenia al Daghestan, dove gli osservatori sono stati picchiati. Migliaia di irregolarità sono state registrate dall’ong Golos. È tutto un obman, un inganno, queste sono state ne-vybory, “non elezioni”, ha detto il blogger Aleksey Navalny. «Avevo promesso di non arrabbiarmi. Ho provato a dare voce ai cittadini, ci riproverò il prossimo anno».

Per lo scandalo del caso Skripal, il giorno dopo la vittoria, il Cremlino ha commentato così: «l’affluenza è stata più alta di quello che speravamo, del 10%, per questo noi ringraziamo la Gran Bretagna». Andrej Kondrashov, il portavoce della sua campagna ha dichiarato: «ogni volta che la Russia viene accusata di qualcosa, le persone si riuniscono intorno al centro del potere. E il centro del potere oggi è certamente Putin».

Se non c’è la grotta la nascita è un reato

epa06447575 View of the Entrance panel of Mongenevre, southeastern France, 17 January 2018. Migrants from Italy still attempt to cross the Alps into France, despite extreme and dangerous weather conditions. An association of locals named 'tous migrants' aims to help the migrants, organizing maraudes to save them from the very low temperatures spotting them along the roads and offering them a shelter to stay for a few nights. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Benoît Duclos è una guida alpina e fa parte dei volontari di «Refuge solidaire», il gruppo che da mesi lavora a cavallo tra Francia e Piemonte per operazioni di soccorso nei confronti dei tanti migranti che, respinti a Ventimiglia, si avventurano ad alta quota, incuranti delle temperature e dei pericoli per provare ad attraversare la frontiera.

Era tra il Monginevro e Claviere quando ha avvistato una famiglia di nigeriani arrancare tra la neve (a 1900 metri) con due bambini piccoli di due e quattro anni. La madre era incinta, all’ottavo mese, ed era sfinita per l’avanzato stato della gravidanza. Benoît l’ha soccorsa. Mentre la portava in auto all’ospedale più vicino la Gendarmerie ha bloccato l’auto di Duclos con a bordo la famiglia e ha contestato la mancanza di documenti. Racconta Duclos di avere implorato i poliziotti di poter raggiungere un posto sicuro per il parto, un ospedale non distante dal punto in cui è avvenuto il controllo. Niente da fare. Intanto la donna ha cominciato ad avere le doglie e da lì a poco ha partorito.

Lui, Benoît Duclos, il 14 marzo ha ricevuto un avviso di garanzia per avere violato le leggi sull’immigrazione e presumibilmente andrà a processo. Da mesi la Francia non riesce a trovare il modo per bloccare gli ingressi illegali ma evidentemente la soddisfazione di punire chi evita che muoiano è un balsamo ideale per lenire il fallimento politico.

E così far nascere un bambino straniero, se non c’è l’addobbo natalizio, diventa una turpe azione da perseguire con forza. Come la nave della ong Open Arms che ieri a Pozzallo il prode Zuccaro (sempre lui, quello della famosa inchiesta che ha fatto tanto rumore sui taxi del mare per poi finire in niente) ha deciso di sequestrare perché “colpevole” di non avere dato donne e bambini in mano ai torturatori libici. Avanti così.

Buon lunedì.

Gli imprenditori del rancore prosperano nel Mezzogiorno

Workers at the Ilva steel mill in Taranto unfurl a banner as they demonstrate against the planned partial closure of the plant on September 27, 2012. A local court confirmed yesterday that the steel mill, Europe's largest would have to limit production due to pollution affecting workers and nearby residents. The impoverished industrial port has become the scene of a fierce stand-off between those who want the deadly ILVA plant closed and the thousands of families that depend on it at a time of worsening economic crisis in Italy. AFP PHOTO / DONATO FASANO (Photo credit should read DONATO FASANO/AFP/GettyImages)

Il 4 marzo è cambiata radicalmente la storia politica del Paese. Al Nord si afferma un centrodestra sempre più egemonizzato dal leghismo 2.0 di Matteo Salvini, alfiere di una caccia all’untore che tenta di canalizzare timori politici e sociali, lucrando sulle inquietudini individuali, individuando facili quanto improbabili capri espiatori (gli immigrati, l’Europa, la microcriminalità). Investe e scommette sull’egoismo proprietario, schierando i cavalli di Frisia di un’identità etnico-religiosa che maschera il rifiuto della diversità e della tolleranza. In questo senso, Matteo Salvini s’impone come un vero e proprio imprenditore della paura.

Al Sud, il M5s raccoglie, invece, la rabbia di un Mezzogiorno da molti anni abbandonato a se stesso, che ha perso 12 punti di Pil tra il 2008 e il 2015, che ha visto moltiplicare la povertà e diminuire l’aspettativa di vita, spogliato di risorse umane e materiali, fino a rischiare di trasformarsi in un vero e proprio deserto. E se Salvini capitalizza le paure, Grillo fa la stessa identica cosa con il rancore, offrendo facili e fuorvianti soluzioni a problemi drammatici e complessi.

Il rancore, infatti, è oggi il sentimento più diffuso nel Sud: contro un’Italia che ha esternalizzato la questione meridionale, affidandola alla lotteria dei fondi europei e alla fragilità progettuale delle regioni; contro l’insipienza delle classi dirigenti interne ed esterne, sempre meno capaci di rappresentare problemi ed elaborare soluzioni ai grandi drammi vissuti dal territorio; contro la politica in generale e contro un’Europa tanto attenta ai bilanci quanto distante dalle ansie e dalle sofferenze dei cittadini dei territori più in difficoltà. Un rancore che è stato terreno di coltura anche del movimento neoborbonico e dei suoi improvvisati contro-storici, rivelatisi fallimentari per la vacuità dell’analisi e della proposta, non certo per la mancanza dei problemi da sollevare.

In questa luce, non credo che si possa archiviare la pratica pentastellata con un ennesimo richiamo al carattere geneticamente assistenziale dei “sudici”, alla povertà della civicness meridionale o addirittura al familismo amorale che impedirebbe loro di accedere a un’idea della politica più matura e razionale. Certo, nell’attirare verso Di Maio e soci ha avuto un indubbio peso la proposta di un sostegno economico a carattere universale. Tuttavia, anche altri avevano avanzato proposte analoghe, Leu compresa, senza che ciò abbia minimamente influito sulla dinamica elettorale.

Il punto vero è che Grillo, al pari di Salvini, prospera nel vuoto strategico di una sinistra priva di una visione alternativa della società, vittima di una sconfitta avvenuta sul terreno dell’egemonia e dalla quale tarda a riprendersi. Un vuoto che, proprio per il suo carattere di fondo, non ha necessità di risposte episodiche e tattiche, magari per scaricarsi dalle responsabilità ed elaborare un lutto elettorale. Chi imputa i problemi alla gestione di liste e campagne elettorali, vorrei dire a Nicola Fratoianni, guarda per l’ennesima volta il dito, distogliendo lo sguardo dalla luna.

Il M5s (ma il ragionamento, pur nel mutare del contesto e delle condizioni, varrebbe pari pari per la Lega) non è certo la causa dei nostri problemi, ma nemmeno una plausibile risposta agli stessi. In qualche modo è la rivelazione della crisi, l’epifenomeno che favorisce un’ulteriore degenerazione della vita pubblica, all’insegna di umori assolutamente retrivi e ai danni di qualsiasi valore che abbia a che vedere con la solidarietà umana, il senso del limite e la giustizia sociale. Una sinistra che voglia avere una speranza di rinascere ha un lungo cammino da fare. Tuttavia, scontate le convergenze possibili su singoli provvedimenti, la traversata nel deserto della sinistra italiana deve iniziare prendendo atto della sconfitta, dall’opposizione e in nome delle proprie ragioni. Senza fare più alcun passo indietro.

Giovanni Cerchia è docente di storia, presso l’Università del Molise

L’articolo di Giovanni Cerchia è tratto da Left in edicola


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