Home Blog Pagina 763

Vladimir lo zar, delfino di se stesso

TOPSHOT - Russian President Vladimir Putin arrives to chair a meeting of the Pobeda (Victory) Organising Committee at the Kremlin in Moscow on April 20, 2017. The meeting focuses on developing humanitarian cooperation at government and public level with other countries in order to promote objective information on Russias history and present, including its role in the victory over Nazism. / AFP PHOTO / POOL / Alexander NEMENOV (Photo credit should read ALEXANDER NEMENOV/AFP/Getty Images)

Allo stadio vicino all’università di Mosca la gente arriva alla spicciolata: il termometro segna -15 gradi e il sole è fiacco. Non è in programma una partita di calcio ma la prima uscita elettorale di Vladimir Putin a soli 15 giorni dalle presidenziali che si terranno il 18 marzo. All’ingresso vengono distribuiti cartelli con scritto «Un presidente forte per una Russia più forte!». Sugli spalti la gente parla di tutto, meno che di politica. Un gruppetto di ragazze bionde infreddolite, ballano al ritmo del pop russo sparato a tutto volume dagli altoparlanti. La maggioranza di chi è qui sta facendo in realtà una sorta di straordinari non pagati. Tutti i dirigenti di aziende statali o che ricevono finanziamenti pubblici, hanno ricevuto giorni fa un sms da Russia unita, il partito del presidente. Vi era scritto quante persone dell’azienda avrebbero dovuto partecipare al comizio, segnalando per tempo all’organizzazione nome e numero di telefono. Indispensabile portarsi bandiera nazionale appresso, cosa che quasi tutti hanno diligentemente fatto. Come da programma, alle 13 inizia la manifestazione. Salgono sul palco i vincitori delle medaglie alle recenti olimpiadi invernali di Corea. Applausi convinti. Dopo 20 minuti arriva Putin e sciorina qualche promessa: nei prossimi sei anni ridurremo il numero dei poveri, la sanità sarà più efficiente, ci sarà una pioggia di rubli per le donne che faranno due figli. «Qui hanno vissuto i nostri avi, qui viviamo noi e i nostri figli e vivranno i nostri nipoti. E noi faremo tutto perché essi siano felici!» conclude poi Putin.

La sera al telegiornale si parlerà di più di 10mila partecipanti ma ad occhio ce ne saranno stati giusto la metà. È una campagna elettorale soporifera, quella targata 2018. Alexey Navalny, il leader populista e anti-corruzione che qualche anno fa ottenne il 27 per cento dei voti nella corsa alla poltrona di sindaco di Mosca, è stato estromesso con motivazioni discutibili dalla competizione. Non avrebbe comunque vinto, ma nelle grandi città europee, dove esiste un’opinione pubblica “liberal”, avrebbe potuto creare qualche grattacapo a “Zar Vladimir” nella sua corsa solitaria al quarto mandato presidenziale. Gli altri candidati non destano timori al Cremlino: ci sono il solito xenofobo Vladimir Zirinovsky e l’outsider Xenya Sobcak figlia del celebre sindaco di San Pietroburgo degli anni 90 e star dell’edizione russa dell’“Isola dei famosi”. I comunisti hanno all’ultimo momento scelto come front-runner Pavel Grudinin titolare di un’azienda-modello agroalimentare della provincia della Capitale, cercando di svecchiare l’immagine di un partito in declino inarrestabile. «La “tecnologia elettorale” russa dell’era Putin è qualcosa che gli occidentali difficilmente possono comprendere», dice il politologo Boris Kondakov. «Putin – spiega Kondakov – si mostra solo nei telegiornali, sempre indaffarato a risolvere i problemi del Paese e a contrastare nel mondo l’egemonia americana, mentre agli altri candidati è concesso solo di partecipare a talk-show vocianti. Così il telespettatore interiorizza e percepisce che l’unico candidato credibile sia il presidente in carica».

Il vero timore dello staff di Putin è che la partecipazione al voto sia bassa. Per questo la macchina propagandistica si è messa in moto, e a farla girare sono gli apparati governativi a tutti livelli. Il sindaco di Mosca, Sergey Sobyanin, sta girando in questi giorni in tutte le aziende municipalizzate tenendo comizi improvvisati nelle mense durante l’orario di lavoro. «Ci saranno ancora più investimenti per le vostre imprese» rassicura. Naturalmente se i dipendenti andranno in massa a votare. Nelle elezioni per la Duma, il parlamento russo, nell’ottobre 2016, la partecipazione al voto nelle grandi città è stata desolante: a Mosca ha votato il 28% a San Pietroburgo il 25. «La campagna di Putin è tutta tesa a rassicurare un popolo impaurito da quattro anni di crisi e di svalutazione del rublo che ha portato alla riduzione reale dei salari di oltre il 30%», sostiene Ilya Budraitskis, docente di scienze politiche all’Università di Mosca e attivista del Movimento socialista russo. «Noi non siamo astensionisti di principio – afferma convinto Budraitskis – ma oggi l’unico modo per opporsi allo strapotere di Putin è non andare a votare». I motivi di paura e di insofferenza nel Paese, del resto, non mancano.

Lo scorso anno secondo uno studio della Vneshekonombank i redditi dei russi sono calati del 6,9%. La forbice tra ricchi e poveri continua ad aumentare e ha riportato la Russia al livello di diseguaglianza dell’anno 1905. Oggi il 10% più ricco della società si prende il il 45,5% delle entrate nazionali, il 50% più povero solo il 17% e il 40% del “ceto medio” il restante 37,5%; 14mila persone guadagnano all’anno più di 5mila volte del 20% più povero della società. Per provare a cambiare le cose ci volle la prima rivoluzione antizarista, ma i russi hanno smesso da tempo di credere in cambiamenti radicali dopo le tragedie vissute nel XX secolo. Così le soluzioni diventano individuali. Secondo un sondaggio della società Levata il 15% dei russi ha un doppio lavoro e la Russia è la quinta nazione in cui si lavora di più al mondo. Basta allontanarsi da Mosca per iniziare a conoscere un altro Paese. Case popolari di epoca krushioviana malconce, ponti che cadono a pezzi, autobus di epoca sovietica che rantolano su strade sconnesse. È l’altra Russia: quella dei 20 milioni di persone che sopravvivono con 170 dollari al mese.

Il 1 marzo nell’annuale “Discorso sullo stato della Federazione” Putin ha promesso per i prossimi anni un programma economico-sociale faraonico: crescita demografica, rilancio dell’economia, rinnovamento delle infrastrutture e anche la produzione dell’ormai famosa “superbomba Satan”, che non sarebbe contrastabile neppure dai più sofisticati sistemi di difesa anti-missile. Il presidente russo ha indicato gli obiettivi volti a far tornare in pochi anni la Russia una potenza mondiale, non solo in campo militare. L’inquilino del Cremlino vorrebbe, durante il prossimo mandato, ridurre della metà il numero di persone sotto il livello della povertà e portare il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto dei russi, a 40mila dollari annui. Per affrontare il calo demografico, che rischia di far scendere la popolazione russa – secondo la Banca mondiale – a soli 131 milioni nel 2050, Putin vuole creare 270mila posti di asilo-nido entro i prossimi tre anni, sovvenzionare le madri russe che faranno più di due figli con 500 euro mensili, aumentare l’aspettativa di vita media dei russi oltre gli 80 anni investendo 3,4mila miliardi di rubli nella sanità e nella lotta alla piaga dell’alcolismo.

Un vasto programma keynesiano è previsto anche per il rinnovamento delle infrastrutture: raddoppio della rete autostradale e della linea ferrovia, l’aumento del 50% del numero di voli internazionali, collegamenti internet ad alta velocità anche nelle regioni più remote del Paese. Secondo Putin questi risultati potranno essere raggiunti anche se non ci sarà nel prossimo futuro un aumento del prezzo del petrolio, una tesi che molti economisti considerano bizzarra, visto che nei primi anni Duemila il prezzo del greggio sopra i 100 dollari il barile fu decisivo per determinare quel boom economico che si prolungò per quasi un decennio. Ma essendo comunque in campagna elettorale, Putin non ha voluto svelare l’altro lato della medaglia di programmi così ambiziosi: la riforma delle pensioni e l’aumento delle tasse. Il sistema pensionistico è rimasto quello sovietico: ancora oggi le donne smettono di lavorare a 55 anni e gli uomini a 60. Putin ha evitato finora di affrontare un problema così spinoso come quello dell’innalzamento dell’eta pensionabile, ma appena eletto dovrà convocare la ragioneria dello Stato e provvedere a una “riforma” che desterà sicuramente più di un malumore nella popolazione. E per quanto ciò possa dispiacere a Berlusconi, Putin dovrà anche cancellare la flat tax al 13% e tornare a forme progressive di tassazione, come ha confermato il 15 febbraio a Soci il ministro delle Finanze Anton Siluanov. «Soprattutto per questo – conclude Kondakov – il presidente ha bisogno un plebiscito tra due settimane. Si potrà così considerare legittimato a far deglutire qualche pillola amara ai russi».

L’inchiesta di Yurii Colombo è stata pubblicata su Left del 9 marzo 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Metti una sera a Shangai, in libreria

A pedestrian walks past a Dayin Bookmall in Knowledge and Innovation Community (KIC) in Shanghai, China, 8 January 2018. Dayin Bookmall opens a new outlet in Knowledge and Innovation Community (KIC) in Shanghai, China, 8 January 2018. The bookstore closes at 2 am in early morning, the only one to run late at night in the metropolis. With Shanghai government's support to develop cultural sector, the bookstore will also become a center to host reading events, present art performances and organize handcraft workshops.

Quando nel 2003 Qidian.com (China Reading) lanciò il primo portale cinese di lettura online a pagamento, solo pochi ne avevano intuito la natura rivoluzionaria. A distanza di quindici anni, il mercato delle pubblicazioni in rete ha raggiunto un valore di 9 miliardi di dollari, confermando un tasso di crescita annuo del 20 per cento. Nel frattempo, China Literature Ltd. – sussidiaria del colosso tecnologico Tencent a cui è affiliata Qidian – è sbarcata a Hong Kong raccogliendo oltre un miliardo di dollari in quella che si è rivelata l’offerta pubblica iniziale più redditizia degli ultimi 10 anni sulla borsa dell’ex colonia britannica. Ma sorge una domanda: con oltre 10 milioni di titoli a portata di click, chi avrà mai più la voglia di entrare in libreria? Secondo un sondaggio della Chinese academy of press and publication (Capp), nel 2016, il 33,8% dei cinesi ha letto testi online, contro un 51,6% ancora fedele alla carta stampata – tanto per avere un’idea, negli Stati Uniti solo il 28% degli americani si avvale di testi digitali. Con il risultato che nel 2016, le vendite al dettaglio sono diminuite del 2,33% su base annua. A ciò si aggiunga la limitata propensione dei cinesi per la lettura: stando alle stime dei media governativi un adulto legge mediamente meno di otto libri l’anno (4,58 cartacei e 3,26 in formato elettronico), dedica alla lettura 15 minuti al giorno (contro i quasi 100 trascorsi davanti alla tv e i 45 su internet), ed è disposto a spendere attorno ai 14 yuan per un testo di 200 pagine, circa 2 euro, ovvero la metà di quanto costa un Frappuccino da Starbucks. Tanto che mentre la multinazionale americana continua a estendere il proprio impero cinese, le librerie sono state costrette a stringere la cinghia.

Secondo la All-China federation of industry and commerce, tra il 2000 e il 2012 (l’anno peggiore in termini di vendite), l’ascesa degli e-book ha corrisposto alla chiusura di circa la metà dei negozi fisici. Tra le vittime, persino Xinhua Bookstore, la più grande catena nazionale (rigorosamente statale) che deve il suo logo a un esercizio calligrafico di Mao Zedong. Da quando è stata fondata 80 anni fa, ha raggiunto un picco di 17mila punti vendita salvo poi assestarsi su cifre ben più contenute. Strana sorte per il Paese che ha inventato la carta e la stampa a caratteri mobili. C’è chi tuttavia intravede nella morte del settore lo spunto per una nuova rinascita. Complice l’aumento del potere d’acquisto di una classe media in rapida ascesa. Secondo la Capp, sempre più case editrici stanno aprendo nuove librerie, mentre molte di quelle già esistenti nei campus universitari si stanno …..

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Quello dei grillini non è reddito di cittadinanza

MARCIA REDDITO DI CITTADINANZA PERUGIA ASSISI 2017 MARCIA PERUGIA-ASSISI 2017-05-20 Titolo: MARCIA REDDITO DI CITTADINANZA Didascalia: MARCIA REDDITO DI CITTADINANZA PERUGIA ASSISI 2017 MARCIA PERUGIA-ASSISI Fotografia Di: AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO

«Nelle sue diverse accezioni, il tema del reddito è al centro di sperimentazioni in decine di Paesi ma qui da noi c’è una narrazione tossica». A spiegarlo è Sandro Gobetti, ricercatore sociale indipendente, coordinatore di Bin Italia, Basic income network, e autore, con Luca Santini, di Reddito di base, tutto il mondo ne parla. Esperienze, proposte e sperimentazioni (GoWare, 2018). Storia lunghissima, quella del reddito, e trasversale agli approcci culturali e politici. Caso limite l’accezione dell’iperliberista Milton Friedman, di “reddito di povertà” (ripresa da Nixon e ora da Berlusconi), funzionale allo scardinamento definitivo del welfare. Un po’ di soldi in cambio della cancellazione dello Stato sociale. «Non tutte le proposte sono uguali – avverte – per le reti mondiali di cui fa parte il Bin è un diritto di base non sostitutivo». La tassonomia distingue la famiglia del reddito minimo garantito (Rmg) da quella del reddito di base universale e incondizionato. La prima è uno dei punti centrali del modello sociale europeo secondo cui nessuno dovrebbe scivolare al di sotto di una certa soglia. «In Italia – riprende Gobetti – impropriamente, M5s usa la formula “reddito di cittadinanza”, per indicare invece il Rmg condizionato all’accettazione di un lavoro. In realtà quel termine apparterrebbe all’altra famiglia, quella per cui il reddito è un diritto umano, come la libertà di parola». Ben tre risoluzioni dell’Europarlamento invitano gli Stati membri a introdurre una misura di sostegno, pari almeno al 60% del reddito mediano nazionale, per il contrasto a povertà ed esclusione sociale. Nel 2017 il punto 14 (su 20) del cosiddetto Social pillar, il pilastro sociale europeo, prevede l’adozione di un reddito minimo adeguato. Il Rei di Gentiloni, reddito di inclusione, è un blando tentativo di rispondere a quella sollecitazione, e un modo ancora più fiacco di contrastare la campagna elettorale di Di Maio giocata tutta sulla promessa di un reddito di cittadinanza come prima misura dell’eventuale governo. Salvo frenare da Vespa, a urne appena chiuse: «Ci vorranno alcuni anni…». «Tutte le proposte di questa campagna elettorale – spiega Gobetti – prevedono forme di condizionalità che ribaltano lo sguardo sulla povertà: attribuiscono ai poveri la colpa della loro condizione. È questo che viene fuori se all’accusa di assistenzialismo («volete dare dei soldi a chi non vuole fare nulla») si ribatte dicendo che quel reddito verrebbe elargito a fronte di un impegno a fare qualunque cosa venga ordinato di fare. Sparisce l’idea che la povertà possa essere frutto di determinate e sbagliate politiche economiche. Questa è la tossicità del dibattito italiano, figlia anche della contrapposizione lavoro/reddito e per questo riguarda anche la sinistra. Tutto il welfare italiano è “lavorista”, si concentra sul capofamiglia maschio al lavoro e non ha mai ragionato su forme di universalismo e oggi se ne pagano le conseguenze, con milioni di poveri prodotti dalle trasformazioni del lavoro».

Le politiche di austerità in tutta Europa stanno dirottando risorse verso forme inefficaci di incentivi alle imprese. «L’Italia sta dentro questo processo e rischiamo di essere dei Daniel Blake, ostaggi delle amministrazioni burocratiche. Il reddito come governance della povertà». Il Rei somiglia alle poor law vittoriane, il sussidio per i poveri, soprattutto bambini, internati nelle workhouses e costretti ai lavori più umilianti. Oltre a un finanziamento insufficiente (1,7 miliardi, a fronte dei 12 della Francia) prevede che i percettori vadano inseriti in progetti del Terzo settore. «Il tema è la gestione dei poveri – denuncia Gobetti – come avviene già per i migranti. La governance della povertà diventa un grande business. La nostra battaglia per il reddito, al contrario, è la lotta per il potenziamento delle persone. Essere poveri è una fatica infinita, mica una fortuna! O nuovi diritti, o guerra fra poveri. Che cosa accadrà quando la prima generazione di precari non avrà uno straccio di pensione e non potrà più fare i “lavoretti”?». I modelli europei e le sperimentazioni raccontano storie e criteri molto diversi. «Ad esempio – continua Gobetti – il principio dell’individualità del beneficio (al contrario del Rei). In Danimarca esiste lo Starthjaelp, reddito per la vita autonoma, che consente agli under 25 di emanciparsi dalla famiglia. In Olanda c’è la Wik, 500 euro al mese agli artisti come un riconoscimento del “tempo di lavoro creativo”. Un altro principio è quello della residenza piuttosto che della cittadinanza. Poi c’è la questione della durata del beneficio e quella del legame fra reddito e lavoro: nei Paesi Bassi è stato elaborato il criterio di congruità (che Di Maio ignora, ndr) che prova a valorizzare la storia di ciascuno per non eroderne le competenze formali, informali, esperienziali costringendolo ad accettare un lavoro qualsiasi. La storia delle persone è molto più ricca di una definizione sociologica», conclude Gobetti. In Italia due campagne sociali hanno raccolto oltre 50mila firme in calce a una legge di iniziativa popolare sostenuta da 170 associazioni nel 2013 (che, per la presentazione non tempestiva delle sottoscrizioni raccolte, fu depositata in Parlamento da una pattuglia di deputati di Sel, ndr) e i 10 criteri per il reddito di dignità elaborati dall’associazione Libera due anni dopo. Tutto chiuso in un cassetto del Senato anche se si tratta di proposte più avanzate di quelle dei partiti e in linea con le esperienze sovranazionali.

L’inchiesta di Checchino Antonini è stata pubblicata su Left del 16 marzo 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Sandra Petrignani: Natalia Ginzburg, la sincerità prima di tutto

Las escritoras Natalia Ginzburg (delante) y Maria Bellonci, en 1963. MARISA RASTELLINI / GETTY

La storia, le passioni, la produzione letteraria, le scelte politiche di uno tra i nomi più importanti della letteratura femminile del ’900 italiano: è quanto racconta Sandra Petrignani in La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg uscito per Neri Pozza, fissando così il volto della scrittrice in quel gigantesco albero genealogico a cui appartiene la fibrillante cultura coeva.

In questo volume denso, documentatissimo, ricco di storia e di preziose informazioni, scorrono, intrecciate a doppio filo con quella della protagonista, le vite di Leone Ginzburg, Adriano Olivetti, Giulio Einaudi e i suoi consulenti più stretti come Cesare Pavese e Italo Calvino, l’altra famiglia di Ginzburg. E poi ancora Felice Balbo, Cesare Garboli, Elsa Morante, Carlo Levi solo per citarne alcuni, quelli più vicino alla Ginzburg, tutti stretti in un immenso patchwork di affetti profondi, percorsi di vita, segreti dalle forme e dai colori diversissimi.

La prima domanda, forse banale, è come nasce il titolo, che ben si addice a questo grande affresco umano, scritto con leggerezza, sensibilità e discrezione.
Non è banale affatto e conviene spiegarlo perché è un titolo che potrebbe sorprendere chi ha l’immagine stereotipata di una Natalia Ginzburg modesta, reticente, chiusa; che dice di non sapere le lingue e poi traduce Proust; che dice di non sapere nulla di politica e poi viene eletta in Parlamento, dove rivela un carattere battagliero. Tra l’altro, quel termine lo usa Cesare Garboli a cui piaceva moltissimo la scrittura giornalistico-saggistica della Ginzburg, tanto da attribuirle un piglio “piratesco” (lo dice nella prefazione ai Meridiani). Questo titolo, insomma, rappresenta una parte meno nota di Natalia, figura molto complessa e piena di sfumature, che volevo mettere in evidenza. Come meno noto è il suo sterminato saggismo.

La scrittura, per Natalia Ginzburg, ha l’aria di uno spazio vitale per raccontare ciò che ha capito di ciò che vede e sente. Romanzi, racconti, traduzioni, articoli, lavori teatrali: una fame perenne e insaziabile.
Natalia era ultima di cinque figli, si sentiva sola ed esclusa da un mondo di adulti. Scrivere è stato il suo…

Il libro di Sandra Petrignani, La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri Pozza) viene presentato il 18 marzo (ore 17) all’Auditorium di Roma per Libri come.

L’intervista di Annalina Ferrante a Sandra Petrignani prosegue su  Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

La cultura malata che arma la mano dei razzisti

MANIFESTAZIONE ANTIRAZZISTA DOPO L'OMICIDIO DEL SENEGALESE IDY DIENE PROTESTA CONTRO IL RAZZISMO CORTEO MANIFESTANTE MANIFESTANTI

Il 5 marzo poco prima delle 12 sul ponte Amerigo Vespucci a Firenze, Roberto Pirrone, pensionato di 65 anni, spara senza apparente motivo a Idy Diene, un signore senegalese di 54 anni, immigrato regolare e venditore ambulante, uccidendolo. Subito gran parte della stampa e dei media si ingegnano a evitare di dare rilevanza al fatto che la vittima fosse di origini senegalesi, e quindi, sottinteso, di pelle nera. I giornali titolano “Spara e uccide passante a Firenze” e “Firenze choc: spara e uccide un passante a caso”. Il 5 marzo 2018 prima delle 12. Sarebbe potuto succedere in un giorno qualsiasi, ma era il giorno dopo le elezioni, si conoscevano già i risultati elettorali, nei quali un partito come la Lega di Salvini ha avuto il 17,37% alla Camera e il 17,6% al Senato. Il 6 marzo un giornalista in radio, nel contesto di in un’intervista al sindaco di Firenze, dice che chi fa il nesso tra le due cose (elezioni-omicidio di un africano) vuole «strumentalizzare la notizia» e Nardella concorda soddisfatto. Forse sindaco e giornalisti non ricordano già più come era stata utilizzata la notizia dell’omicidio di Pamela Mastropietro prima delle elezioni. Giornali e televisioni non facevano che insistere sulla nazionalità nigeriana dei presunti assassini. Dunque, quando lo straniero è colpevole, il dato è essenziale e va evidenziato a tutta voce, quando invece è vittima, si deve trattare di una semplice casualità. Ci sembra chiaro che la strumentalizzazione è messa in atto dai mezzi d’informazione. Tanto che poi, visto che la comunità senegalese di Firenze, legittimamente indignata, scossa e preoccupata, è scesa in piazza, sul Corriere della sera leggiamo “L’ira dei senegalesi”, titolo che avverte della minaccia che incombe… nel corso della manifestazione sono state addirittura rovesciate delle fioriere.

Questa volta certa politica e, complici, i media provano a insabbiare il movente razzista, questa volta conviene nascondere. Idy Diene era parente di uno dei due senegalesi uccisi nel 2011 a Firenze da un militante di Casapound e aveva sposato la sua vedova Rokhaya Kene Mbengue. Nardella, intervistato, respinge categoricamente un nesso tra i due omicidi, infatti la procura della Repubblica ha escluso il movente razzista per cui Pirrone sarebbe semplicemente una persona che non sta bene mentalmente; voleva uccidersi e poi ci avrebbe ripensato, sparando “a caso”. Ci stupisce il pensiero che si potrebbe insinuare: la presenza di una patologia mentale escluderebbe il movente razziale, o viceversa. Un omicidio compiuto da un malato di mente non può avere come movente il razzismo? Chi uccide per razzismo sarebbe dunque sano di mente?

Nel sistema giuridico l’imputabilità è data dalla capacità di intendere e volere al momento del fatto, dunque lo psichiatra deve valutare la capacità del reo di essere lucidamente consapevole di ciò che  stava facendo e perché (movente), e di poter compiere una programmazione mirata e razionale del gesto omicida. Tale criterio però non può essere considerato dirimente per escludere la malattia mentale, né per dimostrare che il reato sia indipendente dalla malattia stessa.

In aggiunta a ciò, è essenziale sottolineare che in ambito psichiatrico vengono usati criteri diagnostici ufficiali (DSM-5) di tipo esclusivamente sintomatologico che spesso non consentono di inquadrare casi limite, in cui sono assenti sintomi evidenti. Lo psichiatra che si trova di fronte un potenziale assassino (anche nel caso dell’autorizzazione al porto d’armi) può avere la sensazione che la persona in questione abbia qualcosa che non va, nello sguardo o nel modo di muoversi e parlare, ma si trova impossibilitato, con gli strumenti attuali, a fare una diagnosi. 

Gianluca Casseri, autore della strage di Firenze del 2011 con chiaro movente razziale, spara a 5 senegalesi uccidendone 2, poi si suicida. Venne descritto dai media come una persona molto riservata che coltivava, insieme ad ideologie negazioniste e neonaziste, interessi mistici, esoterici e magici. Lo psichiatra Pallanti, in un’intervista a un quotidiano online, descrive il profilo di una persona che si mantiene al limite tra una vita “normale e banale” e la follia, che scaturisce improvvisamente e che troppo spesso non si riesce a cogliere in tempo, seppure sono presenti dei segnali riconoscibili ad un professionista. Casseri viene definito un «Breivik italiano» e Pallanti aggiunge che soggetti simili sono spesso attratti da ideologie di destra estrema per «ridotta volontà di ragionare e una tendenza a essere soggetti alla autorità proprie di queste personalità patologiche».

Luca Traini, 28 anni, candidato con la Lega alle elezioni del 2017 per il consiglio comunale di Corridonia (dove si trova la comunità da cui è scappata P. Mastropietro), svastica tatuata in fronte, ha espliciti atteggiamenti estremisti e razzisti, per i quali viene cacciato dalla palestra dove è iscritto. Non riesce a tenersi un lavoro, viene cacciato di casa dalla madre e vive con la nonna. Si reca da uno psichiatra che diagnostica un disturbo borderline di personalità. Mentre è in macchina sente per l’ennesima volta la notizia della morte di Pamela e «d’istinto» fa dietrofront, va a casa e prende le pistole: «Ho deciso di ucciderli tutti». 

Roberto Pirrone, pensionato, taciturno, dicono con qualche fissazione di troppo, giocatore e frequentatore di prostitute, pieno di debiti, pare collezionasse cimeli staliniani, con la passione per le armi, sparava per «arrivare alla perfezione», ha detto a un amico. Esce di casa per suicidarsi, poi «ci ripensa» e spara a un uomo con la pelle nera, ben 6 colpi di pistola di cui l’ultimo alla nuca dopo che l’uomo era già a terra. Dichiara che voleva finire in carcere, per non pesare più sulla famiglia. C’erano altre persone sulla sua strada ma lui ha sparato a Idy, non a caso, come volevano farci credere. Ha scelto un uomo di colore.

Nella descrizione di questi casi l’associazione tra razzismo e malattia mentale è evidente. Tali delitti sono sicuramente a sfondo razzista e legati a patologie mentali (seppur probabilmente diverse). Ma perché ora questo interesse dei giornalisti, del sindaco di Firenze e di una certa cultura a negare tale relazione? Lo chiarisce bene Pallanti parlando di soggetti con personalità patologiche spesso attratti da ideologie di destra estrema. Non possiamo dunque non pensare che un certo tipo di ideologia politica estremista e razzista influenzi personalità fragili incentivando gesti estremi. Dobbiamo riconoscere la grave responsabilità in tali vicende di un certo tipo di “cultura” e dei media che la diffondono senza alcuna riflessione critica sul proprio ruolo. Pirrone compie l’omicidio immediatamente dopo i risultati elettorali; Traini sente per infinite volte ripetere e sottolineare l’origine nigeriana degli assassini di Pamela; non sappiamo molto di Casseri immediatamente prima della strage, ma subito dopo sui forum neonazisti e negazionisti che frequentava assiduamente veniva definito un “eroe”.

Perché il pensiero razzista trova ambiente fertile in queste menti? Esso si basa su premesse antiscientifiche, perché non esistono razze diverse ma una specie umana. Ha le sue fondamenta nel pensiero razionale e stupido che quello che conta negli esseri umani è la realtà materiale, quindi il colore della pelle o degli occhi. La realtà materiale differente determina il cortocircuito, per il quale il nero o giallo, ecc, è considerato un essere inferiore, al pari di un animale che può dunque essere trattato in quanto tale (deriso, ignorato, escluso o ucciso). Invece l’identità umana si fonda su una realtà non materiale, non razionale, non spirituale: la mente umana, che «si sviluppa dopo essere nata spontaneamente dalla realtà biologica alla nascita grazie allo stimolo della luce» (Massimo Fagioli, Left del 16 luglio 2016); il neonato fa sparire la realtà materiale e compare invece la certezza di rapporto con l’altro essere umano. Tutti gli esseri umani hanno questa uguaglianza fondamentale, solo dopo si svilupperanno le differenze tra ognuno (anche quelle culturali), che arricchiscono l’umanità. Allora possiamo ipotizzare che il razzista che non considera questa realtà si rapporta al mondo con una credenza irreale? E quanto dista da questo la malattia mentale?

L’articolo della psichiatra Rossella Carnevali è tratto da Left n.11 del 16 marzo 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Invalsi, ovvero come negare il sapere critico

Un momento della protesta contro i test Invalsi, denominata 'Il Grande quiz InFalsi', in occasione dello sciopero dei lavoratori delle scuole medie e superiori, Bologna, 12 maggio 2015. ANSA/ GIORGIO BENVENUTI

Il caso recente del liceo classico più antico della Capitale che nel proprio rapporto di autovalutazione – il Rav, una sorta di vetrina online – riporta come nota di merito il fatto di non avere studenti stranieri, disabili e provenienti da famiglie svantaggiate, ha provocato sollevazioni in rete, sit-in davanti alla scuola, con la ministra Fedeli indignata che ha promesso ispezioni. Ma il problema rimane. E non si può risolvere scrivendo il Rav in modo politically correct. Il problema è il fatto stesso che esiste il Rav, così come esiste il sistema di valutazione Invalsi che l’ha elaborato, e quell’insieme di certificazioni, moduli, quiz che misurano competenze e stabiliscono graduatorie, fotografando un frammento della vita della scuola e dello studente senza seguire a pieno un processo delicato e in movimento come quello educativo. Se poi a questo aggiungiamo i bonus merito per gli insegnanti o il fatto che l’alternanza scuola lavoro ormai è codificata con tanto di tutor professionisti dell’Anpal, è chiaro che il problema è uno solo: la scuola sta diventando una specie di impresa con il preside manager e il suo staff che compila il Rav e mette in competizione l’istituto con altri per accaparrarsi le iscrizioni e quindi i fondi per sopravvivere. «Marketing scolastico» l’ha definito Alberto Baccini, docente di Economia politica all’università di Siena in un suo articolo sulla rivista Il Mulino.

In questi ultimi mesi è stato depositato in Cassazione un nuovo testo di legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione, mentre un appello per la scuola pubblica sottoscritto da 10mila persone chiede di rimettere in discussione tutto l’impianto della legge 107, la “Buona scuola”. Ma la deriva aziendalistica dell’istruzione pubblica è stato un tema pressoché ignorato dalla campagna elettorale, anche se nei programmi di Leu e Potere al popolo figura l’abolizione della Buona scuola. E così non si comprende il significato profondo della valutazione, che costituisce l’ossatura della formazione di stampo aziendalistico.

«Io studio i sistemi di valutazione dell’università dell’Anvur, ma la logica è perfettamente identica all’Invalsi, con le stesse matrici culturali, lo stesso modo di vedere il mondo», dice il professor Baccini che è anche uno dei fondatori di Roars, il sito-associazione che si occupa di ricerca e formazione. Cosa c’è dunque dietro il mondo Invalsi? «C’è il principio che le scuole servono a creare capitale umano, un concetto che nasce negli anni 60 con Gary Becker». L’economista cui fa riferimento Baccini è stato premiato con il Nobel nel 1992 per aver esteso l’analisi microeconomica ai comportamenti e alle relazioni umane. Becker, per intenderci, è lo stesso che non esitava a considerare i figli «un bene durevole, sia produttivo che di consumo». In un tipo di scuola che si rifà al “capitale umano”, continua Baccini «tutto ciò che è formazione, cittadinanza, diritti, tutto il bagaglio cioè legato all’idea di istruzione dalla rivoluzione francese in poi, viene buttato via». Nell’università questo aspetto è ancora più accentuato ma anche la guerra al liceo classico “inutile” alla fine nasce dall’impostazione economicistica. «Non interessa la formazione del cittadino o il sapere critico, ma la formazione di manodopera». Dal punto di vista dell’economia esiste tutta una letteratura sul new public management secondo cui la spesa pubblica deve essere gestita come dentro un’impresa e nel mercato, per cui «le scuole devono funzionare più o meno come imprese che sfornano un prodotto particolare». Tra i politici, è stata la Thatcher a imprimere la svolta, soprattutto per l’università. In Italia a dare la linea, per così dire, all’Invalsi e all’allora ministra Gelmini, è stata la triade Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini, che a dicembre 2008 stila un documento sul “sistema di misurazione degli apprendimenti”. «L’idea di fondo, siccome non ci si può fidare degli insegnanti, è quella di mettere in piedi un’agenzia esterna completamente autonoma che faccia le valutazioni, bypassando gli stessi insegnanti», spiega Baccini.

Già, proprio gli insegnanti. Su questo versante un effetto particolarmente negativo si ha nella scuola primaria, dove da quest’anno viene introdotta per la prima volta la prova Invalsi di inglese. È critica Concetta Messina, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Parco di Veio di Roma con un’attività intensa di formatrice. «L’Invalsi è un sistema standardizzato che va in direzione inversa rispetto al percorso pedagogico italiano che si basa sulla individualizzazione dell’insegnamento», premette. La conseguenza? «Con le prove Invalsi che, ripeto, riguardano “quei” test, si arriva a valutare la qualità stessa della scuola, facendo un’equazione sbagliata». E non è vero poi che questo sistema porti a un miglioramento dell’apprendimento. «Ha messo ancora di più in crisi gli insegnanti, anche quelli che hanno sempre lavorato bene. E sono prove difficili per i bambini». Concetta Messina spiega: «Seguendo le classi seconda e quinta, ho assistito a degli strafalcioni: testi di italiano inseriti nella prova di seconda, e che abbiamo ritrovato in un’antologia di quarta, con bambini di 7 anni che hanno cominciato a leggere da un anno alle prese con due pagine di testo e grandi difficoltà interne. Voglio essere equilibrata, forse questi test hanno fatto scattare un campanello d’allarme sulla lettura, sul lessico, sulla logica interna, i sensi figurati ecc, ma si poteva fare diversamente e non in questo modo invasivo, pervasivo e violento». Messina lamenta l’assenza di confronto con la scuola: «l’Invalsi si è imposto senza nessuna attenzione rispetto alle esigenze di insegnanti e studenti».

Sulla valutazione occorrerà un’analisi approfondita e chissà se il futuro governo lo farà. Si tratta di ribaltare un determinato pensiero sull’istruzione. Le soluzioni però ci sarebbero. «Andrebbe abolita la parola valutazione, ma questo non significa che non si debba fare qualcosa», sottolinea Baccini che propone «un osservatorio sul funzionamento di scuole e università, in mano a persone scientificamente competenti che faranno quelle osservazioni di cui si servirà la politica». Stesso concetto, calato nella scuola primaria: «La valutazione deve essere formativa, non sommativa – conclude Concetta Messina -, deve comprendere il percorso per vedere se si deve rettificare qualcosa che ho già fatto, affinché sia indicativa di un miglioramento, altrimenti non ha senso».

L’articolo di Donatella Coccoli è tratto da Left n. 9 del 2 marzo 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Il falso mito di Bergoglio

Cinque anni di papa Francesco. Dal 13 marzo 2013, sul settimanale Left abbiamo indagato sulla presunta rivoluzione nella Chiesa guidata dal gesuita argentino. Mettendo a confronto, nei nostri articoli, gli annunci del pontefice con i fatti. Ora li abbiamo raccolti in un libro di 224 pagine.

Leggi un estratto e l’indice

Acquistalo a un prezzo speciale sul nostro sito entro il 31 marzo 2018

Con i contributi di Marcelo Figueras, Marco Marzano, Maria Gabriella Gatti, Federico Masini, Gianfranco De Simone, Cecilia M. Calamani, Raffaele Carcano, Adele Orioli, Domenico Fargnoli, Giovanni Del Missier, Giuseppe Benedetti, Elena Basso, Donatella Coccoli, Federico Tulli, Simona Maggiorelli

 

Siria, inizia la fuga da Ghouta ma 400mila civili sono ancora intrappolati

epa06605665 Hundreds of civilians leave rebels-held Eastern Ghouta in the countryside of Damascus, Syria, 15 March 2018. According to Syrian official media reports, the Syrian Arab Army secured the exit of at least 10 thousand civilians from the town of Hamoria in Eastern Ghouta through the newly opened al-Baz corridor. On 19 February 2018 the Syrian government started a military campaign to regain control of rebels-held Eastern Ghouta in Damascus's countryside. Around 1500 civilians were killed according to local reports. EPA/YOUSSEF BADAWI

Sta per finire l’assedio e sta per cominciare l’esodo dalla Ghouta est. L’ultima roccaforte nemica di Assad sta crollando. È stata una delle battaglie più sanguinose della lunghissima guerra siriana: sette anni, migliaia di morti.

L’enclave di Ghouta, l’area a est di Damasco, è al collasso, 15mila persone dopo cinque anni hanno cominciato ad abbandonare la città. Dopo tre settimane di bombardamenti aerei, i civili sono scappati da Hamuriyah. Uomini, donne, bambini hanno lasciato le loro case soprattutto per mancanza di cibo, acqua ed elettricità. Si tratterebbe del più grande esodo dall’enclave ancora in parte controllata dagli insorti dove continua l’avanzata delle truppe governative siriane dopo i bombardamenti che, dal 18 febbraio, hanno provocato circa 1.200 morti, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus). Secondo l’organizzazione l’esodo avviene attraverso un corridoio dalla città di Hamuriya, al centro della Ghouta. Secondo fonti locali, le fazioni armate si sono ritirate da Hamuriya e Saqba, al centro della Ghouta, ma le notizie non sono verificabili in maniera indipendente, sottolinea l’Ansa.

La fuga dei civili proseguirà nei prossimi giorni, ad Assad e ai suoi alleati rimarranno ben pochi nemici e presto avranno il controllo totale del territorio. L’ultima offensiva del governo siriano è stata lanciata con l’aiuto degli alleati russi in divisa, che da metà febbraio, nonostante il cessate il fuoco invocato dalle Nazioni Unite, hanno fatto proseguire i combattimenti: Damasco e Mosca hanno ribadito che i gruppi che considerano terroristi non erano inclusi nel patto di tregua.

Ai ribelli che si arrenderanno, la Russia ha offerto un corridoio d’uscita sicuro, una tattica che ha aiutato Damasco e alleati a riprendere il controllo delle maggiori città siriane. Convogli umanitari della Croce Rossa internazionale (Cicr) sono diretti all’interno della Ghouta. Sono circa 400mila i civili ancora intrappolati, che presto avranno bisogno di cibo, medicine, aiuti umanitari.

 

«Ci siamo comportati da maschietti»

«Ci siamo comportati da maschietti», avrebbe detto uno dei due carabinieri sotto processo a Firenze per stupro durante l’interrogatorio con il pm Ornella Gallotti pochi giorni dopo il fatto, quando il vento che si era alzato era tutto contro le due ragazze americane colpevoli di essere donne, di essersi fatte stuprare, del “chissà come li hanno provocati”, del “le americane sono tutte così”, del “è colpa loro perché erano ubriache” e tutte le diverse declinazioni di una rivittimizzazione che accade nel 2018 ma sembrano gli anni ’70.

E dentro quella frase c’è tutta la gravità (già condannabile per etica, prima che per il processo) di un approccio al genere femminile che farebbe già vomitare di suo senza nemmeno bisogno della divisa da carabinieri per di più in servizio. E così succede che Marco Camuffo e Pietro Costa (i due militari rinviati a giudizio) possano impunemente dichiarare di avere caricato le due ragazze sull’auto (di servizio) per “farle un piacere”, poi dicono di averle accompagnate fin dentro al palazzo per galanteria e per motivi di sicurezza («Si è sempre fatto così, anche per una cosa di galanteria», hanno dichiarato e «perché magari le aggrediscono nel portone») e infine si burlano per avere fatto “i maschietti”.

Del resto il bullismo qui da noi sembra terribilmente di moda, anche se sfugge che dove c’è un bullo c0è sempre almeno un bullizzato.

Buon venerdì.

Storia di una ribellione immobile

5-Star Movement leader Luigi Di Maio waves to supporters as he arrives onstage in Pomigliano D'Arco, Italy, March 6, 2018. REUTERS/Ciro De Luca

Non sono trascorse neppure ventiquattro ore dalla chiusura delle urne, quando Luigi Di Maio arriva nella sua Pomigliano d’Arco per festeggiare il trionfo elettorale. Sale sul palco agghindato di palloncini gialli e parla agli abitanti di uno dei luoghi simbolo del sogno fordista del Mezzogiorno mettendoli al centro dell’Italia. Racconta loro del suo viaggio elettorale nel Paese che ha i loro stessi problemi. Nella narrazione di Di Maio il Sud non è un luogo a sé stante, governato da emergenze specifiche e contraddizioni genuine. La prospettiva è ribaltata: l’eccezione si fa regola, quella parte di Paese racchiude tutte le emergenze che lui stesso ha potuto individuare nel corso del suo giro d’Italia narrato giorno per giorno e in prima persona in diretta Facebook. Ovviamente si tratta di una mossa retorica, di un espediente comunicativo per sfuggire all’etichetta che, non senza qualche ragione, si sarebbe tentati di affibbiare al M5s come partito territoriale del Sud speculare e simmetrico al nord a trazione salviniana.

Eppure era cominciato dal Nord, il rally propagandistico che ha condotto Di Maio al pieno di voti nelle urne al Sud. Era iniziato sotto tutt’altri auspici e con un lungo mese di visite ad associazioni di categoria e imprenditori. Di Maio ha stretto mani a uomini d’azienda e manager, Di Maio ha dispensato dichiarazioni contro l’invadenza dello Stato, Di Maio ha invocato con piglio macroniano la «start-up nation». Lui e Davide Casaleggio erano convinti che la vittoria elettorale sarebbe arrivata soltanto sfondando nel tessuto produttivo del Nord, facendo proseliti tra piccoli e medi imprenditori. Poi, nel bel mezzo della campagna elettorale i sondaggi hanno sancito il fallimento dello schema: lo sfondamento non stava avvenendo. Lo confermano le analisi post-voto dell’Istituto Cattaneo, la svolta moderata di Di Maio al settentrione ha avuto saldo negativo, comportando la perdita di alcuni elettori, in transito verso la Lega di Salvini. Quando lo stato maggiore grillino se n’è accorto, Alessandro Di Battista si è lasciato sfuggire la battuta sugli italiani popolo di «rincoglioniti».

E invece è stato il Sud a fare la differenza, a gonfiare la bolla grillina e metterla in cima al podio elettorale. Con percentuali impressionanti, cappotti nei collegi uninominali, uno tsunami di consensi. Non importa che si tratti della parte di Mezzogiorno più dinamica, come la Puglia, o di quella più abbandonata, la Calabria. La gente vota 5 stelle, ignora cacicchi e famiglie storiche, capi-bastone e signori dei voti. Per cogliere a fondo il senso storico di questo trionfo, bisogna considerare che…

L’articolo di Giuliano Santoro è tratto da Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA