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I prof protestano per il bando transitorio «trappola per i precari». E le maestre fanno lo sciopero della fame

Un momento della protesta dei precari della scuola davanti il Miur a Roma, 12 gennaio 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

«Per noi precari della scuola storici questo bando è una trappola». Non usa mezzi termini Roberto Truglia, che fa parte del coordinamento dei docenti abilitati di seconda fascia delle graduatorie di istituto, quando parla del bando “transitorio” per l’assunzione degli insegnanti. I docenti hanno infatti diffuso un comunicato in cui esprimono tutta la loro contrarietà al bando d’assunzione lanciato con la riforma della Buona scuola e propongono delle soluzioni al loro problema. Passano anche alla protesta e infatti le sigle sindacali Anief e Saese hanno indetto uno sciopero per il 2 e il 3 maggio. Inoltre, dal 28 aprile al 3 maggio tocca al Coordinamento nazionale dei diplomati magistrale abilitati: le insegnanti delle elementari che da mesi protestano perché escluse dalle Graduatorie a esaurimento (Gae) da una sentenza del Consiglio di Stato faranno un  sit in di protesta e sciopero della fame davanti al Miur.

Professor Truglia cosa c’è che non va in questo bando?

Il concorso dovrebbe servire a stabilizzare i precari storici della scuola come me, ma, per come è stato pensato, è nel migliore dei casi uno spreco di soldi, nel peggiore una trappola. Inizialmente erano ammessi soltanto i docenti abilitati di seconda fascia come me (la prima fascia comprende gli insegnanti iscritti nelle Graduatorie ad esaurimento, e che quindi diventeranno di ruolo; la terza fascia è composta da insegnanti in possesso di un titolo di studio valido per l’insegnamento ma non abilitati, ndr), poi il Tar del Lazio ha deciso che al bando può partecipare anche chi ha un dottorato di ricerca ma non è abilitato all’insegnamento.

In che senso è una trappola per i precari storici?

È una trappola per noi perché, secondo i termini del concorso, viene riconosciuto un massimo di 30 punti guadagnati con l’esperienza di insegnamento maturata negli anni, e nel caso di molti di noi si parla di decine di anni. Anni di esperienza sia lavorativa che personale, a contatto ogni giorno con la scuola ed i suoi problemi. Con un limite così basso di punti riconosciuti, veniamo quindi equiparati a chi ha cominciato solo pochi anni fa. Inoltre, non solo può partecipare anche chi ha concluso un dottorato, ma esserne in possesso fa guadagnare molti punti, pur senza avere alcuna abilitazione all’insegnamento e quindi senza avere alcuna esperienza educativa. Ma le problematiche non finiscono qui: una volta vinto il bando si accede al Fit, formazione iniziale e tirocinio. Il Fit si svolge in tre anni: i primi due anni sono composti da tirocini e supplenze, mentre al terzo anno viene assegnata una cattedra vacante. Nel caso il Fit non venisse superato, si viene cancellati dalle graduatorie e la propria storia lavorativa annullata. In tal caso, un precario come me, l’anno successivo dovrebbe ripartire da zero e vedersi annullati anni di insegnamento. C’è poi un’ulteriore discriminazione, sempre in termini di punteggio, tra l’abilitazione tramite Tfa, tirocinio formativo attivo, e Pas, percorsi abilitanti speciali.

C’è differenza tra questi due percorsi?

No, entrambi provengono dalla stessa normativa e il percorso è molto simile. Rispetto al Tfa, il Pas è un percorso specializzante per insegnanti di laboratorio delle superiori, ma a questo ultimo percorso vengono assegnati ben 19 punti in meno rispetto al Tfa, una differenza che può pesare molto quando si partecipa al bando “transitorio”.

Cosa propone il coordinamento di cui fa parte per risolvere la vostra situazione?

Noi chiediamo la riapertura delle graduatorie ad esaurimento, chiuse dal 2008. Oppure, per le classi di concorso per cui le graduatorie sono già esaurite, passare direttamente all’assunzione degli insegnanti abilitati in seconda fascia rispettando i punteggi individuali acquisiti fino ad ora. Sarebbe una soluzione molto semplice e che non richiederebbe alcun bando o concorso. Abbiamo comunque organizzato delle mobilitazioni: le sigle sindacali Anief e Saese hanno indetto uno sciopero per il 2 e il 3 maggio.

Erik Gandini: «Racconto la realtà complessa»

Erik, tu che fai un tipo di cinema permeato sempre da uno sguardo politico, pensi che destra e sinistra non esistano più?
I ‘binomi’ sono intriganti perché ci aiutano a navigare in un mondo frammentario e complesso, rendendo la realtà più facile, comprensibile. È comodo pensare che ci sia da una parte il giusto e dall’altra lo sbagliato, è un bisogno naturale che abbiamo. Un ricercatore americano, Barry Schwartz, studia come il consumismo moderno abbia reso le scelte molto più difficili, moltiplicando l’offerta fino all’inverosimile.

È il Paradox of choice, che anziché dare libertà, paralizza. Less is more. La politica sembra aver capito questo paradosso meglio dell’economia di mercato e ci mette ancora di fronte a questa dicotomia. Lavorare con il documentario negli ultimi anni ha significato, per me, sempre di più dover riconoscere invece la complessità della realtà per cercare una narrativa che vada oltre la semplificazione.

Potremmo dire che ormai per leggere il contemporaneo non servono vecchi paradigmi o che ne servono altri, ad esempio Nord/Sud?
Per me fare un film come La teoria svedese dell’amore è stato mettere in crisi una dicotomia che mi coinvolge personalmente, quella della superiorità del Nord verso il Sud, secondo la quale noi al Nord Europa abbiamo realizzato la società più moderna del mondo e quindi non abbiamo più nulla da imparare dal Sud. Con la conseguenza, peraltro, che chi arriva come migrante può solo apprendere da noi. C’è un rischio vero e proprio in…

L’intervista di Simone Amendola ad Erik Gandini prosegue su Left in edicola


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A chi interessa il conflitto d’interessi

Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, a margine di un incontro elettorale a Udine, 26 aprile 2018. ANSA/ALBERTO LANCIA

Ma davvero, a chi interessa il conflitto d’interessi oggigiorno? A pochi, pochissimi, sembrerebbe. E sapete perché? Perché in Italia c’è un conflitto d’interessi di fondo che ha un nome e cognome (Silvio Berlusconi) eppure a lui hanno dovuto fare riferimento negli anni praticamente tutti gli uomini del centrodestra, un bel pezzo di centrosinistra che con Silvio Berlusconi ha allegramente duettato nel corso degli anni (sempre, ben inteso, in nome di una “responsabilità istituzionale” che è la giustificazione che dovrebbe perdonare tutto) e perché gran parte della stampa (carta, televisione, internet, radio) ci ha fatto credere che non esista nessun conflitto d’interessi da risolvere – ovviamente quei media sono tutti di Silvio Berlusconi.

Così basta che Di Maio dica una cosa semplice come il pane (ovvero che Berlusconi da sempre usa i suoi media come manganelli contro l’avversario politico di turno) perché in Italia improvvisamente si scateni l’inferno: «Parole da esproprio proletario» ha strepitato Silvio Berlusconi dalla sua reggia, con il solito vecchio trucco di paventare lo spettro del comunismo come prima difesa.

Eppure una seria legge sul conflitto di interessi, se ci pensate, sarebbe una bellissima notizia per il governo che verrà (se verrà): una di quelle che bene o male darebbe la sensazione che qualcosa stia cambiando davvero e, soprattutto, eviterebbe all’Italia la figuraccia internazionale di avere da decenni un serio problema di informazione e democrazia che si insiste nel normalizzare piuttosto che risolvere.

Buon venerdì.

Destra e sinistra, una distinzione fondamentale

Destra e sinistra non esistono più, è una distinzione superata. Sono tanti anni che sentiamo ripetere questa affermazione. Che mi è sempre suonata allarmante. Tanto più se chi la pronuncia si affanna a presentarsi neutro, scevro da ideologie, profeta dei un sedicente nuovo che avanza. È successo nel 1994 quando Berlusconi scese in campo rivendicando la propria estraneità alla politica di professione e lanciando il partito azienda. È successo nel 1989 con il crollo del muro di Berlino che segnò quello delle ideologie e che partorì solo la Bolognina. È accaduto con Veltroni quando nelle feste dell’Unità sostituì le citazioni di Gramsci con l’asettico «I care» di Kennedy. È accaduto quando le sezioni sono diventate circoli e quando perfino il Pd ha tolto l’antifascismo dal proprio statuto. È accaduto quando Grillo ha detto che i 5stelle non sono di destra né di sinistra, ma sono la nuova Dc.

Dettagli, direte. Talvolta invece i dettagli sono dei segnali, delle spie, dei frammenti che aiutano a comprendere più a fondo l’insieme. Anche le parole sono importanti. Sostituire la diade destra/sinistra cara a Bobbio con quella di vecchi (da rottamare)/giovani come fece Renzi, di fatto, ha portato solo alla sostituzione di un vecchio ceto politico catto-comunista con un ceto politico catto-liberista. Dirsi anti-casta, come hanno fatto i grillini, a ben vedere, non significa affatto combattere le disuguaglianze. Dirsi anti sistema, come hanno fatto Lega e M5s della prima ora, non significa affatto voler costruire una società con meno disuguaglianza e meno ingiustizia sociale; lo dimostrano provvedimenti come la flat tax proposta da Salvini che ora riscuote apprezzamenti anche da Toninelli dei Cinquestelle «purché non danneggi i poveri» (sic!).

Anche senza scomodare Giorgio Gaber e la graffiante ironia del suo «cos’è la destra», «cos’è la sinistra», ci pare che ci sia molto di tragicomico in questa gara di Pd Cinque stelle, Forza Italia e Lega, a dirsi di centro, guardando tutti indistintamente a destra, inneggiando a respingimenti, gestione emergenziale e securitaria dell’immigrazione, bocciando lo ius soli e via di questo passo. Sull’importanza fondamentale della distinzione fra destra e sinistra vorrei invitare i lettori a leggere gli importanti approfondimenti storici e politologici che offrono Nadia Urbinati, Carlo Galli e Charlie Barnao in questo sfoglio. In questa breve introduzione restiamo ai fatti accaduti negli ultimi 50 giorni di palude politica. Davvero possiamo dire che il governo si sia occupato solo di ordinaria amministrazione dando il via libera all’uso delle basi militari agli Usa per bombardare la Siria? È il Patto atlantico che lo chiede, certo.

Ma obbedirvi dichiarando – come ha fatto Gentiloni – che l’Italia non è neutrale nel conflitto in Siria va contro l’art. 11 della Carta. In attesa del nuovo governo, il nuovo Parlamento ha già prodotto uno stop alla riforma carceraria che recepiva le condanne per violazione dei diritti umani pronunciate dalla Cedu nei confronti dell’Italia. Ed è accaduto che il ministro della pubblica istruzione Valeria Fedeli abbia inserito gli insegnanti di religione nelle commissioni di esame di terza media. Ed è accaduto che il M5s abbia approvato la spesa di 600 milioni per l’acquisto di droni militari. Sono provvedimenti senza connotazione politica? La risposta è pleonastica.

Mentre scriviamo Di Maio dice di aver dato il 12 aprile scorso incarico al professor Giacinto Della Cananea «di comporre un comitato scientifico per studiare le convergenze programmatiche tra il Movimento 5 stelle e i due partiti con i quali è in corso un dialogo per il governo: la Lega e il Partito democratico. Il professore ha lavorato senza sosta per dieci giorni e ha redatto questo primo schema di accordo, che andrà approfondito insieme alla forza politica che accetterà di sedersi al tavolo con noi». Non lo chiama programma, ma contratto, da stipulare indifferentemente con Lega e Pd.

Anche tralasciando di ricordare l’assonanza nominale con il contratto con gli italiani di Berlusconi, notiamo, tra l’altro, che scompare l’abrogazione della Fornero e scompare l’abrogazione del pareggio di bilancio. Mentre viene evocato un nuovo governo dei tecnici. Anche quello guidato da Monti lo fu e si caratterizzò per dei provvedimenti a dir poco conservatori come, appunto, la riforma Fornero delle pensioni. Destra e sinistra, con tutta evidenza, non sono categorie dello spirito, ma definiscono scelte politiche che hanno ricadute ben concrete sulla vita di tutti noi.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Destra e sinistra non sono uguali

Five-Star Movement (M5S) leader, Luigi Di Maio, during his visit to the Milan International Furniture Fair in Rho, near Milan, Italy, 21 April 2018. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

Scriveva Raymond Aron (che non era un intellettuale di sinistra) che chi sosteneva la fine della  distinzione tra destra e sinistra era di destra, o comunque non era un amico della sinistra. Norberto Bobbio ha proseguito su questa strada e ha argomentato in maniera analitica e non ideologica, che la distinzione ha particolarmente senso nelle società di mercato basate sulla libera iniziativa e quindi sulla produzione di diseguaglianza sociale. Le democrazie non solo non riescono a disinteressarsene, ma devono fare i conti con le richieste di più eguaglianza o più equa distribuzione delle risorse, di politiche che tengano conto dei bisogni primari dei cittadini, non per la semplice sopravvivenza, ma per condurre una vita dignitosa.

Anche se non vogliamo chiamare queste politiche “di sinistra”, anche se vogliamo incasellarle in politiche umanitarie o di aiuto, è evidente che queste politiche presumono che la democrazia ci spinga a pensare in termini di eguaglianza, a mettere in dubbio che possiamo semplicemente avere una visione di neutralità dei diritti di libertà come nel liberalismo pre-democratico. L’inclusione nel sovrano collettivo di molti – idealmente di tutti coloro che devono ubbidire alla legge – non consente l’indifferenza del governo democratico e del discorso pubblico verso le questioni di giustizia distributiva e in generale di eguaglianza. Significa questo che non si possa fare a meno di destra e sinistra? Credo di sì.

Perché questa distinzione non è il prodotto di un’ideologia, ma il sostrato sul quale l’ideologia…

 

L’analisi di Nadia Urbinati prosegue su Left in edicola


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A Roma l’odissea dei migranti invisibili dentro la ex fabbrica della penicillina

ROME, ITALY - APRIL 03: Grafitti covers the walls at an abandoned penicillin factory where migrants and people in poverty live in bad hygienic conditions, on April 3, 2018 in Rome, Italy. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

Estrema periferia di Roma. Tor Cervara. In via Vannina, una stradina sterrata alle spalle di via Tiburtina, fra compro oro e sale con slot machine, si è svolto, il 21 marzo, l’ultimo sgombero di un ghetto che, dal 2014, ha costituito riparo per tanti migranti invisibili alle istituzioni. Ma chiaramente ingombranti tanto che le forze dell’ordine, secondo quanto riportano le associazioni (che hanno supportato gli ex occupanti) nel report Uscire dal ghetto, hanno effettuato le operazioni con modalità non conformi alle prescrizioni. Senza alcun preavviso e senza la presenza della Sala operativa sociale. E, soprattutto, senza delineare una soluzione alternativa, limitandosi a una risposta esclusivamente repressiva.

E, perciò, costringendo gli ex occupanti, circa ottanta, a trovare rifugio in un enorme e vuoto capannone industriale in via Tiburtina 1040, sede dismessa della ‘Fabbrica della penicillina’, già abitata da altre cinquecento persone. In condizioni igieniche e sanitarie indegne e, se possibile, peggiori di quelle dello stabile di via Vannina: presenza di amianto, residui chimici e di rifiuti speciali abbandonati, infestazioni di ratti e carenza di ogni qualsivoglia servizio. Le procedure non sarebbero in linea con quanto dispone l’articolo 11 della legge numero 48 del 2017 che, nel dettare disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili, tutela «la salvaguardia dei livelli assistenziali che devono essere, in ogni caso, garantiti agli aventi diritto dalle Regioni e dagli enti locali». E questo tenendo in giusta considerazione sia i diritti dei proprietari sia quelli degli occupanti che, per la loro conclamata vulnerabilità, debbono, però, essere ritenuti prioritari.

Anche perché, come sostiene il report, l’obbligo di vivere in condizioni disumane è da ricercarsi nelle inefficienze del sistema di accoglienza istituzionale, nelle pratiche difformi della questura di Roma e nelle difficoltà concernenti l’ottenimento della residenza. Concretamente, molti degli abitanti di via Vannina hanno terminato il loro percorso di accoglienza senza risorse per poter proseguire in autonomia il loro radicamento nella società italiana: disomogeneità delle esperienze, poca attenzione all’insegnamento della lingua italiana e carenza di attività volte all’inserimento lavorativo hanno generato situazioni di marginalità estrema.

Una marginalità che prospera, anche, per l’impossibilità di esercitare fondamentali diritti, in assenza di un indirizzo di residenza, per ottenere il quale è necessario un permesso di soggiorno, rilasciato solo a fronte del soddisfacimento di richieste pretestuose e, il più delle volte, irrealizzabili. Obbligando la gran parte dei migranti, quindi, a rinunciare alla possibilità di poter beneficiare legittimamente delle cure, in maniera strutturale, a spese dello Stato, dei servizi sociali, della registrazione presso i centri per l’impiego e di poter partecipare all’assegnazione degli alloggi di residenza pubblica.

Nel frattempo, in quella struttura, a dir poco, fatiscente tanti (troppi) immigrati – dal Congo, dal Gambia, dal Ghana, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Senegal, dalla Sierra Leone e dal Togo – ci vivevano, costretti a mettere da parte la loro dignità di esseri umani, in nome della «presunta sicurezza e del decoro urbano», si legge nel report redatto, a bilancio delle attività, dalle associazioni – Medu, Alterego-Fabbrica dei diritti, BeFree, Intersos, A buon diritto e Wilpf – presenti nell’edificio.

Tra i 92 e 111, gli ex occupanti di via Vannina erano per la maggior parte uomini fra i 18 e i 30 anni, e 5 donne, in alcuni casi, sospette vittime di tratta ai fini dello sfruttamento della prostituzione. Tanti richiedenti asilo, alcuni “ricorrenti” (la cui domanda di protezione è stata negata e che hanno presentato ricorso), extracomunitari con decreto di espulsione, con problemi di rilievo penale o destinatari di una pena detentiva ma sospesa, titolari di permesso di soggiorno con problemi per il rinnovo e migranti che chiedono accesso al programma di rimpatrio volontario: tutti in condizioni di forte isolamento.

Che li ha obbligati a trascurare la propria situazione psico-fisica per dare la priorità alla ricerca di lavori, seppure in nero e in stato di grave sfruttamento, pur di trarre l’indispensabile al proprio sostentamento. E, però, sviluppando, a causa della mancanza di prevenzione (oltre che per le condizioni di scarsa igiene e di cattiva alimentazione), disturbi e patologie nonché dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti. E se non fosse stato avanzato il requisito della residenza, tanti di loro, qualificati e con una rilevante formazione scolastica, non si ritroverebbero nelle condizioni insostenibili in cui versano.

Agricoltori, commessi, meccanici, saldatori, lavapiatti, cuochi, pittori, magazzinieri, operai edili, elettricisti, camerieri, musicisti, bigliettai, tecnici elettronici, camerieri, musicisti, bigliettai, addetti alla sicurezza e alle pulizie, commercianti, barbieri, ingegneri meccanici, benzinai, grafici, cassieri, corrieri e giardinieri hanno (quasi) perso la speranza di trovare un impiego regolare. E non solo.

Il giubbotto “Press” non salva i giornalisti palestinesi dai colpi dei cecchini israeliani

Palestinian journalists cover the Palestinian demonstrations on the border with Israel. it is worth mentioning that Israel killed photojournalist Yaser Murtaja two weeks ago and wounded many of the press photographers, including a serious injury to journalist Ahmed Abu Hussein. The Palestinian Journalists Syndicate demanded international protection for journalists and civilians against the clear targeting of them and against the breach International conventions and conventions on 20 April 2018(Photo by Momen Faiz/NurPhoto via Getty Images)

Ahmad è morto. Reporter, 24 anni, era stato colpito il 13 aprile scorso durante le proteste al confine di Gaza, a Jebaliya. Hanno provato a curarlo all’ospedale Al Andalusi, nella Striscia, poi è stato trasferito a Ramallah, ma Ahmad Abu Hussein non ce l’ha fatta ed è deceduto il 25 aprile all’ospedale Israel’s Tel Hashomer, vicino Tel Aviv.
Ahmad era un fotografo, lavorava per la Gaza’s Al Shaab, stazione radio della sinistra palestinese. Due settimane fa era stato raggiunto dalla pallottola di un cecchino israeliano e poche ore dopo la foto del suo corpo ferito era sui social media. È il secondo giornalista a morire da quando le proteste della “Grande marcia del ritorno”  sono iniziate il 30 marzo scorso. Da allora 5mila palestinesi sono rimasti feriti, 40 sono stati uccisi.

Ahmad è stato colpito all’addome, portava un giubbotto con la scritta “press”, bianco su blu, proprio come Yasser Murtaja, giornalista della Palestinian Ain Media. Yasser, 30 anni, è morto a Gaza il 7 aprile scorso. Le pallottole le hanno raggiunti entrambi nonostante fosse chiaro  che erano reporter.
Il giorno in cui Murtaja è stato ucciso, il sindacato dei giornalisti palestinesi, ha riferito che altri cinque reporter erano rimasti feriti e tutti erano identificabili per la loro professione. Il sindacato ha riferito che Murtaja si trovava a 350 metri dalla recinzione del confine israeliano, ma è diventato comunque un bersaglio dell’Idf, esercito israeliano, che a sua volta ha dichiarato solo che «le circostanze in cui sono stati colpiti i giornalisti non sono familiari all’Idf». Per ottenere chiarimenti dall’esercito, al sindacato dei giornalisti palestinesi si è poi unito quello israeliano: «uno Stato che si dice democratico non fa del male ai giornalisti in the line of duty, durante l’adempimento del loro dovere».
Reporter, morti, e sotto la scritta “press”. In precedenza Christopher Deloire, segretario generale di Reporter senza frontières, ha detto che l’ong «condanna con indignazione le sparatorie deliberate contro i giornalisti» e ha chiesto che un’indagine venga aperta per la morte di Yasser.
Dopo quello di Yasser, a Gaza ci sarà dunque un altro funerale di un reporter. Per Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Cpj, Comitato protezione giornalisti, «la morte di Ahmad Abu Hussein sottolinea la necessità delle autorità israeliane a riesaminare urgentemente le politiche verso i giornalisti che coprono le proteste, bisogna prendere decisioni immediate. Chi indossa un equipaggiamento che indica che gli individui sono membri della stampa dovrebbe avere una protezione extra, non diventare un bersaglio».

De Luca, Berlusconi e la storia usata come lettiera

“Il Pd vive come gli ebrei negli anni delle leggi razziali: braccati, umiliati e senza patria”: parole di tre giorni fa pronunciate dal presidente della Campania Vincenzo De Luca, uno di quelli che senza sparate sui giornali non esisterebbe nemmeno. Uno di quelli che in un partito serio non verrebbe candidato nemmeno come amministratore di condominio.

“Siamo di fronte a un grave pericolo. L’altro giorno stavo dando una mano a delle persone e gli ho chiesto come si sentissero di fronte a questa formazione politica, che non si può certo definire democratica. Uno mi guarda negli occhi e mi dice ‘credo che ci sentiamo come gli ebrei al primo apparire della figura di Hitler‘”: parole pronunciate ieri da Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia (non è un leader, su, non scherziamo con il senso delle parole) e pregiudicato, che in Paese normale sarebbe fuori dalla politica da anni, dovrebbe spiegarci parecchie cose ( tra cui la provenienza del denaro con cui ha cominciato ad essere imprenditore e le amicizie mafiose dei suoi stretti collaboratori come Marcello Dell’Utri).

Tutti e due a parlare di ebrei e di Hitler ovviamente sfruttando l’aria del 25 aprile, inserendosi nel tema caldo del momento per farsi notare di più e meglio con tutto l’egocentrismo di cui sono capaci. Ma qui la colpa è infinitamente più grave: qui siamo di fronte a due membri della classe dirigente che usano la Storia come zerbino, come una lettiera in cui fare i propri bisogni sperando di poter dare due zampate per coprire tutto. Sulla pelle dell’antifascismo e del popolo ebraico.

Buon giovedì.

Quattro storie per raccontare la Resistenza nel segno del coraggio e della libertà

Se avete bambini – ma anche se non ne avete – a cui vorreste trasmettere i valori della Resistenza, l’importanza del coraggio, della libertà e della fratellanza tra i popoli, questi quattro libri pubblicati da Gallucci editore fanno al caso vostro.

Bella Ciao, illustrato da Paolo Cardoni, a cui è anche allegato un cd con le musiche dei Modena City Ramblers, trasforma in colori e figure il testo della famosa canzone partigiana. Ogni tavola ripercorre una strofa della canzone, dall’invasore che marcia in città, fino al fiore piantato in montagna. Nota in tutta il mondo, “Bella Ciao” è stata tradotta in moltissime lingue, tra cui inglese, curdo, turco, spagnolo e anche cinese. Col tempo è diventato un inno di resistenza contro ogni forma di oppressione, al punto da venire usato di recente in diverse manifestazioni fuori dall’Italia: Syriza, il partito greco di Alexis Tsipras che ha vinto le elezioni nel 2015, ha concluso la sua campagna elettorale proprio con “Bella Ciao”; nel 2011 è stata cantata più volte dagli attivisti di Occupy wall street e alcuni manifestanti l’hanno intonata durante le proteste di piazza Taksim contro il premier turco Recep Tayyip Erdoğan nel 2013.

Paolo Cardoni è un disegnatore romano nato nel 1953. Per la stessa casa editrice ha illustrato anche La storia degli uomini e Piccolo marinaio dei tre oceani. È stato anche direttore artistico del cartone animato La freccia azzurra, tratto dall’omonimo racconto di Gianni Rodari.

I Modena City Ramblers sono un gruppo folk italiano formatosi a Modena nel 1991 che ha spesso reinterpretato canzoni popolari italiane legate alla resistenza.

Una illustrazione di “Bella Ciao” 

C’è poi Imagine, basato sull’omonima canzone di John Lennon, illustrato dal francese Jean Jullien e tradotto da Altan, con l’introduzione scritta da Yoko Ono. Protagonista di questa raffigurazione del famoso inno alla pace e alla fratellanza è un piccione, che attraversa un limpido cielo azzurro pastello, sotto al quale tutte le creature convivono in pace. Il libro è un invito ai bambini a continuare a sperare e lavorare per un mondo migliore, senza confini, oggi più marcati che mai, né violenza, né soprusi.

Jean Jullien è un artista francese che vive a Los Angeles particolarmente attivo sul web. Moltissimi dei suoi lavori si possono trovare sul suo sito.

Al centro, il piccione protagonista di “Imagine”

Libertà, la poesia del 1942 di Paul Eluard diventa un “libro a fisarmonica”, che in ogni piega cela i paesaggi che vengono descritti nei versi tradotti da Franco Fortini. Scritta durante il secondo conflitto mondiale, è un elogio ad uno tra i più preziosi valori dell’uomo, che, nel periodo in cui la poesia è stata scritta, veniva messo in discussione dalla violenza del nazifascismo.

Paul Eluard, poeta francese nato nel 1895 e morto nel 1952, è stato ispirato dai grandi eventi del suo tempo – i conflitti mondiali e le rivoluzioni sociali e tecnologiche – a scrivere poesie e contribuire così alla nascita del movimento surrealista.

La copertina di Libertà

Storia di Leda racconta la storia fittizia di una bambina di dieci anni, la Leda del titolo, che fa la staffetta partigiana nel maggio del 1944. Un giorno come un altro, Leda sta pedalando con la sua bici per portare un messaggio ad un’unità di partigiani, quando incontra una pattuglia tedesca ed è costretta alla fuga. I tedeschi stanno per raggiungerla ma viene salvata da uno stravagante anziano che vive in una grotta e si fa chiamare Mago. Prende così il via una storia che insegna ad apprezzare la virtù del coraggio e il valore della memoria.

Scritto da Ermanno Detti, nato a Manciano, classe 1939. Detti ha pubblicato con Gallucci Favole di campagna e I viaggi curiosi di Nico e Mina.

I disegni sono di Roberto Innocenti. Nato nel 1940 a Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, Innocenti è uno dei più grandi disegnatori al mondo. È infatti l’unico italiano ad aver vinto il premio Hans Christian Andersen, il più importante riconoscimento internazionale nel campo della letteratura per l’infanzia.

Una delle tavole che narrano la Storia di Leda

Ecco come vengono bloccati i migranti in Sudan tra abusi e violenze. E l’Europa chiude un occhio

epa04193631 A photo made available on 06 May 2014 shows trucks, carrying illegal migrants who were left in the desert on the Sudanese-Libyan border, arriving after they were rescued in Dongola, Sudan, 03 May 2014. According to media reports, some 300 African nationals were left by their traffickers in the desert as they were attempting to cross into Libya en route to Europe. Ten people died before Sudanese and Libyan forces rescued the remaining immigrants and brought them to the Sudanese town of Dongola. EPA/STR

«A volte», ha detto il colonnello Samih Omar al New York Times, «mi sembra che questo sia il confine meridionale dell’Unione Europea». Invece è il percorso rovente verso la Libia, il porto d’Africa per raggiungere l’Europa. È terra di Sudan, duemila miglia che i migranti attraversano sperando di raggiungere il Mediterraneo e poi l’Europa. È dove opera la pattuglia del colonnello Omar per impedire che i richiedenti d’asilo salpino verso le coste europee.

Le sue Rsf le Rapid support forces, hanno appena arrestato 66 migranti in arrivo dal Nord del Darfur, in un’operazione congiunta con i Niss, servizi segreti e d’intelligence nazionali: 37 degli uomini in fuga erano sudanesi, 26 erano etiopi. Il Sudan è il Paese di transito soprattutto per chi scappa da Eritrea e Etiopia.

Tra Europa e Sudan «la relazione è opaca per mutuo aiuto reciproco: gli europei vogliono i confini chiusi, i sudanesi vogliono porre fine ad anni di isolamento dall’Ovest e all’embargo» contro il governo di al Bashir, accusato dalle Ong di violare tutti i diritti umani possibili, scrive ancora il NYT. Per soffocare la migrazione, l’Europa farebbe ricorso alle truppe di questa temuta polizia segreta.
Anche Human Rights Watch sottolinea come nonostante le denunce di abusi, gli Stati Uniti e l’Unione europea sostengano il governo sudanese in materia di antiterrorismo e controllo delle migrazioni.

Tutto questo in qualche modo è il risultato del processo di Khartoum, arena di conferenze internazionali sul tema della migrazione, svoltesi tra ufficiali europei ed africani. Tra quelli africani, c’erano i sudanesi. Il processo è iniziato nel 2014, ufficialmente per “migliorare i diritti umani” nel corno d’Africa. Anche se nessun fondo europeo è stato stanziato per il governo del Paese, o arrivato direttamente ed ufficialmente per arginare la partenza dei richiedenti asilo, – come è accaduto in Turchia e Libia -, 130 milioni sono arrivati ad agenzie e organizzazioni umanitarie nel territorio di al Bashir, per finanziare programmi d’aiuto per migranti, ma anche per formare ufficiali.

Mohamed Hamdan, un comandante delle Rsf, ha detto durante una cerimonia nella capitale Karthoum che i suoi soldati «fanno il lavoro che dovrebbe fare l’Ue. Ecco perché dovrebbero riconoscere i nostri sforzi, supportarci perché abbiamo perso molti uomini, e molti soldi. Altrimenti cambieremo idea e smetteremo di svolgere questo compito». Il comandante vuole “una compensazione europea”, cioè soldi, per continuare a dispiegare soldati-guardiani al confine libico, e per impedire che i migranti raggiungano il mare. Le sue truppe sono nate dalle milizie “janjaweed” implicate nei crimini di guerra commessi in Darfur durante la guerra, oggi sono invece accusate di torturare i migranti in transito e sono conosciute soprattutto per la loro brutalità.

Le relazioni tra blocco europeo e sudanese evolvono, questo implica «la riabilitazione dell’apparato di sicurezza sudanese, i cui leader sono accusati dalle Nazioni Unite di crimini di guerra in Darfur. Non c’è uno scambio diretto di denaro», dice Suliman Baldo, autore del report “Border control from Hell”, che parla della partnership sulla migrazione tra Europa e Sudan, ma «l’Ue, in pratica, legittima l’abuso della forza» delle milizie.

Questi accordi stretti con uno dei Paesi dove i diritti umani sono violati ogni giorno è «un patto col diavolo» e «la storia insegna che non va mai a buon fine». Lo ha detto Mukesh Kapila, ex coordinatore Onu per il Sudan al Guardian. «Lo abbiamo già visto molte volte, dobbiamo impegnarci con la società civile, non andare a letto con al Bashir».