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S’i’ fosse foco, arderei ‘l referendum

L'ex segretario del Pd Matteo Renzi ospite della trasmissione di Rai1 "Che tempo che fa" condotta da Fabio Fazio, Milano, 29 Aprile 2018. ANSA / MATTEO BAZZI

In diretta televisiva nazionale, nella trasmissione di Fabio Fazio (quella che vorrebbe farci la predica invitando spesso i bulli trattandoli come indispensabili moralizzatori), è stato ospite quel Matteo Renzi che il 23 marzo del 2018 aveva dichiarato «ora starò zitto per due anni». È durato fino al 29 aprile. Del resto si sa che una delle qualità migliori delle trasmissioni di Fazio è proprio quella di essere “aperta” a tutti, come ospiti, mica solo quelli di una cerchia ristretta.

Quindi, quello che aveva dichiarato (anzi, che aveva promesso, per calmare gli animi dopo la sconfitta) di voler essere un senatore semplice, ha parlato a lungo della crisi politica di queste settimane usando il «noi» come lo userebbe chi si ritrova a guidare un partito, mica come un dimissionario convinto. Del resto se è vero che in molti nel Pd chiedono che venga consultata la base, è anche vero che a Renzi è bastato un giro in bici nei giorni scorsi per sapere cosa pensa la gente con la solita umiltà di chi ritene il proprio punto di vista come unica realtà possibile e accettabile.

Ha insistito ancora sul referendum costituzionale (che è la batosta che più gli brucia, sembra ancora di più della pesante sconfitta elettorale) insistendo nel dire che accetta il risultato degli elettori, che però secondo lui è sbagliato, ovvio. Ha detto di avere cominciato a fare politica per andare contro il partito-azienda di Berlusconi (infatti ci si è solo alleato, e che diamine), ha detto che gli italiani hanno votato per mandare il Pd all’opposizione (degradando, se possibile, ancora di più i suoi elettori che sono sempre meno), ha collegato la mancata riforma costituzionale alla pessima legge elettorale di cui è padre politico (e invece la sentenza della Consulta dice tutt’altro, come eroicamente tenta di spiegare Lorenzo Pregliasco da giorni qui) e infine ci ha tenuto a dirci che il caso della colf pagata in nero (forse) dalla compagna di Roberto Fico diventerà il Watergate italiano (e fa niente che i genitori di Renzi, nel frattempo, siano stati indagati in un’inchiesta di fatture false).

Non era in diretta. Era in differita dal 2014. Ma quando si tratta di intossicare un po’ il clima è sempre tra i migliori. Lui e Silvio.

Buon lunedì.

Tre anni dopo il sisma la gente trema ancora in Nepal

Famiglie in case provvisorie a Dharmastali

Sedevano davanti alla televisione, Manis e Asok, quando la terra ha iniziato a tremare e il soffitto di casa loro è ceduto all’improvviso. Di corsa sono fuggiti per strada per non rimanere intrappolati tra le macerie, mentre le abitazioni tutt’intorno crollavano l’una dopo l’altra. In quel terribile 25 aprile del 2015, il giorno più triste della travagliata storia della giovane repubblica federale del Nepal, un sisma di magnitudo 7.8 spazzava via interi paesi e abbatteva oltre mezzo milione di case, uccidendo 9mila persone. Tre anni dopo, il villaggio di Manis e Asok, Dharmastali, è un cantiere aperto, dove nuove abitazioni in cemento si alternano a rifugi temporanei in lamiera.

Una famiglia di Dharmastali vive ancora in una tenda mentre lavora alla costruzione della nuova casa – foto Nicola Zolin

La maggior parte dei negozi del villaggio ha riaperto sotto forma di baracche sostenute da pali in bambù. Per le strade uomini e donne insieme trasportano rocce, rompono pietre, aiutati dai loro figli di ogni età.

Sunaji studia fuori dalla casa provvisoria dove vive a Dharmastali – foto Nicola Zolin

Prima del sisma, le case in stile tradizionale newari di Dharmastali rappresentavano un vanto per la popolazione, caratteristiche per gli unici intagli in legno e le costruzioni in mattoni rossi, belle come quelle delle città di Patan e di Bhaktapur, gioielli architettonici storici della valle di Kathmandu. Il 25 aprile, il terremoto le ha ridotte in macerie. Il sisma, ampiamente previsto dai geologi internazionali, ha colpito un Paese del tutto impreparato a gestire una calamità di queste dimensioni, dopo oltre vent’anni di instabilità politica…

Il reportage di Nicola Zolin prosegue su Left in edicola


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Torna Jackson Browne. Ed è pura poesia

“Adesso le parole sono state dette tutte e per qualche motivo la sensazione non era ancora quella giusta, e abbiamo continuato tutta la notte ripercorrendo i nostri passi fin dall’inizio, fino a quando sono svaniti nell’aria, cercando di capire come le nostre vite ci abbiano condotto fin qui. Guardandoti dritta negli occhi non vedevo nessun volto conosciuto..che vuota sorpresa sentirsi così soli..Ora alcune parole mi vengono facili ma so che non significano nulla paragonate alle cose che si dicono quando due amanti si toccano. Non hai mai saputo cosa ho amato di te e io non so cosa tu hai amato di me. Forse il ritratto di qualcuno che speravi io fossi..Di nuovo sveglio, non posso fingere e so di essere solo e vicino alla fine dei sentimenti che conoscevamo. Per quanto tempo ho dormito? Per quanto mi sono trascinato da solo nella notte? Per quanto ho sognato che avrei potuto farcela se solo avessi chiuso gli occhi e provato con tutte le mie forze di essere ciò di cui avevi bisogno? Per quanto tempo ho rincorso quel volo mattutino attraverso le promesse sussurrate e il mutare della luce nel letto su cui dormivamo insieme, in ritardo per il cielo…?” (da “Late for the Sky”).
Probabilmente in questa composizione si possono riassumere la poetica, la cifra stilistica e la capacità di “raccontare” gli stati d’animo degli esseri umani di Jackson Browne. Autore, chitarrista, pianista e attivista politico tra i più importanti della musica contemporanea mondiale. La riedizione su vinile di “Late For The Sky” di qualche settimana fa ci dà la possibilità di rileggere alcuni tratti della sua vita artistica e della sua “visione”, che come molti altri autori suoi coetanei, alla fine degli anni ’60 e inizi ’70, si cimentarono nella creazione di pagine da ascrivere a quel diario, quello dei nostri cuori, che ancora oggi , fortunatamente, sembra non aver fine. L’album uscì originariamente nel settembre del 1974. Fu il terzo lavoro solista dell’autore, nato nel 1948 ad Heidelberg, in Germania, e trasferitosi poi con l’intera famiglia nel 1951 definitivamente in California. Malgrado la sua prolificità, l’esordio discografico avvenne con la Asylum di David Geffen solo nel 1972. Al primo album fece seguito quello straordinario “For Everyman” nel 1973, con la hit “Take It Easy” con quella chiara matrice country-rock in voga in quegli anni. Autore “intimista”, con una integrità e coerenza musicale ancora oggi intatte, “brother Jackson” (nomignolo affibbiatogli dagli amici del “giro”) ha spesso dedicato le sue canzoni al mondo degli affetti; votati alla continua ricerca di risposte, riuscendo così a scrivere capolavori indelebili, sospesi tra “ballads” e pezzi rock, viaggi sonori e denunce sociali passando per i vari “post” quali il Vietnam e il flower-power. Ma l’album “Late For The Sky” fu una vera prova di coraggio, in cui l’artista mise a nudo i propri sentimenti. Oggi rimane difficile pensare quanti colleghi siano capaci di raccontarsi e farci entrare nel loro “privato”, se non addirittura nel loro mondo “segreto”. Questo scavare nel profondo che suggerì al regista Martin Scorsese l’inserimento della title-track in una delle scene più toccanti del storia del cinema, contenuta nel suo film “Taxi Driver”, in cui il protagonista, Travis Bickle, interpretato da uno grandissimo Robert De Niro, è immerso nel silenzio, con in mano una pistola, lasciandoci nel dubbio: sta ascoltando le parole della canzone o è perso nelle immagini del televisore davanti a lui? La sua mente è davvero lì? Mai una scena migliore, coadiuvata dal potere evocativo della canzone di Browne, poteva essere creata per trasformare il volto di un essere umano in un capolavoro di solitudine, mentre la tragedia raccontata musicalmente diventava immagine e cornice dell’epilogo dei protagonisti, nel film e nel brano. Una fusione perfetta. “Late For The Sky” è poesia pura: il racconto della fine di una storia d’amore, che pochi altri hanno “realizzato” in questo modo, e che Browne, perseguì nei brani successivi usando toni quasi sempre crepuscolari come accade in “Fountain Of Sorrow”: “Quello che vedevo allora non era affatto quello che stava realmente accadendo, anche se il nostro percorso sembrava crescere. Ma quando guardi attraverso le illusioni dell’amore sta lì il pericolo! E il tuo perfetto amante sembra solo un perfetto pazzo e così corri in cerca di un perfetto sconosciuto, mentre la solitudine sembra esplodere nella tua vita come una fontana da una piscina. Fontana di tristezza, fontana di luce.” Questa sorta di autobiografia giovanile musicale continua con “Farther On”: “Quando ero più giovane ho nascosto le mie lacrime e trascorrevo i miei giorni da solo alla deriva in un oceano di solitudine. I miei sogni gettati come reti per catturare l’amore di cui avevo sentito parlare nei libri, nei film e nelle canzoni.” Discorso che si amplia nelle successive “The Late Show”, la classica “For A Dancer”, dedicata ad un amico scomparso, “The Road and the Sky”, e “Walking Slow”. Ma al di là dei testi, la musica, sempre curata nei dettagli, sottolinea quanto le liriche e gli interventi strumentali siano in completa “consonanza” tra loro. Browne, invitò diversi illustri cantanti tra i quali Don Henley e Dan Fogelberg, ma lasciò libera completamente, in un perfetto equilibrio elettroacustico, l’assoluta maestria di David Lindley (ex chitarrista dei Kaleidoscope). Spesso in contrappunto, con l’uso variegato di chitarre elettriche, viola, lap steel guitar o violino, Lindley fece assumere all’intero album un carattere unico che pervade l’intero lavoro rendendolo immortale. Ma questo disco non contiene solo tristezza e malinconia ma anche luce e speranza, che passano attraverso la consapevolezza di aver vissuto una stagione ricca di sogni e sorrisi e che gli uomini hanno voluto abbattere partendo proprio dalla Natura e dalla distruzione della Terra. E’ uno dei gridi più forti contenuto nel brano finale, “Before The Deluge”, che inaugurò la nuova attitudine di Browne verso la scrittura e l’interesse ai temi sociali. Attenzione che porterà lentamente l’artista ad occuparsi di tematiche scottanti e drammatiche come quelle dei desaparecidos, delle minoranze etniche, della lotta all’uso dell’energia nucleare con il progetto No Nukes ideato nel 1979 assieme a Bonnie Raitt, Graham Nash e John Hall.

Una sorta di racconto dell’Apocalisse infatti è contenuta in “Before The Deluge”, dove ritornano l’immagine dell’acqua e degli altri elementi della natura, in cui i protagonisti, coinvolti nella lotta contro la tempesta, alla fine troveranno rifugio nella musica che ascoltano: “lasciate che la musica innalzi i vostri spiriti, che le case tengano i vostri figli all’asciutto. Lasciate che il creato riveli i propri segreti a poco a poco. Quando la luce che si è persa dentro di noi raggiungerà il cielo.” Una chiusura che si oppone al tono drammatico iniziale e che rende l’album complesso, arricchito anche dalla copertina, ispirata al famoso quadro “L’Empire des Lumiéres” di Magritte. Immagine che vorrebbe apparentemente parlarci dell’eterno dualismo, delle luci e delle ombre della vita, dei conflitti inevitabili, di qualcosa che non potrà mai cambiare, ma che Browne ribalta, aggiungendo all’idea originale del pittore, una automobile, riportando così, ad una dimensione più realistica, il personale significato dell’esistenza umana. Capovolgendo così quella sorta di inquietudine e quelle associazioni ambigue marcatamente presenti nei dipinti di Magritte, che agitano e che paralizzano.

Con l’inserimento della Chevrolet nel quadro, Browne è come se ci prendesse per mano per portarci dentro la casa con quella finestra illuminata. Forse è lì, che si stanno svolgendo, all’interno dell’abitazione, sinonimo del suo “privato”, quelle storie raccontate nelle sue canzoni. E non solo: ci lascia pensare che esistono anche altri colori, oltre il bianco e il nero, oltre la notte e il giorno, mediati dalla luce del lampione, e che nel cammino e nel guardare avanti e quindi nella realizzazione di un movimento “interno”, simboleggiato dall’automobile, si possano superare le difficoltà.
Sono passati quarantaquattro anni e questo disco, dall’alto contenuto romantico e malinconico, continua a farci emozionare. I temi toccati ci incuriosiscono, ci pongono dei quesiti, ci intrigano, perché parlano di dinamiche umane e quindi di poesia. Torneremo ancora parlare di “brother Jackson” più avanti, ad ottobre prossimo per celebrare le sue bellissime settanta primavere. Nel frattempo abiteremo nell’hotel dei cuori spezzati in attesa che alla porta bussi di nuovo quell’amore che avevamo conosciuto, accompagnati da queste melodie. Saremo pronti ad aprirci di nuovo, nudi sotto quella fontana che non sarà di dolore e solitudine ma di gioia. Senza ombre. Con un cielo di sole e con il vento che spazzerà le nuvole, lasciando al brillante azzurro la libertà di dipingere i nostri occhi.

Magritte

Bruno Zevi, progettare la democrazia

Roma 1984

Si è scelto il giorno della Liberazione per inaugurare la mostra in occasione del centenario della nascita di Bruno Zevi. E non è un caso, vista la forza del personaggio che si è speso per tutta la vita tra architettura, politica e ricerca culturale. L’occasione è al MAXXI di Roma con Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000. Curata da Pippo Ciorra e Jean Louis Cohen e dedicata al grande critico, docente, politico, architetto che attraverso la sua attività teorica di storico e intellettuale ha influenzato almeno due generazioni di appassionati ed addetti ai lavori, la mostra è realizzata in collaborazione con la Fondazione Bruno Zevi. Con materiale proveniente da istituzioni nazionali e da archivi privati, ripercorre gran parte dell’attività dello studioso nell’Italia del dopoguerra attraverso il lavoro di 38 dei “suoi” architetti tra cui Carlo Scarpa, Pier Luigi Nervi, Renzo Piano, Franco Albini, Giovanni Michelucci, Mario Ridolfi, Maurizio Sacripanti, Carlo Mollino e Luigi Pellegrin.

Allestita come un grande studio con tavoli, mensole e librerie, propone disegni, plastici e materiale audiovisivo e sottolinea soprattutto l’importanza della relazione tra politica e architettura, temi a lui molto cari e che hanno segnato tutta la sua vita. Nato a Roma da famiglia italiana di religione ebraica, abbandona il Paese nel 1938 dopo l’emanazione delle leggi razziali da parte del regime fascista. Si reca a Londra e poi negli Stati Uniti dove fa degli incontri importanti. Zevi infatti si laurea in Architettura ad Harvard presso la Graduate school of design diretta in quegli anni da Walter Gropius anch’egli lontano dall’Europa. Inoltre, ha modo di conoscere direttamente Frank Lloyd Wright e la sua opera che segna in maniera indelebile il suo percorso formativo.

In quel periodo, tra l’altro…

 

L’articolo di Matteo Sintini prosegue su Left in edicola


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Divorziare è rivoluzionario, la sfida delle donne cinesi

epa06680800 A woman takes a photo on the Pearl River waterfront in Guangzhou, China, 19 April 2018 (issued 20 April 2018). Guangzhou, formerly known as Canton, is the capital of the province of Guangdong in southern China and the main manufacturing hub of the Pearl River Delta. EPA/STR Issued on 20 April 2018

In Cina sempre più matrimoni falliscono. Falliscono per volere delle mogli ma contro la volontà delle autorità in un braccio di ferro che vede la crescente emancipazione femminile contrapporsi alle esigenze sociali e al bagaglio dei valori di stampo confuciano. In dieci anni, tra il 2006 e il 2016, il numero dei divorziati è raddoppiato, passando da 1,5 a 3 su 1000 persone per un totale di 4,2 milioni di casi. Stime che acquistano significato se lette alla luce di un dettaglio per nulla scontato: secondo un recente rapporto della Corte suprema del popolo, il massimo organo giudiziario cinese, il 70 per cento delle dispute matrimoniali non consensuali (circa il 20 per cento del totale in larga parte di competenza del ministero degli Affari civili) è stato avviato dalla controparte femminile. Quella che – nonostante il progressivo abbattimento dei vecchi pregiudizi – continua a sostenere i costi sociali più onerosi di una separazione, con il rischio di discriminazioni sul lavoro e minori possibilità di rifarsi una vita sentimentale. Specie se con figli a carico. Circa il 78 per cento dei richiedenti divorzio ha citato l’incompatibilità come principale motivo di rottura.

Sebbene la prima legge matrimoniale voluta da Mao Zedong nel 1950 abbia sferrato un iniziale affondo contro il sistema patriarcale – da una parte riconoscendo pari diritti per entrambi i sessi dall’altra vietando i matrimoni combinati e le unioni forzate – è soltanto con l’emendamento del 1980 che il divorzio “senza colpa” diventa legalmente accettato. Da allora, il tasso di separazioni comincia a lievitare. Le prime a scoppiare sono quelle coppie urbano-rurali nate per convenienza ai tempi della “rieducazione” nelle campagne sperimentata dai giovani durante la Rivoluzione culturale. L’apertura della Cina al mondo, la vertiginosa crescita economica e la liberalizzazione sessuale d’importazione occidentale hanno velocizzato e ampliato l’estensione del fenomeno.
Nel 2010 sulla stampa statale compare una nuova parola: shanhun: “matrimonio lampo”.

Ovvero quando il colpo di fulmine…

L’inchiesta di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


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Il caso Windrush mette in crisi Theresa May

LONDON, ENGLAND - APRIL 20: Demonstrators chant and hold placards during a protest in support of the Windrush generation in Windrush Square, Brixton on April 20, 2018 in London, England. The Windrush generation are people who arrived in the UK after the Second World War from Caribbean countries at the invitation of the British government. It is now thought that an estimated 50,000 people of the Windrush generation face the risk of deportation if they never formalised their residency status and do not have the required documentation to prove it. (Photo by Chris J Ratcliffe/Getty Images)

Non i bombardamenti in Siria, non il caso Skripal. Ma una cifra: 7.629. È il numero che fa tremare il governo di Theresa May. Dentro quella cifra ci sono storie come quella di Joseph Bravo o dei fratelli Johnson e di tanti altri i cui diritti sono stati calpestati. È lo scandalo Windrush. Ovvero il caso dei cittadini di origine caraibica rispediti ingiustamente nei loro Paesi perché non in possesso dei documenti di ingresso.

Tutto inizia 70 anni fa. È il 1948: Londra è devastata dalla Seconda guerra mondiale, centinaia di edifici sono stati bombardati, la città va ricostruita e serve manodopera. Le macerie costellano la mappa di tutto il Paese. Della polvere e ruggine di quelle rovine belliche si sporcheranno uomini che non avevano la pelle bianca: arrivano nella nebbia della capitale dal sole dei Caraibi, da tutte le ex colonie britanniche. La prima nave, salpata da Kingston, Giamaica, giunge in Essex il 22 giugno 1948. I caraibici che sbarcano avevano risposto in patria ad annunci di lavoro che promettevano salario, casa, un futuro migliore.

Dal mar dei Caraibi al mare del Nord: la legge permetteva libertà di movimento, dal 1940 per trent’anni ha funzionato così. Una volta arrivati, i residenti delle ex colonie assaggeranno subito freddo e pioggia, ma soprattutto razzismo e discriminazione, because of the color of their skin, per il colore della loro pelle, dicono tutti i tabloid in edicola in questi giorni. Con il nome di quella prima vecchia nave, la Empire Windrush, è stata indicata una generazione intera, di cui farà parte anche chi arriverà dopo, con altre navi e in altri periodi, fino agli anni 70: i destini di questi uomini cresciuti in Gran Bretagna, che non sono mai più tornati indietro, eppure «non sono britannici», dice la legge, vengono ancora chiamati, letteralmente, Windrush, «corsa del vento».

Il signor Joseph Bravo, dalla Giamaica a Londra è arrivato con i suoi genitori in cerca di fortuna quando aveva 7 anni. Oggi ne ha più di 60. Joseph si è costruito una vita sull’isola: si è sposato, ha comprato una casa, ha l’assicurazione e la patente, è diventato elettricista. È stato un cittadino onesto del Regno per 54 anni ed ha pagato le tasse. Poi l’Home office un giorno gli ha detto che…

L’inchiesta di Michela AG Iaccarino prosegue su Left in edicola


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Ernesto Puhl: «Lula è vittima di un golpe neoliberista»

Former president of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva waves people during a visit at a camp of the Landless Workers Movement (MST) at the municipality of Itatiaiucu, metropolitan region of Belo Horizonte in the state of Minas Gerais on February 21, 2018. Brazil's former leftist president Luiz Inacio Lula da Silva made yet another appeal against a 12 year prison sentence for corruption that could knock him out of an attempted comeback election. / AFP PHOTO / DOUGLAS MAGNO (Photo credit should read DOUGLAS MAGNO/AFP/Getty Images)

Chapecó. Stato Santa Catarina. Brasile. Il nome della città dice poco, al di qua dell’Atlantico. Ad eccezione degli appassionati di calcio. Nel 2016, infatti, la Chapecoense, la squadra di calcio della città, diviene famosa suo malgrado in tutto il mondo. È il 28 novembre e l’aereo su cui viaggiano i calciatori precipita nei pressi di Medellin (Colombia). È una strage. Muoiono in 71, tra cui tutta la Chapecoense, ad eccezione di tre tesserati. Viene alla mente, da quest’altra parte dell’oceano, la tragedia di Superga. Altra epoca, altre latitudini, stesso massacro.
È proprio da Chapecó che viene Ernesto Puhl, dirigente del Movimento Sem terra (Mst), movimento sociale brasiliano che coinvolge più di un milione e mezzo di famiglie e che ha la sua ragion d’essere nella conquista di quella che i militanti chiamano «riforma agraria popolare».

È in Italia, invitato da Rete Radié Resch, per un giro di incontri sugli obiettivi e le pratiche del Mst. Lo incontriamo all’Ex opg Je so’ pazzo di Napoli e poi allo Spazio pueblo di Cava de’ Tirreni, le due tappe meridionali di questo tour. È qui, tra assemblee e sorsate dell’inseparabile chimarrão (l’infuso preparato con foglie di erba Mate, ndr), che le domande si affollano. Ernesto conosce a fondo il Mst. Ne respira l’aria da quando aveva cinque anni. Tutta la sua famiglia è «insediata»; vive, cioè, in un pezzo di terra conquistato grazie ad una delle occupazioni promosse dal Mst, e ora legalmente riconosciute anche dalle istituzioni. Un risultato conseguito grazie alla lotta. «Lottare sempre», slogan del movimento, preso a prestito da una delle figure di riferimento dei «senza terra», il sociologo Florestan Fernandes, non è mera retorica.

Ma non parla tanto del Mst. Gli eventi brasiliani delle ultime settimane ne stravolgono l’agenda. Prima il mandato d’arresto per Lula, l’ex presidente brasiliano. Poi la grande mobilitazione popolare a sua difesa. Ventimila persone a fungere da scudo umano dinanzi alla sede del sindacato in cui si trovava, per impedire che la polizia potesse catturarlo. Quando Ernesto ce ne parla i suoi occhi si accendono, «si animano» come direbbe lui. Infine – ma la parola “fine” è tutt’altro che scritta – l’arrivo di Lula nel carcere di Curitiba. Condannato in secondo grado a dodici anni di detenzione, con l’accusa di corruzione e riciclaggio.

Il Brasile è tornato al centro dell’interesse dei media internazionali dopo la notizia delle porte del carcere che si aprono per l’ex presidente Lula. C’è chi parla di «Tangentopoli brasiliana» e chi di «golpe». Qual è la situazione?
Tutti sanno che le accuse rivolte a Lula sono inconsistenti. Addirittura il pubblico ministero federale dell’operazione Lava jato («autolavaggio», questo il nome dell’inchiesta che coinvolge per corruzione decine di politici brasiliani), Dallagnol, ha sostenuto che contro Lula hanno…

L’intervista di Giuliano Granato a Ernesto Puhl prosegue su Left n.17


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Ken Loach: «La sinistra soft ha fallito ovunque, non solo in Italia»

Ken Loach during the conversation with the audience in Locarno. © Festival du film de Locarno / Pablo Gianinazz

«Socialismo o barbarie». È lapidario Ken Loach nell’esprimere la sua visione del futuro citando un leggendario slogan di Rosa Luxemburg. «Sembra un aut aut disperato, vero? Penso invece che oggi più che mai, non esista davvero un’altra via», rincara il grande regista britannico che abbiamo incontrato a Belfast, in occasione del premio alla carriera, Il Réalta award conferitogli dalla giuria del Belfast film festival per il suo «eccezionale contributo al cinema a livello mondiale».

L’autore di pellicole indimenticabili come Land and freedom, Carla’s song e I, Daniel Blake, a 82 anni più battagliero che mai, è reduce da giornate di fuoco, soprattutto da quando il Partito laburista israeliano ha deciso di tagliare i ponti con il Labour di Jeremy Corbyn, reo, a suo dire, di essere troppo indulgente e negligente nel punire gli elementi «antisemiti» al suo interno. Un vortice che ha coinvolto anche lo stesso Ken Loach come altri esponenti di spicco della sinistra laburista. Abbiamo parlato di internazionalismo, welfare state, e fake news naturalmente. E abbiamo raccolto il suo messaggio che, forte e chiaro, indica nell’autodeterminazione dei popoli l’unica risposta possibile alla chiusura delle frontiere e all’avanzata del nazionalismo xenofobo.

Cosa la preoccupa di più, in questo momento?
Sono preoccupato da tutto quello che accade a casa nostra come da quello che accade nel resto del mondo. Penso a quello che accade in Siria e alle terribili sofferenze che quelle popolazioni stanno attraversando. Penso allo sciagurato intervento del governo inglese in quei territori. Penso anche che quest’anno è il 70esimo anniversario della cacciata dei palestinesi dalle loro terre da parte degli israeliani e che le sofferenze per quei popoli sembrano eterne. Sono preoccupato da Trump per esempio. E soprattutto sono preoccupato per come sia difficile distinguere tra cosa è falso e cosa è vero.

La guerra che si combatte sul fronte delle “fake notizie” sembra non avere fine.
Certo, penso alle manipolazioni della stampa inglese e alle sue bugie, alle accuse calunniose di antisemitismo che hanno colpito il Labour. Da quando Jeremy Corbyn ha ottenuto la leadership del partito grazie all’appoggio della gente e non grazie ai giochi in Parlamento, gli attacchi si susseguono senza sosta. È il classico gioco delle classi dominanti che quando si sentono minacciate nel loro esercizio del potere, cambiano le regole del gioco, spesso falsificando la realtà grazie al contributo dei media che sono nel loro libro paga, spesso ricoprendosi di ridicolo. Per esempio, se appoggi il popolo palestinese, allora non puoi che essere antisemita.

Su questo fronte, recentemente si è trovato al centro di una polemica. I media l’hanno accusata di essersi scagliato contro un gruppo di parlamentari laburisti che si era mobilitato contro l’antisemitismo, dicendo che bisogna «buttarli a calci fuori dal partito». Come risponde a queste accuse?
Ecco, questo è un esempio di come la stampa stravolge le tue parole, usandole senza alcuna vergogna. Ma non possiamo farci sempre intimidire dalle fake news! In questo caso si tratta del Daily mail che ha riportato una mia frase assolutamente fuori dal contesto. In quell’occasione, un’assemblea del Labour, io non ho parlato di nessuna risoluzione sommaria nei confronti dei parlamentari in questione. Volevo solo dire che chi è eletto non rimarrà al suo posto per tutta la vita, che bisogna stare attenti alla qualità dei candidati, al fatto che siano qualificati e motivati a svolgere il proprio lavoro al servizio della comunità. E che, soprattutto, rispettino i valori in cui crediamo. E chi non risponde a questi requisiti, non può parlare in nostro nome.

In tempi di Brexit, mentre assistiamo all’avanzata del nazionalismo xenofobo, alla chiusura delle frontiere, lei crede ancora nell’attualità dell’internazionalismo e della solidarietà?
L’internazionalismo è da sempre un fondamentale valore della sinistra. Un valore per cui ci siamo battuti in passato e per cui ci batteremo in futuro. L’internazionalismo è valido oggi e lo sarà sempre. Soprattutto oggi, in un mondo globalizzato, i problemi e i bisogni della working class sono simili. In Uk come in Spagna, come in Italia. E anche in Corea. Perché tutti i lavoratori si trovano e si troveranno a fare i conti con il mercato globale, la competitività globale e con lo sfruttamento globale. I movimenti nazionalisti e xenofobi che in questo momento prosperano in Europa come in America e che apparentemente nascono dal basso, affermando di difendere la working class, sono palesemente al servizio della classe dominante, sfruttando il concetto del Paese dominante. Per sconfiggerli, bisogna rimettere in campo il concetto dell’autodeterminazione dei popoli. Bisogna lavorare insieme, costruire legami e obiettivi comuni che vadano oltre i confini nazionali. Anche se al momento sembra impossibile, si può sempre lavorare a un cambiamento possibile del sistema, a un nuovo modello economico. Penso al modello proposto da Varoufakis in Grecia ad esempio. Abbiamo bisogno di una differente visione di Unione europea. Io credo nell’Europa dei popoli, della gente, contro questo club di grassi businessman che è invece l’Ue di Bruxelles.

In I, Daniel Blake, lei ha offerto un’indimenticabile testimonianza di come il sistema socio assistenziale britannico possa annientare la vita delle persone. Come si può uscire da questa trappola?
Possiamo pensare a un unico modello di social welfare che rispetti la dignità delle persone. Per esempio. Il sistema inglese umilia la gente, criminalizzando i loro bisogni attraverso l’esercizio punitivo delle forme di assistenza, creando un clima di incertezza, quasi di paura. Penso si tratti di crudeltà consapevole ai danni di lavoratori e disoccupati, donne e madri soprattutto. Per cui, anche ottenere un alloggio diventa un percorso umiliante, per non parlare del lavoro e anche della stessa sussistenza quotidiana.

Anche in questo caso, i media fanno il loro gioco.
Certo, anche loro svolgono un ruolo non indifferente esercitando ciò che io chiamo «crudeltà consapevole». Penso ai programmi televisivi come Benefit britains per esempio, che offrono un’immagine assolutamente distorta dei disoccupati, delle persone più vulnerabili, presentandoli come scroungers, come parassiti che vivono alle spalle di chi lavora e paga le tasse, addossando loro tutta la colpa del fallimento della social security. Si tratta di un sistema che va radicalmente cambiato. Bisogna potenziare gli investimenti pubblici, per avere la scuola di cui abbiamo bisogno, la sanità di cui abbiamo bisogno, i trasporti di cui abbiamo bisogno. In questo momento è in corso una battaglia politica di enorme portata. Il Labour di Jeremy Corbyn è sotto attacco proprio perché sta rivalutando i valori socialisti più autentici. Di contro, i tempi sono maturi per lavorare a un manifesto comune che indichi la rotta da seguire.

Questa via da seguire, questa lezione, vale anche per l’Italia?
In Italia con il governo Renzi, come del resto in Spagna, si assiste al fallimento della “soft left”, la sinistra che avanza verso destra dopo aver sepolto per sempre i valori socialisti. In Germania la socialdemocrazia ha da tempo fallito i suoi obiettivi riformisti. Chi sostiene che i concetti di destra e sinistra siano superati, che le ideologie siano morte, è in malafede o non si rende conto di cosa sta parlando. Per esempio, l’ideologia delle classi dominanti non è morta. Parlano di libertà, certo. Libertà di mercato, libertà di sfruttamento su scala mondiale. Per questo, anche se le situazioni e i sistemi di organizzazione sociali sembrano differenti, in realtà lo sono solo apparentemente. Per cui la risposta non può che essere unica. Tutto sommato credo che siamo in una fase di grande cambiamento e anche di grande speranza, in fondo. Vorrei avere più tempo per raccontare questa storia. E vorrei essere più giovane per vivere il futuro sviluppo di questo cambiamento.

 

L’intervista di Giulia Caruso a Ken Loach è tratta da Left n. 17 del 27 aprile 2018


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Armenia, dopo le proteste di massa il primo maggio viene eletto il nuovo primo ministro

epa06687362 People celebrate Armenian Prime Minister Serzh Sargsyan's resignation in the center of Yerevan, Armenia, 23 April 2018. Armenian Prime Minister and former president Serzh Sargsyan announced his resignation in response to round-the-clock mass protests against Serzh Sargsyan's appointment as a prime minister after serving two terms as the President. EPA/HAYK BAGHDASARYAN

Sventolano le stoffe del tricolore armeno al vento della vittoria, le bandiere rimangono nei pugni dei ribelli  in festa nelle piazze di Erevan. Primo maggio, festa dei lavoratori: è quando il Parlamento dell’ex repubblica sovietica dell’Armenia ha dichiarato di eleggere un nuovo primo ministro, dopo le dimissioni dell’ex premier Serzh Sargsyan per le proteste di massa che hanno inondato le strade del Paese.
I manifestanti, che non hanno ancora abbandonato le strade dall’inizio delle proteste d’aprile, urlano il nome dell’uomo che ha dato inizio a tutto questo: Nikol Pashinian, il leader dell’opposizione. Piazza della Repubblica nella Capitale non tornerà vuota se non quando Pashinian sarà il nuovo premier e il partito repubblicano tutto, che siede ancora in Parlamento, non avrà seguito l’esempio dell’ex primo ministro Sargsyan.

Pashinian ha chiesto che il potere venga ora trasferito ad un «primo ministro del popolo, con elezioni lampo, non permetteremo a questo sistema corrotto di esistere, rimanete in piazza, dobbiamo finire la rivoluzione di velluto». La primavera del Caucaso del Sud sa di non aver ancora completamente vinto e le piazzde non si sono ancora svuotate.
«La rivoluzione di velluto non è finita, spero che voi siate qui per la vittoria finale». Pashinian non si è ancora tolto la maglia mimetica che ha indossato dal primo giorno delle proteste a Erevan, quando ha abbandonato giacca, cravatta, Parlamento e ha cominciato ad invitare il suo popolo ad occupare le strade. Pashinian urla da quasi due settimane al megafono bianco, stesso colore delle bende sulla sua mano rotta durante le proteste. È stato la testa d’ariete contro l’uomo più potente del Paese. Quando ha accusato Sargsyan di manipolare la costituzione a suo favore per mantenere il potere, lo hanno messo in carcere. Fino a lunedì scorso contava le sbarre della cella, dove era stato rinchiuso per aver commesso “atti pericolosi contro la società”. Poi, dopo 24 ore, è uscito e da liberato, il rivoluzionario Pashinian, è stato acclamato liberatore della nuova Armenia. “La nuova Armenia” è quello per cui adesso tutti i blocchi politici della nazione devono lavorare, ha detto il presidente dello Stato Armen Sargsyan.
Gli armeni non vanno più a dormire, rimangono in strada, non sono andati via nemmeno quando il convitato di pietra d’epoca sovietica Serzh Sargsyan, se n’è andato. Gli urlavano “Serzh, vattene!” e lui, prima presidente per dieci anni, poi primo ministro dopo una riforma costituzionale ad personam per il mantenere il potere, – approvata con un referendum nel 2015 -, ha obbedito.

«Nikol Pashinyan ha ragione, io torto»: con queste parole ha rassegnato le sue dimissioni l’ormai ex premier Serzh Sargsyan, in cima alla piramide del potere dall’indipendenza del Paese, raggiunta nel 1991. In Parlamento alle spalle aveva il partito repubblicano e quasi alcun avversario. L’opposizione reale era per le strade della sua città e continua a rimanerci. «Questa situazione richiede soluzioni, ma io non ne prenderò nessuna, lascio la carica», ha detto l’ex premier. L’aveva ottenuta lo scorso 9 aprile.
Ora il premier ad interim Karen Karapetyan,  al vertice di transizione, si dimetterà nei prossimi giorni. Ma di Pashinian ha detto: «che vuol dire candidato del popolo? Non conosco nessun Paese dove il primo ministro viene scelto in questo modo. Ci sono le elezioni per farlo. Se è la scelta del popolo, vuol dire che il popolo sceglierà lui».
Dalle lacrime per i gas sparati per disperdere i manifestanti a quelle di gioia. Centinaia di soldati che dovevano reprimere la protesta si sono uniti alla folla negli ultimi giorni. Gli scudi che dovevano levarsi per fermare il popolo in marcia verso il Parlamento alla fine si sono abbassati.
Ieri era una manifestazione non autorizzata, oggi una rivoluzione, domani non si sa. Il Paese è sempre stato nell’orbita del Cremlino, ospita due basi militari russe, è rimasto, – come dicono in Usa – “Moscow-friendly”. Nonostante il cambio di potere, continuerà ad esserlo, assicurano i russi e assicura lo stesso Pashinian. Il presidente Armen Sarkysian invece ha già avuto un colloquio telefonico con Putin. «Anche nei momenti più difficili della storia, siete un popolo unito» ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Ha concluso con: “Armenia, la Russia è sempre con te”.

«Socialismo e cultura». Il pensiero di Antonio Gramsci che può servire alla sinistra

Antonio Gramsci muore il 27 aprile 1937 in una clinica romana, dopo dieci anni di carcere duro che lo segnarono nel corpo, ma non nella mente. La sua resistenza intellettuale e la sua continua ricerca non vennero minate dai fascisti che pure speravano di “spegnere quel cervello”. Ne sono una prova i Quaderni del carcere, prova tangibile di altissima elaborazione culturale e politica, purtroppo non ancora conosciuta e valorizzata dalla sinistra.  Left pubblica alcuni brani di un articolo di colui che è stato, oltre che dirigente politico, un grandissimo giornalista e sostenitore dell’importanza della cultura a sinistra. Anzi, della cultura che è politica. Nella sua forma più alta ed umana. L’articolo “Socialismo e cultura” venne pubblicato su Il Grido del popolo il 29 gennaio 1916 e in questa forma ridotta su Left n.16 del 22 aprile 2017.

«Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri (…).
La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. (…)
Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura.
Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.
Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere».