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Libertà, uguaglianza e… trasformazione

In questi giorni una nuova forza politica ha fatto la sua comparsa. Si chiama Liberi e uguali, parole che fanno un chiaro riferimento alle parole della rivoluzione francese.
Il nostro giornale ha fatto, nel lontano 2006, di quelle parole il suo nome, aggiungendo a quelle della rivoluzione francese una T che significa trasformazione.
Poi, gli inventori dell’acronimo e di questo nome, Left, andarono a chiedere a Massimo Fagioli di dare un senso nuovo alla T per non confonderla con la trasformazione marxista, che si riferisce solo alla realtà materiale.
Quel senso nuovo è il senso della trasformazione degli esseri umani, la loro possibilità che hanno di cambiare e trasformarsi nel rapporto con gli altri.
Una possibilità che Massimo Fagioli ha scoperto e teorizzato come possibilità che ha l’essere umano e che ha il suo fondamento nella dinamica della nascita.
Gli esseri umani nascono uguali. Perché tutti nascono e tutti, allo stesso modo, realizzano un primo pensiero che prima della nascita non c’era: la fantasia di sparizione.
Fagioli ha scoperto che il pensiero umano non è inscritto nel Dna.

Il Dna umano determina la formazione di una biologia che ha una reazione del tutto particolare alla nascita. Una reazione che determina la creazione di un pensiero che prima non c’era.
È una creazione della biologia. Non c’è nessun intervento esterno. Quello che crea il pensiero non è lo stimolo luminoso ma è la reazione allo stimolo luminoso. È un qualcosa che da dentro il corpo va verso l’esterno. È un pensiero sul mondo. È un’opposizione al tempo che scorre facendo un pensiero che dice “il mondo non esiste”. È una reazione psichica non potendo il neonato opporsi fisicamente in alcun modo.
Fagioli lo disse 1000 e 1000 volte. L’uomo nasce inetto e in questo sta la sua forza. Se così non fosse non farebbe quella reazione solo psichica di non rapporto con l’ambiente. Gli animali hanno immediatamente rapporto con l’ambiente. È necessario per la sopravvivenza. Il piccolo puledro che nasce deve mettersi in piedi subito, e in pochi minuti deve essere in grado di correre. Perché altrimenti sarebbe spacciato, perché immediatamente ucciso e mangiato dal predatore.
L’essere umano no. Alla nascita reagisce al rapporto con il mondo annullandolo. Non è un non rapporto come potrebbe essere quello di una cosa inanimata. È un non rapporto che è una reazione. Quindi un non rapporto che ha in sé un pensiero. Un pensiero di esistenza di un altro essere umano simile a se stessi.
Paolo Liguori è stato così gentile da invitarmi a parlare di “Left 2014”. Il volume uscito per L’Asino d’oro edizioni che raccoglie gli articoli scritti da Fagioli per questo giornale nel corso del 2014.
Liguori ha detto durante la trasmissione che nel 2014 gli fecero storie per aver parlato con l’eretico Fagioli e delle sue strane “lezioni”.

Che poi in realtà non erano lezioni ma erano sedute di psicoterapia di gruppo. Si chiamavano Seminari di Analisi Collettiva. Ce ne erano 4, dal lunedì al giovedì. Accoglievano centinaia di persone ogni giorno.
Si iniziava puntuali, sempre. Ed era un immergersi in un mondo misterioso fatto di sensibilità e parole che riuscivano a spiegare ciò che apparentemente non lo era.
Ciò che risultava incomprensibile lo diventava.
Fagioli ha sempre detto che la mente e il corpo non sono separate. Perché alla nascita è tutto il corpo che reagisce all’aggressione della situazione nuova. Il pensiero e la sensibilità è di tutto il corpo. L’intelligenza è di tutto il corpo.
Se la mente comprende e accetta di essere nata accetterà anche che avrà una fine. Accetterà l’esistenza del corpo, la sua intelligenza e sensibilità.
Fagioli era certo che la maggioranza delle persone avessero la nascita intatta, intesa come pensiero inconscio sano.
Se la sinistra acquisisse queste idee avrebbe un’enorme possibilità di sviluppare politiche nuove, che vadano veramente nella direzione di un maggiore e migliore sviluppo della società.
Il sogno di Left è questo, mettere insieme la libertà e l’uguaglianza con la trasformazione. Solo con la ragione ci hanno provato in tanti e sono sempre falliti. È invece più che possibile con la teoria della nascita.
Noi di Left continueremo il nostro percorso di ricerca di una sinistra che abbia queste idee come fondamento.
E intanto facciamo i nostri migliori auguri di buon lavoro a Liberi e uguali.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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La politica che vuol rimandare a casa le donne a fare figli per la patria

MATTEO RENZI POLITICO SEGRETARIO DEL PD

Dopo le conquiste degli anni Settanta, i diritti civili, la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, i consultori e la progressiva secolarizzazione della società italiana non avremmo mai pensato di dover combattere il ritorno della più retriva politica, misogina e paternalista. Ma con nostra grande costernazione dobbiamo prendere atto che oggi si ripresenta sotto molteplici aspetti. In modo palese e marchiano nei violenti discorsi dei leghisti e delle destre neonaziste (in veste di skinhead o in rassicurante doppio petto) che delirano a proposito di «sostituzione etnica» della razza italiana per l’arrivo dei migranti. E in modo subdolo e coperto nelle politiche cattoliche e assistenzialiste del centrosinistra da Renzi a Gentiloni. Dal Fertility day lanciato del ministro della Salute Beatrice Lorenzin all’anti storica scelta del Pd di istituire un dipartimento “mamme”, come se fossimo ancora negli Cinquanta e il Pd fosse la Dc…Poi c’è sempre chi è più realista del re.

La dem Prestipino, «pasionaria animalista» (così si è auto definita) ai microfoni di Radio Cusano è arrivata a dire bisogna fare più figli per salvare la razza italiana. In tanti si sono scagliati – giustamente – contro il sindaco leghista di Pontida che ha ideato i parcheggi rosa per le donne in gravidanza, vietati a immigrate e lesbiche. Ma sono molti di meno quelli che si sono scandalizzati quando il grillino Giancarlo Cancelleri ha detto di volere una donna all’agricoltura, dacché «la terra dà i frutti come la donna fa i figli». Casi isolati? Non si direbbe, vista la frequenza e virulenza di affermazioni misogine pronunciate dai politici italiani, cattolici di centrodestra e di centrosinistra, che vorrebbero rimandare le donne a casa a fare figli per la patria.

Se nella corsa a sindaco di Roma il candidato di Forza Italia Bertolaso ebbe a dire della sfidante Meloni (Fratelli d’Italia): «Deve fare la mamma, mi pare sia la cosa più bella che possa capitare a una donna», esponenti di centrosinistra hanno fatto a gara per stabilire quanti figli debba fare ogni italiana. È accaduto la scorsa estate al Meeting di Rimini organizzato da Comunione e liberazione. Ispirato dal tonante titolo Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo, sette sindaci, di cui sei di centrosinistra, si sono sfidati sul tema della denatalità e dell’Italia che invecchia, sciorinando ricette. L’impareggiabile sindaco di Firenze Nardella se ne è uscito così: «Oggi il livello di natalità in Italia è di 1,34 figli per donna. Vogliamo e dobbiamo arrivare a due figli per donna per garantire un ricambio generazionale e per garantire la capacità di raccogliere l’eredità e di lasciarla ai nostri figli». Nelle settimane scorse, alla Leopolda8, Renzi ha rincarato la dose: dopo il bonus bebè sulla scia di Berlusconi, ha lanciato la proposta di 80 euro in premio alle famiglie con prole. «Perché un Paese che non fa figli non ha futuro». Ipse dixit. Come se i figli dei migranti non esistessero. Come se non ci fossero in Italia tanti italiani senza cittadinanza. Come se il numero sempre più consistente di italiane senza figli fosse dovuto esclusivamente alla precarietà e a difficoltà economiche (che comunque con il bonus bebè non si risolvono certo).

Difficoltà oggettive come la carenza di servizi e asili nido, che in Italia fanno della maternità un ostacolo al lavoro, ci sono eccome. Ma non si può negare che anche da noi la società reale è sempre più laica. E non avere figli può essere una scelta. Secondo un’indagine Istat è in continua crescita il numero di italiane childfree, che scelgono consapevolmente di non avere figli. Ma per questa cattolicissima classe di governo è una bestemmia. Sordi alle conquiste della moderna psichiatria quando afferma che l’istinto materno non esiste e che la creatività femminile non è procreare come i conigli, i politici nostrani continuano a propugnare la mitologia della mamma e della moglie ma raramente pronunciano la parola donna. E ahimè questa parola risuona poco anche nelle assemblee di nascenti formazioni come Campo progressista e Liberi e uguali. Non pare del tutto un caso che Cinzia Sasso Pisapia abbia pubblicato un libro dal titolo Moglie rivendicando con orgoglio questo ruolo. E non appare un caso che il 3 dicembre a Roma sia risuonata la parola moglie, si sia parlato tanto di figli, nipoti e insieme denatalità, mentre non solo era assente la parola donna, ma le donne sul palco figuravano solo come testimonial. Mamme piuttosto che donne, non è solo una scelta lessicale ma politica come ben si vede. Una scelta che evoca il fantasma della Democrazia cristiana.

 

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Dacci oggi il nostro nemico quotidiano

CITTADINAZA DAY MANIFESTAZIONE A FAVORE DELLO IUS SOLI ITALIANI SENZA CITTADINANZA

La demografia non è una scienza speculativa ma una tecnica di gestione statale il cui strumento principale è il censimento. La demografia non si occupa a priori di ciò che fonda le differenze, ma si limita a studiare la dinamica ereditaria di differenze presunte. L’ideologia nazionalista cerca sempre di dare un fondamento a queste differenze e piegare i dati e i numeri per una lettura ideologica.

«Nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12mila in meno rispetto al 2015. In 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100mila unità». Così si legge nell’ultimo report dell’Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente, pubblicato il 28 novembre 2017. L’Istat rileva che «il calo è attribuibile principalmente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono a 373.075 nel 2016 (oltre 107mila in meno in questo arco temporale). Ciò avviene fondamentalmente per due fattori: le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad avere figli». E aggiunge, quasi come naturale conclusione: «Le donne italiane hanno in media 1,26 figli (1,34 nel 2010), le cittadine straniere residenti 1,97 (2,43 nel 2010)».

Due dati attirano l’attenzione dei media più di altri, vengono estrapolati e buttati nella mischia: «100mila nascite in meno» sommato a «donne straniere fanno più figli delle donne italiane». Questi semplici dati, puri e innocenti in una lettura ragionata del report, diventano nei media titoli come: “Il popolo italiano verso l’estinzione? Per l’Istat in otto anni 100mila nascite in meno”.

Questa stupefacente conclusione sulla presunta estinzione del popolo italiano serpeggia già da qualche tempo nelle opere di “intellettuali”, sotto forma di scritti più o meno dotti tesi a diffondere l’allarme e la paura. Il 13 giugno 2017, nella sua rubrica L’ultimo marxiano, il “filosofo” “comunista”, Diego Fusaro in un articolo intitolato “Kalergi lo sapeva: stanno sostituendo i popoli europei coi migranti”, scrive: «Da un lato l’integralismo economico favorisce, con …

L’articolo di Tahar Lamri prosegue su Left in edicola


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Islanda, la nuova premier è un’ecologista di sinistra. E donna. Ancora una volta

epa06359164 Katrin Jakobsdottir, new Prime Minister of Iceland and leader of the Left-Green Movement, speaks during a press conference in Reykjavik, Iceland, 30 November 2017. The leaders of the three party coalition government presented their agreement on cooperation after the 28 October elections. The three parties forming the government are the Left-Green Movement, the Independence party and the Progressive party. EPA/BIRGIR THOR HARDARSON ICELAND OUT

L’Islanda ha scelto una donna, di nuovo. L’ultima tornata elettorale ha affidato la poltrona da premier dell’isola a Katrin Jakobsdottir, del partito dei Verdi. Guiderà una coalizione tripartitica composta da Partito dell’Indipendenza (centrodestra), Partito Progressista (centro) e i Verdi (sinistra). È successo pochi giorni fa e questo sarà il suo primo mese al timone delle istituzioni a Reykjavik. La prima cosa che ha detto è stata che avrebbe investito nella sanità pubblica, nell’educazione e nei trasporti, perché è in questi settori che si misura la prosperità di un paese. Dopo scandali finanziari, cadute e ricadute, l’isola nordica ha letto la speranza nei lineamenti di questa islandese che si batte da sempre per la causa ecologista. Katrin ha 41 anni, è l’ex ministra dell’Istruzione ed è riuscita a battere il partito di destra degli indipendenti di Bjarni Benediktsson. È nata in una famiglia di poeti, si è laureata all’Università d’Islanda in letteratura, ha tre figli. È stata votata particolarmente dalle donne e dai giovani tra i 18 e i 29 anni.

Il precedente governo si era dimesso a settembre 2016 a causa di uno scandalo in cui era coinvolto il padre di Benediktsson, che ha tentato di “riabilitare l’onore” di un suo amico, un pedofilo colpevole di un terribile crimine. L’uomo si chiama Hjalti Sigurjon Hauksson e ha violentato tutti i giorni per dodici anni la sua figliastra. Quando il governo si è sciolto per “mancanza di fiducia”, in seguito ad un altro scandalo in cui era coinvolto il primo ministro Sigmundur David Gunnalaugsson, il cui nome è sbucato nei documenti dei Panama Papers, l’isola è scesa per strada a protestare contro sesso e soldi, abuso e potere della sua politica. Gli islandesi poi sono tornati per la seconda volta alle urne e hanno capito che problemi creati da uomini, li potevano risolvere delle donne. 

Ma non è la prima volta che accade, in Islanda. «Volevo solo mostrare a tutti che una donna poteva vincere». Vigdis Finnbogadottir era una madre single divorziata, quando decise di candidarsi nel 1980 come presidente di uno dei paesi più freddi del mondo, l’Islanda. Lassù a nord, fino ad allora, solo il 5% dei parlamentari era donna. Sfidando percentuali e potere maschile, solo per provare che una donna poteva farlo, nell’agosto di 37 anni fa, diventò la prima donna presidente d’Islanda. Ma anche la prima donna al mondo eletta Capo di Stato.

«Le donne pensarono “se lei l’ha fatto, posso farlo anche io”. La chiave per l’emancipazione femminile è l’educazione», dice oggi, a 87 anni. Allora, nel 1980, Vigdis fece la storia e rese il suo parlamento e il suo popolo – oggi di 340mila abitanti – il più equo dell’epoca. Da allora, i passi compiuti verso l’eguaglianza sull’isola sono stati tanti. L’Islanda oggi è il paese dove le donne vengono trattate più equamente rispetto agli uomini, secondo il World economic forum, e la gelida nazione è il miglior posto al mondo dove lavorare se sei donna, secondo l’Economist. Ma è uno stato discreto, che non finisce mai sulle prime pagine dei giornali, che in questo dicembre però ha lanciato un ennesimo segnale di progresso. Ma in pochi l’hanno notato.

Anche quando il sistema delle banche collassò nel 2008, gettando l’Islanda in una crisi finanziaria profondissima, con tre delle maggiori banche del paese con le casse vuote, ad essere eletta per risolvere la situazione nel 2009 fu una donna, Johanna Sigurdardottir, e, insieme a lei, abbastanza donne da detenere il 43% dei seggi in Parlamento. Da allora ad oggi la ripresa economica e sociale è stata qualcosa che gli analisti non riescono ancora a spiegarsi, la crescita è stata pari al 7,2% nel 2016 e la disoccupazione non supera il 3%.

Intanto la settimana scorsa a Reykjavik, la capitale, si è tenuto uno dei più grandi forum di leader donne in politica, un summit solo al femminile per promuovere il potere delle donne nelle sfere occupate principalmente dagli uomini. Vigdis Finnbogadottir, la prima donna presidente del mondo, che sconfisse nel 1980 tre candidati maschi, ha ricordato che oggi solo il 7% dei leader mondiali sono donne. Adesso nel 2017 nella sua patria è tornata ad esserci una donna a capo dell’isola, una femminista, perché la lezione che hanno appreso gli abitanti della terra del ghiaccio, del fuoco, dell’uguaglianza è questa: se vince una donna, vincono tutti. 

«Ci estingueremo per femminismo»: sulle molestie l’arroccamento patetico degli omuncoli continua

Su Il Giornale di oggi Pier Luigi del Viscovo impugna l’alabarda e corre in soccorso degli uomini che, poveretti, hanno paura di finire nello scandalo delle molestie e temono di dover rispondere a un atteggiamento che, nonostante sia storicizzato, un pezzo di mondo non è più disposto ad accettare. “Senza più molestie ci estingueremo – scrive la fine penna del difensore dei maschietti spaventati -, avances vietate ci estingueremo per femminismo”: del resto a questi non entra proprio in testa a questi piccoli intellettuali da medioevo che il consenso da entrambe le parti sia condizione necessaria della relazione tra uomo e donna, insistendo nel giochetto di chiamare molestie e atteggiamenti indesiderati come “avances” per sminuire la discussione.

Sembrerebbe una difesa fuori tempo massimo su un dibattito che, nonostante campeggi in prima pagina sul Time,  qui da noi qualcuno crede di essere riuscito ad affossare utilizzando Brizzi come sineddoche di tutti gli italici molestatori e fingendo di non sapere che sotto la brace sta covando (per fortuna) una sequela di denunce, episodi, nomi, ulteriori testimonianze su nomi già scritti, che presto diventeranno fiamma.

“In effetti, se lasciamo fare ai moralisti chic – scrive Il Giornale – quelli che la-donna-non-si-tocca-neppure-con-lo-sguardo, finiremo per estinguerci come specie. Mettere alla gogna un uomo perché ci ha provato (di questo si tratta, per parlar semplice), ma proviamo a essere coerenti e conclusivi. A volte l’uomo riesce, a volte meno. Chi più, chi meno”. Fingono di non capire che le decine di storie che sono uscite (e le decine che usciranno, purtroppo per loro) raccontano piuttosto di donne in condizione di inferiorità e bisogno di fronte a uomini di potere che non ricevono “approcci” ma piuttosto si trovano di fronte allo scambio sessuale come ineludibile merce di scambio per accedere a opportunità di lavoro (o, in alcuni casi, semplicemente per mantenerlo, il proprio lavoro) e che proprio in questo abuso di potere e di posizione stia il nodo che è necessario sciogliere: che poi l’abuso del potere di certi piccoli omuncoli passi sempre e per forza dal loro pisellino è la perfetta fotografia del loro spessore, che poi sia quasi sempre l’uomo ad essere il “potente” tra i due è la perfetta fotografia di un’epoca che si fatica a sradicare.

Così ancora una volta l’Italia, il suo giornalismo e i suoi maschietti riescono a segnare la distanza con il resto del mondo per vilipendio di un dibattito che altrove è già diventato cultura sociale. Ma tranquilli, succede sempre così: l’eccesso di difesa è la prima, inconsapevole, reazione dei colpevoli. Sempre.

Buon venerdì.

Più diritti ai figli dei detenuti, i piccoli invisibili delle carceri

20060322-MILANO-POL-CARCERI: CASTELLI, PENSAI A GRAZIA PER DETENUTE CON FIGLI- Un'immagine del parco giochi per bambini nel carcere di San Vittore.Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha rivelato di aver pensato di proporre al Capo dello Stato una ''grazia generalizzata'' per le madri detenute che hanno figli fino ai tre anni. Lo ha detto oggi in occasione della conferenza stampa nel penitenziario sul progetto per la realizzazione di una sezione a custodia attenuata per detenute con bambini. EMMEVI PHOTO/ANSA/DEB

Fuori da un carcere italiano, alle otto di mattina, sembra una scuola. Una fila di bambini aspetta di incontrare la mamma o il papà detenuto. Sono circa centomila, preadolescenti e piccoli sopra i quattro anni. Perché fino a tre, se a essere reclusa è la mamma, possono stare in carcere con lei. Una norma che, però, è rimasta come un refuso nel varo della legge 62 del 2011, la quale, stabilendo, in maniera sacrosanta, che una mamma con un figlio di età che non superi i sei anni, non debba scontare la pena in carcere e se è reclusa debba essere scarcerata, contempla l’estrema ratio della detenzione in casi particolari e mantiene, di fatto, le cose invariate, nonostante la stessa legge preveda l’istituzione di case famiglia protette (solo due in Italia) per il soggiorno di mamme ree con figli e le Icam, istituti a custodia attenuata per madri (a Milano, Torino, Venezia, Senorbì e Lauro).
E dei bambini che dai genitori, generalmente il papà, sono separati dalle mura carcerarie, vanno definiti i diritti. «Tutelare i figli dei genitori detenuti – dichiara a Left, la presidente di Bambinisenzasbarre, che da quindici anni si occupa di questo tema, Lia Sacerdote – non è una questione di buoni sentimenti. Per questo, nel 2014 rinnovata nel 2016, è nata la Carta dei figli di genitori detenuti, la prima in Europa, che la nostra associazione ha firmato con il ministro della Giustizia Orlando e la Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza».
Dopo che l’Europa ha condannato l’Italia, per ben tre volte, per il mancato rispetto dei diritti umani nelle carceri, negli ultimi tre anni, c’è stata un’accelerazione verso una definizione chiara dei diritti e in direzione di un cambiamento degli istituti di pena. «Dal canto nostro, è necessario sensibilizzare il carcere affinché accolga in modo adeguato questi bambini perché non rimangano invisibili e la società civile per contrastare l’emarginazione di questi minori, condizione che aumenta per il loro rischio di devianza», spiega Lia Sacerdote.
Altrimenti, il circolo vizioso diventa infrangibile: legato alla marginalizzazione, il carcere diventa un destino ineluttabile. Perciò, quello dei figli dei detenuti «è un tema sensibile, di prevenzione sociale – precisa la presidente di Bambinisenzasbarre – e tutelare il mantenimento del legame affettivo fra genitori reclusi e figli diventa un loro diritto da rispettare ma anche strumento di protezione». Perché «è nella continuità del rapporto che i bambini riescono a elaborare la reale separazione necessaria per crescere», aggiunge Lia Sacerdote.
Per attenuare l’impatto con un ambiente potenzialmente traumatico e consentire ai piccoli di orientarsi dentro le carceri, l’associazione ha creato lo ‘Spazio Giallo’ che è «un sistema di accoglienza, attenzione e cura delle relazioni famigliari in detenzione con al centro l’interesse del bambino» e contribuisce al processo di trasformazione degli istituti penitenziari (sulla scia del quale e in applicazione della Carta italiana, il 13 dicembre prossimo, il Ministero di giustizia Dap, promuove in collaborazione con l’associazione un programma pilota di formazione destinato alla polizia penitenziaria per l’accoglienza dei bambini).
Questi temi sono al centro della Campagna nazionale di sensibilizzazione di Bambinisenzasbarre “Dona un abbraccio” e dell’iniziativa “La partita con papà” che si svolge nelle carceri di tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero della Giustizia-Dap: per i bambini, che si trovano a pagare per un crimine non commesso, è un momento per ritrovare una “normalità” e per la società potrebbe essere un modo di superare i pregiudizi e dare un calcio alle stigmatizzazioni.

Rifugiati nella morsa tra Serbia e Croazia. Madina, 6 anni, viene travolta dal treno

Una bambina di sei anni che ha già affrontato il mare su un gommone tra le onde, per scappare dalla guerra e vivere in Europa. Un treno che si muove veloce sui binari per la deportazione forzata che la deve rispedire indietro con la sua famiglia. E alla fine, quattro bottiglie d’acqua: il necessario per il suo funerale, per lavare il suo minuscolo corpo per la veglia funebre. Perché quella bambina, minore migrante afghana, di nome Madina Husein, è morta così, mentre il governo serbo e quello croato litigavano e il vagone su cui doveva essere rimandata indietro, l’ha ammazzata.

È accaduto al confine di Sid, dopo che la polizia croata aveva bloccato la famiglia afgana a Tovarnik, Croazia. Gli Husein tentavano ancora una volta di attraversare il confine, ma le forze dell’ordine hanno rispedito indietro i migranti, dopo averli interrogati nella stazione di polizia più vicina. Madina, insieme ai suoi fratellini, stava camminando da giorni e sua madre pregava le divise di Zagreb di far riposare i figli, ma non è servito a nulla.

Quando Madina è morta, la famiglia è stata bloccata in una foresta per un’ora, mentre le divise croate intimavano di aspettare la polizia serba, che sarebbe arrivata e li avrebbe riportati a Belgrado. Non sapevano ancora che Madina fosse morta, quando la madre ha chiesto in che ospedale si trovasse, i croati hanno risposto di non saperlo. È stato il fratello di Madina, di 15 anni, ad accorgersi che il corpo della sorella era ormai senza vita, proprio sotto il treno che doveva riportarli indietro, in Serbia. «Trattano i rifugiati come non umani» ha detto Nilab, 17 anni, sorella della piccola profuga.

Ci sono voluti quattro giorni per notificare la morte della bambina afghana di nome Medina, che i genitori non hanno potuto seppellire a Belgrado, dove la famiglia Hussein sarebbe stata aiutata dalla piccola comunità locale di afghani nella capitale. Madina è seppellita a Sid, lo sarà per sempre, perché altrimenti l’intera famiglia avrebbe rischiato un’altra deportazione.

Le autorità serbe, quando hanno accertato legalmente la morte della bambina, hanno dato alla famiglia quattro bottiglie di plastica di acqua per il rito funebre e le loro scuse a voce. Il ministero dell’Interno croato invece ha definito questa morte “deplorevole”, ma non ha ammesso che la colpa fosse della polizia di frontiera e ha ribadito che la famiglia Hussein è tornata in Serbia volontariamente.

Nilab Husein ha detto: «volevano nascondere la morte di mia sorella, trattano i rifugiati come non umani». Secondo Medici senza Frontiere, 7 profughi, di cui tre bambini, sono morti al confine tra Serbia e Croazia nell’ultimo anno, proprio lungo la linea dei binari tra Tovarnik e Sid, mentre tentavano la fuga verso un mondo migliore.

Settemila rifugiati sono ancora nel limbo tra Croazia e Serbia, sono rimasti intrappolati lì, quando la rotta balcanica si è chiusa e l’ovest d’Europa ha sbarrato le sue porte ai migranti in marcia dai Balcani nel marzo del 2016. Per loro ogni giorno la sopravvivenza si fa sempre più dura e sempre più impossibile. E questo per loro sarà un ennesimo, lunghissimo inverno d’Europa.

La foto di Madina da aljazeera.com (per gentile concessione della famiglia Husein) 

Il fascismo bisognerebbe evitare di sdoganarlo, oltre che combatterlo

Il vicepresidente di Casapound Italia, Simone Di Stefano, con il giornalista Enrico Mentana (S) durante il dibattito pubblico presso la sede di Casapound a Roma, 29 settembre 2017. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il blitz fascista di quei quattro vigliacchi di Forza nuova sotto la sede di Repubblica (sempre con i volti coperti, perché il coraggio è qualcosa che si abbaia, da quelle parti, ma poi si rifugge sempre dai modi della democrazia) è solo l’ultimo atto di una recrudescenza di un fascismo di ritorno che si scorge non solo nei simboli (ed ecco perché la legge Fiano non è semplicemente “pittoresca” come in molti hanno tentato di farci credere) ma anche e soprattutto in un notevole senso di impunità che dalle parti delle formazioni di estrema destra (vale per Forza nuova ma vale allo stesso modo per CasaPound) sta largamente prendendo piede.

Forse varrebbe la pena soffermarsi sui tanti (troppi) che in questi ultimi mesi hanno giocato a minimizzare a tutti i costi in cambio di qualche copia (o, in televisione, di qualche punto di share) in più, mentre in tutto il Paese la disperazione e la paura sono diventate il concime perfetto per il ritorno di formazioni nostalgiche di un passato più che buio.

Il senso di impunità che spinge Forza nuova a manifestare a volto coperto e a pubblicare il loro folle comunicato («Oggi è stato solo il ‘primo attacco’ contro chi diffonde il verbo immigrazionista, serve gli interessi di Ong, coop e mafie varie. Da oggi inizia il boicottaggio sistematico e militante contro chi diffonde la sostituzione etnica e l’invasione (…). Questi infami sappiano che non gli daremo tregua, li contesteremo ovunque».) però ha delle radici culturali in cui troppi, più o meno consapevolmente, hanno dato il proprio contributo. Sono diversi infatti i giornalisti, anche di grido, che in questi ultimi mesi hanno voluto darci lezione di “democrazia” avvalorando le tesi di formazioni incostituzionali adducendo le più diverse motivazioni; chi ci ha detto che è giusto “dare la parola a tutti” (e forse ha esagerato nelle ospitate diventate ormai abituali), chi invece è andato a discutere con loro (in eventi organizzati da loro) contribuendo alla normalizzazione e poi c’è chi (al solito) continua a contrapporrre il “comunismo”, sventolato come feticcio, come danno opposto ma identico.

Non può stupire che in questo gioco sporco di patinamento del fascismo alla fine i violenti si sentano pienamente legittimati: continuando ad allargare le maglie delle regole della democrazia inevitabilmente succede che anche gli inaccettabili estremi si ritrovino in gioco.

Il fascismo, in tutte le sue forme, avrebbe bisogno di non essere sdoganato oltre che combattuto.

Buon giovedì.

Diritti umani negati: in Svizzera chi difende la dignità dei migranti rischia il carcere

C’è una parte della Svizzera che sta marciando per i diritti di migranti e richiedenti asilo, girando il Paese in lungo e in largo per denunciare le politiche elvetiche al riguardo. Un movimento corale, composto da molte associazioni, lanciato da Lisa Bosia Mirra come risposta alla vicenda che l’ha vista protagonista. A quella condanna in primo grado che la giustizia svizzera ha emesso a settembre nei confronti della deputata socialista del Gran Consiglio del Canton Ticino, accusata di “preparazione all’entrata, al soggiorno e all’uscita di clandestini”. Non si può quindi parlare della marcia, di quella che è a tutti gli effetti un’azione civile di denuncia, senza partire prima dai fatti che l’hanno ispirata. E allora non ci resta che tornare all’agosto 2016, momento in cui Lisa aiuta una ventina di migranti (perlopiù eritrei e siriani) ad attraversare la frontiera italo-svizzera. Per dargli modo di proseguire il viaggio e di ricongiungersi con i loro cari nei paesi del nord Europa. Un’azione illegale per la giustizia elvetica, perché contro la legge erano quelle persone che volevano attraversare il confine. La realtà però ci dice anche altro. “All’incirca a luglio 2016 – racconta Lisa – la Svizzera cominciò a fare dei respingimenti indiscriminati e numericamente molto rilevanti alla frontiera con l’Italia, nei pressi di Como”, a seguito dei quali si creò proprio nella cittadina italiana una situazione d’emergenza, parte della quale viene affrontata tutt’oggi dai volontari di Como Senza Frontiere. Al netto della delirante invasione fascista ad opera di appartenenti al Veneto Fronte Skinhead, testimoniata da un video ormai celebre. “In pochi giorni – ricorda Lisa tornando alla propria vicenda – ci furono oltre 500 persone per strada. Un problema umanitario, per il quale si è dovuto provvedere a tutto. Ingigantito dal fatto che il 90% delle persone erano arrivate da pochi giorni in Italia, portando con loro segni recenti di torture oltre al dolore per aver perso parenti o persone care da poco”. Inizialmente si cercò il dialogo con le istituzioni.

“Visto che avevo lavorato per molti anni con l’Ufficio Federale Immigrazione – ricorda Lisa – parlai con la guardia di confine per capire cosa stesse succedendo, ma le risposte non furono convincenti. A quel punto, di fronte all’emergenza e al fatto che la situazione non si riusciva a sbloccare è scattata la molla della disobbedienza civile. Sentivo che non potevo lasciare quelle persone, con le quali si era creato anche un legame, in quella situazione. Capii che non avrei trovato un modo legale per aiutarle a proseguire il loro viaggio, e decisi di farlo diversamente. Se le leggi non tutelano le persone credo che siamo obbligati ad agire in altro modo. Ripeto, non sono una che ha l’abitudine di infrangere la legge, ma non c’era una maniera legale di aiutare quelle persone”. La legalità si è tradotta invece nella condanna per Lisa Mirra, dove non è stata riconosciuta alcuna attenuante umanitaria. Condanna (ad una pena pecuniaria) sospesa poi con la condizionale per due anni. Una legalità che non ha tenuto conto nemmeno di alcuni casi di migranti che morirono folgorati nel tentativo di attraversare quella parte di frontiera arrampicandosi sopra i treni. Che non ha considerato neanche la presenza di molti minori non accompagnati tra i respinti.

Una vicenda dura dal punto di vista umano per Lisa Mirra, che si riserva comunque di fare appello alla condanna non appena arriveranno le motivazioni della corte. Una vicenda che ha ispirato però un movimento di denuncia: la Bainvegni Fugitivs Marsch (Marcia per i diritti umani e la dignità umana). Il nome è in romancio, la quarta lingua nazionale svizzera, quella di una piccola minoranza. Scelta simbolica perché “come rispettiamo questa minoranza, non solo linguistica – racconta Lisa – possiamo rispettare anche quelle di migranti e richiedenti asilo”. Si tratta di una vera e propria marcia, aperta a tutti e sostenuta da più di 24 associazioni di natura diversa tra loro (Amnesty, Solidarité sans frontiè, partiti politici e tanti altri) che, partita lo scorso 15 ottobre da Bellinzona, percorrerà più di 1000 km in Svizzera toccando oltre 50 località. E si concluderà simbolicamente il 10 dicembre, Giornata mondiale dei diritti umani, sempre a Bellinzona. Un movimento il cui scopo principale è quello di denunciare la politica migratoria svizzera su più piani, chiedendo, come si legge nel manifesto pubblicato sul sito “il rispetto del diritto d’asilo, la fine della chiusura delle frontiere, la fine dei respingimenti, la fine delle politiche di controllo e persecuzione dei richiedenti asilo”. Parole forti e chiare, proprio come quelle di Lisa, a cominciare dal tema delle richieste d’asilo: “sulle quali abbiamo assistito negli ultimi tempi ad un continuo inasprimento delle leggi. In Svizzera non ci sono muri di pietra ma un sistema burocratico tale che è quasi difficile non solo ottenere ma anche richiedere il permesso di asilo”. Poi c’è la questione dei respingimenti “dove la Svizzera è campione di rinvii – afferma Lisa – con circa 3500-4000 persone l’anno rispedite in Italia, spesso separando le famiglie. E sappiamo bene che quelle persone rispedite nel vostro paese le stiamo buttando in mezzo ad una strada”. A questo si aggiungono misure sempre più violente contro chi è considerato “indesiderabile” (come chi ha ricevuto risposta negativa alla domanda d’asilo, che può essere tenuto in detenzione amministrativa se non lascia il territorio) o contro chi è già nel paese con un permesso di soggiorno ma magari attraversa un momento di difficoltà. “Se chiedono aiuti sociali – ci spiega Lisa – a quelle persone viene tolto il permesso di soggiorno e sono costrette ad andarsene”. Mentre è sempre più difficile l’accesso alla cittadinanza. Una politica, quella relativa a migranti, richiedenti asilo e indigenti che per dirla con le parole di Lisa “ha un costo enorme in termini umani e non si giustifica in nessun modo”.

Oltre alla denuncia, l’altro obiettivo della marcia era quello di mettere in rete tutte le associazioni, anche piccole, che si occupano di accoglienza e condividono le idee del manifesto. A pochi giorni dalla conclusione del cammino, è inevitabile chiedere alla deputata svizzera un bilancio su questo aspetto. “Siamo un paese complesso – racconta Lisa – che sembra stia diventando sempre più rigido e xenofobo. Una come me è ostracizzata in Canton Ticino. Allo stesso modo però le differenze non mancano. A Ginevra c’è un sindaco di un movimento che mette al cento delle proprie politiche l’aiuto ai richiedenti asilo, dal quale siamo stati ricevuti nel corso della marcia. Da lui come dal sindaco di Neuchâtel. In generale posso dire che quest’altra Svizzera, quella dell’accoglienza, è grande. Tappa dopo tappa sono rimasta sempre più colpita dal numero e dalla qualità dei progetti messi in campo, che si scontrano con la rigidità di un sistema burocratico che limita le possibilità di intervento della società civile. Ho incontrato tantissime persone che ci hanno accolto, hanno camminato con noi. Addirittura deputati che hanno fornito i loro indirizzi come residenza dei migranti, per evitare loro il rinvio secondo gli accordi di Dublino. Quest’altra svizzera è meravigliosa. Sicuramente però è poco ascoltata dalle istituzioni”. Fondamentale ora sarà non fermarsi qui, dare un seguito a questo grande movimento, provando magari a fare rete anche con altri movimenti analoghi in Europa. L’ideatrice di tutto questo lo sa bene, come sa anche che “dopo un esperienza di questo tipo – conclude Lisa – c’è bisogno di tempo per far decantare il tutto. Per capire punti di forza e di debolezza. Dopo aver incontrato tanti movimenti e collettivi le idee ci sono. In particolare ne avrei una… ma ancora è presto”. Giusto. Le idee migliori, quelle che sono in grado di cambiare le cose in meglio, hanno bisogno del loro tempo per maturare. Per cui aspettiamo.

Nel segno di Lupin. La nuova svolta musicale di Ghemon

Ghemon

Rinnova ancora il suo stile con l’album Mezzanotte, Ghemon, al secolo Gianluca Picariello, avellinese, classe 1982. Da anni sulla scena, prevalentemente conosciuto come artista hip hop: dal graffitismo degli anni Novanta, alla musica rap e alla radio, sperimentando diverse collaborazioni e progetti, concretizzatisi in una serie di album nel primo decennio degli anni 2000. Con Orchidee, nel 2014, l’artista, che porta il nome di un personaggio di Lupin, riceve maggiori consensi e successo di pubblico per un prodotto che mescola diversi stili musicali. Quattordici tracce nuovissime per un lavoro più completo, anche maturo, in cui il cantautore campano si cimenta maggiormente in composizione e arrangiamento. Un album di rinnovamento per continuare un discorso prettamente biografico, lui che già cantava “Adesso stringo ciò che sono diventato” tra cui spicca oggi l’evocativa “Un temporale”. Non ha fatto mistero, Gianluca/Ghemon, di aver superato un momento personale di difficoltà, di depressione, ma stavolta con lui parliamo di cambiamento, della ripresa, attingendo solo un momento al passato, per ricordare la sua laurea in Legge, ma guardando al futuro. A volte incompreso, nel panorama musicale italiano, per non essere stato “collocato” in uno stile definito, Ghemon ammette di aver sperimentato tanto, di aver osato e oggi ha le idee più chiare e fa quello che gli piace.
Sono passati tre anni dal precedente album, che ha riscosso un certo successo di pubblico e critica; stavolta, c’è altro, viene da dire che ti appartiene di più. Cosa troviamo di diverso, in Mezzanotte?
Questo album non è un’estensione del precedente, ma un’evoluzione. Questo è mio perché arriva dopo, tutto quello che faccio è un percorso che va in avanti. “Orchidee” e tutto il tour che ne è venuto dopo sono stati tempi che hanno costituito anche un laboratorio che, con questo disco, si è materializzato. È anche molto diverso il momento di vita, sono un’altra persona.
Ascoltando i brani, tra cui “Cose che non ho saputo dire”, “Non voglio morire qui”, mi sembrano riflessioni molto intime.
Questo album, che è passato attraverso la sofferenza, è un disco molto più mio, certamente di maturazione, non solo dal punto di vista personale perché parla della mia persona, ma intendo più mio nel senso che mi rispecchia molto di più a livello artistico. Avevo iniziato a mettere le mani in quello che ho sempre voluto fare: coniugare strumenti, cantare e rappare, però era più un orientarsi. È un disco che avevo in mente nei suoni, nella visione, in come l’ho gestito.
L’esordio del tour è stato più che positivo con la doppia data milanese sold out, poi sarai in giro per tutta Italia, in particolare il 9 dicembre al Monk di Roma. In generale, che cosa ti aspetti dal pubblico?
Le avvisaglie sono ottime, le date di Milano e di Avellino sono sold out, ma anche altre sono in procinto. Il concerto non sarà il karaoke del disco, ma una sorpresa perché è una formula per i live nuova; peccherò di immodestia, ma non mi viene in mente nulla di recente che tocchi questi territori. Ai concerti, mi aspetto energia, sudore, sorrisi perché le persone verranno coinvolte, non verranno solo lì ad ascoltare me che canto le canzoni del disco.
Nessuna anticipazione?
Ci sarà una buona parte del disco nuovo che, per quanto sembri scuro, è molto energico, dà sfogo, è da urlare. Ci sono diverse cose di Orchidee, rivisitate in una chiave nuova, non solo di arrangiamento; poi ci saranno i brani del passato, precedenti all’esistenza della band. In più, il pubblico assisterà a piccoli momenti scritti apposta per il live, come se fosse uno spettacolo teatrale.
Tra un’esperienza artistica e l’altra, hai messo in mezzo una laurea in Giurisprudenza, peraltro alla Luiss a Roma. Come è successo?
Nessuno mi crede, però è vero. Da sempre volevo andare a Roma, anche a studiare. In realtà tutti gli amici e i compagni di classe andavano a Napoli a studiare (è il massimo dell’esotismo!), ma io ho sempre pensato alla capitale perché mio padre mi raccontava delle sue vacanze romane trascorse da uno zio. Fin da piccolo, non avendo la possibilità di andare al mare, lo “parcheggiavano” da lui d’estate e mi hanno sempre affascinato i racconti di lui scarrozzato a destra e a manca per conoscere la città. Quindi, Roma per me è stata sempre come una seconda casa, un posto molto familiare.
Avellino, poi Roma, adesso però vivi a Milano.
Mi sono trasferito otto anni fa, quando avevo bisogno di un cambiamento. Non mi
ero preposto di andare a Milano per far svoltare la mia carriera, non sono uno così strategico, ma avevo bisogno di un’aria diversa, di linfa nuova, per il mio modo di concepire il lavoro. Mi sono spostato e mi trovo bene. Il cuore, i ricordi più vivi, sono rimasti ad Avellino, anche se poi ho fatto mille altri giri per l’Italia, e per il mondo, per cui sono abituato a considerare casa il posto dove mollo la valigia per tre giorni di fila.
A livello professionale, hai sperimentato tanto, in questi anni. Artisticamente,
in che momento ti trovi?
Stavolta, redo di avere fatto, invece di uno scalino, due scalini; di avere visto che due scalini mi riescono e ho alzato la gamba per iniziare a farne altri due. Sono a metà di qualcosa di importante, che potrà venire con il mio libro che uscirà a marzo, o col tour che sta per iniziare. Ci sono tante cose in evoluzione, di quelle che io avrei voluto fare nella mia vita: declinare un messaggio in tanti modi e non fare solo il rapper, ma scrivere, cantare, fare radio. Non escludo niente! Se prima mi sentivo più insicuro nel gettarmi in esperienze nuove, adesso ci provo e vediamo se lo so fare bene. Tranne l’avvocato (ride).