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Alessandro Pieravanti, cantastorie del XXI secolo

Una volta i cantastorie andavano in giro per le strade, tra paesi e paesaggi spesso disabitati, a raccontare storie comuni che, dette da loro, diventavano storie di sempre. Parlo di artisti come Orazio Strano, ad esempio, che col suo carretto partiva ogni mattina e al posto del latte lui fuori dalle porte delle case lasciava l’eco delle sue storie. Oggi qualcuno li ha dati per vinti, ai cantastorie intendo, insieme a poeti, artisti e altri sognatori. Ma se ci guardiamo bene attorno, scopriamo che esistono ancora. E ancora hanno qualcosa da raccontarci. Si muovono forse diversamente, si presentano su altre scene ma, come succedeva una volta, basta poco per inchiodarci sulla sedia ad ascoltare la storia di quella ragazza ad esempio, quella «che in un caldo pomeriggio d’agosto andava al cinema da sola. Una volta finito il film saliva su un autobus a caso, il 718, e da lì partiva il suo folle viaggio attraverso la città. Ogni giorno cercavo di immaginare cosa potesse accaderle, e da lì in poi non ho più smesso di raccontare». «Si può dire che tutto è nato così», ci racconta Alessandro Pieravanti a proposito di questa sua magica attitudine nel raccontare le storie. A quei tempi le scriveva su Myspace. Il suo progetto si chiamava, appunto, 718.

Alessandro Pieravanti è però innanzitutto un musicista, batterista e voce narrante del gruppo folk romano Il muro del canto. Negli anni ha pubblicato due libri, 500 e altre storie e Mestieri. Nel primo, pubblicato da Goodfellas Edizioni, troviamo una serie di storie metropolitane insieme ad altri scritti ispirati ad alcuni suoi amici musicisti. L’altro invece è un instant book realizzato da Pieravanti dopo aver curato una rubrica per il programma radiofonico Slidin’ Bob, condotto da Roberto Angelini e Martina Martorano su Radio Sonica. Agli ospiti, per lo più musicisti, veniva chiesto quale mestiere avrebbero scelto se non avessero intrapreso la carriera del musicista.

Oggi Pieravanti cura un programma per Radio Sonica, Raccontami di te, trasmesso in diretta dal locale romano Na cosetta. Ed è lì che noi lo abbiamo conosciuto, mentre intervistava Elio Germano sotto vesti meno conosciute dal grande pubblico, quelle di musicista e amante del rap. Quella sera Germano indossava un cappellino sotto il quale sembrava volesse nascondersi, più che mostrarsi al pubblico curioso di sapere qualcosa di più su uno degli attori più apprezzati in questi anni. «Ma se tu dovessi invitare al tuo programma gente totalmente sconosciuta» abbiamo chiesto a Pieravanti in un altro momento, «eppure allo stesso modo interessante, chi sceglieresti? Chi sono per Alessandro Pieravanti gli invisibili che, seppure in silenzio, provano a constrastare le righe di questo presente distopico che ci troviamo a vivere?».

E lui ci ha risposto: «Le storie sono sempre interessanti a prescindere da chi ce le racconta. Sto lavorando ad un’idea che vede fondere i miei ultimi due progetti Raccontami di Te, e Mestieri. Forse le prime persone a cui darei voce sono quelle che incarnano nella loro quotidianità l’essenza del lavoro che fanno, mi vorrei far raccontare come hanno iniziato, come il loro lavoro è cambiato nel tempo, i gesti di tutti i giorni, il loro personale punto di vista, da dentro, un punto di vista privato e a volte segreto, quindi magico».

Oggi dunque, i cantastorie esistono ancora. Ma oggi soprattutto il pubblico ha ancora voglia di ascoltare quelle storie. Eppure tra tutti quei mestieri che troviamo sfogliando il libro di Pieravanti, il cantastorie non compare da nessuna parte. Troviamo il pescatore, il fotografo, persino il ladro, ma il cantastorie mai. E quando gli abbiamo chiesto che lavoro avrebbe fatto lui in alternativa, ci ha risposto che comunque sarebbe diventato musicista.
Intanto noi, che abbiamo amato le sue storie, ci auguriamo di continuare ad ascoltarle e speriamo che un giorno, di fronte al pubblico che brinda alla giornata, lui riprenderà a raccontarci la storia di quella ragazza sul 718 e della città che non l’ha dimenticata.

Kimpa, Nur e le altre. Storie di migranti e di riscatto

"Le riformine", piece teatrale di Fiamma Negri e Giusi Salis

Il tema delle migrazioni, dell’accoglienza, dell’umanità, del valore della solidarietà e dell’eguaglianza è a fondamento della ridefinizione dei confini non politicisti tra destra e sinistra. Invasioni, differenza tra migranti politici ed economici, costruzione da parte dei media di una agenda politica viziata dalle narrazioni tossiche, lessico del razzismo “democratico”: parole, termini, visioni del mondo regressive e conservatrici che permeano ambiti ben più vasti della tradizionale Destra.

Cascina, in provincia di Pisa, zona di tradizioni di “sinistra” e di forte insediamento della Cgil ha visto affermarsi un Sindaco espressione della Lega più razzista e xenofoba che possa darsi, la quale prova ad organizzare le proprie pratiche di governo della Città con le parole d’ordine “prima gli italiani”. È un fatto che costringe ad interrogarci, perché anche luoghi e forze tradizionalmente democratiche ed accoglienti non sono affatto immuni alla realtà di razzismo e xenofobia che le circonda, come crudamente dimostra l’episodio dell’iscritto alla Cgil della Toscana espulso per essersi macchiato di comportamenti razzisti, rinchiudendo e schernendo in gabbia due donne straniere.

Troppi aderenti alla Cgil ed all’Arci – le grandi espressioni di massa dell’associazionismo democratico sindacale e ricreativo – corrono il rischio di non essere insensibili, o sufficientemente vaccinati, nella crisi provocata dalle politiche dell’austerità recessiva, alle sirene reazionarie della destra sociale. Il tessuto delle Case del popolo e dei circoli Arci spesso fatica a trasmettere valori e pratiche sociali che possano costituire un valido antidoto al ricondurre tutti i mali del mondo alla presenza dello “straniero”.

Fa male, ma è bene dirselo. E oltre a dirselo, occorre fare. Ed questa la scelta a fondamento del progetto teatrale che vede assieme la Cgil Toscana con lo Spi Regionale, la Fondazione Finanza etica, Legambiente Toscana, Arci Toscana, Anpi Toscana, con il patrocinio del Consiglio Regionale toscano. Un progetto che ha a fondamento l’umanità e la ferma consapevolezza che le guerre dei penultimi contro gli ultimi colpiscono i lavoratori, i precari, i disoccupati e i pensionati di qualunque colore della pelle, di qualunque lingua, credo religioso, atei ed agnostici, trascinando il nostro Paese in una spirale di risentimento ed invidia sociale di grande pericolosità.

La teatralizzazione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti da parte di Fiamma Negri e Giusi Salis (in foto) dunque – le intrepide Riformine della pièce teatrale sulla battaglia per il No al referendum costituzionale – che alternando i toni della commozione e dell’ironia, tra un sorriso ed una lacrima, ci offriranno Eisbolè: invasioni, strappi, visioni, incentrato sui temi e le storie delle migrazioni.

Uno spettacolo che vedrà la prima proprio in quel di Cascina, ex provincia rossa passata alla Lega, alle ore 21.00, ad ingresso libero.

Uno strumento per commuoversi e pensare, uno strumento di iniziativa culturale e politica nel senso più alto e nobile del termine, uno strumento – anche pedagogico – a disposizione di tutti. Eisbolé – “invasione” in greco antico – è una carta geografica che parla e diventa teatro. È il racconto di chi subisce le violenze di guerre e conflitti di qualsiasi natura e non è solo profugo, immigrato, povero, è una persona con progetti, desideri, affetti, emozioni, diritti.

Sul palco due donne. A Giusi Salis il compito di districare le difficili trame dei perché, un racconto quasi giornalistico che col leggero distacco dell’ironia fa vivere la mappa di Peters: le storie e i personaggi, le vittime e i carnefici, la montagna d’oro, la signora Maria, le multinazionali, casa nostra, casa loro, eventi che ai più sembrano scollegati ma che se scavi un po’ trovi che sono strettamente connessi. Fiamma Negri interpreta tre personaggi, tre punti di vista: Nur, siriana, è una donna emancipata che ha gli strumenti per capire, Kimpa, ha lo sguardo della tradizione africana, lo stupore di fronte ad eventi troppo grandi, e Amanda, di nazionalità indefinita, è assolutamente aderente allo stereotipo della donna d’affari. Quelle che di scrupoli ormai non ne hanno più. Kimpa e Nur sono anche madri. Madri che sanno che i figli se ne vanno e tornano. Forse.

Eisbolé comincia a vivere molto tempo fa, da incontri che non si possono dimenticare, nasce da storie che finché le leggi è una cosa, ma quando le ascolti nelle parole e negli occhi di chi le ha vissute ti cambiano la percezione, lasciano un’eco che ti segue ovunque.


L’appuntamento. Il convegno La Toscana dell’accoglienza diffusa. buone pratiche per l’integrazione, si tiene a Cascina (Pi) il 15 dicembre a partire dalle 16. Tantissimi gli interventi, fra i quali quello di Giuseppe Massafra, segretario nazionale Cgil, di Simone Ferretti, segretario regionale Arci, di Sergio Bontempelli di Africa insieme, dell’assessore all’immigrazione della regione Toscana Vittorio Bugli e di molti altri. Coordina il segretario regionale della Cgil Toscana Maurizio Brotini. Lo spettacolo andrà in scena a seguire, il 15 dicembre, alle ore 21. Il palcoscenico dell’intera giornata è quello de La Città del Teatro, via Tosco Romagnola, 656, a Cascina PI, L’ingresso è libero con prenotazione su [email protected]

Trump accende la miccia nel mondo arabo e islamico. Raffica di proteste dall’Indonesia al Marocco

epa06380646 Lebanese army soldiers clashes with protesters during a protest against US President Donald Trump's decision to recognize Jerusalem as the Capital of Israel, in Awkar, east of Beirut, Lebanon, 10 December 2017. US president Donald J. Trump on 06 December announced he is recognizing Jerusalem as the Israeli capital and will relocate the US embassy from Tel Aviv to Jerusalem. EPA/WAEL HAMZEH

Da Gaza fino a Giacarta e a Rabat, in tutto il sud est asiatico e Medio Oriente. In decine di migliaia sono scesi in piazza contro la scelta a stelle e strisce: Gerusalemme è capitale del mondo arabo-islamico, non solo della Palestina.

Le bandiere palestinesi sventolano nel mondo, fino al Cairo, Egitto, mentre piovono lacrimogeni durante le marce in difesa della città divisa, fino a Beirut, Libano. Per la decisione di Trump, che ha scelto di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dove a causa dello status di città divisa nessuna istituzione diplomatica ha sede, e per la dichiarazione presidenziale seguita, che ha riconosciuto Gerusalemme come “capitale d’Israele”, la protesta araba si moltiplica ogni giorno di capitale in capitale. Ogni città di uno stato musulmano incendia a macchia d’olio quella successiva dello Stato confinante. Dall’Asia fino all’Africa.

Da quando Trump ha parlato, 157 palestinesi sono rimasti gravemente feriti e 4 sono morti a Gaza negli scontri con l’IDF, l’esercito israeliano. Ma la questione palestinese da sempre varca i confini della Palestina, non è una problematica solo geografica, ma religiosa e identitaria. A Beirut, Libano, a volto coperto, molotov e pietre, i ragazzi musulmani hanno combattuto contro i soldati di Trump, il piantone di sicurezza di guardia all’ambasciata americana nella capitale libanese. La polizia di Beirut è intervenuta con idranti e lacrimogeni, mentre il ritratto di Trump, la bandiera americana, insieme a quella israeliana, prendevano fuoco e bruciavano sulle barricate.

Poche parole di Trump sono state «un pericoloso sviluppo che mette gli Stati Uniti in una situazione di parzialità in favore dell’occupazione e della violazione delle risoluzioni e leggi internazionali», è stato detto durante la riunione d’emergenza della Lega Araba. Perfino dove si combattono altre guerre, in Siria e Yemen, la solidarietà degli abitanti è emersa e altre lotte regionali non hanno frenato le proteste. Così è successo anche in Giordania e Malesia, fino in Svezia, a Gothenburg, dove in tre sono stati arrestati per aver attaccato con bombe carta una sinagoga.

Al Cairo, studenti e professori dell’università musulmana al Azhar, hanno cantato per strada «con l’anima e col sangue, ti vendicheremo Palestina», mentre i copti egiziani, della più grande comunità cristiana del Medio Oriente, hanno, con altre parole, dimostrato lo stesso. Anche in Pakistan a Karachi, centinaia hanno camminato armati contro il consolato americano della città, fermati solo dalle divise delle forze dell’ordine anti sommossa.

Tutti i presidenti degli Stati arabi stanno condannando, uno dopo l’altro, la scelta del presidente che infiamma il Medio Oriente. In Tunisia il presidente Beji Caid Essebsi ha chiamato l’ambasciatore americano per condannare il suo governo. In Indonesia, il Paese con più musulmani al mondo, migliaia a Giacarta hanno urlato all’America di fare passi indietro: Gerusalemme non è la capitale dei Palestinesi, ma di tutti gli arabi, per le sue moschee e per la sua storia.

Ad Istanbul, per la scelta della Casa Bianca e del suo presidente, sono scomparse le insegne d’oro dove brillava il nome di Trump nei suoi alberghi e centri commerciali nella città turca. Migliaia hanno incrociato bandiere turche e palestinesi a piazza Yenikapi, i turchi hanno supportato per una volta il loro presidente Erdogan che ha dichiarato “nulla e vana” la scelta dell’omologo americano.

Anche in Marocco, a Rabat, la solidarietà e la rabbia per lo Stato palestinese non riconosciuto e sotto perenne occupazione, hanno guidato gambe e braccia di chi manifestava. Insieme, sotto la stessa bandiera, sotto gli stessi colori, il governo ufficiale e l’opposizione, secolari e conservatori, laici e religiosi, hanno marciato per denunciare una scelta che sta per destabilizzare per sempre la regione. Il ministro marocchino Mohamed Boussaid ha detto che così hanno mostrato fino a Washington la loro «indignazione e insoddisfazione, noi rifiutiamo completamente la decisione di Trump, Gerusalemme è una linea rossa».

Gerusalemme è un confine da non varcare. Su Gerusalemme «gli Stati Uniti hanno varcato la linea» ha detto Mahmoud Abbas, il presidente palestinese che si rifiuta di incontrare ora le autorità americane.

Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu intanto si trova proprio ora in Europa. A Bruxelles al Parlamento Europeo ha detto che il riconoscimento di Gerusalemme è una nuova chance per la soluzione, «che non rende ovvia la pace, ma anzi la rende possibile». Alcuni parlamentari, in risposta, hanno deciso di chiedere che Israele paghi per i fondi europei spesi in strutture costruite in Palestina e distrutte dall’esercito nell’area C, quella palestinese ma sotto controllo israeliano. Come gli arabi, anche i membri del Parlamento europeo stanno pensando ora di protestare.

La figlia di Riina va in onda in prima serata. Ma non parla al pubblico

Dice Maria Concetta Riina, generosamente resa protagonista in prima serata dalla trasmissione Le Iene che suo padre, da latitante, usciva “senza trucchi, senza maschere. Girava anche per Palermo quando c’era bisogno uscivamo, per andare a fare la spesa, in farmacia”.

Strana latitanza quella di Riina, gestita in tutta tranquillità con la famiglia al seguito come se fosse una semplice gita fuori porta. Quando c’era da scappare la fuga veniva apparecchiata con tutta tranquillità: “on ci diceva: dobbiamo scappare di notte – ha raccontato la figlia di Riina -, oppure dobbiamo allontanarci perché siamo seguiti o siamo braccati. No, lui ci diceva con calma: dobbiamo andarcene. E così facevamo le valigie e ce ne andavamo”. Con calma. Andavano. E ogni estate, ovviamente, le due settimane canoniche al mare. Ci mancherebbe.

Poi ovviamente la solita favoletta sulla morte di Falcone: “Quando ci fu la strage di Capaci l’abbiamo saputo dal tg. Eravamo tutti sul divano. (Falso. Salvuccio, il figlio più giovane dei Riina, disse ospite di Bruno Vespa, di essere stato al bar con gli amici, nda). Mio padre era normale, non era né preoccupato  né felice. E non è vero, come hanno detto, che ha brindato con lo champagne“.

Ma i messaggi veri, quelli che non sono per il pubblico televisivo e che ieri sera sono arrivati a chi dovevano arrivare sono ben altri: “Per me è stato un buon padre. Io ho le mie buone ragioni per pensare che mio padre in certe cose non c’entra. Non ha potuto fare – scandisce la figlia di Riina – tutto quello da solo”.

Ecco qui. Ecco tutto. La saga ora davvero può tranquillamente continuare.

Buon lunedì.

Quei principi fondamentali e inattuati: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

Mai come oggi ci sarebbe la necessità di applicare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Principi fondamentali, scritti dopo la tragedia della guerra mondiale e milioni di vittime, ma purtroppo rimasti inattuati in gran parte del mondo. Eppure è scritto tutto lì, nero su bianco.

Tutti gli uomini nascono liberi e uguali, tutti hanno libertà di pensiero e di espressione, tutti sono uguali davanti alla legge e possono chiedere asilo. Tutti hanno il diritto alla vita. Tutti hanno diritto all’istruzione e a realizzare una vita degna. Tutti, proprio tutti. Al di là della religione, della razza e del sesso e al di là dello Stato in cui vivono.

È vero, sono solo parole, ma mai prima di allora erano state scritte così chiare, nero su bianco. Nel 1948, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale gli Stati che nel ’45 avevano dato vita alle Nazioni Unite, compresero che «il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», si legge nel preambolo della Dichiarazione approvata il 10 dicembre a Parigi. Oggi, in un tempo in cui la diseguaglianza ha raggiunto livelli insopportabili nel mondo, in cui i pregiudizi, il fondamentalismo di ogni tipo e il razzismo schiacciano le persone entro confini in cui l’esistenza è sempre più abbrutita, la Dichiarazione del ’48 appare come un faro nella notte.

Eleanor, la donna della Dichiarazione

C’è una donna dietro alla Dichiarazione universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948. Eleanor Roosevelt è considerata un po’ l’artefice della Carta nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Moglie di Franklin Delano Roosevelt, il padre del New Deal, in realtà era sua cugina mentre lo zio di entrambi era Teodore Roosevelt, altro presidente degli Stati Uniti. Eleanor per tutta la sua vita si è battuta per i diritti civili, delle donne e delle minoranze, ha guidato la reazione in patria sotto la seconda guerra mondiale e in seguito è stata una fiera oppositrice del maccartismo e della campagna anticomunista negli Usa sorta con la guerra fredda. Ma non era sola quel 10 dicembre del 1948 a Parigi. Al Palais de Chaillot, davanti alla Tour Eiffel c’erano gli altri membri del comitato di redazione che portò all’approvazione dei trenta articoli più lungimiranti che siano mai stati scritti sui diritti degli esseri umani.

Come si arrivò alla Dichiarazione

Oltre a Eleanor, americana, c’erano altri personaggi che arrivavano dai quattro angoli del mondo. Eccoli: René Cassin, giurista e diplomatico francese, era uno dei principali ispiratori, anzi, è considerato il padre spirituale della Dichiarazione. Del resto la Francia aveva già rotto molti tabù con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Poi c’era il canadese John Peters Humphrey, anche lui giurista e considerato uno dei padri del sistema di tutela dei diritti umani. E ancora: l’australiano William Hogdson, il cileno Hernan Santa Cruz, il sovietico Alexander Bogomolov, il libanese Charles Habib Malik, relatore del Comitato, il cinese Peng Chun Chang e il britannico Charles Dukes.

Il voto dell’assemblea

La dichiarazione venne approvata da 48 dei 58 Stati che allora facevano parte dell’assemblea generale dell’Onu. Due Stati non presero parte al voto: lo Yemen e l’Honduras mentre otto si astennero, e già da questo fatto, si comprende che aria tirasse dentro i loro confini. Per esempio uno fu il Sudafrica che allora era in pieno apartheid e che quindi non poteva votare sì a un’uguaglianza tra gli esseri umani senza distinzione di razza. Ma c’era anche l’Arabia Saudita, che già allora non digeriva la parità di diritti tra gli uomini e le donne. E poi, ad astenersi furono anche dei Paesi del blocco sovietico: Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Unione Sovietica (Russia, Ucraina, Bielorussia). Pur professandosi comunisti contestavano il comma 1 dell’articolo 2 che sancisce che «a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origina nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». Tutti questi principi non andavano bene…

Gli articoli più belli, oggi traditi

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù.

Articolo 5

Nessun indiividuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crdeli, inumani o degradanti.

Articolo 7

Tutti sono uguali davanti alla legge

Articolo 13

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. E ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio.

Articolo 14

Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.

Articolo 18

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

Articolo 19

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione.

Per leggerla tutta qui.

Israele non gradisce i rifugiati africani

Detained African illegal immigrants stroll outside the Holot detention center in Israel's southern Negev desert, near the Egyptian border on September 3, 2017. Thousands of African illegal immigrants are detained in this facility, from which they can exit during daytime and must return to at night. Tens of thousands of Africans -- mainly Eritrean and Sudanese -- have entered Israel in recent years, mainly by illegally crossing the desert border from neighbouring Egypt. / AFP PHOTO / MENAHEM KAHANA (Photo credit should read MENAHEM KAHANA/AFP/Getty Images)

Mutasim pensava fosse una bella notizia, l’ottenimento dello status di rifugiato in Israele, un anno fa. Che fosse il primo di una lunga serie di riconoscimenti. Non è stato così: da allora le politiche di respingimento dei richiedenti asilo africani in Israele si sono inasprite. Fino all’accordo reso noto dalla stampa due settimane fa: il governo di Tel Aviv pagherà 5mila dollari al Ruanda per ogni rifugiato deportato nel Paese centrafricano.
Avevamo incontrato Mutasim Ali tre anni fa a Tel Aviv. Ci aveva accompagnato per le strade dei quartieri meridionali della capitale, una galassia a sé stante, lontana anni luce dai bistrot e i grattacieli. A dividere i due mondi – quello dei rifugiati e quello dei cittadini israeliani – è la stazione centrale, ufficiosa frontiera tra il degrado dei ghetti di Neve Shaanan, Shapira e Hativka e l’inclusione del centro. Tra gli appartamenti fatiscenti dove vivono in dieci e gli attici che si affacciano sulla spiaggia.

In mezzo alle botteghe dei barbieri e i mini market, tra i materassi di Levinski Park – “casa” per decine di africani – e gli internet point con all’ingresso immagini della Vergine Maria, Mutasim ci aveva raccontato il suo passato e il suo presente: la fuga dal Darfur dove per la sua attività politica era stato arrestato tre volte e torturato; e il limbo israeliano, in attesa di un pezzo di carta che ne attestasse lo status di rifugiato. «Sono fuggito dal conflitto e dal genocidio in Darfur. Là studiavo geologia, mi sono laureato. Poi ho deciso di scappare in Egitto, non certo il posto migliore per chiedere protezione – ci disse -. L’Egitto ha relazioni stabili con il Sudan e le autorità del mio Paese hanno una presenza importante, potevo essere rintracciato in qualsiasi momento. Per questo ho scelto Israele: speravo che un popolo di ebrei, sopravvissuti a un genocidio, comprendesse la mia situazione e mi accogliesse. Ma una volta entrato sono stato subito arrestato dall’esercito per qualche settimana. Dopo il rilascio, mi hanno dato un biglietto dell’autobus per Tel Aviv. Senza sostegno, senza informazioni. Era il 2009. Da allora vivo qui. Oggi lavoro in un hotel a 5 stelle a nord della città, sono fortunato».

Sì, Mutasim – nel frattempo diventato uno dei simboli della lotta dei migranti, loro portavoce – è stato fortunato. Ha vinto alla lotteria: dal 2009 ad oggi l’asilo politico è stato riconosciuto solo a otto eritrei e due sudanesi. Su…

L’inchiesta di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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Il paesaggio che salva le città cinesi

Quzhou Luming Park: le colline di arenaria e la terra fertile nella fascia d’inondazione sono ricche di vegetazione dai colori diversi a seconda delle stagioni.

L’originale poetica “dell’arte della terra” del paesaggista cinese Kongjian Yu balza agli occhi del mondo quando nel 2002 vince con il team Turenscape da lui guidato, uno dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali di architettura del paesaggio, il Premio d’onore dell’Asla (American society of landscape architects). L’anno precedente, quando termina la progettazione del Parco Qijiang a Zhongshan nella provincia del Guangdong, il governo della città istituisce una commissione di esperti per valutare il suo progetto. Nonostante i 99 voti contrari su 100 all’innovativo progetto, il parco viene realizzato e l’anno successivo vince l’autorevole premio.

La poetica di Kongjian Yu e del gruppo Turenscape prende forma in un’epoca cruciale per la Cina che negli ultimi 20-30 anni ha generato un processo di urbanizzazione senza precedenti con ambiziosi piani per la costruzione di nuovi distretti e città di 15 milioni di abitanti in media, interessando circa 800 milioni di nuovi abitanti e raggiungendo nel 2010 l’apice degli investimenti. Ma se questa crescita e l’elevatissimo coinvolgimento di progettisti stranieri non sono sufficienti a proporre una corrispondente immagine di città, esiste tuttavia nel Paese una nuova realtà creativa di elevatissima qualità ed un terreno sempre più interessante di sperimentazione.

Il lavoro di Kongjian Yu ha reso possibile interventi di trasformazione dei paesaggi devastati dalla crescita edilizia ed industriale, modificando le superfici dei luoghi e creando terreni artificiali nelle zone centrali delle città, nell’incessante confronto con le autorità e gli amministratori locali. In un ambito ancora estraneo alla Cina fino a pochi anni fa come quello dell’ambiente, fondamentale per una popolazione così rilevante che dispone solo del 10 per cento di acque utilizzabili, terre coltivabili e risorse naturali ormai compromesse, l’opera di Kongjian Yu, che si pone oggi accanto a quella dei più grandi paesaggisti del mondo, non è semplice architettura del paesaggio ma piuttosto “landscape-urbanism”, un metodo…

Il reportage dell’architetto Daniela Gualdi prosegue su Left in edicola


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Mauro Palma (Garante detenuti): Terapie psichiatriche in carcere, un diritto negato

TO GO WITH AFP STORY BY ELLA IDE A prisoner looks out a window at Regina Coeli prison in Rome on May 30, 2014. Crouched on bunk beds in the narrow cells of the Regina Coeli lockup in Rome, prisoners say Italy still has a long way to go to ease a chronic overcrowding problem condemned by the European Court of Human Rights. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

È appena tornato da sopralluoghi in istituti penitenziari e Rems della Sardegna Mauro Palma, presidente del Garante dei detenuti. La sua è un’attività di monitoraggio costante nei luoghi dove si trovano coloro che sono “privati di libertà personale”. Nel caso dei “folli rei”, cioè i malati mentali autori di reati, questi luoghi sono le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dal 2015 hanno sostituito gli Opg. Palma le conosce bene. «Ho visto casi di contenzione meccanica, con persone legate, altri in cui il malato era in una stanza bianca senza nulla, con il solo letto fissato al centro, ed è una contenzione ambientale. Sono stato anche in strutture all’apparenza all’avanguardia. Poi però se ti fermi tre giorni ti accorgi che le persone sono sedate e allora siamo nella contenzione farmacologica. Ma per fortuna ho visto anche Rems in cui vengono attuati ottimi progetti terapeutici a seconda dei bisogni di ciascun malato». Quando visita una Rems, Palma porta uno psichiatra con sé. «Bisogna stare attenti, io comunque non ho una posizione ideologica. La contenzione, per esempio, può essere utile a giudizio del medico in una determinata fase e con una determinata prassi, ma non può essere il trattamento della malattia mentale».
Le Rems sono state istituite con la legge 81/2014 che ha sancito il superamento degli Opg. «Un grande passo di civiltà», dice Palma. Dentro gli ospedali psichiatrici giudiziari, in effetti, i “folli rei” non erano seguiti dai servizi sanitari territoriali e potevano rimanere all’infinito tra quelle antiche mura, per la continua proroga delle misure di sicurezza: i cosiddetti “ergastoli bianchi”. Condizioni disumane, come dimostrò nel 2011 la Commissione d’inchiesta parlamentare guidata dal senatore Ignazio Marino. Adesso, la legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso. «Dopo una….

L’intervista di Donatella Coccoli a Mauro Palma prosegue su Left in edicola


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Per fare la Sinistra? Fare tutto al contrario

I numerosi presenti all’assemblea convocata dall’Ex Opg Je so’ pazzo, per lanciare la piattaforma politica Potere al popolo, presso il Teatro Italia, Roma, 18 novembre 2017

Il sottotitolo di Left è “Sinistra senza inganni”. Mai scelta è stata più azzeccata. Negli ultimi trent’anni, infatti, l’inganno sembra essere diventato il marchio distintivo della Sinistra. Mentre la Destra – berlusconiana, leghista, fascista – faceva quello che doveva fare, con tutti i danni che sappiamo, la sinistra si specializzava nell’arte di dire una cosa e di farne un’altra.

A parole: difesa dei lavoratori. Nei fatti: Pacchetto Treu, introduzione della precarietà, Jobs Act, abolizione dell’articolo 18, privatizzazioni, svendita del patrimonio industriale.

A parole: redistribuzione della ricchezza. Nei fatti: regali alle imprese, sgravi fiscali ai ricchi, finanziamenti pubblici a soggetti privati, tagli ai servizi, a scuola e sanità.

A parole: lotta alle mafie e questione morale. Nei fatti: corruzione, perfetta integrazione con clan e potentati locali.

A parole: accoglienza e lotta alle discriminazioni. Nei fatti: decreto Minniti, gestione razzista delle politiche migratorie.

A parole: pace e cooperazione. Nei fatti: bombe sui Balcani, finanziamenti per tutte le missioni italiane all’estero, spese militari folli. E potremmo continuare a lungo…

Ma l’inganno ha raggiunto l’apice in questi ultimi anni. Non solo a causa di Renzi, un democristiano che sale al governo grazie all’appoggio del settore finanziario, di Confindustria e di Berlusconi, e tenta di far passare come cosa di Sinistra la riscrittura della Costituzione. Ma soprattutto a causa di chi fino a poco tempo fa era al suo fianco, votando di tutto e di più, e poi, fatto fuori nella lotta interna per il potere, si è reinventato “radicale” per non perdere la poltrona…

I “sinistri” che si presenteranno alle prossime elezioni – D’Alema, Bersani, Grasso, Speranza, Civati, Fassina, più una serie di impresentabili (do you remember Bassolino o De Gaetano?) -, non sono altro che un Pd 2. Generali senza esercito, sempre più tristi e visibilmente nervosi, la cui brillante strategia politica…

L’articolo prosegue su Left in edicola


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Zagrebelsky: La sinistra ricominci dal 4 dicembre

Giurista ed ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky dopo Diritti per forza (Einaudi, 2017) ha appena pubblicato un nuovo libro con Gherardo Colombo Il legno storto della giustizia (Garzanti). Queste due importanti uscite e la lectio che ha tenuto quando ha ricevuto il premio Sila alla carriera, il 25 novembre scorso, ci hanno offerto molti spunti per questa intervista. Ad un anno dalla vittoria del No al referendum sulla riforma costituzionale, contro la quale il professore emerito dell’Università di Torino si è molto battuto.

Professor Zagrebelsky il risultato del 4 dicembre 2016 ha segnato la fine del disegno renziano?

La riforma costituzionale unita alla legge elettorale con il ballottaggio rientrava in una strategia di presa del potere da parte dei dirigenti del Pd. Anche la “grande riforma” tentata da Craxi-Amato negli anni 80, come la riforma Renzi-Boschi, era mossa dal medesimo intento, sia pure con soggetti diversi e in condizioni imparagonabili a quelle attuali. Tra le tante, diverse motivazioni di coloro che hanno votato no, fra le più importanti, mi pare ci sia stato anche il timore di entrare in una specie di regime d’interessi piccoli e grandi, comunque poco chiari, che si estendeva a macchia d’olio, subalterno a poteri irresponsabili, aggressivo nei confronti di chi non fosse stato al gioco. Questo mi pare che abbia avuto un peso importante nel determinare l’esito del referendum, al di là dei meriti e dei demeriti d’una riforma che perfino coloro che la sostenevano pubblicamente, quando parlavano in privato, non osavano difendere. Non a caso: per loro la vera posta in gioco era un’altra. Su questo, sono stati sconfitti da un voto trasversale in cui, hanno detto gli analisti, i giovani hanno avuto un peso rilevante.

L’errore fu “personalizzare” la campagna referendaria, fu detto.

La personalizzazione, a ben vedere, è stata coerentemente conforme a quello che avrebbe dovuto essere il significato politico dell’operazione: l’investitura, l’apoteosi, di uno che credeva d’essere il capo. Dovremmo avere ancora in mente lo stile di quella campagna referendaria e possiamo chiederci e facilmente rispondere: che cosa sarebbe successo se riforma costituzionale e legge elettorale fossero andati in porto? Da quale valanga di propaganda saremmo stati investiti? L’uso delle istituzioni e la loro riforma come strumenti per conquistare e mantenere il potere è cosa che succede frequentemente in Sud-America, in Paesi di democrazia incerta.

Il No dei più giovani fu determinante. Che fine ha fatto quell’onda vitale di partecipazione?

L’apporto di tante persone appartenenti alle giovani generazioni – così hanno detto gli analisti del voto del 4 dicembre – fu essenziale. Il che autorizza a pensare che la ricerca di un “capo” che qualche volta viene presentata come una aspirazione profonda e sempre in agguato del popolo italiano non è così tanto radicata come si vorrebbe far credere. Davvero il presidenzialismo, o una formula qualsiasi d’investitura diretta o di plebiscito a favore di un capo al quale consegnare la sorte del nostro Paese, sarebbe ben visto? Forse…

 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Gustavo Zagrebelsky prosegue su Left in edicola


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