Home Blog Pagina 800

Gran Bretagna a tutto Corbyn, il leader laburista corteggiato dai media

epa06230198 Britain's opposition Labour Party Leader, Jeremy Corbyn delivers his keynote speech during the Labour Party Conference in Brighton, Britain, 27 September 2017. Over 11,000 people are expected to attend the Labour's annual party conference in Brighton from 24 - 27 September. EPA/NEIL HALL

La nuova rock star del 2018 non suona la chitarra elettrica ma le parole e fa politica. Si chiama Jeremy Corbyn e sarà il prossimo primo ministro britannico: adesso lo dicono anche i patinati che si sono accorti del fenomeno. E in effetti dopo il voto di ieri in cui la maggioranza della May è andata sotto in Parlamento proprio sulla delicatissima questione della legge che deve governare la Brexit, le quotazioni del leader laburista salgono tantissimo. In vista, chissà, di una caduta della May e di elezioni anticipate.

Sono dettagli sul futuro del socialismo e sulla Gran Bretagna rossa. L’uomo che guarda fiero dalla foto del mensile GQ di Londra non ancora in edicola ha gli occhi luccicanti, la giacca nera, la cravatta rossa. È l’idolo delle folle, “una rock star della politica”.

Quando sta per salire sul palco, lo precede la musica della Seven Nation Army. «Gli organizzatori hanno dovuto limitare la dinamica scenografica, perché sarebbe stata di troppo»: Corbyn dalle folle viene già acclamato come una star. «Corbyn viene accolto come un idolo della musica, la folla urla il suo nome come in un rito tribale» scrive GQ, che cita il giornale New Statesman: «È impossibile immaginare qualsiasi altro politico ottenere una tale ricezione alle conferenze. Corbyn genera quel tipo di adorazione che c’era per Bernie Sanders alle presidenziali americane, ma lungo la sua strada da battere non c’è l’inesorabile Hillary Clinton, ma solo l’assediata Theresa May. Corbyn è un fenomeno: perché ha offerto un potenziale cambiamento nell’incerta Britannia della Brexit, un euroscettico che ha spesso parlato del mercato come ostacolo al vero socialismo. È un old school maverick, un anticonformista vecchia scuola».

Il labour leader, per le sue posizioni sull’educazione, fondi pubblici, politiche del lavoro, miglioramento del pubblico servizio, welfare per tutti, ha la maggior parte dei voti degli inglesi tra 18 e 34 anni. «È un test di Rorschach politico in fattezze umane. Solo un anno fa, la gente rideva all’idea che potesse diventare primo ministro. Che l’uomo che sedeva agli ultimi banchi di partito potesse diventare capo del paese era un’idea assurda. Ma se le elezioni si tenessero domani, vincerebbe di gran lunga», scrive il magazine, che gli dedica pagine, copertina e un servizio che di solito è destinato agli attori del cinema. «Chi avrebbe previsto un tale successo per un ideologo pesantemente di sinistra, chi avrebbe scommesso in questa epoca sul suo riuscire a controllare il Labour Party? Non c’è un altro modello storico nel mondo, eletto in una società post industriale». Copertina dopo copertina, Corbyn è diventato l’uomo dell’anno per il museo della Tate Modern proprio prima del nuovo anno.

Questo Corbyn l’ha appena proposto in Parlamento: tardare la Brexit prevista per marzo 2019, se aiuterà il Regno Unito ad abbandonare l’Unione Europea a condizioni migliori. È l’ultima battaglia che sta facendo alla May. E il voto di ieri in cui il fuoco amico conservatore ha colpito la proposta conservatrice dimostra che le crepe ci sono, eccome. «Se avremo un accordo migliore, migliori condizioni per i posti di lavoro delle persone» allora la Brexit può aspettare. Nessuno poteva prevedere il suo successo, anche perché arriva inaspettato, a 68 anni suonati. Ma dice nell’intervista che uscirà il primo mese del 2018: «Ho la gioventù per farcela».

Ed è un’eclissi di giustizia, seppur dolorosa, bellissima

cappato

Mercoledì 13 durante l’udienza per il processo sulla morte di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, sono scese lacrime non solo alla madre e alla fidanzato di Fabiano: ha pianto la pm Tiziana Siciliano, ha pianto Giulio Golia (che dj Fabo l’ha intervistato per la trasmissione Le Iene), hanno pianto i giudici popolari e hanno pianto tra il pubblico.

Marco Cappato, lucido come si è lucidi quando si sa di combattere una battaglia giusta, addirittura doverosa, ha ripetuto per l’ennesima volta che e persone “sottoposte a sofferenze terribili con malattie irreversibili hanno il diritto di scegliere come morire, è un diritto umano fondamentale” e quindi “era un dovere aiutare Fabiano, sono responsabile di averlo aiutato”.

Quelle lacrime sono un quadro. Dipingono l’incaglio in cui sbatte la faccia una legge ingiusta (e una legge che manca) che vorrebbe occuparsi della manutenzione degli affetti e delle vite degli altri, infilando le unghie in quelle parti di cuore così teneramente personale da appartenere a un amorevole cerchia ristretta di persone che, solo loro, hanno il vocabolario giusto per leggere il dolore di qualcuno.

Racconteremo ai nostri figli che a Milano si è celebrato (è successo e succederà ancora) un processo che ha anticipato i tempi perché i tempi, nel frattempo, avevano perso la strada giusta. Quelle lacrime sono le infiltrazione di un argine che ormai non tiene più e chiede con forza una legge sul biotestamento che forse sta arrivando davvero.

Ed è un’eclissi di giustizia, seppur dolorosa, bellissima.

Buon giovedì.

Fine vita, ore decisive in Senato mentre Cappato è a processo per il suicidio assistito di Dj Fabo

Marco Cappato in tribunale a Milano durante un'udienza del processo in cui è accusato di aver aiutato a suicidarsi dj Fabo. Milano, 13 dicembre 2017. ANSA / MATTEO BAZZI

Marco Cappato di nuovo in aula davanti alla Corte d’assise del Tribunale di Milano. Deve rispondere all’accusa di istigazione al suicidio, per aver accompagnato a morire in Svizzera nel febbraio scorso Dj Fabo. Fabio Antoniani, 40enne, era rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente in auto nel 2014. Il caso ha voluto che l’interrogatorio, voluto dal gip dopo la richiesta di archiviazione della pm, avvenisse proprio nei giorni in cui si sta discutendo al Senato – dopo otto mesi dall’approvazione alla camera con 326 voti favorevoli su 367 (20 aprile) – il ddl sul fine vita.

«Non ci rassegniamo e proseguiamo la battaglia», aveva dichiarato Marco Cappato a Left l’8 novembre scorso in riferimento alle 67mila firme raccolte per la legge di iniziativa popolare sull’eutanasia. È “presto” per l’eutanasia, ma si può sperare nel testamento biologico: il ddl in questione consiste in cinque articoli. Nello specifico: nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso informato della persona interessata, si legge nell’articolo 1. Anche se, come dichiara a Left, Matteo Mainardi della giunta associazione Luca Coscioni e coordinatore della campagna “Eutanasia legale”, «al di là del disegno di legge in discussione, nell’ordinamento, il vincolo del consenso del paziente è posto, in primo luogo, dall’art. 32 della Costituzione che fissa il principio di volontarietà dei trattamenti sanitari. Analogamente, l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede che, nell’ambito della medicina e della biologia, sia rispettato il consenso libero e informato della persona, secondo le modalità definite dalla legge». Nel caso di minori «Il consenso informato di cui all’articolo 1 è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore o dall’amministratore di sostegno», recita l’articolo 2; particolare rilievo è dato al 3, sulle “Disposizioni anticipate di trattamento (Dat)”: «Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di una propria futura incapacità di autodeterminarsi può, attraverso disposizioni anticipate di trattamento, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali». Il medico, nel suddetto caso, è esente da qualsiasi responsabilità civile o penale. Nell’articolo 4 si garantisce la “Pianificazione condivisa delle cure”, alla quale il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.

Rimane quindi escluso il caso di Dj Fabo: il 40enne morto lo scorso febbraio dopo un appello per una legge sul testamento biologico rivolto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si era recato in Svizzera per effettuare il suicidio assistito. Secondo il ddl ora in discussione al Senato si potrebbe decidere volontariamente di sospendere le terapie andando incontro a un decesso lento e doloroso (per disidratazione e denutrizione ad esempio), ma non si potrebbero lenire il dolore e la sofferenza con una morte accompagnata. Siamo – per ora – molto lontani dal suicidio assistito: «La legge in discussione non entra in contatto con la disciplina dell’eutanasia e del suicidio assistito per cui l’associazione Luca Coscioni rimarrà impegnata anche durante la prossima legislatura», dichiara però Matteo Mainardi.

Ultim’ora in serata: Respinti tutti gli emendamenti sul #biotestamento. il 14  dicembre voto finale sulla legge. In attesa del voto definitivo del Senato, dalle 10.30 alle 13.30 l’associazione Coscioni scende in piazza Montecitorio con tutti i protagonisti della decennale campagna per le scelte di fine vita: oltre a Marco Cappato saranno presenti – tra gli altri -, Mina Welby , co-presidente Alc e moglie di Piergiorgio Welby  e Chiara Rapaccini, compagna di Mario Monicelli.

Per «rafforzare i diritti dell’individuo e le libertà individuali».

Non c’è pace in Colombia: gli indigeni lottano per la loro terra

epa06305167 Indigenous people block the Panamaricana highway in Cauca department, Colombia, 02 November 2017. Indigenous people blocked the highway in a protest demanding that the Colombian State fulfills past agreements with the community. EPA/ERNESTO GUZMAN JR

Ogni settimana prendono in mano il machete e marciano nel verde delle liane e dei cespugli selvaggi, dove quasi nessuno li vede. La guerra civile più lunga del mondo, – quella tra le Farc e il governo colombiano – , è ormai silenziosa e sopita, ma non è finita la lotta delle comunità indigene. Il presidente del Paese, Juan Manuel Santos, ha ricevuto il premio Nobel per una pace che non abita ancora quaggiù. Contro i trafficanti di droga, contro le multinazionali americane, la polizia e la deforestazione: gli indigeni delle tribù della valle Cauca combattono contro tutti. La chiamano la lotta per la “liberazione di madre terra”: reclamano i territori sfruttati per le coltivazioni delle piante di coca, per i resort di lusso destinati ai turisti, anche per le fattorie di allevamenti intensivi, – terreni che credono siano le loro terre ancestrali.

Quando le Farc hanno abbandonato il territorio colombiano, dopo gli accordi di pace dello scorso agosto, gang e gruppi armati hanno cominciato a scontrarsi per accaparrarselo, come ha fatto l’ Eln, l’esercito di liberazione nazionale e l’Epl, l’esercito popolare di liberazione. La valle Cauca, le montagne circostanti, le terre sterminate: come molte zone rurali, queste erano dominate dai soldati e dagli uomini in divisa delle Forze armate rivoluzionarie. Ora le Farc hanno consegnato le armi, ma anche il controllo del territorio, dove si occupavano della costruzione delle strade, gestione e controllo della comunità locale, tasse e costruzione di infrastrutture, lasciando un vuoto di potere che non è stato ancora riempito e per cui i membri delle tribù combattono senza armi. La Cauca è da sempre il nido dei gruppi paramilitari più bellicosi, ce ne sono dodici ancora attivi dopo che nelle Farc è stato avviato il processo di demobilitazione.

Le proteste indigene fanno finire i membri delle comunità locali in manette appena l’esercito arriva e comincia a sparare lacrimogeni sulle persone. A volte anche proiettili: è morto così, a 17 anni, Daniel Felipe Castro Basto, il 9 maggio scorso. A Corinto negli ultimi mesi le piantagioni sono state occupate, poi distrutte dalla polizia, poi rioccupate dagli attivisti, che vogliono porre fine al rifornimento di coca per i trafficanti di droga e vorrebbero riconvertire i terreni fertili in piantagioni per vegetali.

I Nasa, di una delle venti tribù più organizzate della valle, hanno alle spalle due morti negli ultimi anni e numerose operazioni di occupazione e riconversione dei terreni. Machete alla mano, in centinaia, a volte migliaia, arrivano per quelle che chiamano “minga”: tagliano e poi bruciano le canne da coca, da zucchero delle multinazionali e seminano quelle del mais e manioca. Anche i membri della tribù Kokonuko attaccano le loro bandiere verdi e rosse ai bambù delle loro tende e ne fanno una linea di fronte per proteggere le zone verdi: nell’ultimo anno la deforestazione in Colombia è salita al 44%.

I leader della rivolta e membri della comunità indigena sono stati assassinati di più proprio durante l’era post-conflitto, mentre lo Stato ha fallito sia nel prevenire le uccisioni, sia nel bloccare la diffusione del traffico illegale di stupefacenti. «Puoi vedere il sangue che è stato versato nella nostra causa per una terra migliore, per un futuro migliore per i nostri figli, liberare la terra significa difendere il territorio» ha detto Jose Rene Guetio, della tribù Nasa. «Stiamo morendo e non sappiamo chi ci sta assassinando». Fino a settembre scorso, 106 attivisti dei diritti umani indigeni sono stati assassinati in un anno, secondo l’ong Indepaz. Un anno prima, nel 2016, sono morti in 117. Per i Nasa la vita è peggiorata dopo gli accordi di pace: «dicono che la pace sia arrivata, ma per noi è molto peggio. Prima il conflitto con le Farc era regolare, ora ci sono gruppi più piccoli e non sappiamo chi ci sta uccidendo».

La morte, ma anche la propaganda. Dal 1975 al 2016 le Farc hanno reclutato 11mila bambini per addestrarli e renderli soldati fedeli tra le loro fila. La maggior parte dei minori proveniva dalle comunità indigene. Adesso il reclutamento non è finito solo perché il maggiore gruppo armato rivoluzionario si è sciolto: di far avvicinare gli studenti delle scuole alla loro causa ora si occupano gli altri gruppi nella regione di Meta, Guaviare e Caqueta.

Difendere la natura intorno vuol dire sopravvivere. Delle 102 tribù indigene colombiane, più della metà sono a rischio scomparsa per i conflitti in corso, perché spesso vengono sfollate per cedere spazio alle coltivazioni delle multinazionali, perché non hanno accesso al servizio sanitario statale, perché l’acqua che bevono non è potabile e per loro non ci sono né antibiotici né vaccini. Non solo per i fucili puntati delle bande e non solo perché vivono su territori fondamentali per le rotte del traffico della cocaina: gli indigeni abitano in zone che sono ricche di petrolio e gas, di importanza strategica per gruppi americani stranieri, per le multinazionali come la Occidental Petroleum di Houston o la RepSol spagnola. Il petrolio, però, per gli indigeni U’wa, è parte di una natura da difendere, per due decenni le loro campagne sono state pacifiche, le loro proteste non violente: «preferiamo morire piuttosto che perdere tutto ciò che riteniamo sacro, tutto ciò che ci rende degli U’wa», dicono gli indigeni che protestano calpestando una terra che ora tutti chiamano di pace e che è invece bagnata col loro sangue.

Schiaffo a Trump dall’Alabama. Vittoria storica del democratico Doug Jones

US Senator Cory Booker (C) raises the arm of Democratic Senatorial candidate Doug Jones while speaking at Jones' campaign headquarters in Birmingham, Alabama, on December 10, 2017. / AFP PHOTO / JIM WATSONJIM WATSON/AFP/Getty Images

Sweet home Alabama. Il profondo Sud elegge un senatore democratico. E’ un passaggio storico per l’Alabama, uno Stato che da decenni blindatissimo per i democratici. In un’elezione suppletiva per il Senato, il candidato dell’opposizione Doug Jones vince col 49,6%. Batte un repubblicano Roy Moore accusato di violenze e al centro di scandali sessuali. Lo schiaffo è per il presidente Donald Trump, che l’ha sostenuto. La sconfitta di Moore col 48,8% è un duro colpo, dunque, per lo stesso presidente Usa. Inoltre questo clamoroso risultato rosicchia vistosamente il margine di maggioranza dei repubblicani al Senato ridotto ormai ad un solo voto. Adesso l’agenda politica di Trump è nelle mani di repubblicani spesso in dissenso con la Casa Bianca come John McCain o Bob Corker.
Il socialista Bernie Sanders ha commentato così: “Congratulazioni a Doug Jones per la sua grande vittoria. Congratulazioni al popolo dell’Alabama per aver fatto ciò che pochi pensavano che avrebbero fatto. Questa è una vittoria non solo per Jones e Democratici. E’una vittoria per la giustizia e la decenza.” Dopo la Virginia, anche l’Alabama che da un quarto di secolo ha un governatore democratico, la speranza democratica si riaccende, perfino nell’America profonda, la pancia del Paese che aveva sostenuto Trump.

Bernie Sanders

La produttività secondo Ryanair: «Non permettetevi di scioperare»

epa06231684 A Ryanair Boeing 737 landing at Dublin Airport, Ireland, 28 September 2017. Ryanair is facing enforcement action from the Civil Aviation Authority, as the no-frills carrier announces a second wave of flight cancellations that will affect 400,000 customers. EPA/AIDAN CRAWLEY

Ai piloti italiani di Ryanair è arrivata una lettera come regalo di Natale. Dice: «Sarete a conoscenza che il sindacato dei piloti Alitalia Anpac sta provando a incoraggiare i piloti Ryanair a non lavorare. Ci aspettiamo che tutti i nostri piloti lavorino normalmente e lavorino con noi per minimizzare gli inconvenienti per i nostri clienti». Poi arriva la minaccia: «Tutti i piloti di Ryanair e l’equipaggio di cabina devono fare rapporto come sempre il 15 dicembre nella sala equipaggio» poiché «ogni azione intrapresa da ogni dipendente risulterà nella perdita immediata del roster 5/3 (la turnazione che prevede ogni cinque giorni di lavoro tre giorni di riposo, nda) per tutto l’equipaggio di cabina».

Il 28% dei 300 piloti italiani ha annunciato che aderirà allo sciopero, in barba al medievale senso della produttività di una compagnia aerea che qui in Italia sembra avere un nugolo sfegatato di tifosi, soddisfatti dall’idea di trasformare anche i lavoratori in merce, in nome di un’economia che non considera più le persone se non nelle vesti di clienti o fornitori di servizi.

Ryanair, vale la pena ricordarlo, non è nuova a notizie becere di questo tipo: sono quelli che si incazzano con i dipendenti se vendono pochi profumi, sono gli stessi che sottopagano giustificandosi di farsi sottopagare per i loro servizi, sono gli stessi che cercano di convincerci che i diritti siano un peso.

Avanti così.

Buon mercoledì.

Asili nido: Italia fanalino di coda in Europa, sarebbero queste le politiche per la famiglia?

Sinistra Ecologia e Libertà scende in piazza a Roma contro il piano del commissario straordinario Francesco Paolo Tronca di privatizzazione degli asili nido, 07 gennaio 2016. Sotto il Campidoglio è andato in scena un flash mob per dire "no alla svendita" e sotto palazzo Senatorio è stato srotolato lo striscione 'Giù le mani dai nidi pubblici'. ANSA

Ottanta euro per tre anni – solo se hai il reddito inferiore a 25mila euro: 960 euro il primo anno di vita, la metà, 480, il secondo e il terzo. Questo, in teoria, per cercare di invertire la tendenza della denatalità, confermata dall’Istat nel rapporto “Natalità e fecondità” del 28 novembre scorso: dal 2008 al 2016 in Italia le nascite sono diminuite di 100mila unità, si legge. Non sono state sufficienti le nascite di figli di immigrati a frenare il trend negativo (il tasso di fecondità delle donne straniere è 1,9 contro 1,3 di quelle italiane). E non è certamente stato sufficiente il “Bonus bebè” per “incentivare” le nascite: una volta messi al mondo, non ci sono gli asili dove farli crescere. O, almeno, non ce ne sono abbastanza. È quanto emerge dal nuovo rapporto dell’Istat Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, in rifermento all’anno educativo 2014/2015: i Comuni hanno ridotto del 5 per cento la somma destinata ai servizi socio-educativi rivolti alla prima infanzia (1 miliardo 482 milioni di euro totali stanziati), portando le famiglie a contribuire economicamente di più rispetto all’anno precedente; nel Mezzogiorno solo 10 bambini su 100 hanno accesso agli asili nido.

Infatti, chiarisce l’Istat nel rapporto, solo il 22,8 per cento dei bambini di età inferiore ai tre anni può godere dei servizi socio-educativi messi a disposizione da enti pubblici e privati. Molto più grandi i primi dei secondi, offrono il 51 per cento dei posti complessivi. E non solo: è aumentato il divario tra Nord e Sud. Nelle regioni settentrionali, circa il 30 per cento dei bambini trova un posto nelle strutture pubbliche; in quelle meridionali, il 10 per cento. Nelle isole, solo il 14. I comuni hanno impegnato il 5 per cento in meno del denaro rispetto all’anno precedente, obbligando le famiglie a contribuire sempre di più alle spese per gli asili dei figli. Il divario tra Nord e Sud è cresciuto, se si considera che Trento e Venezia spendono rispettivamente 3.545 e 2.935 euro per bambino residente e Catanzaro e Reggio Calabria 38 e 19 euro.

Per questo, i carichi familiari imposti, impediscono a molte donne di lavorare. O, almeno, di farlo full time: il tasso di lavoro delle donne tra in 25 e i 49 anni, con figli in età prescolare, è inferiore a quello delle donne senza figli. Molte di loro, specie nel Mezzogiorno, affermano che sarebbero disposte a entrare nel mondo del lavoro, se solo fossero alleggerite dai carichi familiari.

Sono 357.786 i posti messi a disposizione per i neonati dalle 13.262 unità sul territorio nazionale, coprendo 22,8 bambini su 100. Cifra, questa, ancora molto lontana da quella suggerita dall’Unione Europea (33 su 100) per incentivare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Obiettivo, quest’ultimo, raggiunto solamente in alcune regioni centro-settentrionali come Valle d’Aosta, Umbria ed Emilia Romagna. Per il resto, c’è ancora molto da fare.

Forse non sono sufficienti poche centinaia di euro per far aumentare la natalità: iniziare a dare a tutte le coppie  – italiane e straniere – un posto per far crescere i propri figli, alleggerendosi di alcuni carichi, darebbe più possibilità tanto ai bambini, quanto ai genitori.

«Fate in fretta per salvare quei 137 bambini siriani». Appello dell’Onu

epa06356494 A child stands next to a World Food Program vehicle which is part of a humanitarian operation in Al-Nishabieh area in Eastern Ghouta in rural Damascus, Syria, 28 November 2017. A joint Syrian Arab Red Crescent (SARC) - UN operation provided medical services and carried relief items (food parcels, flour bags, medicines and medical materials) to 7200 people living in the area. EPA/Mohammed Badra

Salvate i 137. Dei milioni di sfollati interni, dei 22 milioni della popolazione totale, dei sei milioni di rifugiati oltre confine, tra le centinaia di migliaia di morti: 137 bambini, adesso, possono essere ancora salvati. 137. Lo chiedono a parti e controparti in guerra le Nazioni unite: più di un centinaio di minori, senza cure mediche, si trovano nei sobborghi della città siriana di Damasco e hanno bisogno di essere evacuati. Immediatamente.

Cinque sono già morti per mancanza di cure mediche negli ultimi due giorni a Ghouta est, ma 137 resistono. Hanno dai sette mesi ai 17 anni, sono tutti malnutriti, alcuni di loro necessitano di trapianti. Aspettare non si può più.

A Ghouta ci sono ancora 400mila siriani, – lo stesso numero di vittime della guerra scoppiata nel 2011, ormai 7 anni fa-. La città è rimasta sotto assedio dal 2013, ma è da due settimane che le condizioni umanitarie sono peggiorate violentemente: in 202 sono morti da allora, compresi 47 bambini.

Un pezzo di pane a Ghouta, che si trova a soli 15 km dalla capitale siriana, costa 85 volte in più che a Damasco. Tutto quello che si riesce a trovare è stato trasportato tra check point e tunnel sotterranei, i prezzi salgono per ogni mano da cui passa il cibo, per ogni miliziano, soldato, burocrate corrotto che chiude un occhio sul passaggio dei rifornimenti. Il petrolio, che costa mezzo centesimo nelle aree liberate, a Ghouta costa 4 dollari al litro. Lo stesso accade per zucchero, the e beni di prima necessità.

Nonostante il sobborgo faccia parte della zona di de-esclation della tensione, secondo la mappa delineata dalla Russia e gli alleati siriani per la risoluzione del conflitto, il cessate il fuoco non regge. Mentre i 137 bambini respirano a stento – alcuni di loro hanno bisogno di trapianti urgenti -, le delegazioni governative si incontrano in queste ora a Ginevra per trovare accordi di tregua. La parola pace è stata sostituita da “armistizio” e da un numero, quello della risoluzione 2254, che prevede un regime di governo di transizione ed elezioni. I negoziati termineranno tra 3 giorni, ma è tempo che «tutti i lati del conflitto facciano finire le violenze», chiede l’Onu.

Secondo l’ultima dichiarazione dell’Unicef e dei suoi collaboratori sul territorio, la condizione di salute dei cittadini siriani che non sono scappati è peggiore di quella dell’inizio del conflitto. È stato possibile entrare a Ghouta est perché un convoglio umanitario è finalmente riuscito a passare dopo mesi di divieto d’accesso al distretto urbano.

Fran Equiza, Unicef, ha detto che l’orrore per i bambini non è finito, molti hanno ancora ferite di guerra che nessuno ha ricucito, c’è carenza di dottori e medicinali. «La situazione peggiora di giorno in giorno, il sistema sanitario scricchiola, le scuole sono chiuse da mesi. I bambini malati hanno disperatamente bisogno di essere evacuati e curati, altri migliaia hanno diritto a un’infanzia normale, ma viene loro negata».

Nell’unico punto medico del distretto, all’ospedale specialistico dell’area Douma, i dottori lavano le bende, perché i rifornimenti medici sono un’utopia. «Nemmeno le Nazioni unite li forniscono» dice Omar Mohammed, che si occupa di logistica e rifornimenti dell’ospedale. È il presidente Bashar al Assad che blocca i rifornimenti e l’arrivo di medicinali, tutto questo fa parte della strategia dell’assedio punitivo, perché i ribelli sono ancora presenti nell’area. I dottori ogni giorno devono scegliere chi morirà, chi sopravviverà, a chi destineranno le poche medicine rimaste dal razionamento, chi ha più possibilità di sopravvivenza.

Ghouta è la Siria in miniatura adesso. È sempre più lunga, sempre più grave, la più pericolosa crisi umanitaria della nostra epoca. Quella siriano è il conflitto che sotto ogni profilo ha raggiunto i picchi della brutalità massima. Il 12 per cento dei bambini del distretto, sotto i cinque anni, sono malnutriti: secondo l’Unicef, è la più alta percentuale registrata dall’inizio del conflitto. Proprio ora che la guerra si fa più silenziosa, le condizioni peggiorano. Proprio ora che i russi annunciano il ritiro delle loro truppe, si registra «uno dei picchi di peggioramento delle condizioni di salute e malnutrizione dall’inizio del conflitto nel 2011».

Sulla Siria ormai tutto scompare in poche righe, è storia, notizia ormai dimenticata, la Siria è avvolta nelle scie di polvere di un conflitto che si crede finito. I siriani sono ormai sagome scure di una crisi irrisolta a cui nessuno più bada. Il compito vero dell’Onu è attirare adesso l’attenzione del mondo su quello che attenzione non ha più. Un rinculo di bomba che arriva da una regione mediorientale a cui nessuno presta più orecchio.

L’inverno del nostro scontento è un presepe di congelati

Erano cinque. Quasi sei, con una donna incinta.

Li hanno ritrovati sul colle della Scala, il passaggio che congiunge la Val di Susa in Piemonte con la Val della Clarée. Per loro cinque (e per molti altri) è semplicemente l’unica via per passare dal Piemonte alla Francia e poi sperare di poter proseguire sempre più a nord. Quando li hanno individuati nel buio e nel freddo delle cinque e venti del mattino due di loro erano mezzi congelati, uno aveva perso le scarpe in mezzo alla neve alta, un altro aveva perso i guanti.

Alla centrale del soccorso alpino di Bardonecchia arrivano segnalazioni tutti i giorni: i migranti provano a passare da quel canale per superare i controlli. Dopo avere rischiato di riempirsi i polmoni di acqua e sale non si fermano certo per la paura di finire surgelati.

Ogni volta che si ripescano disperati che si arrampicano su vette così alte di disperazione bisognerebbe mettere la loro storia sotto teca per riuscire a dare il senso della paura, della fuga, del loro sparpagliarsi negli anfratti più nascosti di questa Europa per scovare un pertugio.

Quei cinque migranti surgelati sono l’inverno europeo del nostro scontento che si inerpica tra le valli e, se muore, si lascia cadere dove non lo trova nessuno. Eppure quei cinque, se ci pensate, sono talmente diversi dall’immigrazione selvaggia che viene sventolata per concimare terrore e diffidenza.

Se si trovassero le parole per scrivere di una donna gravida che dopo il mare decide di attraversare anche la neve pur di partorire con uno spiraglio minimo di possibilità allora sarebbe già pronto il presepe laico di quest’epoca. Surgelato.

Buon martedì.

Alessandro Pieravanti, cantastorie del XXI secolo

Una volta i cantastorie andavano in giro per le strade, tra paesi e paesaggi spesso disabitati, a raccontare storie comuni che, dette da loro, diventavano storie di sempre. Parlo di artisti come Orazio Strano, ad esempio, che col suo carretto partiva ogni mattina e al posto del latte lui fuori dalle porte delle case lasciava l’eco delle sue storie. Oggi qualcuno li ha dati per vinti, ai cantastorie intendo, insieme a poeti, artisti e altri sognatori. Ma se ci guardiamo bene attorno, scopriamo che esistono ancora. E ancora hanno qualcosa da raccontarci. Si muovono forse diversamente, si presentano su altre scene ma, come succedeva una volta, basta poco per inchiodarci sulla sedia ad ascoltare la storia di quella ragazza ad esempio, quella «che in un caldo pomeriggio d’agosto andava al cinema da sola. Una volta finito il film saliva su un autobus a caso, il 718, e da lì partiva il suo folle viaggio attraverso la città. Ogni giorno cercavo di immaginare cosa potesse accaderle, e da lì in poi non ho più smesso di raccontare». «Si può dire che tutto è nato così», ci racconta Alessandro Pieravanti a proposito di questa sua magica attitudine nel raccontare le storie. A quei tempi le scriveva su Myspace. Il suo progetto si chiamava, appunto, 718.

Alessandro Pieravanti è però innanzitutto un musicista, batterista e voce narrante del gruppo folk romano Il muro del canto. Negli anni ha pubblicato due libri, 500 e altre storie e Mestieri. Nel primo, pubblicato da Goodfellas Edizioni, troviamo una serie di storie metropolitane insieme ad altri scritti ispirati ad alcuni suoi amici musicisti. L’altro invece è un instant book realizzato da Pieravanti dopo aver curato una rubrica per il programma radiofonico Slidin’ Bob, condotto da Roberto Angelini e Martina Martorano su Radio Sonica. Agli ospiti, per lo più musicisti, veniva chiesto quale mestiere avrebbero scelto se non avessero intrapreso la carriera del musicista.

Oggi Pieravanti cura un programma per Radio Sonica, Raccontami di te, trasmesso in diretta dal locale romano Na cosetta. Ed è lì che noi lo abbiamo conosciuto, mentre intervistava Elio Germano sotto vesti meno conosciute dal grande pubblico, quelle di musicista e amante del rap. Quella sera Germano indossava un cappellino sotto il quale sembrava volesse nascondersi, più che mostrarsi al pubblico curioso di sapere qualcosa di più su uno degli attori più apprezzati in questi anni. «Ma se tu dovessi invitare al tuo programma gente totalmente sconosciuta» abbiamo chiesto a Pieravanti in un altro momento, «eppure allo stesso modo interessante, chi sceglieresti? Chi sono per Alessandro Pieravanti gli invisibili che, seppure in silenzio, provano a constrastare le righe di questo presente distopico che ci troviamo a vivere?».

E lui ci ha risposto: «Le storie sono sempre interessanti a prescindere da chi ce le racconta. Sto lavorando ad un’idea che vede fondere i miei ultimi due progetti Raccontami di Te, e Mestieri. Forse le prime persone a cui darei voce sono quelle che incarnano nella loro quotidianità l’essenza del lavoro che fanno, mi vorrei far raccontare come hanno iniziato, come il loro lavoro è cambiato nel tempo, i gesti di tutti i giorni, il loro personale punto di vista, da dentro, un punto di vista privato e a volte segreto, quindi magico».

Oggi dunque, i cantastorie esistono ancora. Ma oggi soprattutto il pubblico ha ancora voglia di ascoltare quelle storie. Eppure tra tutti quei mestieri che troviamo sfogliando il libro di Pieravanti, il cantastorie non compare da nessuna parte. Troviamo il pescatore, il fotografo, persino il ladro, ma il cantastorie mai. E quando gli abbiamo chiesto che lavoro avrebbe fatto lui in alternativa, ci ha risposto che comunque sarebbe diventato musicista.
Intanto noi, che abbiamo amato le sue storie, ci auguriamo di continuare ad ascoltarle e speriamo che un giorno, di fronte al pubblico che brinda alla giornata, lui riprenderà a raccontarci la storia di quella ragazza sul 718 e della città che non l’ha dimenticata.