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Van Parijs: Come rivalutare il lavoro? Dando un reddito a tutti

MILAN, ITALY - DECEMBER 02: Employees of McDonalds offer burgers, fries and soft drinks to the first customers of the new McDonald's on December 2, 2013 in Milan, Italy. (Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)

Dare a tutti una somma mensile di denaro, su base individuale, indipendentemente dalla condizione economica e senza contropartite lavorative. Sembra un’idea folle, ma secondo alcuni ci libererebbe dalla schiavitù del lavoro dell’epoca neoliberale. Come il filosofo ed economista belga Philippe Van Parijs, uno dei principali teorici mondiali del cosiddetto basic income, il reddito di base. Già nel 1995, quando uscì il suo Real freedom for all, lo difendeva a spada tratta. Ora, con Il reddito di base. Una proposta radicale (il Mulino) ne ricostruisce sapientemente la genealogia e lo rilancia con forza nel dibattito politico. «Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere», dice Mujica. «Realizzarsi con il proprio lavoro, evitando quelli degradanti e malpagati, è possibile», risponderebbero i supporter del basic income. La loro proposta ha ben poco a che fare con quelle di reddito minimo che M5s e Sel depositarono nel 2013 in Parlamento, e ancor meno col Reddito di inclusione approvato dal Consiglio dei ministri ad agosto. Per capire perché, bisogna fare un passo indietro.

Dove affonda le radici questa idea?
La prima proposta di reddito di base nazionale l’ha avanzata una persona piuttosto misteriosa, della quale si sa poco. Si chiama Joseph Charlier, è di Bruxelles, e nel 1848 pubblica Solution du problème social, in cui propone un “dividendo territoriale” di importo fisso, da fornire in modo incondizionato ad ogni residente “indigeno”. Ma tale proposta rimane inascoltata. Mentre nello stesso anno, e nella medesima città, Karl Marx finiva di scrivere il Manifesto del Partito comunista. È abbastanza curioso notare la differenza tra l’impatto dei due scritti! Poi, dopo la prima guerra mondiale, all’interno del Labour party in Gran Bretagna viene discussa la proposta di Dennis Milner di uno state bonus, un reddito incondizionato. È la prima discussione pubblica sul tema. Ma fu un nulla di fatto. Successivamente, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70, negli Usa James Tobin e altri economisti di sinistra ci riprovano, convincendo George McCovern, candidato democratico alle presidenziali del 1972, a inserire un reddito di base nel programma delle primarie. Ma poi la proposta sarà scartata a ridosso del duello (perso) con Nixon. Insomma, è soltanto a partire da metà anni 80 che, passo dopo passo, si è aperto finalmente un confronto mondiale sul tema, grazie alla nascita di reti come il Basic income european network (fondato anche da Van Parijs ndr).

Veniamo alla sua idea. Cos’è il reddito di base e perché – come nel sottotitolo del suo nuovo libro – la definisce “una proposta radicale”?
Parto dalla seconda domanda. La proposta è radicale perché è un tipo di protezione sociale del tutto differente dai due modelli tradizionali presenti nei nostri welfare states: quello più antico della “assistenza sociale”, inteso come carità pubblica, come aiuto ai poveri, e quello della “assicurazione sociale”, la cosiddetta “previdenza” degli stati moderni, nata nell’800 con Bismark in Germania. Ecco, il reddito di base è una cosa diversa. È una quota in denaro, individuale, universale, libera da obblighi, che viene fornita a tutti i cittadini. Esso rappresenta l’equa distribuzione dell’eredità comune di valore che tutti noi creiamo e lasciamo quando agiamo nel mondo.

I soldi per fornire questa quota, però, vanno trovati. Lei sostiene che basterebbe un quarto del Pil di ogni Paese. Come recuperare una cifra così grande?
Si tratta di una cifra indicativa, bisogna valutare caso per caso. In molti Paesi sarebbe ragionevole partire con uno stanziamento minore. La fonte principale di finanziamento potrebbe essere la tassazione sui redditi. Ma si potrebbero anche rivedere le imposte sui redditi da capitale e sulla proprietà intellettuale. Oppure le cosiddette “ecotasse”. Le possibiltà sono svariate, dipende dal contesto. Altro dettaglio importante: il reddito di base si integrerebbe agli altri ammortizzatori sociali, senza aggiungersi! Ad esempio: nell’ipotesi di un reddito di base di 400€, chi già percepiva una indennità di disoccupazione di 900€ continuerebbe a ricevere 500€ in modo condizionato al mantenimento dello status di disoccupato involontario, ai quali si aggiungerebbero 400€ di basic income, liquidati in qualsiasi circostanza, che si abiti con altri o no, che si abbia un lavoro o no…

In Italia è ancora radicato il principio per cui il reddito vada “sudato”. Persino il papa, lo scorso maggio, ha detto: «L’obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». Cosa risponderebbe?
Siamo di fronte ad un equivoco. La dignità e la riconoscenza delle persone non deriva dal semplice fatto di percepire un salario, bensì dall’insieme di cose che si fanno per gli altri nella società, e tutto ciò – in senso lato – può essere chiamato “lavoro”. Senza considerare inoltre che ci sono lavori non così dignitosi: persone pagate per convincere altri a comprare cose totalmente inutili, consulenti retribuiti per suggerire ai ricchi il modo migliore per “ottimizzare” la gestione fiscale… Ecco, il reddito di base servirebbe proprio per permettere ai cittadini di essere liberi di scegliere impieghi che abbiano un significato per loro, scartando quelli poco dignitosi. È un modo di dinamizzare la società, non di eliminare il lavoro.

In Italia ad agosto è stato approvato il Reddito di inclusione. Oltre ad essere indirizzato solo ad una piccola parte delle persone in povertà assoluta (1,8 milioni di poveri su un totale di 4,7 milioni), esso è condizionato all’accettazione di un “progetto personalizzato”. Perché sarebbe invece così importante poter “dire no” agli impieghi proposti senza perdere il reddito?
Se il reddito è condizionato, allora si ha solo la possibilità di dire sì, ed esso si trasforma in un vero e proprio sussidio ai lousy jobs, i lavori di bassa qualità. In quel caso tutto il potere rimane nel campo del datore di lavoro, del padrone. Invece, è proprio la facoltà di rifiutare un lavoro senza perdere il benefit che incentiva lavori di alta qualità. Dire no a mansioni con padroni impossibili, in condizioni impossibili, con orari impossibili, permette di dire sì anche a lavori che magari non pagano molto, ma ti fanno coltivare la tua passione, oppure acquistare competenze in un ambito che ti fa sentire realizzato. Insomma, poter dire no dà maggior potere contrattuale a chi altrimenti non avrebbe nessun potere di negoziazione.

Un’altra critica frequente: perché dare soldi anche a chi è ricco?
Perché è meglio per i poveri che siano dati anche ai ricchi. Mi spiego. È chiaro che i ricchi devono pagare per il loro reddito di base e per una parte del reddito di base dei poveri. Attraverso la tassazione sui redditi, oppure col credito di imposta, che sarebbe ancora più pratico. Ma perché prendere soldi ai ricchi per poi ridarglieli? Sembra ridicolo, in effetti, ma non è così. Perché solo se il reddito di base viene erogato a prescindere da quanto guadagni, con chi vivi, che lavoro fai o non fai, allora i meno abbienti sono davvero liberi di costruire la loro vita, evitando la “trappola della povertà” (ossia il disincentivo a cercare lavoro quando ogni reddito aggiuntivo porterebbe a perdite di benefici e aumenti delle imposte ndr). Il basic income crea un incentivo più grande al lavoro rispetto al sistema attuale di assistenza sociale. E la sua universalità non rende i ricchi più ricchi, ma i poveri meno vulnerabili.

Spesso le forme di protezione sociale vengono riservate a chi ha la cittadinanza o a chi risiede in un Paese da un certo tempo. Dunque, come fare con i migranti? Pensare ad un trattamento differenziale, in un periodo in cui si innalzano muri, non porterebbe ad una esasperazione delle disuguaglianze?
Certo, è chiaro che ogni forma di “redistribuzione generosa” sia più semplice in una società chiusa rispetto che in una società aperta. Ma ciò vale per qualsiasi forma di assistenza sociale. Ora, i migranti arrivano in Europa perché vogliono lavorare, e qui i redditi sono più alti. Dal punto di vista della giustizia, non ci sono ragioni fondamentali per impedire questa immigrazione, per non permettere a tutta la gente del mondo di venire ad approfittare di una situazione che non abbiamo creato, non è merito nostro, ma che deriva da una passato “fortunato” dell’Europa rispetto al resto del mondo. Però esistono altre ragioni, pragmatiche, poco eleganti ma necessarie, per fissare dei limiti, come esistono limiti nelle migrazioni economiche anche tra Paesi europei. Diciamo che il diritto di dire no ad un lavoro pur mantenendo il reddito di base dovrebbe essere sostituito per i migranti economici con l’obbligo di dire sì ad un impiego, almeno in un primo momento. Come dico sempre, per la sinistra nei Paesi ricchi non c’è un dilemma più crudele che questo, il bilanciamento tra la generosità per i “nostri” e l’ospitalità per gli altri. Questo dilemma si risolverà solo quando le disuguaglianze nel mondo si ridurranno, e la quantità di violenza sarà meno elevata.

La battaglia per il reddito di base, insomma, deve unirsi a quella contro le disuguaglianze e per la pace.
Beh, ci sono molti fronti importantissimi. Questi due lo sono, ma ci sono altre questioni decisive nella nostra società. Ad esempio l’investire nella cultura e nei nuovi metodi educativi, all’indomani della rivoluzione digitale. E poi riconquistare i nostri spazi pubblici, in modo che non siano solo posti di mobilità, magari “sostenibile” certo, ma anche e soprattutto spazi di immobilità piacevole. È una sfida fondamentale, se vogliamo che le nostre società così multietniche riescano a sviluppare legami e integrazione. Non c’è solo il reddito di base, le lotte sono tante.

Philippe Van Parijs terrà una lectio magistralis Il reddito di base: una proposta per il XXI secolo, il 10 novembre alle ore 17.30, durante il meeting organizzato da Bin Italia a Roma presso la Biblioteca Moby Dick

Più bombe e meno scuole: dal 2001 gli Usa hanno speso 5600 miliardi di dollari in guerre

epa06095778 Paratroopers prepare for a jump while onboard an US C-17 Globemaster III military transport aircraft flying in Bulgaria's airspace, during the Swift Response 2017 international military exercise, 19 July 2017. The US Army Europe led the 'Swift Response 17' airborne exercise, as a part of the Saber Guardian 2017 (SG17) multinational military exercise which takes place in numerous locations across Bulgaria, Hungary and Romania in the summer of 2017, involving up to 45,000 soldiers from North Atlantic Treaty Organization (NATO) countries. EPA/CSABA KRIZSAN HUNGARY OUT

Stati Uniti contro il resto del mondo: dal 2001 ad oggi, 5600 miliardi di dollari sono stati spesi nei conflitti intorno al globo in cui Washington è coinvolta. È il costo delle guerre americane calcolato da studenti e ricercatori dell’università Watson Brown, un prezzo che il Pentagono nasconde. O, almeno, minimizza.

Quasi seimila miliardi di dollari spesi, secondo la Brown, e non 1500 miliardi di dollari: la cifra non combacia con quella ufficiale, diffusa dal Dipartimento della Difesa americano, che è inferiore di quasi tre volte, perché il governo, nel renderla pubblica, lascia fuori dal budget bellico le spese sostenute per le cure dei veterani o altre spese del Dipartimento per le guerre in Siria, Iraq, Pakistan, Afghanistan.

Le mimetiche a stelle e strisce sono arrivate non solo nei deserti orientali, ma anche in Somalia e in Niger. Ci sono le operazioni ufficiali, i teatri meno ufficiali, le operazioni segrete di cui le uniche vere informazioni note sono i costi. In più, l’appoggio finanziario agli alleati, specialmente croati, ungheresi, georgiani, polacchi e rumeni, che la U.S. Army fornisce. Adesso della politica militare dell’aquila americana, dopo l’attentato alle torri gemelle, il mondo conosce il prezzo vero, un numero che non trova spazio sulle prime pagine dei giornali.

Un trilione di tagli. “Costs of wars”, i costi della guerra è un progetto di studenti e professori della Brown University, che hanno calcolato che i conflitti post 11 settembre hanno fatto diminuire i budget per la spesa interna, programmi sociali, infrastrutture pubbliche, trasporti. Hanno fatto si che venissero eliminati alcuni programmi dedicati all’educazione, nutrizione e crescita della popolazione americana. Più bombe all’estero, meno scuole in casa. Per aumentare le spese militari, i tagli sono stati applicati al Budget Control Act del 2011.

I ricercatori hanno intercettato non solo il flusso di denaro che esce dalle casse del Dipartimento di Stato, ma anche quello drenato dalla Homeland Security, i servizi segreti, e la Veteran’s Administration, l’amministrazione dei militari veterani che hanno servito nella “guerra al terrorismo”. Hanno scoperto che la cifra è altissima: un trilione di dollari vengono destinati alle “war-related disabilities”, le disabilità che la guerra ha lasciato perennemente sul corpo dei soldati, dei quali 327mila oggi hanno danni permanenti traumatici al cervello.

Il costo della guerra e poi il suo prezzo più alto: le vite perdute. Non solo nei teatri lontani che nessuno vede, ma anche in patria: in un altro report della Brown University, risalente al 2016, si stima che sono state 370mila le vittime attribuibili alle guerre post 11/9, 200mila delle quali non in divisa, ma civili.

La scia di soldi, la scia di sangue. Oggi, da quel giorno di settembre, 5600 miliardi dopo, è stato ridotto il rischio del terrorismo? La probabilità che si scatenino altri conflitti? Lo ha chiesto William D. Hartung, il direttore dell’Arms and Security Project del Center for International Policy, ma nessuno ha risposto.

Al Sisi? «Interlocutore appassionato alla ricerca di verità». Parola di un vergognosissimo Alfano

Angelino Alfano nell'Aula della Camera durante l'esame della legge elettorale ''Rosatellum 2.0'', Roma, 12 ottobre 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

«Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità».

E poi: «Confidiamo che le parole di al Sisi spingano ancora di più l’apparato egiziano nella ricerca della verità».

E infine: «Stiamo seguendo anche il canale della collaborazione con l’università di Cambridge, e quello diplomatico, avendo parlato io stesso di recente con il mio omologo britannico Boris Johnson».

Il vero dramma della famiglia Regeni, dopo la perdita del loro figlio Giulio, è quello di essere cittadini in un Italia in cui il servilismo al potente è condizione necessaria per garantirsi un posto al sole. Un Paese in cui gli eventuali cointeressi economici sono il discrimine principale per decidere chi è buono e chi è cattivo. Un Paese in cui la verità è una parola da pronunciare con tono stentoreo nei discorsi ufficiali per poi ripiegarla e metterla nel cassetto delle bomboniere da propaganda. Un Paese che si ostina a trattare l’Egitto come se le prepotenze e i soprusi, oltre alla congenita perdita progressiva di democrazia, siano qualcosa che non è affar nostro, da lasciare agli egiziani. Un Paese che permette a un capo di governo a forma di sultano di irriderci nel panorama internazionale con favolette da scuola elementare.

E noi, continuamente, servi. Proni. Sdraiati di fronte all’evidenza come se fosse solo un fastidio passeggero. E così succede che anche un Alfano qualsiasi possa impunemente rilasciare dichiarazioni del genere. O meglio, a pensarci bene: così succede che anche questo Alfano qui possa permettersi di fare il ministro.

Buon venerdì.

Yemen, l’Onu denuncia: «Sarà la più grande carestia degli ultimi anni, con milioni di vittime»

epa06309572 A Yemeni child tries to cross a block in front of an alleged Saudi-led airstrike site, a day after Houthi rebels fired a ballistic missile at the Saudi capital Riyadh, in Sana'a, Yemen, 05 November 2017. According to reports, the Saudi-led coalition launched several airstrikes on Houthi positions across war-affected Yemen after Houthi rebels fired a ballistic missile at Riyadh that was intercepted near the Saudi Arabian capital. EPA/YAHYA ARHAB

Non in Siria ieri, non in Corea del Nord domani. La guerra uccide centinaia di persone ogni giorno e in Yemen in milioni moriranno, se l’embargo non finirà.

«Ci sarà una carestia in Yemen. Non sarà come la carestia che abbiamo visto in Sud Sudan all’inizio dell’anno, con decine di migliaia di vittime. Non sarà come la carestia a cui abbiamo assistito in Somalia, con 250mila vittime nel 2011. Questa sarà la più grande carestia che il mondo abbia mai visto da decenni. Ci saranno milioni di vittime». Lo ha detto in conferenza stampa Mark Lowcock, segretario agli Affari umanitari delle Nazioni Unite, in seguito all’incontro del segretario generale Antonio Guterres e Adel al Jubeir, ministro degli Esteri saudita, dopo un dialogo tentato “per salvare la vita di quelle persone”e far terminare l’embargo almeno sugli aiuti alimentari, il cui accesso è impedito dalla coalizione guidata da Ryad.

Sarà la più grande carestia degli ultimi decenni, quella che si abbatterà sul Paese, se la coalizione militare non deciderà di mettere fine all’assedio che ha già ucciso diecimila persone e lasciato senza cibo e senza assistenza medica sette milioni di yemeniti. Le bombe continuano a cadere da ormai oltre due anni, quando i ribelli Houthi, sciiti che l’Arabia Saudita accusa di essere supportati dall’Iran, hanno conquistato Sanaa, la capitale, costringendo alla fuga il governo del presidente Abd Rabbu Mansour.

Ma da tre giorni, non solo via mare e via terra, ma anche via aerea, né nei porti, né negli aeroporti, è concesso di trasbordare i beni di prima necessità. Il segretario Lowcock ha chiesto l’immediata ripresa degli accessi alle zone di smistamento del cibo e delle medicine, per la fine del blocco che impedisce l’ingresso nel Paese.

Il blocco delle vie di uscita ed entrata acutizzerà non solo la carestia, ma anche l’epidemia di colera in corso. «Milioni di bambini in Yemen sono ancora vivi solo grazie agli aiuti alimentari e ai medicinali entrati nel paese attraverso i porti. Finora è stato molto difficile, per anni siamo stati costretti ad utilizzare vie d’accesso impervie. Ma se i punti verranno chiusi completamente, anche solo per una settimana, ci troveremo di fronte a un vero e proprio disastro, uno scenario da incubo, milioni di bambini perderanno la vitaha detto Tamer Kirolas, direttore di Save the Children a Saana.

Non solo Fontana. Lo spazialismo di Nigro

Accende i riflettori su una figura di artista significativa e poco nota dell’astrattismo italiano del secondo Novecento la Fondazione Ragghianti, con questa retrospettiva dedicata a Mario Nigro: artista poliedrico e molto attento alle novità proposte dalla ricerca scientifica del suo tempo (prese due lauree di cui una in farmacia, per vivere). Nato a Pistoia esattamente cento anni fa si trasferì presto a Livorno.

Ma fu a lungo pittore isolato nella città labronica, attardata nella tradizione del paesaggismo macchiaiolo. In quel contesto provinciale la suo tendere verso l’arte astratta rappresentava un unicum. Emerge con chiarezza dalla mostra Mario Nigro gli spazi del colore interessata a tutti gli aspetti della sua ricerca. Che nei primi anni correva su due binari: da un lato la forza emotiva del colore (sulla strada aperta da Kandinsky), dall’altra il lavoro sulla linea traendo ispirazione da Mondrian. Dall’incontro fra questi due differenti e per molti versi opposti filoni nacque il suo originale astrattismo pittorico, ma anche la progettazione di ambienti punteggiati da steli policrome percorse da segni grafici.

Nigro untitled 1948

Iniziò così una suo percorso nell’ambito dello spazialismo, che interessò Lucio Fontana, tanto da presentarlo in Biennale. Fu invece un giovanissimo Luciano Fabro, docente all’Accademia di Brera, a segnalarlo all’attenzione delle generazioni più giovani. alla Fondazione Ragghianti a Lucca  la mostra curata da Francesca Pola e Paolo Bolpagni (aperta fino al 7 gennaio) racconta Mario Nigro a partire dai lavori più geometrizzanti, come le sequenze di rombi, quadrati che dinamizzano lo spazio regalandogli ritmo e energia, fino alle realizzazioni più libere a pastello. Negli uni come negli altri Mario Nigro sembra voler rappresentare lo scorrere del tempo. Lo si capisce anche dal confronto messo in scena dai due curatori con le ossessive e fredde progressioni di Roman Opalka.

Altri lavori di Nigro dove è in gioco maggiormente la luce evocano quelli di Enrico Castellani (Nigro l’aveva conosciuto a Milano) con introflessioni e estroflessioni capaci di catturare e rilanciare la luce generando un raggio vivo e guizzante. La ricerca sulla luce e su libere alchimie dei colori caratterizzarono tutto il dopo guerra di Nigro quando il suo sguardo si rivolgeva con attenzione alla ricostruzione del Paese e al nuovo dinamismo sociale. Il terremoto dell’Irpinia del 1980 segnò una violenta cesura anche per lui: una serie di fratture percorrono tutti i quadri di quegli anni. Tornò ad acuirsi il senso di solitudine allora, da cui nell’ultima fase della sua vita seppe tuttavia far sgorgare fiotti di vivo colore.

Le elezioni a Ostia le hanno già vinte gli Spada e i Fasciani

Un fermo immagine del video girato dalla troupe del programma "Nemo Nessuno Escluso" il 7 novembre 2017 . Ieri pomeriggio "due inviati di Nemo Nessuno Escluso, il giornalista Daniele Piervincenzi e il film maker Edoardo Anselmi, sono stati violentemente aggrediti a Ostia da Roberto Spada, membro della famiglia Spada, nota alle cronache per diverse inchieste giudiziarie, e da un suo sodale".Lo rende noto la Rai, spiegando che la troupe del programma di Rai2 doveva realizzare un servizio sul voto nel municipio di Ostia. "Piervincenzi ha il setto nasale rotto e una prognosi di 30 giorni". Il servizio che mostra l'aggressione andrà in onda domani a Nemo, su Rai2 alle 21.20 ANSA/ FERMO IMMAGINE RAI 2

Come se non bastasse il fatto che per Roma giri una giornalista sotto scorta per le loro minacce (Federica Angeli, che scrive per Repubblica) ieri Roberto Spada è rimbalzato su tutti i telegiornali mentre in pieno giorno, sotto l’occhio di una telecamera, prende a testate un giornalista Rai come nemmeno nelle peggiori fiction di mafia. Così, apertamente e liberamente, mentre tutto intorno Ostia si prepara al ballottaggio di un voto erroneamente considerato locale ma che invece propone tutti i lineamenti di una mafia parafascista che su Roma ci riporta ai periodi bui della banda della Magliana e di altri terrificanti personaggi della storia capitolina.

Come se in fondo il processo di Mafia Capitale (e che tristezza leggere decine di editoriali tutti proni a sminuire un fenomeno che continua a sanguinare) fosse solo un incidente e non la spia di una criminalità che addirittura si esibisce pubblicamente nella minaccia come potrebbe accadere a Corleone o a Casal di Principe. Chiunque sappia qualcosa di fatti di mafia sa bene che quel naso spaccato (addirittura pubblicato sulla propria pagina Facebook) è una medaglia che accresce l’onore marcio di chi, proprio con la violenza, si è affrancato in un territorio omertoso e spaventato.

Ostia è la terra di mafia dei nuovi fascismi pericolosamente coalizzati con l’illegalità del territorio (oltre che intrinsecamente illegali, per Costituzione) che dietro al falso mito della “cura dei bisogni della città” trasforma mafiosi in potabili imprenditori, la violenza e le minacce in “perdita di pazienza” e l’estrema destra in legittime posizioni politiche.

Oltre alla solidarietà doverosa ai giornalisti di Nemo, malmenati nello stesso Paese che facilmente si offende quando crolla nella classifiche della libertà di informazione, forse sarebbe il caso di aprire anche alcune riflessioni: c’è la responsabilità di chi negli ultimi mesi (fior fiore di giornalisti) ha legittimato Casapound come se davvero fosse un partito politico e non solo un grumo di orribile passato e c’è anche l’inutile tiritera di chi punta il dito contro “il web” senza rendersi conto che internet (come la politica, l’imprenditoria e il giornalismo stesso come ha dimostrato la prima pagina di Libero di ieri) è solo la fotografia reale di un Paese che normalizza la ferocia e poi se ne lamenta.

Buon giovedì.

Migranti di ritorno sulla rotta del coraggio

demal te niew

Alcuni partono con l’aspirazione di ritornare. Altri rimpatriano quando le speranze riposte nel progetto migratorio vengono deluse. Ma tutti – impossibile stimare quanti siano – lo affrontano con coraggio. Perché ritornare nei paesi di origine è più difficile che migrare. Sia perché si lasciano alle spalle le più avanzate economie europee, a volte un lavoro, una casa e una rete di rapporti che hanno costruito a partire da zero. Sia perché il ritorno, soprattutto in tempi brevi, porta con sé il pregiudizio di un fallimento.

E nonostante una lingua complessa da capire, una cultura diversa, spesso, ostile, e gli affetti lontani, la migrazione, anche quando non arricchisce materialmente, è, comunque, un’esperienza che porta conoscenza. E il ritorno nelle terre natìe, con quel bagaglio, è il coronamento di una realizzazione, non solo economica. E’ immaginato come possibilità di sviluppo, grazie alle competenze acquisite in Italia e rimesse in gioco nel paese di provenienza, dove poter contribuire alla crescita in maniera attiva.

È la storia di Ndary, Mouhamed e Karou, raccontata nel webdoc Demal Te Niew – Và e torna, in lingua wolof – realizzato nel 2016 con il contributo dello European journalism center, che parla di riscatto, riuscita e nuove opportunità (lo potete vedere qui). «Come un cocco, nero fuori e bianco dentro», Karou, arrivato nelle valli bergamasche da Thies, a un’ora di distanza da Dakar, ha deciso di ritornare in Senegal, dopo quindici anni di vita a Bergamo, un contratto a tempo indeterminato, una moglie italiana e sei figli, perché in Italia è «tutto saturo» mentre il Senegal può offrirgli opportunità imprenditoriali in un mercato tutto nuovo che «permette a chi arriva da un altro paese, ma al tempo stesso conosce il contesto locale, di sfruttare al meglio quello che ha imparato all’estero». A costo di complicarsi l’esistenza. Perché chi rientra «si trova a dover rinegoziare la legittimazione e l’intellegibilità morale della propria rinnovata presenza nelle reti sociali di cui fa parte», spiegano gli autori del progetto Ritorno in Senegal.

Allo sforzo umano ed economico si sommano le incombenze burocratiche: in primo luogo, per intraprendere il viaggio di ritorno è necessario possedere il permesso di soggiorno italiano, obbligatorio, quindi, non solo a vivere legalmente nel Belpaese ma, anche, per poter scegliere di andare via; poi, i programmi governativi di rientro assistito per i migranti prevedono aiuti che vanno poco oltre il pagamento del biglietto aereo; e, in ultimo, i progetti che tentano di sostenere l’imprenditorialità attraverso strumenti finanziari per l’accesso al credito non sempre sono efficaci, tendenti, come sono, a sovvenzionare progetti nei settori di nicchia, inaccessibili ai più. Rimpatriare, poi, equivale a perdere i contributi previdenziali versati allo Stato italiano perché non cumulabili con quelli realizzati in patria con la conseguente perdita della pensione minima.

Definire i migranti di ritorno come coloro che, dopo un periodo di vita all’estero, decidono di tornare nel Paese d’origine è alquanto riduttivo. Sono motori di sviluppo, portatori di capitale, di abilità e attitudini acquisite nei paesi più ricchi; fungono da trait d’union tra lo sviluppo sociale e le pratiche locali delle comunità e sono risorse indispensabili per trarre vantaggio in termini di pace e sicurezza. Essere un migrante di ritorno significa essere una vita, due paesi e una pluralità di ritorni.

Il 9 novembre ore 19 al Cinema Arsenale di Pisa sarà proiettato il web doc Demal te niew – la strada dei migranti, con Silvia Lami, Viola Bachini, Daniele Fadda (soBigData), Roberto Malfagia (La Jetée), Francesca Zampagni (Scuola superiore Sant’Anna)

Il tocco femminile del cinema

Dopo l’apertura con l’originale narrazione di N-Capace (il film di Eleonora Danco a metà tra documentario e nuova creazione tout court) e dopo  l’opera prima Fraulein di Caterina Carone (conosciuta come documentarista per Valentina Postika in attesa di partire), la rassegna Female Touch- in programma nello storico spazio romano di Blue Desk –  si confronta per il secondo weekend con due opere d’autore che trattano con personalità due nervi scoperti del contemporaneo.
Sabato 11 novembre Liberami di Federica Di Giacomo, sul ritorno  dell’esorcismo in Italia, e domenica 12 novembre, Carol di Todd Haynes, sul rapporto tra due donne nell’America puritana degli anni Cinquanta.
Premiati nei due massimi festival internazionali, a Venezia e a Cannes, attraverso la lente schiacciante del documentario (il primo) e la grazia della messa in scena (il secondo) riescono entrambi a declinare i due temi senza cadere nella pedanteria della dimostrazione, ma seguendo senza giudicare lo scorrere delle storie dei protagonisti.

In Liberami – di cui  Federico Tulli scrisse su left  all’uscita del film l’anno scorso nell’articolo Quest’esorcista non è un film – è descritta  la quotidianità di un ‘instancabile’ esorcista palermitano. Ogni martedì alla sua funzione partecipano Anna, Enrico, Gloria, Giulia e molti altri, alla disperata ricerca di una cura per disagi e malesseri, a cui la Chiesa risponde istituendo una serie di corsi per allargare la schiera dei preti esorcisti. Così, lungo il film, i contrasti tra sacro e profano, antichità e modernità, vita quotidiana ed esorcismi, riescono a mettere in luce  un inaccettabile medioevo contemporaneo.

In Carol, l’altra pellicola, uno dei più rigorosi tra gli indipendenti americani, il regista Todd Haynes (conosciuto per il film Io non sono qui su Bob Dylan), ci porta nella New York degli anni Cinquanta.
Therese Belivet, giovane impiegata in un grande magazzino di Manhattan, incontra Carol, una donna intrappolata nella prigione di un matrimonio di convenienza. L’immediata intesa che nasce tra loro piano piano si trasformerà in un sentimento, osteggiato sulle prime dalle rigide e rigorose convenzioni dell’America perbenista. L’oggetto del feroce giudizio in questo caso è l’omosessualità, ma in un mondo di conformismo qualunque vita fuori norma sarebbe stata deprecabile.
A Cannes nel 2015 il film è stato premiato per la miglior interpretazione femminile a Rooney Mara, ma entrambe le protagoniste (l’altra è Cate Blanchette) si calano magistralmente nei loro ruoli, facendo vibrare le pagine del romanzo The price of salt da cui Haynes è partito.

Anche nel secondo weekend di Female Touch, come da mission della rassegna, i film saranno accompagnati da due donne che vi hanno lavorato. Se le presenze nel primo appuntamento erano sicuramente più canoniche (regista ed attrice protagonista), in questo secondo il pubblico si troverà di fronte due figure più insolite per un dopo proiezione: per Liberami ci sarà l’operatrice e direttrice della fotografia Greta De Lazzaris e per Carol la doppiatrice di Cate Blanchette Emanuela Rossi.
Una bella occasione di dialogo per conoscere aspetti invisibili della macchina cinema, con il filtro del tocco femminile.

Per tutte le info e le prenotazioni: www.bluedesk.it un grazie speciale a www.simoneamendola.it

Contro la cultura dello spreco alimentare, una bella iniziativa romana all’Alberone

Sabato 16 settembre, attraverso in bici il mercato rionale del mio quartiere, l’Alberone a Roma. Sono le tre, le bancarelle del mercato hanno chiuso da poco ma in strada, in mezzo ad un tappeto di frutta schiacciata e altri resti vegetali, ci sono due ragazzi, un uomo e una donna, Viola e Francesco, con la pettorina gialla ad alta visibilità, che distribuiscono l’invenduto. Frutta, verdura, anche pane e qualche formaggio.
Sono curioso e mi avvicino, e come altri non capisco subito, e infatti dopo aver scelto la merce faccio la domanda stupida: “Quant’è?”. Mi spiegano che loro lo stanno regalando, l’invenduto del mercato, a chiunque passi e lo chieda, nella speranza di costruirsi una “clientela” e di intercettare i bisognosi.
Chi sono i bisognosi? Chiedo. «I migranti. Ma anche gli indigenti, i pensionati che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, e che vivono per lo più dentro casa, che non hanno Internet. Ecco perché abbiamo bisogno di farci conoscere».

Riavvolgiamo il nastro.
Tutto parte da Riace, piccolo comune calabrese della Locride famoso per le politiche di accoglienza che mette in atto da anni il sindaco, Domenico Lucano. A Riace c’è il Festival delle Migrazioni dove Viola conosce Paolo Hutter, ex assessore del comune di Torino che ha lanciato alcuni mesi fa, nel grande mercato torinese di Porta Palazzo, un progetto di recupero del cibo invenduto che si chiama Ecomori (a Torino i “mori” sono i neri) coinvolgendo sia italiani che stranieri. «Dopo il successo di Torino – racconta Viola – il progetto è stato duplicato a Milano ma, forse anche per la pigrizia e l’individualismo che contraddistinguono la capitale, nel caos in cui la città si trova, Paolo mi ha confidato che a Roma il progetto non riusciva a partire».
A Roma Viola si occupa da anni di migranti come volontaria del Baobab Experience, associazione per l’accoglienza dal basso dei migranti in arrivo nella Capitale, e si mette in testa di coltivare una “cultura del non-spreco”, aprendo un banchetto solidale. Sceglie una zona “tranquilla”, non la frontiera selvaggia tipo la stazione Termini, dove si rischia semplicemente di essere presi d’assalto, creare caos e finire tutta la merce in tre minuti senza essersi in realtà fatti conoscere.

«I valori ecologici e solidali dell’anti spreco e della collaborazione autoctoni/migranti che si impegnano per una società più giusta ed umana hanno risuonato in me ed ho quindi deciso di lanciarmi in questa impresa», racconta. «Ho scelto il mercato dell’Alberone ed ho passato qualche giorno a girare per i banchi del mercato per conoscere personalmente i venditori, parlare loro del progetto e cercare di capire qual è il tessuto sociale della zona e che tipo di risposta avremmo potuto avere. Sono molto contenta, non tanto per i numeri quando per la qualità dell’esperienza che stiamo cercando di far nascere. Molti commercianti, alcuni dei quali all’inizio erano diffidenti, si sono mostrati entusiasti dell’idea e ci hanno donato il loro invenduto esortandoci a continuare. Ci sono stati dei momenti molto intensi in cui le persone commosse ci hanno ringraziato calorosamente per il dono fatto loro. Ci sono persone che raccolgono il cibo da terra e credo che riceverlo dalle mani di una persona che lo porge con un sorriso ed una parola dia una dignità diversa a quel momento. Ci sono persone che pur in difficoltà economica non raccoglierebbero mai il cibo da terra ma che al banchetto solidale si avvicinano senza vergogna. E ci sono poi persone che potrebbero acquistare i prodotti ma che per una loro filosofia di vita danno valore all’anti spreco e preferiscono della frutta meno bella e forse troppo matura a quella lucida del supermercato. Il progetto a Roma è appena partito e dobbiamo farci conoscere ma negli sviluppi futuri c’è l’impegno di trovare degli sponsor, dei donatori o delle borse lavoro per dare almeno un piccolo rimborso spese ai rifugiati che ci aiuteranno».

Li raggiungo qualche sabato dopo e infatti con i due, Viola De Andrade Piroli e Francesco Fanoli, antropologo, a dare una mano c’è anche Yacouba Sangarè, arrivato ancora minorenne in Italia dalla Guinea un anno fa, dopo quattro anni di viaggio attraverso Libia e Sicilia, fortunatamente, scopro, alla larga dai famigerati centri di detenzione libici. Scopro poi che pesano meticolosamente la merce da distribuire, e fanno più di un quintale, che poi è il quantitativo medio raccolto ogni sabato.
Sembrano ancora non ben conosciuti. Si avvicina qualcuno del Comitato di quartiere. Postiamo foto sui gruppi Facebook del quartiere, io sul mio profilo, e tocco con mano e mi sorprendo di quanto l’iniziativa piaccia e riscuota simpatia ed interesse. Io stesso suggerisco, tra una foto e l’altra, di andare a avvisare i ragazzi di colore che vedo sempre tristemente all’ingresso dei supermercati di zona a chiedere l’elemosina. Lo farò qualche sabato dopo, li acompagnerò fisicamente al mercato, scambiando con loro qualche frase in uno strano inglese.
Noto sempre un po’ di diffidenza da parte dei passanti. Dice Viola: «C’è gente che fa difficoltà ad accettare tutto, anche un sorriso, figurati le zucchine invendute regalate. Non capiscono».
Io penso che laddove c’è capitalismo, figlio di una certa razionalità, c’è incapacità di comprendere il dono. Le cose fatte per niente.

Afghanistan, la dura vita dei reporter sotto attacco dell’Isis e dei talebani

epa06313191 The staff of Shamshad TV reacts after they were rescued by the security forces following an attack by Islamic State militants at the tv station, in Kabul, Afghanistan, 07 November 2017. According to media reports, a group of armed men dressed as police officers attacked the television station in Kabul, killing at least one person and injuring at least 20. The attack began when one attacker blew themselves up at the gate of the building housing the television station. The so-called Islamic State (or ISIS) claimed responcibility for the attack. EPA/HEDAYATULLAH AMID

Urla, esplosioni, spari, ambulanze che arrivano e ripartono. Prima bombe, sangue, polvere. Venti le vittime. Lo stordimento. Poi il coraggio. Un’ora dopo l’attacco dello Stato Islamico, è ancora pallido come il letto d’ospedale dove è stato curato, ha le mani fasciate da bende bianche per i vetri che gli sono esplosi addosso nella sparatoria. Dopo le granate dell’attacco rivendicato dall’Isis, ieri, la prima cosa che il presentatore afghano ha fatto , appena tornato in piedi, è stato andare back on air, di nuovo in onda.

È stata la scelta del giornalista che non si è arreso, insieme a tutto il resto del team del suo canale: hanno deciso che dovevano continuare a lavorare e rimanere in onda, 24 ore su 24, come fanno sempre, da sempre, per la popolazione che li guarda in Afghanistan e Pakistan. È la lezione del giornalismo resistente della Shamshad Tv, dove Najib Nanish, una reporter, è morta nel corso delle operazioni antiterrorismo delle forze di sicurezza. Il direttore del canale, Abid Ehsas, ha concesso interviste a colleghi di altre testate: «resistiamo, è quello che facciamo, non chiuderanno la nostra bocca». Lo Stato Islamico è riuscito a fermarli solo un’ora. Solo un’ora di buio e poi back to work, di nuovo a lavoro, back on duty, ognuno al suo posto, a Kabul.

Dentro la stazione tv si erano barricati gli uomini dell’Isis con bombe e granate, eludendo la sorveglianza della sicurezza dell’emittente indossando uniformi della polizia e uccidendo una guardia. Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco, ma non è l’unico nemico dei giornalisti a Kabul. I talebani, che questa volta hanno smentito il loro coinvolgimento con l’evento di sangue via twitter, dall’account del portavoce Zabihullah Mujahid, avversano e minacciano ogni forma di media libero dagli anni 90 e hanno ucciso con un attacco suicida, nel 2016, sette giornalisti della Tolo tv.

È accaduto solo un anno fa a Jalalabad, ad est del Paese. Quei giornalisti erano diventati bersagli militari appena avevano messo piede a Kunduz, riconquistata dai talebani che ne avevano perduto il controllo nel 2001. I reporter avevano cominciato a raccontare degli stupri compiuti degli islamisti armati sulle donne della città. La tv, dopo le messe in onda dei servizi, fu definita subito “satanica”, quei giornalisti facevano “propaganda”. Meritavano di morire e morirono, quando i talebani li uccisero con un kamikaze.

La violenza a Kabul, dopo 16 anni di guerra e 900 miliardi di dollari spesi, è fuori controllo, in periferia fin dentro al perimetro della zona dove è sita la tv Shamshad, ad un solo chilometro di distanza dal palazzo presidenziale. Altre tremila truppe a stelle e strisce, secondo le ultime decisioni del Pentagono rese note nelle ultime ore, si uniranno ai 6mila militari già presenti sul campo che affiancano servizi segreti e polizia locale.

L’anno nero dei giornalisti afghani è stato lo scorso: sono morti 13 reporter, più che in qualsiasi altro anno. Najib Sharifi, del Journalist Safety Center, dice che la guerra ai giornalisti nella sua terra non è una notizia di ieri o oggi, ma è in corso da tempo. L’informazione libera in Afghanistan è avversa ai talebani, quanto all’Isis, ma non meno al Governo in carica, che tenta di silenziare le inchieste sulla sua corruzione dilagante.