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Marco Cappato a processo per il suicidio assistito di Dj Fabo: «I diritti fondamentali non possono più attendere»

Il parlamentare europeo Marco Cappato in tribunale a Milano per l'udienza in cui si dibatte della sua richiesta di archiviazione per l'accusa di aiuto al suicidio per la morte di Dj Fabo, Milano, 6 luglio 2017. ANSA / MATTEO BAZZI

Dall’8 novembre Marco Cappato è sotto processo. La sua colpa? Avere accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani, Dj Fabo, che non voleva più sopportare le atroci sofferenze conseguenze di un incidente di auto che lo aveva reso cieco e tetraplegico. La sua storia è raccontata in alcuni dei passaggi più vivi e toccanti del libro autobiografico di Marco Cappato, Credere disobbedire combattere (Rizzoli), in cui ripercorre più di vent’anni di lotta al proibizionismo, per l’affermazione di diritti civili, per il diritto alla conoscenza.

Marco Cappato quale risposta si augura possa innescare la sua azione di disobbedienza civile?

Vorrei porre innanzitutto una questione di chiarezza e di assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni: il codice penale del fascismo criminalizza l’aiuto al suicidio, esistono però anche dei principi di libertà, fondamentali, garantiti dalla Costituzione e da carte internazionali, come quella europea dei diritti umani e come la Convenzione europea dei diritti umani. Il primo obiettivo dunque è che si dica espressamente ciò che effettivamente si può fare o non si può fare, senza che ciò che dipenda dal fatto di farlo di nascosto o meno.

Ci faccia capire meglio…

Per parlarci in modo franco gli italiani che vanno in Svizzera ogni anno sono nell’ordine delle decine. Nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale, solo i casi che diventano pubblici vanno poi all’attenzione della magistratura. Quindi un atto di chiarezza è necessario ma anche un’assunzione di responsabilità che dovrebbe investire lo stesso Parlamento.

La legislatura è agli sgoccioli e il Parlamento non è nemmeno riuscito a fare una legge sul biotestamenteo. La stessa relatrice De Biase si è dimessa perché «non ci sono le condizioni per proseguire l’esame in Commissione»…

C’è una mancanza di democrazia nel nostro Paese dal momento che istanze sociali così forti e sentite non trovano una risposta nella politica ufficiale. A prevalere è la logica del potere, delle coalizioni, delle alleanze – non dico che queste ultime non siano importanti – ma la politica finisce per essere solo quella per i media e le vicende delle persone mera cronaca. Si discute di eutanasia solo quando scoppia un caso. Così viene tenuta ai margini una maggioranza schiacciante di opinione pubblica che è pronta ad ha buone ragioni su questo tema.

Per otto anni lei è stato parlamentare europeo radicale e ha organizzato a Bruxelles convegni e confronti internazionali con l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca. C’è una vistosaarretratezza italiana su questi temi?

L’Italia manifesta da tempo uno svuotamento della democrazia liberale. Formalmente ci sono le elezioni, c’è lo Stato di diritto ma come Radicali da decenni denunciamo il regime partitocratico che affossa la vita delle istituzioni ridotte a puro formalismo. Adesso è palese a tutti. Sembrava matto Marco Pannella quando si metteva la stella gialla al petto e denunciava la peste italiana, che si sarebbe diffusa in Europa e nel mondo, oggi siamo arrivati a Donald Trump. Non è un caso, è stato un lungo processo.

Come se ne esce a suo avviso?

Occorrono innanzitutto investimenti materiali ma anche e soprattutto immateriali in conoscenza, tecnologia, bisogna rafforzare i diritti dell’individuo e le libertà individuali. È un’urgenza che non riguarda solo il singolo e temi come il fine vita, la libertà scientifica ecc. ma riguarda il futuro stesso della democrazia.

La non violenza è uno strumento importante oggi. Nel suo nuovo libro dedica molto spazio a questo metodo chiarendo cosa è e cosa non è. Ovvero?

Oggi sembra quasi che l’alternativa debba essere fra la politica che cerca di ragionare e di spiegare perché tutto sommato ci dobbiamo tenere le cose che abbiamo già, altrimenti rischiamo il tracollo finanziario, politico, e la politica che parla alla pancia della gente, contro gli immigrati,  tutto ciò non corrisponde. Avendo a cuore la democrazia e lo Stato di diritto non rinunciamo ad emozionare. Parlare alla pancia della gente vuol dire sottomerci alle paure, all’ansia della gente. Al contrario mettendo in gioco se stessi si può investire sulle emozioni positive delle persone, sviluppare sensibilità, empatia verso i malati e i soggetti più fragili, la non violenza è quell’energia, quel calore, quell’elemento in più che può essere immesso nelle democrazie per evitare che rimangano un simulacro vuoto.

Questo suo modo di fare politica le ha fatto conoscere Piero Welby, Luca Coscioni, Dj Fabo e tanti altri. Questi incontri che cosa le hanno lasciato?

Guardare il mondo e la politica attraverso la concretezza di se stessi e della propria storia e poi delle storie delle persone che si incontrano è l’antidoto più efficace contro l’ideologia. Vivendola in modo astratto, se non è radicata nella vita delle persone, la stessa democrazia liberale può esserlo. La legge da sola non basta, ci vogliono la conoscenza, l’informazione, il dialogo, il confronto. A cominciare dagli anni di scuola. Passare attraverso il confronto con le persone è indispensabile se si cerca un risultato che non siano solo di facciata.

Ci sono persone in Italia come Beppino Englaro che, come lei, hanno scritto pagine significative della storia dei diritti civili in Italia. Ha lottato perché fosse rispettata la volontà di sua figlia. Lo ha fatto alla luce del sole, nella legalità, in questo modo ha anche prodotto conoscenza, consapevolezza di potercela fare, da cittadino, aprendo la strada a molti?

Sì naturalmente. Senza dimenticare che per Beppino Englaro sono stati quasi vent’anni di lotta. Ricordo la lotta e la vita in prigione di Mandela e di Gandhi in questo libro, però non pensiamo che o si è degli eroi o non si può fare nulla. Neanche dico che tutti possano fare tutto. Però quante volte nella vita capita il piccolo sopruso o anche la piccola opportunità di fare qualcosa di buono nella gestione del quartiere, nella scuola, in tante situazioni e occasioni quotidiane. Capita di vedere che c’è il piccolo imbroglio e si lascia correre. Non tollerare ciò che ci appare intollerabile migliora la qualità della nostra vita, è un modo di fare politica anche senza il bisogno di arruolarsi da qualche parte. Come Radicali, come associazione Coscioni noi cerchiamo di farlo anche in quanto organizzazione politica.

Berlusconi asseriva che Eluana poteva avere figli perché aveva il ciclo. Rosy Bindi – lei scrive in questo libro- discettava su quanto fosse piccola la finestra della stanza dove Welby era tenuto in vita dai macchinari. La stessa, da ministro della Salute, autorizzò la sperimentazione della “terapia” Di Bella e il ministro Balduzzi quella di Stamina. C’è un deficit di competenza di questa classe politica oppure, di che si tratta?

La politica è ridotta a marketing elettorale, i format tv del dibattito politico sono fatti a colpi di battute. “Basta con l’invasione”. “Meno tasse”. Ma la ricerca di vere soluzioni ha bisogno di confronto, discussione, è un percorso complesso, che non vuol dire complicato. Nel dibattito pubblico. in realtà, contano i fatti, conta la fondatezza di ciò che si dice. Ma per potersi far forte del metodo scientifico e poi prendere decisioni politiche bisogna rafforzare i rapporti con il mondo scientifico, si dovrebbero commissionare studi, far sì che i politici vadano nei laboratori e che gli scienziati si confrontino con la percezione pubblica e con le conseguenze della loro ricerca. Tutto questo non si improvvisa. Lo si fa intervenendo nei programmi scolastici, attivando i centri studi dei parlamentari, gli enti locali, servirebbe un enorme investimento per colmare il divario fra la conoscenza scientifica più avanzata e quella in base alla quale si legifera oggi. Bisogna poi verificare l’efficacia della politica e della legge. Non è cattiva volontà di questo o quel politico, ma è proprio un sistema istituzionale che non è attrezzato. Bisognerebbe smontare lo Stato dove non serve – ovvero nei proibizionismi – e rimontarlo dove serve, ovvero per produrre conoscenza.

Per chiudere, tornando ai temi della sua lotta oggi. Sono state raccolte 67mila firme per la legge di iniziativa popolare sull’eutanasia, avranno mai risposta?

Dobbiamo fare tutto quello che possiamo perché la abbiano. Il mio processo è appunto un tentativo in questa direzione, non ci rassegniamo e proseguiamo la battaglia.

 

*AGGIORNAMENTO* di mercoledì 14 febbraio alle 15.20

Tutte le tappe della vicenda che il 14 febbraio è sfociata in una svolta storica:

Il processo a Marco Cappato va alla Corte Costituzionale.

La corte d’Appello di Milano ha sospeso il processo a Marco Cappato e rinviato la questione alla Corte Costituzionale. I pm chiedevano l’assoluzione per l’esponente radicale e in subordine avevano proposto appunto l’eccezione di illegittimità costituzionale.

• Il 13 giugno 2014 Fabiano Antoniani (Dj Fabo), 40 anni, rimane coinvolto in un grave incidente stradale. Dopo diversi ricoveri e un anno trascorso all’Unità spinale dell’ospedale Niguarda, la prognosi irreversibile: paralisi totale e cecità. Dj Fabo non si arrende e con l’aiuto della fidanzata Valeria Imbrogno cerca terapie sperimentali, si sottopone a un trattamento sperimentale con trapianto di cellule staminali in India, Paese dove avevano scelto di andare a vivere prima dell’incidente. Dopo un effimero miglioramento, la terapia si rivela inutile. Attraverso Valeria, Fabiano e contatta Marco Cappato che lo indirizza verso l’associazione svizzera Dignitas di Zurigo, specializzata in “accompagnamento volontario alla morte”.

• Il 19 gennaio, Dj Fabo si rivolge attraverso un video-appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Da più di due anni sono bloccato a letto immerso in una notte senza fine. Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire in Italia». Marco Cappato condivide la sua battaglia pubblica con l’associazione “Luca Coscioni” di cui è tesoriere, che ha seguito decine di casi di accompagnamento oltreconfine negli ultimi anni.

• Il 27 febbraio 2017, pochi secondi dopo aver morso il dispositivo che permetteva al veleno di uscire Fabiano Antoniani muore nella clinica Dignitas. Con lui, oltre alla madre e alla fidanzata c’è Cappato che il giorno dopo si autodenuncia ai carabinieri di Milano.

• Il 1 marzo 2017 i Pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini iscrivono il leader radicale nel registro degli indagati con l’accusa di “aiuto al suicidio” previsto dall’articolo 580 del codice penale che punisce con una pena fino a 12 anni di carcere “chiunque aiuta o determina altri al suicidio ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.

• L’ 8 maggio 2017 la Procura chiede di archiviare la posizione di Cappato, sostenendo che per chi è nelle condizioni di Dj Fabo esiste il “diritto al suicidio”. «Il principio del rispetto della dignità umana – si legge nella richiesta di chiudere il caso – impone l’attribuzione a Fabiano Antoniani, e in conseguenza a tutti gli individui che si trovano nelle stesse condizioni, di un vero e proprio “diritto al suicidio”, attuato anche in ‘via diretta’, mediante l’assunzione di una terapia finalizzata allo scopo suicidiario».

• Il 10 luglio 2017, il gip Luigi Gargiulo dispone l’imputazione coatta per Cappato. «In Italia non esiste il diritto a una morte dignitosa – argomenta – Un giudice non può trasformarsi in legislatore perché introdurrebbe nell’ordinamento un diritto inedito e, soprattutto, ne filtrerebbe l’esercizio, limitandosi ai casi in cui sussistano tali requisiti, peraltro meritevoli di una formulazione generale, astratta e rispettosa del canone di precisione che una simile materia richiede».

• Il 5 settembre 2017 Marco Cappato chiede di essere processato col rito immediato ‘saltando’ l’udienza preliminare. La data d’inizio del processo viene fissata all’8 novembre.

• Il 4 dicembre 2017 , in un’aula gremita e commossa, testimoniano la mamma e la fidanzata di Fabo.

• Il 17 gennaio 2018 Cappato chiede ai giudici nelle sue dichiarazioni spontanee di assolverlo con una formula che riconosca il diritto di Fabiano, e di chi è come lui, a morire, altrimenti «preferisco che mi condanniate». Prima di queste parole, i pm Arduini e Siciliano chiedono di dichiararlo innocente «perché il fatto non sussiste» o, in subordine, di mandare gli atti alla Consulta per valutare la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Anche i legali di Cappato, Massimo Rossi e Francesco Di Paola, chiedono di assolverlo «perché il fatto non sussiste» e pregano i giudici popolari di «far entrare Fabiano in camera di consiglio».

 

Ricerca pubblica, i lavoratori Cnr: su 15mila precari il governo ne stabilizza 300

Il Consiglio nazionale delle ricerche è una sorta di cittadina diffusa su tutto il territorio nazionale popolato da 11.500 dipendenti. Di questi, 4.500 sono precari, il 40% della forza lavoro. Contratti a tempo determinato che si procrastinano da anni, collaborazioni, borse e assegni e dottorati, il cui lavoro ha reso lustro e prestigio ai 102 istituti dislocati nei territori. Una situazione che sembra quantomeno destinata a perdurare, perché, per dirla in estrema sintesi, il governo non “trova” i fondi necessari per sbloccare la situazione: quasi 200 milioni. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e tenere viva l’attenzione su questa situazione non degna della settima potenza economica mondiale martedì 7 novembre centinaia di precari provenienti da tutta Italia – tecnici, tecnologi e ricercatori del più grande Ente pubblico di ricerca italiano – si sono ritrovati in presidio sotto palazzo Vidoni a Roma, sede del ministero della Funzione pubblica.

Ciò che hanno richiesto a gran voce è lo sblocco delle risorse necessarie per il rilancio degli Istituti e la stabilizzazione contrattuale dei lavoratori. Una manifestazione indetta dai sindacati confederali e dai Precari uniti Cnr – gruppo che organizza la nebulosa precaria del Consiglio nazionale delle ricerche. Alle 14 poi, un’assemblea nella storica sede, a piazzale Aldo Moro 7, davanti ai muraglioni dell’Università La Sapienza. In collegamento streaming il presidente del Cnr, Massimo Inguscio, che, incalzato dai lavoratori, ha provato a dare delle risposte. Il 31 dicembre, 180 precari del Consiglio Nazionale delle Ricerche potrebbero perdere il lavoro e rimanere a casa.

Nella sala conferenza gremita, la possibile proroga dei contratti è stata l’argomento principale. Alla domanda di Alberto Bucciero, coordinatore dei Precari Uniti Cnr, «I 180 lavoratori rimarranno?», il presidente Massimo Inguscio ha tergiversato, la voce rotta dalla scarsa connessione, «Ci stiamo adoperando e sono ottimista», con ipotetici tagli e razionalizzazioni all’interno dell’Ente per raggiungere gli scopi prefissati. «Negli ultimi dieci anni la ricerca pubblica ha subito ingenti tagli ai fondi, con conseguenze disastrose sul capitale umano coinvolto» scrivono i precari in una lettera indirizzata al premier Paolo Gentiloni, pubblicata in anteprima da Repubblica.

Oltre al lavoro di ricerca nei laboratori, gli esperimenti e le missioni, le armate del Cnr si prodigano tutti i giorni per «attrarre ingenti risorse economiche da progetti di ricerca internazionali, commesse e lavoro con terzi». E la causa? L’abbattimento del Fondo ordinario d’ente – il finanziamento pubblico – tagliuzzato e rosicchiato negli ultimi dieci anni, passato da 627 milioni di euro ai 510 milioni del 2017. «Il Cnr, ad esempio, raddoppia la propria dotazione ordinaria, chiudendo il bilancio annuale oltre il miliardo di euro. Nessun altro ente della pubblica amministrazione è così in attivo, nessun altro è così un investimento per il Paese».

Gli strumenti legislativi per bloccare l’emorragia di lavoro e diritti ci sono, ma senza il denaro tintinnante del Tesoro sono inutili. Il decreto Madia garantisce la regolarizzazione del precariato storico nella Pubblica amministrazione. Manca però la circolare interpretativa che definisce i confini degli aventi diritto nell’amalgama del precariato. Comma 1 o Comma 2? Con tre anni di flessibilità e un contratto a tempo determinato, la stabilizzazione dovrebbe essere certa. Per progetti o assegni di ricerca, identificati addirittura come anni di formazione, la strada è ancora più accidentata.

La risposta del ministro, data alla delegazione di lavoratori e sindacalisti salita nelle stanze di palazzo Vidoni, mentre il presidio rumoreggiava, è che la circolare uscirà tra dieci o quindici giorni. Comunque servono 190 milioni di euro per stabilizzare i 4.500 del Cnr e 300 milioni per tutti precari degli Enti di ricerca pubblici (all’incirca 10mila). Ma nella legge di Bilancio approdata al Senato vengono colmati 300 posti, una cifra irrisoria.

 

Il giusto prezzo delle donne

Le lavoratrici della camiceria Italproduzioni di Noci (Bari) stirano, cuciono e tagliano quello che hanno faticosamente costruito negli anni con "tanta passione", e che ora "lottano" per difendere, armate di ago e filo, 07 marzo 2017. Per loro la cassa integrazione, partita a settembre, è scaduta lo scorso 3 marzo. ANSA / Vincenzo Chiumarulo

Il 61,5% delle donne che lavorano non vengono pagate per niente o non adeguatamente, contro il 22,9% degli uomini. Ogni giorno, una donna lavora 512 minuti contro i 453 di un suo collega mentre la disoccupazione è più alta tra le donne (12,8% contro il 10,9%) così come le persone senza lavoro scoraggiate (40,3% contro il 16,2% degli uomini). Succede in Italia, proprio qui, dove la consuetudine di banalizzare le denunce delle donne consiste sempre nell’imbrigliarle ciclicamente in questo o quello scandalo senza volere allargare lo sguardo a una situazione che no, non è da spremere nei casting cinematografici o nelle palpate di qualcuno.

Il mancato rispetto della dignità delle donne non è forse è piombato all’82 esimo posto su 144 posizioni complessive, dietro anche alla Grecia, per dire, che sta al settantottesimo posto: dal 41esimo posto in cui eravamo nel 2015, abbiamo perso 32 posizioni per quanto riguarda il gender gap, ossia la discrepanza in opportunità, status e attitudini tra i due sessi. L’anno scorso eravamo al 50esimo: in un anno, il calo è stato di ben 22 posizioni. Specificatamente parlando di salario, siamo al 126 esimo posto nel divario di genere: gli uomini insomma guadagnano più delle donne, e questa non è una novità, ma dalla ricerca emerge anche che il gentil sesso lavora di più.

In pochi sanno che da noi esiste una normativa al riguardo (il Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”) che dice: “Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”. Qualcuno ne ha notizia? Perché, a proposito della prossima campagna elettorale, ecco qui qualcosa di cui parlare.

Buon mercoledì.

Nessuno tocchi Camus

Negli ultimi 20 anni c’è stato un incredibile proliferare di leggende sul conto di Albert Camus (7 novembre 1913 – 4 gennaio 1960). Vere e proprie bufale, a cominciare proprio dalla miriade di false citazioni attribuitegli su internet. Sono così tante che, nel 2015, sono riuscito a metter su un intero articolo su di esse, dal titolo: “La nobile arte di citare male Camus – dalle origini all’era di internet”.

Intendiamoci, Camus non è l’unico a subire questo infausto destino sul web. Ma alcune citazioni sono davvero inverosimili. Come ad esempio quella che attribuirebbe a Camus il testo di una canzone ebraica per bambini (sic!): «Non camminarmi dietro, non saprei come guidarti. Non camminarmi davanti, potrei non seguirti. Cammina al mio fianco e sii mio amico». Oppure quell’altra citazione secondo la quale Camus, totalmente agli antipodi di se stesso, sarebbe addirittura un ammiratore della scommessa di Pascal: «Preferirei vivere la mia vita come se ci fosse un Dio, e morire scoprendo che non c’è, piuttosto che vivere la mia vita come se non esistesse, e morire scoprendo che invece esiste». Chi non conoscesse Camus potrebbe forse anche apprezzare, in maniera distaccata, il contenuto di queste citazioni. Ma il punto è un altro: queste citazioni non sono in alcun modo sue, per quanto belle possano sembrare, o per quanto Google possa affermare il contrario.

Ho scavato a fondo nella storia di queste false citazioni, alla ricerca di quello che definisco il loro “punto zero”, ovvero la loro prima apparizione su internet. Ho capito allora che spesso, dietro l’origine di queste misquote, c’era solo tanta ingenua e distratta buona fede. Come nel caso di quest’altra presunta citazione di Camus che in origine era soltanto una dedica a Camus, scritta da un ammiratore italiano sul suo blog Le Bateau Ivre, purtroppo non più raggiungibile. Nell’ingenuo attimo di distrazione di chi per primo cambiò quella proposizione (da “a” a “di”) si condensa in maniera esemplare un fenomeno tutto contemporaneo: la pericolosa buona fede di chi, oggi più che mai, condivide a cuor leggero bufale e ogni tipo di stupidaggine su internet.

C’è però anche chi ha usato e continua ad usare le false citazioni in manifesta malafede, con l’esplicito intento di infangare Camus. Sto parlando di Rachid Boudjedra, a suo tempo militante indipendentista algerino. In una serie di articoli del 2016, Boudjedra citò delle inesistenti lettere a René Char in cui Camus avrebbe acclamato la pena di morte “per alto tradimento” nei confronti di Sartre, colpevole di organizzare incontri in favore dell’indipendenza dell’Algeria. Citazioni inventate di sana pianta, come mezzo di diffamazione. Dopo qualche mese quegli articoli sono stati per fortuna rimossi, ma solo dopo le nostre ripetute proteste.

Peggio delle false citazioni, però, sono le teorie complottiste su Camus. C’è ad esempio chi ha sostenuto che l’incidente d’auto nel quale perse la vita non fosse una casualità, bensì un sabotaggio messo in atto dal KGB. Le prove? Il carteggio di un poeta cecoslovacco, il quale però, per paura, non avrebbe rivelato il nome della sua fonte, la quale a sua volta avrebbe voluto mantenere nascosto il nome della persona a conoscenza dei fatti. Un complotto nel complotto insomma, per fortuna spentosi relativamente presto e senza troppo clamore mediatico.

Lo stesso non è accaduto, purtroppo, con un altro complotto: quello del Camus “cripto-cristiano” o “cristiano mascherato”, in procinto di convertirsi al cristianesimo poco prima di morire. Ho passato un anno del mio dottorato cercando di ricostruire la storia di questo complotto, scoprendo che si tratta in realtà di un processo lungo più di 50 anni e in almeno quattro fasi.

C’è stato innanzitutto chi ha provato a convertire Camus quando era ancora in vita. Padre Jean Daniélou, ad esempio, che cercò di convincere Camus del suo essere “cristiano senza saperlo” – per poi rispondere, di fronte alle proteste del diretto interessato: “ma sì, caro amico, vi assicuro che è così!” O ancora penso a tutti quei critici cattolici che videro nel romanzo La Caduta l’ammissione della sconfitta di Camus, il quale, secondo loro, avrebbe infine ammesso di aver perso la sua scommessa su una “felicità senza Dio”. A nulla valsero le dichiarazioni di Camus in occasione del Nobel – a tal proposito, in quei giorni un giornale svedese titolò addirittura: “Camus non capitolerà di fronte al cattolicesimo”.

Tre anni dopo, il 4 gennaio 1960, la sua tragica morte spianò la strada a tutti quegli apologeti cattolici che fino ad allora avevano dovuto contenersi. Si cominciò a parlare di un presunto “segreto” che Camus avrebbe portato con sé nella tomba. In molti cominciarono a formulare ipotesi su cosa ne sarebbe stato del “quasi cristiano” Camus se non fosse morto in quell’incidente.

Non deve sorprendere allora se, su questo fertile humus pre-complottista, cominciarono a spuntare qua e là testimonianze di amici di amici secondo le quali Camus sarebbe stato in procinto di convertirsi poco prima di morire. Dato interessante: questi presunti testimoni sono tutti cattolici. Come Ignace Lepp, ex militante marxista convertitosi d’emblée al cattolicesimo fino a farsi addirittura prete, come descrisse nel suo autobiografico Itinerario da Karl Marx a Gesù Cristo. O Frank Sheed, scrittore cattolico australiano, il quale a suon di “qualcuno mi ha detto che” sostenne che Camus stesse “pianificando il suo ritorno verso la Chiesa sull’esempio di Sant’Agostino”.

Saltando a piè pari le folli elucubrazioni di Jean Sarocchi, il più convinto sostenitore vivente del “cripto-cristianesimo” camusiano, raggiungiamo l’apice del complotto: il libro Albert Camus and the Minister, del pastore metodista americano Howard Mumma. Per esigenze di spazio non posso riportare qui tutte le assurdità e inesattezze cronologiche che invalidano il libro. A tal proposito rimando allora al mio articolo, dove ne ho indicate almeno nove.

Riporterò qui una sola assurdità, a mo’ di esempio. Si tratta della cantonata colossale riguardo il rapporto di amicizia tra Camus e Simone Weil, a cui è dedicato un intero capitolo del libro. Secondo Mumma, Camus avrebbe incontrato la Weil più volte nel suo studio parigino, a distanza di settimane e per molti anni. Questo è semplicemente impossibile: Simone Weil è morta nel 1943 e Camus conobbe la sua opera soltanto nel 1946 durante un viaggio negli Stati Uniti grazie alla segnalazione dell’amico Nicola Chiaromonte, rimpiangendo del resto questo incontro mancato, a tal punto da voler incontrare la madre della Weil molti anni più tardi.

Ad ogni modo, c’è un fatto che spiega cristallinamente l’intento truffaldino di Mumma. Molti anni prima, in pieno 68, il giovane pastore metodista scrisse infatti un libro dal titolo inequivocabile: “Take it to the People, New Ways in Soul Winning – Unconventional Evangelism”, nel quale elencò tutta una serie di maniere alternative e non convenzionali per evangelizzare le anime dei non credenti. Fedele al suo metodo, il libro di Mumma su Camus non è nient’altro che un malriuscito tentativo di “evangelismo non convenzionale”. Così malriuscito che non varrebbe nemmeno la pena di parlarne, se non fosse che ovunque, persino nel mondo accademico, c’è chi lo cita come una fonte attendibile, per avvalorare, una volta di più, il complotto del Camus “cripto-cristiano” – anche qui in Italia, ad esempio, dove i cattolici dell’UCCR non si sono fatti sfuggire l’occasione per convertire Camus da morto…

Tutto ciò ha del ridicolo, è vero. Ma oggi più di ieri è proprio dal ridicolo che dobbiamo difenderci. Camus lo sapeva bene – e infatti, nel 1953, in un appunto dei suoi Taccuini chiedeva umilmente “una cosa sola”, per quanto la sapesse esorbitante: “essere letto con attenzione”. Questo breve articolo è a suo modo un tentativo per esaudire quella richiesta.

La Rivoluzione russa cent’anni dopo. Tra champagne, medaglie d’oro e allarmi bomba

epa06309850 Russian Communists carry Soviet red flags as they attend a ceremony of laying flowers to the Lenin's Mausoleum on the Red Square in Moscow, Russia, 05 November 2017. Russian Communists celebrate the 100th anniversary of The Bolshevik Revolution in 1917. EPA/YURI KOCHETKOV

Autunno 1917. L’incrociatore Avrora sparò un colpo a salve dal golfo e iniziò la blokada, l’assedio. Divampò lo sthurm, l’attacco. Nel Palazzo d’Inverno vennero arrestati i membri del Consiglio dei ministri del Governo provvisorio e l’orologio della sala si fermò. Erano le due e dieci minuti, 26 ottobre 1917. In vigore c’era il calendario giuliano: il 24 e 25 ottobre sono i nostri 6 e 7 novembre. Cento anni dopo il tempo ha ripreso a scorrere, i russi l’hanno rimesso in moto: le lancette in mostra al museo dell’Ermitage torneranno a battere per l’occasione. La rivoluzione russa del 2017 è una visita guidata speciale tra le statue e i quadri, in onore dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, è una serata di gala nella sala da concerto Oktjabr: caviale, strass, champagne, ballerine sulle punte di un musical.
Più a nord, nella capitale le iniziative in giro sono poche, quando si esce e si entra con cappuccini Sturbucks e borse Armani alla fermata della metro Rivoluzione. La rivoluzione russa sarà una mostra inaugurata al Museo Lenin e una alla galleria Tret’jakov, la Nekto, 1917. In cielo nuvole, sotto le nuvole file di nostalgici e turisti stranieri.

I russi non sanno cosa sia la Rivoluzione

L’Istituto sondaggi Ran di Mosca ha chiesto ai cittadini cosa è stata la rivoluzione russa. Per il 32 per cento è stato difficile rispondere, per il 29 per cento ha prodotto bene e male in egual misura. Il resto della percentuale è rimasta spaccata tra condanna e oblio. Revoluzija è perevorot, colpo di stato, una parola che a Mosca ricorda Maidan, Ucraina e Alekej Novalnij, l’oppositore che ha tentato di organizzare una protesta nazionale il 7 ottobre, giorno del compleanno di Putin, l’uomo del Gasudarstvo, dello Stato, sostantivo che in russo deriva da sudar, monarca.
Più che alle commemorazioni bolsceviche, le persone si radunano per protestare in questi giorni davanti alle sale dei cinema dove viene proiettato il film Matilda, sull’amore adulterino dello zar Nicola II e una ballerina polacca. Tra qualche giorno, cento anni dopo il mese più rosso, il primo canale russo TV1 trasmetterà una serie su Trozkij, vecchio nemico pubblico riabilitato a puntate. Due guerre mondiali e una fredda dopo, l’inizio della storia sovietica si può riscrivere col silenzio, senza la pompa magna riservata ogni anno dal governo al 9 maggio, giorno della vittoria sovietica sulla Germania nazista.

A Mosca, dove Putin non festeggia

Al numero 31 della Leningradskij prospekt, c’è il grattacielo di vetro e lusso del Renassaince Moscow Monarch Center. Eliminate le ultime due parole all’ingresso, si battezzerà per una notte sola Renassaince Moscow, quando stasera arriveranno i membri del Kprf, il partito comunista russo, per festeggiare la memoria dei bolscevichi nelle sale a quattro stelle. Sfileranno in centro città i comunisti del partito di Gennady Zhuganov, con medaglie d’oro e polvere, nastri rossi di un’altra epoca, capelli bianchi.
Il partito comunista, unico vero organizzatore delle marce della memoria di oggi, ha accusato il governo di distrarre volontariamente la pubblica opinione dal centenario della rivoluzione bolscevica, dicendo che solo un terzo della popolazione ha notato la data sul calendario. Lo ribadisce e lo conferma con un report appena pubblicato: Cento anni dopo: la rivoluzione non dimenticata, in cui ci sono i risultati di un sondaggio condotto lo scorso settembre, secondo cui il 58 per cento dei russi non sapeva che la data del centenario si avvicinava.
Alla celebrazione del centenario del 1917 in Russia, il presidente non parteciperà. Putin all’ultima riunione a Valdai ha ricordato «quanto ambigui siano stati i vantaggi della rivoluzione del 1917, quanto simili le conseguenze positive e negative», quanto migliore sia «un percorso di evoluzione e non rivoluzione, per cambiare gradualmente, senza distruggere lo Stato e milioni di vite». Lui non ama le rivoluzioni. Non le approva. E non ama l’uomo che ha iniziato quella russa, anche se questo Putin, allevato nella culla poligono del Kgb comunista, non sarebbe mai esistito senza quel Lenin. In Urss, per quasi 80 anni di fila, soldati e alloro, bandiere e fuochi d’artificio, i membri del partito hanno ricordato il giorno in cui i bolscevichi cambiarono il mondo. In Russia nel 2017, nella stessa Piazza Rossa, un Vladimir rimane dentro al Cremlino, un Vladimir nel Mausoleo.

I rigurgiti della destra

Alla vigilia delle celebrazioni del centenario della rivoluzione russa ci sono stati più di duecento arresti a Mosca, a Piazza del Maneggio. In totale, in tutto il Paese, sono finiti in carcere 380 attivisti del collettivo di destra Artpodgotovka, “allenamento all’artiglieria”. Ne zdem, a gotovimsja. Non aspettiamo, prepariamoci, era lo slogan della protesta rivolto contro un uomo solo, che governa lo stato più esteso del mondo e oggi non partecipa alle marce in memoria.
È Vyacheslav Maltsev il leader russo di Artpodgotovka, un gruppo che esisteva solo sui social network, prima delle retate di questo weekend moscovita. Maltsev dal 2013 promette sul web la “rivoluzione 2017”. Ha un programma che si chiama Plachie novosti, cattive notizie, sul social russo Vkontakte ed è un ex membro della Duma regionale. Dichiaratosi oppositore di “Putin e del suo stato mafia”, è stato arrestato a Saratov nel 2017. Dopo la prigione, è andato a Parigi, ha cominciato a postare video su youtube, si fa autoscatti con scritte come: “l’assenza di giustizia è la via diretta per la rivoluzione”.

Il “terrorismo telefonico”

In Russia, ultimamente, da quando si avvicina il centenario della rivoluzione, nelle stazioni, nei cinema, nei luoghi pubblici, i telefoni squillano ininterrottamente: 70mila persone sono state evacuate in nove città. Gli scherzi al telefono, quello che le autorità bollano come “terrorismo telefonico”, sono aumentati nei giorni precedenti all’anniversario cerchiato di rosso. In stazioni, metro, centri commerciali, alberghi, gli allarmi bomba alla cornetta, dall’11 settembre al 6 novembre, sono stati 2900 in 180 città, la metà sono avvenute a Mosca.
A Mosca, dove proprio allo scoccare dell’anniversario, “il sarcofago col cadavere in Piazza rossa” è diventato una questione da risolvere: lo rende noto al presidente russo il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Anche la Paris Hilton russa, l’it girl dei reality, la candidata “contro tutti”, Ksenia Sobchak, si è espressa. Senza idee politiche, senza programma elettorale, ha smalto sulle unghie, miliardi in banca e una promessa: «se fossi eletta, ordinerei subito di rimuovere la mummia dal Mausoleo e di seppellirla».
Qui il calendario di Guido Carpi, un anno rivoluzionario e qui la sua storia della rivoluzione russa

La Sicilia è tutta un tramonto

Il segretario del PD Matteo Renzi a Catania a sostegno del candidato alla presidenza della Regione Sicilia Fabrizio Micari, 27 ottobre 2017. ANSA/ORIETTA SCARDINO

C’è il tramonto di Renzi (si può dire?) che nel giro di qualche ora è passato dall’essere presunto leader del Pd che avrebbe finto “suo malgrado” di allearsi poi con un pezzo di centrodestra e che invece adesso in un’eventuale (pessima) coalizione del genere per avere la maggioranza in Parlamento varrebbe come un Salvini qualsiasi, pronto a fare il cameriere di Silvio.

C’è il tramonto, ancora, dei presentabili a favore di quegli altri. Tanto per fare nome: Luigi Genovese, brillante ventunenne che ha nel curriculum il fatto di essere figlio di quel Genovese ex Pd condannato a undici anni per associazione a delinquere, frode fiscale, truffa, riciclaggio e peculato e che è passato in scioltezza dal Pd a Forza Italia, si è preso 17.000 preferenze. Riccardo Savona (coinvolto in un maxi sequestro di beni che per la Procura appartenevano al boss Matteo Messina Denaro) è stato eletto nel suo collegio. Anche il vecchio amico di Matteo Messina Denaro, Giovanni Losciuto, diventerà consigliere regionale. E addirittura Antonello Rizza (arrestato in campagna elettorale) è riuscito a raccogliere preferenze.

C’è il tramonto del buon gusto dei renziani incattiviti che addossano la sconfitta a Pietro Grasso come un bambino può ripetere “non ho fatto niente”. Hanno mollato la sinistra per Alfano e ora si ritrovano Alfano. Solo Alfano. E se ne lamentano.

Poi c’è il tramonto dei votanti, che fa degli astenuti il primo partito d’Italia. E mentre ci si scanna per spostare ognuno la propria piccola parrocchia il partito di maggioranza è lì fuori, anche se non sembra interessare a nessuno.

Buon martedì.

Mentre il papa ipnotizza la sinistra, le scuole dei vescovi battono cassa

C’è una costante che riguarda quasi tutte le leggi finanziarie degli ultimi venti anni in questo Paese: l’incremento, inesorabile e ritmico, dei fondi alle scuole “pubbliche” paritarie, ovvero alle scuole private, in buona parte cattoliche, che, rispondendo a determinati requisiti, rientrano nel “sistema pubblico” dell’Istruzione, come definito dalla Legge di parità scolastica (primo governo Prodi), e che quindi in qualche modo diventano, o meglio vengono fatte diventare, “pubbliche”.

Una costante che riguarda centrodestra e centrosinistra, ma, storicamente, addirittura di più il centrosinistra. Perchè la destra, classicamente liberista, è prevalentemente per il “buono scuola”: diamo i soldi alle famiglie, e siano loro a scegliere il tipo di scuola, senza nemmeno troppi controlli sui requisiti del privato. Il centrosinistra, con la creazione di un sistema pubblico di cui può far parte anche il privato, predilige l’impostazione di finanziare direttamente gli istituti scolastici, più che le famiglie, purchè tali istituti si conformino a certe regole.

Si può immaginare come ciò abbia favorito la creazione di un rapporto politico, tra le associazioni delle scuole private stesse, e la classe politica che eroga questi soldi, in particolare quindi quella del centrosinistra, più in particolare quella di origine cattolico-democristiana, oggi componente fondamentale del Pd. Fatto sta che mostrarsi immancabilmente pronti e solerti ad incrementare continuamente i fondi agli istituti paritari, mentre le scuole dello Stato crollano a pezzi e i genitori devono pagarsi la carta igienica, appare quasi un’ossessione per tutti gli amministratori del Partito democratico, ad ogni livello e ovunque.

Durante il mio mandato di consigliere regionale della Toscana, dal 2010 al 2015, gli incrementi delle erogazioni alle scuole paritarie sono stati un appuntamento immancabile: anzi, negli ultimi due anni, tanto per non sbagliarsi, il Presidente Enrico Rossi pensò bene di aggiungere ai contributi diretti alle scuole anche una sorta di buono scuola di formigoniana memoria, ovvero un’erogazione alle famiglie a ristoro parziale delle spese per la retta scolastica.

Ricordo anche, ad inizio legislatura, la vicenda illuminante di una mozione del gruppo dell’Udc, votata anche dal Pd, in cui si rimproverava l’allora governo Berlusconi di aver dato troppi pochi soldi alle scuole private, e si chiedeva alla giunta di trasmettere al governo la richiesta di fare di più. Insomma, il Pd era già arrivato in Toscana, in epoca pre-renziana, a rimproverare Berlusconi di essere… troppo di sinistra!

Ovviamente anche la Finanziaria Gentiloni non fa eccezione. Anzi, sembra proprio che stavolta ci si voglia addirittura superare. Mentre papa Francesco predica rivoluzione e incanta i dirigenti di Sinistra in perenne ricerca d’autore, le scuole care ai vescovi continuano a battere cassa e a ricevere lauta soddisfazione: finalmente anche loro potranno accedere ai fondi europei, promette la ministra Fedeli, mentre il fondo di erogazione diretta arriverà quest’anno a 574 milioni di euro, e le detrazioni per le famiglie toccheranno gli 800 euro a figlio, assicura il sottosegretario Toccafondi.

Una vera e propria gara, una corsa in soccorso dei più forti, alla faccia del “senza oneri per lo Stato”, previsto dalla Costituzione. Sinceramente: io, mi vergogno.

Mauro Romanelli, Sinistra italiana

L’articolo di Mauro Romanelli è tratto da Left in edicola


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Incinta e single? Se ne parli in tv in Egitto rischi il carcere

Un tweet dopo l’altro, titolo su titolo, il mondo ha cominciato a parlare di molestie e stupro. Accuse dettagliate, denunce globali si incrociano da una costa all’altra, da un Paese all’altro, da una lingua all’altra. Ma non basta un hashtag per fermare gli abusi. Non in Medio Oriente. La campagna mondiale delle donne che si sollevano arriva anche nel mondo musulmano, ma si ferma al Cairo, dove le condizioni femminili peggiorano di anno in anno, dove se accendi la tv ascolti che «è dovere patriottico molestare, dovere nazionale stuprare», se una donna va in giro con i jeans strappati. Lo ha detto l’avvocato conservatore Nabin al Wlash alla tv al Assema, in onda al programma Infirad, ascoltato da milioni di persone.

Tra le città a più alto rischio di violenza per le donne c’è Delhi in India e San Paolo in Brasile, a Levante però c’è il Cairo, una megalopoli pericolosa, «dove anche una semplice passeggiata per strada, può trasformarsi in una molestia fisica e verbale», dice Shahira Amin del Women Memory Forum. Tutto è peggiorato dopo la primavera araba del 2011. Secondo uno studio dell’Un Women, la ricerca sul campo “Understading masculinities”, il 64 per cento degli uomini ha ammesso di aver tentato di molestare una donna. In Egitto il 17 per cento delle ragazze si sposa prima dei 18 anni, il 2 per cento prima dei 15 e il 20 per cento in meno delle donne, rispetto agli uomini, riceve un’educazione. Tra le altre pochissime statistiche disponibili, ci sono quelle dell’Egypt Center for Women right del 2008, secondo cui l’83 per cento delle donne è stata molestata sessualmente in qualche forma. Il Cairo è seconda solo a Kinshasa per l’accesso al sistema della sanità riproduttiva della donna.

Salute, maternità e mancato accesso al sistema sanitario. Di questo voleva parlare Doaa Salah al suo Dodi show, la sua trasmissione mattutina. Per farlo ha usato un pancione finto, sotto un vestito rosa. Era nello studio della tv al Nahar nella capitale egiziana tre mesi fa, adesso andrà in prigione, per aver detto ad alta voce che si può procreare fuori dal vincolo religioso, si può essere madre, senza benedizione divina del tempio. «Coraggio. E comunque come fa una divorziata? Come fa una vedova?». Le sue parole sono state un oltraggio “per il tessuto della società egiziana”.

La presentatrice ha esposto il suo corpo e la sua immagine per dirlo: donne, potete, “coraggio, single women”. Le sue “sono idee immorali che minacciano la società”, la giovane sta “facendo propaganda del sesso fuori dalla religione e dal matrimonio”. La Salah finirà dietro le sbarre, perché secondo le autorità “ha incitato all’immoralità e a commettere atti disonorevoli”. Adesso pagherà, oltre ad una multa di diecimila sterline, con il suo lavoro, la sua libertà.

L’odio sui social contro di lei è cominciato, proprio come in qualsiasi parte del mondo. Ad insultarla sono uomini quanto donne: “depravata”, “prostituta”, fino al “divertiti tre anni dietro le sbarre, puttana”. Sono storie di quotidiani verdetti egiziani, nella terra di quell’Al Sisi che il governo italiano definì laico alleato contro il fanatismo religioso, nel Paese delle piramidi e delle prigioni per desaparecidos, attivisti e giornalisti.

La voce di Salah, dice la sentenza, è «una minaccia per la pubblica moralità egiziana», nello Stato dove invece su una tv nazionale si può incitare alla molestia, come ha fatto l’avvocato conservatore Wlash. Maya Mursi, presidente del Comitato delle Donne medico egiziane, ha detto che quella del conservatore è stata «una chiamata allo stupro» collettiva e ha denunciato l’emittente tv insieme al Consiglio Nazionale delle donne egiziane. L’avvocato non ha ritirato ciò che ha detto, anzi ha ribadito che anche sua figlia «meriterebbe di essere stuprata, se decidesse di andare in giro con i jeans strappati».

La bimba morta di malaria? No, nessun untore straniero. Errore medico. Italiano

Italy's Minister of Health, Beatrice Lorenzin, at a G7 Health Ministerial Meeting in Milan, Italy, 05 November 2017. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Ora quindi tutti i giornali titoleranno a cinque colonne che il contagio di Sofia Zago, la bambina morta il 4 settembre scorso a soli 4 anni agli spedali riuniti di Brescia a causa di un “allarme malasanità italiano”? Scriveranno che “l’invasione di personale ospedaliero italiano troppo distratto” sta mettendo a rischio la tenuta sociale del nostro Paese? Salvini twitterà che “serve la ruspa contro gli ospedali della meravigliosa Lombardia”?

Perché, se non l’avete letto in giro, l’ultima notizia nelle indagini è che “cadono così le ipotesi di un contagio da una zanzara Anopheles, e prende corpo la pista che a causare l’infezione fatale sia stato l’errore di un operatore sanitario a Trento. Una procedura medica sbagliata, presumibilmente durante il prelievo, ha fatto sì che il sangue di una delle due bimbe affette da malaria, contaminasse quello di Sofia. Forse un ago usato per due prelievi, inavvertitamente. Per gli inquirenti sarebbe l’unica conclusione possibile, alla luce degli accertamenti disposti dalla procura di Trento, dagli esami dei Nas e dai pareri richiesti all’Istituto superiore di Sanità e allo zooprofilattico del Veneto.”

Le indagini puntano dritto al Reparto di Pediatria dell’ospedale per valutare con attenzione cosa è accaduto tra il 16 e il 24 agosto.

Ma il virus peggiore, quello della cretineria e dell’allarme sconsiderato a favore di un po’ di razzismo, ormai è già in circolo.

Buon lunedì.

Figli rubati, i desaparecidos che disturbano Israele

Frecha Amar, 84, from a Moroccan descent, poses with a picture of her baby, who she says was abducted in 1958, on June 29, 2016 at her home in Kfar Chabad, near Tel-Aviv. Amar is one of the thousands of Israelis, mainly from Jewish Yemenite families, who claim their babies were abducted more than 60 years ago and handed to adoption. Such stories of babies from immigrant families disappearing have been told in Israel for decades, but growing calls to unseal official documents on the allegations mean new light could soon be shed. / AFP / MENAHEM KAHANA / TO GO WITH AFP STORY BY JONAH MANDEL (Photo credit should read MENAHEM KAHANA/AFP/Getty Images)

Tamar Maatuf, 90 anni, non si dà pace. «Ringrazio Dio per avermi donato dei figli, ma il mio cuore è spezzato perché il figlio che ho perso non lo dimenticherò mai» ha raccontato ad al-Jazeera lo scorso settembre. Nonostante l’età, ha deciso di partecipare alla protesta degli ebrei mizrahim (in ebraico “orientali”) vittime del furto di bambini avvenuto in Israele negli anni ’50. Durante la manifestazione a Tel Aviv aveva un cartello in mano che recitava: «Caro figlio, non ho rinunciato a te. Ti aspetto, mamma». Il dramma di Tamar è simile a quello vissuto da altre centinaia di famiglie ed è conosciuto in Israele come Babies affair: la sparizione tra il 1948 e l’inizio degli anni ’50 di migliaia di neonati (forse 8.000) nei campi di transito e accoglienza degli immigrati ebrei «dell’est», provenienti cioè dai Paesi arabo-islamici.

Secondo le testimonianze raccolte dalla commissione Kedmi (1995-2001), le politiche di assimilazione dei mizrahim prevedevano la separazione dei bambini dai genitori. L’obiettivo, motivarono allora le autorità, era quello di dare ai piccoli un luogo più confortevole in cui crescere rispetto alle tende e alle strutture in lamiera che accoglievano gli adulti. Peccato però che questa «protezione» divenne per molti sparizione. Centinaia di famiglie hanno raccontato di essere state avvisate da questi centri sanitari della morte improvvisa dei loro figli. Al dramma della perdita del neonato, seguiva spesso un secondo trauma: quello di non vedere i cadaveri.
A pretendere «giustizia e verità» dallo Stato su questa vicenda, si batte da anni l’associazione Amram.

L’organizzazione sostiene che 5.000 neonati mizrahim sono stati sottratti ai loro genitori biologici con il falso pretesto che fossero malati per essere dati poi in adozione a loro insaputa o ad ebrei di origine europea (gli ashkenaziti) o all’estero. Proprio la lotta caparbia delle famiglie vittime dei rapimenti ha fatto sì in questi decenni che questa storia non finisse nell’oblio…

L’inchiesta di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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